Luigi Federzoni

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Luigi Federzoni

Luigi Federzoni, noto anche con lo pseudonimo di Giulio De Frenzi (1878 – 1967), politico e scrittore italiano.

Citazioni di Luigi Federzoni[modifica]

  • [Sul suo ruolo nella Marcia su Roma del 1922] Io non ebbi in quel tempo occasione o motivo di esercitare presso sua maestà [Vittorio Emanuele III di Savoia] qualsiasi funzione di intermediario a nome di Benito Mussolini. [...] Svegliato prima dell'alba da una telefonata del ministro Riccio, e invitato senza indugio a recarmi al Viminale, fui pregato da lui, e poi dall'onorevole Facta, di avvertire immediatamente Mussolini del rifiuto della firma sovrana al decreto per lo stato d'assedio: e ciò allo scopo di evitare ogni spargimento di sangue.[1]
  • [Sull'Ordine del giorno Grandi e la caduta del fascismo] La situazione maturò, purtroppo, con la catastrofe; e dinanzi a questa ogni speranza fu perduta e ogni scrupolo fu superato.[2]
  • Se la patria nostra, per risorgere ad esistenza unitaria aveva anche dovuto approfittare di favorevoli incidenze e coincidenze della politica internazionale, è pur vero che i consensi e gli appoggi accordatici, a volta a volta, in tale periodo di tempo da alcune delle maggiori potenze europee avevano trovato sempre un limite nella stessa origine interessata e negativa di quegli atteggiamenti.[3]
  • [Sul Patto di Londra] Stipulato con la restrizione mentale che ne aveva preparato e anticipato la violazione poi commessa a nostro danno.[3]

Candidati all'immortalità[modifica]

