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Antonino Anile

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Antonino Anile, 1919

Antonino Salvatore Anile noto come Antonino Anile (1869 – 1943), anatomista, poeta, politico e saggista italiano.

Citazioni di Antonino Anile

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  • Io torno a questa terra, tutta quanta | dal sole arrisa, e sacra nel perenne | rifiorire di verde che l'ammanta; || a questa terra, dove un giorno venne | la gente di mia casa, e che, nel grembo | fedele, il cuor dei miei avi ritenne. || Son balze e anfratti in un estremo lembo | di Bruzia, che protendesi virente | nel mar, di contro; e s'apre al sole e al nembo. || Io calco questa madre terra, ardente | per l'alto Sol che l'anima, e per l'ime | vene di fuoco non ancora spente: || e rivivo; e risplendono le cime | dei miei pensieri; e avverto, dal profondo, | come un segreto zampillar di rime. || Ora io tutto mi fondo e mi confondo | in ciò che l'occhio abbraccia; e par che il verso | viva anch'esso di questo suol fecondo; || e l'ansito inestinguibil, che immerso | gli alberi han nella terra; e 'l fluttuare | del pòlline, fra terra e ciel disperso; || e l'armonia, che vola per le chiare | serenità, su l'ali ampie del vento; | e l'infinito murmure del mare; || e l'arcano diffuso sentimento, | il divino linguaggio, che trasvola | di cosa in cosa, nel pensiero io sento. || Non per quel che la mia anima sola | oggi veda od ascolti, ma per quanto | ebbe ai sensi dei miei padri parola. || Io penso: e dentro il mio pensiero intanto | rivivono le immagini degli avi | tumultuose, ed urgon nel mio canto. || Solcarono la terra alma e dei flavi | s'allietaron fromenti, e questi cieli | si specchiaron nei loro occhi soavi: || schiuser le vele ai venti, e, con aneli | sensi, guidaron le navi; e nei tramonti | s'avvolser, come re, d'aurei veli. || Alla terra servirono con pronti | spiriti e al mare; e l'inno ampio, che esala | dalle cose, baciò le loro fronti, || come oggi mette alla mia strofe l'ala. (Briatico, La croce e le rose[1])
  • Saliva in cielo l'astro | lunar, saliva lento: | quadrante d'alabastro | sporto dal firmamento. || Sopra il mare olivastro, | dal flebile lamento, | mettea la luna un nastro | bianchissimo, d' argento. || Noi scendevamo soli | per la via, che prospetta | l'immensità del mare, || e invisibili voli | di sogni, o mia diletta, | sentivamo sciamar. (Sotto la luna, Primi tumulti[2])

Bellezza e verità delle cose

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  • [La montagna] Guardatela scomparire nella bruma e riapparire al lacerarsi della stessa, e come si succinge in sé rivelando la linea dei fianchi sotto gli aspri colpi del vento. A sera l'ombra, lentamente fasciandola, la veste di un sogno che soltanto le stelle sovrastanti intendono, e dal quale non esce se non risvegliandosi in un miracolo di luce; quello del primo raggio di sole che la colpisce.[3]
  • Le cose! È la luce che le figura e le trasfigura in un miracolo che si rinnova in ciascun'ora del giorno per la gioia dei nostri occhi.
    Ciascuna cosa nella luce prende forma e colore: nasce![4]
  • Prima di sapere cosa sia la luce, godiamola. Il cielo, nell'alba, al solo presentirla, se ne ingiglia intanto che le ultime stelle, nell'imminenza del prodigio, muoiono ad una ad una. Poi un fiume d'oro dalla lontana scaturigine del sole, resosi visibile, irrompe su la Terra, e si sente che scroscia giù dalle vette dei monti rimbalzando pei fianchi poderosi sino a riempirne le valli, donde riesce per trovar foce laggiù nel tremolare della marina. Il vento raccoglie il mistero di tale musica e la diffonde dappertutto.[5]
  • Non ci siamo mai chiesti perché l'acqua nell'accoglierla in sé diventa cielo; ma se ci saremo arricchiti (e quale ricchezza!) della visione del mare che si dona alla luce del giorno o di quella di un corso di fiume appena esca da un gomito umbratile, la domanda ha già la sua risposta: l'acqua si crisma nella luce.
  • Tale è la natura dell'acqua: di serbare una purezza illogorabile riempiendosi di luce e di cielo e di farsi rivelatrice a noi dell'anima delle cose e di raccontarcene l'istoria con le flessioni persuasive del suo discorrere, che s'interrompe, riprende, per divenire a tratti un singultare come d'arpa. L'uomo non seppe mai resistere al fascino di questo linguaggio: vi si piegò come si piegano i giunchi al flusso della corrente.[5]

