Robert Katz

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Robert Katz

Robert Katz (1933 – 2010), giornalista e scrittore statunitense.

La fine dei Savoia[modifica]

Incipit[modifica]

Quando il giorno di capodanno del 1878 Vittorio Emanuele II, il primo re dell'Italia moderna, si buscò un raffreddore, nessuno poteva neanche lontanamente immaginare che in poco più di una settimana sarebbe morto. Era un uomo di cinquantasette anni forte e robusto, l'assoluta espressione della virilità e della forza che, impersonando lo spirito del tempo, aveva sventolato i vessilli della nazione e della corona; ma questi concetti dovevano essere ancor più saldamente radicati e sembrava che solo lui potesse farlo. Perciò la crisi nazionale e dinastica, generata da quell'inopportuno raffreddore, si rivelò estremamente grave.

Citazioni[modifica]

  • [Vittorio Emanuele II] Fu un uomo incorreggibile e la povera moglie Maria Adelaide, bella, fragile e angelica come un fuoco troppo alimentato morì letteralmente consumata dalle fatiche amorose a soli trentatré anni dando alla luce l'ottavo figlio. (Prologo, p. 12)
  • Umberto sapeva ben poco di qualche cosa e quasi nulla di moltissime cose. (Parte seconda Umberto e Margherita (1878-1900), p. 76)
  • Depretis era un uomo austero la cui unica stravaganza consisteva in una vistosa barba bianca. Anche da primo ministro visse sempre in una camera ammobiliata affittata in casa di una coiffeuse francese, ed era lì che, quando giaceva con uno dei suoi attacchi di gotta, riceveva sia i colleghi del parlamento sia ambasciatori e principi. Personalmente era incorruttibile, ma possedeva un tocco simile a quello di Mida, che corrompeva tutto ciò che si trovava a portata delle sue mani: destra e sinistra, ricchi e poveri. Depretis, diceva il deputato della destra Silvio Spaventa, era come un gabinetto pubblico, che resta pulito anche se vi passa ogni sorta di immondezza. (Parte seconda Umberto e Margherita (1878-1900), p. 91)
  • [La duchessa Litta] Aveva sette anni più del re [Umberto I] e quattordici più di Margherita. «Mi sembra ormai mia nonna»[1] diceva in quegli anni Margherita ridacchiando. Tuttavia, anche allora, a cinquant'anni, la duchessa era molto bella. Era una bellezza severa e aristocratica e al tempo stesso possedeva delle qualità di ingegno ed una certa aria verginale che ispirò al compositore Boito una melodia ed al Vela un quadro raffigurante una donna immersa nella preghiera mattutina. (Parte seconda Gli allegri anni '80, p. 142)
  • Si diceva che, quando [Vittorio Emanuele III] sedeva sul trono, non riusciva a toccare il pavimento coi piedi, ma questo non era vero: purché restasse sull'orlo del sedile. Era troppo basso per il servizio militare e, affinché potesse occupare il giusto posto di comandante in capo, l'esercito fu costretto ad abbassare il livello di statura prestabilito ad un metro e cinquantuno; questo non fece tuttavia aumentare di molto il numero dei soldati perché bisogna onestamente dire che, salvo alcune eccezioni, il re era l'adulto più basso di tutta l'Italia.
    Insistere sulla sua statura è importante perché nella misura in cui gli uomini fanno la storia, questa sua piccolezza, che lo obbligava a guardare il mondo come lo guarda un verme, doveva influenzare tutta la storia italiana della prima metà del secolo non meno della guerra, del comunismo e di Mussolini. È una considerazione offensiva, ma, come vedremo, risponde a verità. (Parte terza Il piccolo re (1900-1922), p. 195)
  • [Vittorio Emanuele III] Non sarebbe stato l'ultimo sovrano di Casa Savoia perché questo merito spettò al figlio Umberto, un giovane scapestrato il cui regno durò soltanto un mese, ma avrebbe bollato col marchio dell'infamia la propria dinastia, ne avrebbe causato l'ignominiosa fine e, dopo l'abdicazione, bandito dal suo beneamato paese, sarebbe morto a migliaia di chilometri dalla patria.
    [...] fu il simbolo più autentico di Casa Savoia. Impersonò con eccezionale perfezione novecento anni di piccineria, di furbizia, di apatia, di debolezza, di incredibile egoismo e di tutte le altre astute qualità che la natura dona agli esseri di piccole proporzioni. (Parte terza Il piccolo re (1900-1922), p. 196)
  • Lei [Elena del Montenegro] aveva ventitré anni, la pelle scura e il corpo colmo di quelle grazie che Goya amava ritrarre, e sebbene avesse imparato a nascondere la propria vitalità dietro quel rigido controllo che viene chiamato «maestà», attraverso i pori della sua pelle filtrava ancora l'aria fresca e vivificante delle sue cupe montagne. Non era proprio bellissima, forse per il suo naso un po' troppo volitivo e una soda floridezza che suscitava immagini di lavori campestri, ma aveva avuto la fortuna di venire affidata, fin dai primi anni di vita, alla tutela di Maria Fedorovna, imperatrice di Russia e moglie dello zar Alessandro III; la zarina aveva compiuto prodigi degni di Pigmalione sulla principessa di origine montanara. (Parte terza Il piccolo re (1900-1922), pp. 202-203)
  • Incolore, amorfo, banale, [Giovanni Giolitti] era passato attraverso la vita levandosi solo di tanto in tanto verso l'alto come fa il passero. Impiegato civile fino all'età di quarant'anni, poi funzionario amministrativo e quindi parlamentare, non amava né la retorica di Crispi né la magniloquenza di D'Annunzio; gli piacevano l'aritmetica e la contabilità, il che lo rendeva particolarmente sensibile alle sottili sfumature della cupidigia umana e alle debolezze degli altri nella misura in cui esse gli potevano essere addebitate oppure accreditate. (Parte terza Il piccolo re (1900-1922), p. 215)