  • Se non è raro il caso del letterato che, facendosi giornalista, riesce a conservare la freschezza del suo temperamento artistico, rarissimo invece mi pare il caso, non dirò contrario, ma opposto, del giornalista che dall'umiltà della sua prosa frettolosa giunge gradualmente, per una spontanea elevazione e un continuo affinamento di attitudini e d'attività, fino alla creazione di una perfetta opera d'arte.
    Questo è il caso di Roberto Bracco. (pp. 5-6)
  • Roberto Bracco, in ogni nuovo atteggiamento del suo ingegno creatore, ha sempre mostrato, rispetto ai precedenti lavori di differente tendenza e carattere, una specie di nuova verginità dell'ingegno stesso, che, a chi consideri solo quei lavori, lo rende come irriconoscibile. Passando da un genere all'altro egli sa intieramente, profondamente trasformarsi. (pp. 8-9)
  • Fra tutte le letterature poetiche dialettali che la conformazione geografica e la storia d'Italia hanno generato e fatto fiorire nel nostro paese, la più illustre la più viva la più originale è senza dubbio la romanesca. (p. 21)
  • Trionfale, sì, la via ch'egli ha percorsa: eppure Cesare Pascarella non è mai stato contento di sé. Anche nell'aspetto accigliato, un po' chiuso, manifesta l'abitudine della concentrazione a ciò che quanto più sia possibile la sua opera s'avvicini alla perfezione ch'egli ha vagheggiato. (p. 25)
  • [Cesare Pascarella] [...] conseguì il successo, fors'anche perché disdegnò di chiederlo coi soliti mezzi volgari, di cui si servono pure alcuni abbastanza illustri poeti... non dialettali! Schivo della folla, poche case frequenta, per lo più della miglior aristocrazia romana, pago di trascorrere lunghissime ore sotto la pergola fiorita, di rose e d'antichi motti della sua celebre terrazza in via Laurina, misurando l'armonia di un verso o limando ancora, per la centesima volta, la cesellatura nitida d'un sonetto. (p. 25)
  • Il Belli [...] mentre profondeva nei due o tre sonetti quotidiani le sue argutissime offese ai dogmi della religione e all'autorità della chiesa, continuava a confessarsi puntualmente, riflette il suo spirito pieno di contraddizioni, bigotto piuttosto che credente, volteriano piuttosto che ateo, malcontento piuttosto che ribelle, fatto, in fondo, di apatico egoismo e di amarissimo scetticismo, «in una poesia che nega, deride, distrugge». L'ingegno, in lui, era lucido, l'animo superstizioso: secondo che l'uno o l'altro prevalse, egli fu contro il Papa o col Papa. (p. 27)
  • – Nel giornalismo, io sono uno spostato – dice sovente Arturo Colautti: ed ha ragione, poiché, a questo nostro mirifico e malinconico mestiere, l'anima di poeta è un troppo grave fardello. L'autore del Terzo peccato, l'ho riconosciuto e non v'è chi l'ignori, va annoverato fra i tre o quattro più poderosi articolisti italiani. (p. 37)
  • [...] il Colautti ha sempre l'aria di preferire al grande urto drammatico delle passioni, ch'egli tratta, volendo, da maestro, la scenetta graziosa e pettegola del caffè Aragno. Si diverte a intrecciarvi facezie e aforismi, fili d'ironia e punte di satira: ed anche il lettore ci si diverte assai. Ma un romanziere che abbia nome Arturo Colautti non dovrebbe proporsi soltanto di dilettare sé medesimo ed altrui. (p. 44)
  • A Milano, il Butti va annoverato fra i primi e più ardenti fautori della musica wagneriana. Per molto tempo il suo nome era designato agli scherzi e agli scherni dei piccoli Nordau della borghesia meneghina dal grande amore di lui per i due babau del misoneismo teatrale: Wagner e Ibsen. A tali predilezioni appunto lo conducevano le tendenze filosofiche dell'ingegno, nutrito di coltura nordica e naturalmente appassionato dei problemi che sono tormento e onore dell'anima moderna. (p. 58)
  • [...] giunto alla pienezza della sua evoluzione spirituale ed artistica, E. A. Butti appare dotato di una signorile e simpaticissima ironia, che sorride un po' amaramente così nei colloqui amichevoli come nelle produzioni dell'ingegno. È il contemperamento in cui si equilibrano due opposte tendenze del suo carattere? Non oserei affermarlo. Certo, egli pare, piuttosto che uno scettico, un indeciso; e, in fondo all'anima, resta e resterà sempre un incoercibile sognatore. Un sognatore uomo di mondo, un apostolo d'ideali altissimi che non ha fatto divorzio dalle forme del buon gusto e dalle leggi del buon senso, un utopista, sia pure, che è, insieme, un causeur divertentissimo: qualche cosa di raro, di bello, e, sopra tutto, di sincero. (pp. 59-60)
