Enrico Annibale Butti
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Enrico Annibale Butti (1868 – 1912), scrittore e drammaturgo italiano.
Né odî né amori
[modifica]- La fine di Sodoma del Sudermann ebbe la fortuna di far sorgere intorno a sé delle ampie discussioni, e d'eccitare insieme, da un lato gli irresistibili entusiasmi, dall'altro acerbe disapprovazioni e perfino sincero disprezzo. Le ragioni di questo divorzio aperto nei giudizi del publico e della Critica non sono difficili a rilevare, poiché innanzi tutto tal lavoro si presenta cosi audacemente indocile alle nostre consuetudini sceniche, che non può [fare] a meno di urtare i sentimenti e i gusti di quella gente ligia all'abitudine e al sistema. (pp. 5-6)
- [Henrik Ibsen] [...] io credo che a torto si sia voluto avvicinarlo ai romanzieri russi. La sua visione delle cose è totalmente diversa; e di quella pietà umana, caratteristica nel Tolstoi e nel Dostojewski, non è in lui presso che traccia alcuna. Spirito teorico e filosofico, egli intravede e giudica le umane cose di preferenza sotto un aspetto logico e intellettuale che sotto un aspetto sentimentale: e fin nei drammi dell'esistenza più lugubri e più tristi è in lui piuttosto che uno scoppio di singhiozzi e di lacrime, una consapevolezza dura e serena dell'ineluttabilità del Destino. (p. 73)
- [Henrik Ibsen] Il suo gran successo come dramaturgo, nelle sfere elevate degli apprezzatori, è la condanna della forma teatrale meglio che la promessa di una redenzione. Egli è un distruttore, come e forse più di Riccardo Wagner: onde, come il Wagner à detto forse l'ultima parola, quasi l'elogio funebre, del dramma musicale, è probabile che anche l'Ibsen abbia pronunciato il suo epicedio al dramma letterario. Entrambi sono inimitabili perché sono definitivi: il Wagner come l'Ibsen non ànno avuto e non avranno mai né una scuola né dei seguaci. (p. 73)
- Il realismo, nelle sue forme più degeneri, aveva svisato il senso schietto della sua riforma: s'era concentrato nella sua teorica estetica, dimenticando lo scopo, a cui questa teorica tendeva: l'osservazione profonda della realità. Sbagliando il taglio ne' suoi studietti dal vero, era venuto ad escludere la parte più importante e più saliente delle cose osservate e riprodotte, voglio dire la conclusione morale; e quegli studietti, tagliati cosi capricciosamente, assumevano le forme incompiute e monche di brani e di stralci, spesso pregevoli ed interessanti nei particolari più minuti, sempre però insufficienti e destituiti di significato nel loro complesso. (p. 141)
- La poesia nel nostro paese, dopo i tristissimi canti di Giacomo Leopardi e dopo gli inni rugiadosi d'Alessandro Manzoni, non avea più avuto nessuno intenso e duraturo successo. Il Prati e l'Aleardi avevan versato un fiume di lacrime retoriche, s'eran conquistata un'invidiabile popolarità a furia di romanticherie e di lamentazioni; poi erano scomparsi nel mondo delle ombre, trascinandosi dietro i loro versi e il loro nome. La lirica patriotica, dopo aver corrisposto degnamente alla sua missione di aizza-popolo, erasi rifugiata negli scaffali e nelle memorie dei moribondi. Ultimamente in fine, il gran clamore sollevato da quella schiera di poeti e poetini e poetastri, che s'eran dati a riempir l'Italia delle loro storie dei loro amoretti dei loro doloruzzi e delle loro sudicerie, prendendo l'imbeccata dai lirici contemporanei di Francia e di Germania, s'era venuto man mano indebolendo, — ed oggi, grazie a Dio, non se ne sente quasi più a parlare. (pp. 220-221)
- La nuova letteratura, come dice il De Sanctis, s'era annunziata con la soppressione della rima e delle strofe. Era una reazione alla cadenza, alla sonorità, alla cantilena, — divenute col Metastasio e con l'Arcadia l'essenza della forma lirica — che aveva rimesso in auge il verso sciolto, prima per opera di Giuseppe Parini e poi massimamente d'Ugo Foscolo, ne I Sepolcri e ne Le Grazie. La riforma era assai più importante, che non potesse per avventura sembrare a un profano delle evoluzioni letterarie: il Carme foscoliano preludeva, con la nudità scultorea del suo pensiero, liberato da ogni lenocinio musicale, all'arte densa e filosofica del nostro secolo. (pp. 222-223)
- [...] il Manzoni – dopo il Monti, – il Berchet, il Prati e anche ultimamente il Praga, il Boito, lo Stecchetti, il Panzacchi, coi loro indegni seguaci, avean ridato al verso italiano quella cadenza e quella cantilena, ch'erano state l'ignobile delizia dei tempi arcadici. L'ode barbara in vece, – severa nella sua linea, dura e sostenuta nella sua musicalità, – se pure agli orecchi facili, abituati a quei ritornelli rimati, parve non altro che una prosa sgradita e manierata, fu salutata dalle persone colte, gentili, dotate di senso estetico come una dolce e cara rivelazione d'arte. (pp. 224-225)
- Annie Vivanti stessa dichiara candidamente di conoscer poco la letteratura tedesca, pochissimo l'inglese, presso che nulla la francese e la italiana, e noi dobbiamo crederle su la parola. Tracce d'Enrico Heine si troverebbero in Lirica, ma insignificanti e sopra tutto non degne d'esser rilevate. Alcune poesie ricorderebbero il Praga, altre, lo Stecchetti, altre, la contessa Lara: ma la nostra poetessa non à il bene di conoscere tutta questa brava gente. Nella passione e nella sobrietà d'espressione ci fu chi la raffrontò alla poesia (di cui non ci rimangono sventuratamente che pochi frammenti), dell'antica Saffo: ma con che coraggio disturbare per lei dopo tanti secoli la poetessa di Mitilene? Un componimento farebbe ancor pensare alla limpida e profonda Musa del Moore; ma quel componimento è solo nel volumetto di versi, e quasi anche vi stona. (p. 247)
Suonaron le dieci, lentamente, nell’ombra. Poco dopo i rintocchi si ripeterono più decisi, più rapidi nell’anticamera.