  • Il più nobile dei romani era adesso J. P. Morgan. Veniva a Roma di tanto in tanto occupando parecchie stanze dell'appena costruito «Grand Hotel», tra i novelli splendori del giardino di palme e dell'orchestra tzigana. Talvolta arrivava invece al porto di Civitavecchia col suo panfilo di dieci metri, il «Corsair», la cui bandiera recava una mezzaluna e una stella d'argento, e, quando di lì faceva la sua grandiosa entrata a Roma, sembrava che nelle vesti del Nuovo Mondo ricomparissero gli Enrichi dell'era feudale e gli idoli dei ghibellini. (Parte terza Il piccolo re (1900-1922), p. 230)
  • Si dice che [John Pierpont Morgan] ricevesse ogni giorno [a Roma] centinaia di persone, molte delle quali principi in difficoltà o duchi ormai dimenticati che speravano di vendergli un dipinto o un antico cimelio di famiglia. Morì al «Grand Hotel» nel 1913 e, chiuso in una bara, fu spedito in America dapprima su un vagone merci e quindi nella stiva di una nave. Ma poiché la loro ricchezza diventava sempre più principesca, altri americani continuarono a venire a Roma. (Parte terza Il piccolo re (1900-1922), p. 230)
  • [..] nell'ottobre del 1917, Caporetto: l'improvviso collasso del fronte italiano e il peggior disastro militare nella storia della nazione. Ottocentomila soldati furono travolti, feriti o uccisi da quindici divisioni tedesche ed austriache. Trecentomila italiani furono presi prigionieri ed altri trecentomila fuggirono, alcuni per non fare mai più ritorno. Milano e Venezia erano in pericolo. Il fronte fu ristabilito sul Piave, circa centosessanta chilometri più ad ovest, ma il ricordo ancestrale delle invasioni barbariche terrificò la nazione. (Parte terza Il piccolo re (1900-1922), p. 260)
  • Caporetto fu anche l'ultima vittoria dell'esercito austro-ungarico e dell'Impero. La minaccia dell'invasione galvanizzò il popolo come non era mai accaduto in passato e perfino alcuni socialisti si dichiararono pronti a combattere all'ultimo sangue. Un piccolo gruppo di essi si recò perfino in Russia, dopo la resa del Palazzo d'inverno a Pietrogrado, per cercare di persuadere Lenin a non ritirarsi dal conflitto. Ma il leader rivoluzionario li ingiuriò chiamandoli «idioti» e agenti dell'imperialismo e della borghesia. (Parte terza Il piccolo re (1900-1922), p. 262)
  • Nel giro di sessant'anni l'Italia unita aveva compiuto un ciclo completo. Mentre a suo tempo la plebe di Garibaldi in camicia rossa aveva fatto dono dell'Italia a Vittorio Emanuele II, ora Mussolini, il figlio in camicia nera di un fabbro di paese, ne chiedeva la restituzione a Vittorio Emanuele III. (Parte terza Il piccolo re (1900-1922), p. 281)
  • [...] quando comparve in pubblico per l'ultima volta, alle nozze della principessa Mafalda[2], la sua preferita tra le figlie del piccole re, Margherita era al colmo della felicità. Durante l'età di mezzo, diventata grassa e traballante, essa aveva perduto molto della sua grazia e della sua bellezza, ma ora, negli anni del tramonto, l'aveva riacquistata. Il grasso eccessivo si era disciolto in uno splendore perlaceo e le sue vecchie ossa, aiutate da un bastone col manico d'avorio, la reggevano ora benissimo. La luce degli anni brillava nei suoi occhi velati, quel consapevole e secolare sguardo del vecchio privilegiato. (Parte quarta La caduta di Casa Savoia (1922-1946), p. 342)
  • Conoscendo i gusti di Umberto in fatto di donne, Maria José fece ogni sforzo per piacergli.
    Abbandonò la passione per la natura, la musica e l'arte, e cominciò a far ginnastica e a seguire una dieta. Si fece lisciare i capelli che erano naturalmente ricci, si fece incapsulare i denti e, pur rifiutandosi di portare altri tacchi se non quelli bassi, si vestì all'ultimissima moda con originali creazioni disegnate per lei dal marito. Ma, come ci si poteva aspettare, tutto questo non bastò. (Parte quarta La caduta di Casa Savoia (1922-1946), p. 351)
  • Nel 1939 il re imperatore Vittorio Emanuele III compì settant'anni. Da duecento anni ormai nessun principe regnante sabaudo era vissuto tanto a lungo da raggiungere quell'età; ed era un risultato genetico notevole per un primogenito del ramo Carignano della dinastia; ramo in cui i primogeniti morivano solitamente giovani. La sua sfida alle leggi della longevità e la povertà del sangue che scorreva nelle sue vene, dovuta ad un amore tra consanguinei[3], si rifletteva nel suo aspetto, negli occhi e nella pelle incartapecorita del volto. Rughe profonde percorrevano la sua fronte, i capelli erano caduti e i pochi rimasti dietro le orecchie, così come i baffetti ben arricciolati sulle labbra in perfetto stile fascista, erano diventati candidi. La sua mascella tremava più di prima, due borse violacee pendevano sotto gli occhi e la bocca era serrata in una smorfia grinzosa di fastidio, come se tutto quello che gli si era accumulato dentro fosse aggrovigliato in un nodo di incessante pena. (Parte quarta La caduta di Casa Savoia (1922-1946), p. 368)
  • Il principe [Umberto II, dopo essere stato nominato nel 1944 luogotenente del Regno[4] dal padre Vittorio Emanuele III] rivelò una personalità completamente diversa da quella del padre, molto meno autoritaria e molto più simpatica. Poco per volta la vita del Quirinale, che Umberto aveva trovato in condizioni di assoluta desolazione, prese un ritmo e uno stile mai più conosciuto da quando Umberto I aveva passeggiato su e giù per i saloni. Furono ripristinati i cavalli e le carrozze, i servitori in livrea, e i balli di corte per i nobili e la gente altolocata. (Parte quarta La caduta di Casa Savoia (1922-1946), p. 450)