  • La pertinacia incrollabilmente fiduciosa è la caratteristica della sua progressiva operosità. E. A. Butti ha avuto la forza di resistere alle suggestioni dello scoraggiamento che prende l'artista quando si vede ripetutamente non compreso e non apprezzato.
    Egli conobbe presto i sibili d'un pubblico che distrugge in tre ore il frutto d'una lunga fatica[4] (p. 60)
  • Chi ignora gli incanti della sua conversazione? Giannino – così lo chiamano familiarmente due o tre milioni di cittadini italiani, tutti suoi amici intimi – Giannino è una delle persone di maggiore spirito che si conoscano, anche quando non scrive il Braccialetto o l'Unica scusa. Taluni motti estemporanei di lui sono rimasti immortali: e appunto in grazia dei medesimi, egli possiede due o tre milioni d'amici intimi, fra i quali ci sono quelli che lo amano e quelli che lo temono, per la sua causerie zampillante di caustici paradossi e di mordaci ironie. (p. 75)
  • [Giannino Antona Traversi] Una volta, a Napoli, per via Toledo, egli pesta inavvertitamente la gonna d'una signora, a dire la verità, non molto educata. Prima che egli abbia avuto il tempo di scusarsi, ella lo apostrofa vivacemente:
    – Siete una bestia!
    E Giannino, rispettoso, con tanto di cappello in mano:
    – Eppure, la coda, ce l'avete voi, signora! (p. 75)
  • [...] rivolga le sue preclare attitudini a una concezione drammatica più nuova e gagliarda, ora che si annuncia un suo prossimo ritorno a quel genere di produzione, ed anche in esso Giannino Antona Traversi potrà segnare un'impronta personale e meritevole di tutti gli applausi che il pubblico gode di tributare alle gioconde commedie di lui. Benché mi paia vanto già raro e soddisfacentissimo questo che ognuno gli riconosce: di saper divertire senza buffonerie inverosimili, descrivendo con mirabile eleganza una società che si sfascia, mescolando al sale dell'arguzia garbata e decorosa il pepe della satira più pungente. (p. 88-89)
  • A tutte le «prime» dei teatri romani, e particolarmente a tutte le «prime» della scena di prosa accade di notare ad ogni men che mediocre osservatore un uomo ancor freschissimo e vivace non ostante la copiosa barba più grigiastra che bionda, il quale è fatto segno, così nel suo palchetto di primo ordine come nel foyer e nei corridoi, alla premurosa attenzione di moltissima parte dell'uditorio. La cortesia naturale dei modi impedisce che quest'uomo si salvi dai continui assalti di tutti coloro che attendono una sua parola per sapere se sia più «intellettuale», quella sera, battere le mani o zittire, che vengono «a prendere il la» da lui per formarsi un giudizio sopra il valore della commedia nuova o dell'attore esordiente. Si sa che il suo parere è rigidamente e severamente onesto, profondamente illuminato: onde esso può servire anche ai mestieranti del ricatto e ai dilettanti della diffamazione come base di verità per i loro edifici di insidiosa menzogna.
    Quest'uomo è il principe della critica teatrale della capitale d'Italia, è Caramba, al secolo Edoardo Boutet. (pp. 93-94)
  • Gentilezza e coraggio gallico, impeto e genialità napoletana si fondono nell'intelletto di Edoardo Boutet, nato sul golfo partenopeo di genitori oriundi, come indica il cognome, di terra francese. La commistione etnica si fa singolarmente palese quando la figura pallidamente signorile si agita in una frequenza di gesti accompagnanti e surroganti la parlata dei protetti di S. Gennaro.
    Del francese non ha la spavalderia posatrice ne la tendenza atavica alla «cantonata»: dei nostri meridionali non ha gli entusiasmi fittizi alternantisi con le infeconde negazioni scettiche: è insomma un lucido esempio delle buone qualità di due stirpi affini e diverse. (p. 95)
  • [...] la critica di Domenico Oliva, materiata non tanto di giudizi quanto di emozioni, piuttosto che piegarsi a ricondurre l'idea particolare entro l'armonia di un sistema preconcetto, preferisce narrare le avventure d'uno spirito estremamente sensitivo attraverso l'opera altrui. Ma questo spirito, continuamente timoroso, per la sua profonda onestà, di non avvertire tutte le intenzioni e tutta l'estensione di tale opera, non cessa di disciplinare o, magari, di comprimere le proprie simpatie e antipatie, aprendosi benevolo, se occorre, alle tendenze per le quali esso sentirebbe una naturale ripugnanza. (p. 112)