Enrico, dopo avere alcun tempo indugiato origliando tra i due battenti socchiusi, entrò cautamente nella stanza, avvolta in una densa penombra verdognola. L’aria v’era un po’ viziata, benché un diffuso profumo, misto di violetta, d’acqua di Colonia e di tabacco, vi signoreggiasse: v’era quell’odore speciale, direi quasi organico, che ànno le camere dove qualcuno abbia lungamente dormito; e un respiro lieve e alquanto irregolare annunziava appunto che una persona vi dormiva ancora serenamente in braccio all’onda dei sogni mattutini.
Citazioni su Enrico Annibale Butti
[modifica]- Enrico Butti che è magro e pallido e ha i baffi fieramente rialzati e una lunga barba castagna rettangolare, così diceva:
– Io sono un ottimista e spero nel risorgimento della letteratura nostra non solo, ma anche d’ogni altra funzione artistica e sociale d’Italia. E una ragione etnica e storica (specialmente per quanto riguarda l’arte) pone l’Italia, nel confronto con le altre razze latine, in una condizione più favorevole a questo risorgimento che avrà senza dubbio un carattere di vera universalità; essa e stata per troppi anni occupata da stranieri diversi, specialmente da Tedeschi, perché la sua nativa latinità non ne sia stata a suo vantaggio commossa e modificata. (Ugo Ojetti)
- A Milano, il Butti va annoverato fra i primi e più ardenti fautori della musica wagneriana. Per molto tempo il suo nome era designato agli scherzi e agli scherni dei piccoli Nordau della borghesia meneghina dal grande amore di lui per i due babau del misoneismo teatrale: Wagner e Ibsen. A tali predilezioni appunto lo conducevano le tendenze filosofiche dell'ingegno, nutrito di coltura nordica e naturalmente appassionato dei problemi che sono tormento e onore dell'anima moderna.
- Giunto alla pienezza della sua evoluzione spirituale ed artistica, E. A. Butti appare dotato di una signorile e simpaticissima ironia, che sorride un po' amaramente così nei colloqui amichevoli come nelle produzioni dell'ingegno. È il contemperamento in cui si equilibrano due opposte tendenze del suo carattere? Non oserei affermarlo. Certo, egli pare, piuttosto che uno scettico, un indeciso; e, in fondo all'anima, resta e resterà sempre un incoercibile sognatore. Un sognatore uomo di mondo, un apostolo d'ideali altissimi che non ha fatto divorzio dalle forme del buon gusto e dalle leggi del buon senso, un utopista, sia pure, che è, insieme, un causeur divertentissimo: qualche cosa di raro, di bello, e, sopra tutto, di sincero.
- La pertinacia incrollabilmente fiduciosa è la caratteristica della sua progressiva operosità. E. A. Butti ha avuto la forza di resistere alle suggestioni dello scoraggiamento che prende l'artista quando si vede ripetutamente non compreso e non apprezzato.
Egli conobbe presto i sibili d'un pubblico che distrugge in tre ore il frutto d'una lunga fatica[1]
Note
[modifica]- ↑ La commedia Il Signore dall'abito bianco, rappresentata a Sassuolo, fu «sepolta, sotto una grandine di fischi».
Bibliografia
[modifica]- Enrico Annibale Butti, L'immorale, Editrice Galli, 1894.
- Enrico Annibale Butti, Né odî né amori. Divagazioni letterarie, Fratelli Dumolard Editori, Milano, 1893.
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