Explicit[modifica]

Alle tre del pomeriggio del 13 giugno 1946 Umberto di Savoia dette l'ultimo addio all'Italia. Lasciò il Quirinale con tutti gli onori dovuti a un sovrano. Nel cortile passò in rivista tutti i cocchieri del palazzo. I servitori e i gentiluomini di camera singhiozzavano. Umberto era pallido e abbattuto ma teneva il capo eretto e di tanto in tanto riusciva ad abbozzare un sorriso. Portava un abito di flanella grigia, un cappello floscio e un bastone da passeggio. Sembrava stanco, nervoso e molto più vecchio dei suoi quarantuno anni. All'aeroporto di Ciampino, mentre sostava davanti all'aereo che l'avrebbe portato via, gli si avvicinò un carabiniere e gli disse: «Maestà, non la dimenticheremo mai!».

Note[modifica]

  1. C. Casalegno, La regina Margherita, Torino, 1965, p. 88. [N.d.A., p. 465]
  2. Mafalda di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III, si sposò il 23 settembre 1925.
  3. Umberto I e Margherita di Savoia, genitori di Vittorio Emanuele III, erano cugini.
  4. Cfr. voce su Wikipedia

Bibliografia[modifica]

  • Robert Katz, La fine dei Savoia (The Fall of the House of Savoy), traduzione di Maria Vittoria Martinelli, Editori Riuniti, Roma, 1975.

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