  • Verista o psicologista?
    Federigo de Roberto, investigatore sagace così degli impulsi spirituali come degli atteggiamenti estetici, può vantarsi a buon diritto di aver condotto alla disperazione quei numerosissimi suoi colleghi che stimano precipua finalità della critica la classificazione d'ogni scrittore entro i limiti rigorosi d'una formula. E i critici faciloni, disposti a contentarsi e giovarsi delle apparenze, potrebbero credere ch'egli si fosse volutamente studiato di eludere una tal classificazione – la quale, del resto, somiglia molto spesso a una captività – con la costante simultanea molteplicità di manifestazioni cui egli ha via via piegato il proprio ingegno.
    Verista o psicologista? (p. 125)
  • [Ugo Ojetti] Egli è un grande e costante lavoratore; e veste con l'eleganza di un ricco gaudente, e frequenta salotti e palcoscenici. Egli discute con un'eccellenza o con un altro qualsiasi monumento nazionale ambulante, intorno a un tema gravissimo; e, mentre reca nella discussione la facilità e la facondia del suo coltissimo intelletto, osa intermettere agli alti ragionamenti il frizzo e la botta satirica. Parimenti, in un articolo di giornale o di rivista, approfondisce ed esaurisce un argomento, così, sorridendo, senza affaticare il lettore e senza ch'egli stesso paia mai affaticarsi... (p. 147)
  • [...] sotto i panni e le abitudini di un giovanotto del bel mondo, sotto la volubile gaiezza della sua conversazione, Ugo Ojetti nasconde la maturità di un carattere fermamente e solidamente volontario, che lo tien lontano dal più spaventoso pericolo, quello delle intime stanchezze spirituali; un carattere supremamente moderno, materiato com'è di scetticismo e di ottimismo, abbastanza scettico per non illudersi e non entusiasmarsi, abbastanza ottimista per non sfiduciarsi e non addormentarsi. (pp. 147-148)
  • [Ugo Ojetti] Egli è quello che i francesi chiamerebbero un manieur d'idées. La qualità più spiccata della sua mente – una curiosità di continuo sveglia e pronta a rivolgersi verso le cose più disparate – lo rende, per dir così, atto a percepire tutte le vibrazioni precorritrici d'ogni cosa che si agiti per l'aria. Questo fa sì ch'egli sia e paia sempre all'avanguardia, ch'egli preferisca sembrar troppo moderno piuttosto che incline a qualche sosta ideale: il che spiega, anche, se non giustifica, certe sue intemperanze di odî e d'amori. (p. 148)
  • [Ugo Ojetti] Egli è socialista: la qual cosa a molti sembra in flagrante contraddizione con la caramella, i panciotti e i viaggi in sleeping-car dello scrittore viveur: sì che dubitano della sua sincerità. Non ne dubito io, che vedo in questo atteggiamento politico d'un giovane nato e cresciuto in una società conservatrice, il medesimo spirito di sbrigliata opposizione da cui egli è stato condotto a buttare all'aria tanti idoli, anche sacrosantamente venerabili, nel tempio dell'arte. Cominciò appunto per «fronda»: ma all'energia assorbente di quel partito è assai difficile resistere, né egli resistette; e divenne un socialista pronto, convinto e quasi disciplinato. (pp. 149-150)
  • Luciano Zùccoli si potrebbe definire senza altro: una contraddizione.
    In tempi nei quali l'opera d'ogni scrittore si palesa come la risultante delle sue attitudini e delle sue letture – e non di rado come la risultante, solo, delle sue letture –, i libri di Luciano Zùccoli hanno l'aria d'essere, direi quasi, autoctoni, cioè frutti spontanei d'un ingegno che osserva e crea senza sussidio di esempî né di ricordi altrui. (p. 165)
  • Diego Angeli possiede veramente l'intuizione appassionata del paesaggio: forse, perché egli stesso è pittore. In una copiosa serie di piccole «impressioni», gelosamente sottratta agli sguardi indiscreti, l'Angeli ha fermato i ricordi delle sue peregrinazioni attraverso l'Agro romano e la Sabina : ora è una pianura con qualche macchia d'alberi velati dalle nebbie del mattino; ora, una lontana visione di colli illuminati dal tramonto; ora, il prorompere del meriggio in una selva; ora, il fasto cadente d'una villa abbandonata; ora, una minaccia di temporale su una campagna squallida infinita... (p. 185)
  • L'aula di Caligola divenne, pei riti dei primitivi cristiani, Santa Maria Antiqua, così che oggi le pareti rozzamente affrescate di santi e di angioli ridono in mezzo alle rovine del Foro e del Palatino: era il Pontificato che assumeva sede forme e possanza dall'Impero. (p. 187)