Nella scienza e nella vita

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  • [Jean-Henri Fabre] Scevro di idee preconcette, libero totalmente, per quanto può essere un autodidatta, egli, nel primo iniziarsi delle sue ricerche, si trovò a contraddire alcune argomentazioni del Darwin. Tra il grande scienziato, dinanzi al quale già si fletteva ogni cima del sapere, e l'ignoto adolescente, che riferiva soltanto quel che aveva visto con occhi ingenui, avvenne uno scambio di idee, dopo del quale il Darwin rimase pensoso se dovesse modificare qualcuno dei risultati a cui perveniva con la teoria dell'evoluzione. Fin d'allora il Fabre venne definito dal Darwin: un osservatore inimitabile. (La biologia di Henri Fabre, pp. 11-12)
  • [Jean-Henri Fabre] La descrizione fedele [della natura] si traduce [...] in una prosa schietta che, per l'immediatezza dell'espressione, assume carattere indelebile d'opera d'arte. Egli descrive semplicemente, senza tecnicismi scientifici, senza frasi circonvolute, con un periodare che ha la trasparenza delle acque cristalline ed attraverso il quale non solo si rivela ogni piega del suo pensiero, ma anche ogni commozione del suo sentimento.
    Nella sua prosa l'uomo e le cose fuse insieme cantano in una voce che ci ricorda quella dei nostri grandi poeti primitivi. (La biologia di Henri Fabre, pp. 12-13)
  • L'aria senza gli uccelli è come una terra senza fiori. Le loro ali trasportano in alto qualche cosa di noi; e le ore migliori della nostra vita sono quelle in cui sentiamo ali nel nostro pensiero e nel nostro cuore. (L'elogio degli uccelli, p. 62)
  • [I licheni] Queste esili forme vegetali, che risultano dalla simbiosi di alghe con funghi, si diffondono, mutando linea e colore, dappertutto, dai lidi del mare agli scrimoli più ardui delle montagne, dagli equatori ai poli della terra. Sopra le rocce, sopra la corteccia degli alberi, negli incavi della superficie delle pietre, si distendono in velluti variopinti, che si polverizzano e si rinnovano di stagione in stagione. Se un masso granitico precipita da una altura non tarda a risentire questa carezza vegetale. (Un nobile figlio delle Puglie, p. 96)
  • Antonio Jatta comprese ben presto l'importanza dell'argomento e le molte questioni biologiche che vi erano connesse. Illustrò dapprima i licheni del Mezzogiorno e delle nostre isole; e, compulsando libri, collezioni rare, memorie disperse nei varii Istituti, ne segnò lo svolgimento storico dal 1580 ai nostri giorni. Furono anni di intenso lavoro. Poté così dare alla luce l'opera: Monographia Lichenum Italiae meridionalis edita a Trani nel 1889, ch'è quanto di più perfetto si abbia in questo ordine di studii.
    Oramai l'agilità della mente e l'esperienza acquistata nelle lunghe osservazioni gli permettevano uno sforzo maggiore; ed egli, frugando tra gli erbarii sparsi nelle varie città d'Italia, con lena infaticabile, si accinse ad estendere le sue ricerche ai licheni di tutta la nostra penisola; e nel 1900 pubblicava la sua Sylloge Lichenum Italicorum con la quale veniva colmata una lacuna nella nostra scienza e soddisfatto un voto secolare dei nostri botanici. (Un nobile figlio delle Puglie, pp. 96-97)
  • [Antonio Jatta] Pertinace nell'osservare e pieno di un fervore quasi lirico nell'esprimere, egli non si contentò soltanto di descrivere. Problemi di morfologia, di biologia, di sistematica, di distribuzione terrestre vengono affrontati e risolti per modo che la ricerca, intrapresa come ricerca speciale, assume sollecitamente l'interesse d'una questione di coltura generale. Sulla scienza delle piante l'opera sua è stampata a caratteri indelebili. (Un nobile figlio delle Puglie, p. 97)
  • [...] Fiorentino ereditò in sé la mitezza serena del Galluppi e la ribelle vigoria del Campanella, ed, in sommo grado, le virtù più nobili della sua natìa Calabria. Le vicende della sua vita, l'indirizzo dei suoi studii vengono determinati non solo dalla sua particolare volontà, ma anche da quella, non meno forte, per quanto inconscia, della stirpe. I suoi genitori ebbero il merito di rendergli facili i primi studii. Per il resto egli fu autodidatta. E dopo una giovinezza poetica e pugnace (combatté da prode, per l'unità della patria, nelle file dello Stocco, all'Angitola, al Calderaio, a Soveria) egli si diede con un fervore infaticabile di ricerche a rivelare agli italiani quanta parte c'è di loro nella storia del pensiero europeo. (Francesco Fiorentino, p. 183)
  • L'Acri non mutò mai costume. Pago delle sue ricchezze interiori, egli non ebbe mai nulla da chiedere; e non si dolse mai del silenzio in mezzo al quale visse.
    Per un fenomeno che a prima vista può sembrare strano, egli non assorbì nulla del tumulto della vita contemporanea, che attorno a lui si svolse.
    Scrisse e parlò sempre come un uomo antico; ed i modi del dire li trasse dagli esemplari della nostra prosa trecentesca, e, tra gli scrittori a noi più vicini, non preferì che il Leopardi. (Nella morte di Francesco Acri, p. 193)
  • [Francesco Acri] Nel curare l'espressione del suo pensiero le sue fatiche non ebbero limite. La parola era per lui qualche cosa di sacro, e lo scrivere quasi una funzione religiosa. Soleva meditare una frase, un periodo per mesi interi; e quando gli affiorava alle labbra l'espressione lungamente ricercata ne gioiva come un fanciullo. E preferiva chiedere aiuto nell'affannosa ricerca non ai lèssici e tanto meno ai dizionarii, come fu abitudine dei parnassiani d'oltre Alpe, ma alla bellezza delle cose esteriori. Lo spettacolo di un filare di alberi svettanti al vento, di un fiume che si veste di colori tremuli sotto il sole, d'una campagna che si perde all'orizzonte, di un brolo canoro di uccelli gli dava l'emozione necessaria per crearsi il linguaggio. Bologna ricorda il vecchio maestro attraversare i portici per riuscire sopra una via campestre e soffermarsi di tanto in tanto a riguardare i giochi della luce tra le foglie. (Nella morte di Francesco Acri, pp. 193-194)
  • L'Acri non polemizzava, ed anche nei dibattiti più aspri, nei quali non potette esimersi dall'intervenire, egli esprimeva il suo giudizio serenamente, quasi sorridendo. La tempesta si quietava per un momento. Egli invitava a meditare, niente altro. (Nella morte di Francesco Acri, p. 194)
  • [Francesco Acri] Non si compiacque mai di aver discepoli, ma amici pensosi come lui di scoprire quanto di divino è in noi e fuori di noi; e, fatta la scoperta, trovare la parola divina per ripeterla agli altri ed incitarli a possederla. Con un medesimo atto – soleva ripetere ai giovani – Dio generò il Verbo ed il mondo.
    Fu un filosofo e nel medesimo tempo un poeta; e come tale, direbbe Goethe, coscienziosamente uomo. (Nella morte di Francesco Acri, p. 196)
  • Nel fervore d'una discussione clinica, nella stessa più secura determinazione di un fatto, il discorrere del Murri ha, qua e là, delle parentesi, che non sono in istretto rapporto con l'argomento scientifico. Brani filosofici, dicono alcuni, che nulla hanno a che fare con la scienza positiva.
    Tuttavia è in questi brani che più balena lo spirito del maestro; ed è dai medesimi che tutta la dissertazione se ne anima, giacché coloro che pensano che la filosofia sia antitetica alla scienza non sanno nulla né dell'una né dell'altra. (L'opera di Augusto Murri, p. 246)