  • Sul rettifilo dei fruttiferi alveari umani che la speculazione borghese allineò ai Prati di Castello, San Gioacchino ostenta, da vero parvenu gli ori e i musaici recenti della sua fastosa facciata: è il Pontificato che assume gusti forme e tendenze da un'età la quale ama sopra ogni cosa la ricchezza vana e ben palese a tutti. (pp. 187-188)
  • Qualcuno sentenziò che nelle chiese di Roma tutto si può ritrovare fuorché Dio. Ebbe egli ragione? Io non so, non posso sapere. Può sentir presente in qualche luogo la Divinità chi non ne ha il senso augusto nel cuore? (p. 188)
  • Unica, a Roma, Santa Maria sopra Minerva slancerebbe sul volo degli archi gotici i nostri ultimi desideri di cielo, se un artefice secentista non avesse profanato genialmente la purezza del tempio e dell'aspirazione. Poiché solo l'architettura gotica, più ancora che la bizantina e la romanica, sembra capace di attrarre la dubbiosa anima moderna verso l'infinito cui questa si sforza di rinunciare... (p. 188)
  • [...] le chiese di Roma narrano l'audacia, il potere, il trionfo dell'uomo sopra tutte le forze esteriori ed interiori, sopra il tempo che non valse a distruggerne la maestà, sopra la pietà delle plebi affamate che non valse a distoglierne l'oro e il pensiero dei Papi. (p. 188)
  • Su le moli di travertino cui vigila e domina la croce, quant'ala di secoli e di poesia trasvola! Poeti, romanzieri, esteti, flâneurs della letteratura e del misticismo si son seguiti attraverso i meandri di Trastevere e le ombrie silenti del Celio – Goethe, Stendhal, Taine, Bourget, D'Annunzio, Sar Péladan, Hall Caine –: ma l'anima segreta delle chiese romane non è ancora stata tutta svelata. (p. 189)
  • [Adolfo Albertazzi] [...] dotato d'un incoercibile temperamento d'osservatore umorista e psicologo, indarno si sforzò di reprimere anche tra le annose cartacce i suoi impulsi d'artista. Così accadde questo straordinario fenomeno, un fenomeno, starei per dire, da fiera, come il vitello ermafrodito o l'uomo-pesce: che i libri d'erudizione dell'Albertazzi apparvero, non solo leggibili – il che sarebbe già stato molto singolare –, ma interessanti per gli stessi profani. (pp. 200-201)
  • Voi non sapreste concepire Adolfo Albertazzi non bolognese. Bolognesi sono quella bonarietà acuta e saggia di giudizi etici, quella equilibrata compiacenza delle gioie spirituali e materiali, quel predominio del buon senso su tutte le sorprese dell'entusiasmo, quell'arguzia pacifica e assai ottimista che commenta i peccati senza voler ammazzare i peccatori. Bolognese è quell'abbondanza di dottrina e di senno, la quale non vieta, al momento opportuno, d'apprezzare i meriti d'un ghiotto pranzo o di una donna seducente. Parlo, ben inteso, del letterato... (p. 206)
  • Pronipote ultimo di Giacomo Leopardi, prediletto alunno di Arturo Graf [...] il Cena ha lasciato la scorata immobilità del pessimismo, accordandosi piuttosto con quel sentimento di stanchezza e di tedio che nasce da un caldo e largo amore per tutta la natura, cozzante nella fatalità bruta della natura stessa. (p. 220)
  • Quanto all'individuo, il Cena pensa che il progresso di lui si accompagni all'evoluzione della società. Ottenere la più perfetta esplicazione propria e armonizzarla con quella degli altri: ecco semplicemente creata la morale. (p. 221)
  • Maturatosi alla speculazione e all'osservazione, l'ingegno di Giovanni Cena ha dimostrato di sapersi piegare a tutte le discipline, a tutte le forme dell'arte. Gli Ammonitori svelano una tempra robustissima di narratore, e d'una qualità assai rara, in Italia : il narratore nudrito d'idee. Anzi, se il Cena corre, per questo rispetto, un pericolo, corre appunto il pericolo di obliare per le idee le persone, di esser troppo concettoso e troppo poco plastico. (p. 229)

Note[modifica]

  1. Da una lettera ad Alfredo Frassati, 10 giugno 1958, citata in Federzoni: "Non trattai io con il re", La Stampa, 13 marzo 1998.
  2. Da Italia di ieri per la storia di domani, Mondadori, 1967.
  3. a b Dalla rivista Africa italiana; citato in "Conti da regolare", La Stampa, 1º agosto 1940.
  4. La commedia Il Signore dall'abito bianco, rappresentata a Sassuolo, fu «sepolta, sotto una grandine di fischi».

Bibliografia[modifica]

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