Incipit di Vigilie di scienza e di vita

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Lo sviluppo straordinario, direi quasi fantastico, degli strumenti della scienza; i metodi rigorosi che impiega nelle sue molteplici indagini; la tendenza a specializzarsi sempre più; l'addensarsi di un tecnicismo quasi sempre barbaro nelle forme dell'espressione e, più ancora, la mentalità caratteristica della massima parte degli scienziati, che diventano facilmente intolleranti di qualunque movimento dello spirito che sorvoli dal fatto, rappresentano insieme un complesso di cause che può valere a spiegarci, come sia stato possibile, per molti anni, tracciare netta una distinzione tra l'attività del pensiero volta alla severa analisi e la virtù sintetica della immaginazione, e, quel ch'è più, sentir proclamare che quella, come mezzo di conquista sul mistero che ci circonda, debba prevalere su questa.

Note

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  1. In Poesie: raccolta completa. Primi tumulti. I sonetti dell'anima. La croce e le rose, Nicola Zanichelli, Bologna, 1921, pp. 233-235.
  2. In Poesie, 1921, p. 69.
  3. In Tommaso Pisanti e Giuliana Rose, un anno un mondo: antologia per la Scuola Media con letture epiche, Loffredo Editore, Napoli, stampa 1978, vol. II, p. 226.
  4. Citato in Enzo Catagna e Francesco Desiderio, p. 366.
  5. a b Citato in Enzo Catagna e Francesco Desiderio, p. 367.

Bibliografia

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  • Antonino Anile, Bellezza e verità delle cose, Vallecchi, 1940.
  • Antonino Anile, Nella scienza e nella vita, Nicola Zanichelli Editore, Bologna, 19242.
  • Antonino Anile, Vigilie di scienza e di vita, Laterza, 1911.
  • Enzo Catagna e Francesco Desiderio, Espressioni letterarie del Novecento: pagine critiche e testi esemplari di scrittori e poeti contemporanei, Antologia italiana per le Scuole Medie Superiori, Signorelli, Milano, 1981.

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