Ugo Ojetti

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Ugo Ojetti

Ugo Ojetti (1871 – 1946), scrittore, critico d'arte e giornalista italiano.

Citazioni di Ugo Ojetti[modifica]

  • [Ritorno dal pascolo di Francesco Filippini] è un dipinto desolato in cui le pecore tosate sembrano assumere valore di simbolo, con quel tramonto sanguigno là in fondo”[1]
  • [In occasione della morte di Giulio Aristide Sartorio] Era un lavoratore infaticabile, di una puntualità meticolosa. Gli offrivano, in una esposizione, una sala di tanti metri. Rispondeva che, per il giorno tale, avrebbe consegnato tanti paesi di metri e di centimetri tanti, e ancora non ne aveva dipinto uno; ma arrivava, con le sue casse, all'ora promessa. Per il fregio del parlamento si vantava tranquillo, di aver dipinto in novecentotrenta giorni, duecentottantacinque figure di uomini e di animali su quattrocentocinquanta metri di tela. Teneva questa tela avvolta sopra un gran rullo diritto, e la tela dipinta faceva ogni settimana un passo, come dicono i meccanici, di tanti metri, non uno di meno.[2]
  • Gli uomini di genio e i dominatori secondo l'intrepido Woltmann, erano tutti alti biondi dolicocefali, compreso Gesù Cristo. Se Napoleone, Voltaire, Kant erano bassi ed erano bruni, ci si salvava col colore degli occhi e con l'indice cefalico! Tutti i busti dei Cesari in Campidoglio mostravano il tipo germanico nel cranio e nella faccia.[3]
  • L'architettura è nata per essere fondamento, guida, giustificazione e controllo, ideale e pratico, d'ogni altra arte figurativa.[4]
  • L'Edera, dipinta nel 1878, pochi mesi prima di morire, fu il massimo sforzo del Cremona per creare con la sua nuova tecnica un gran quadro. E fu anche il suo quadro più sincero, forse l'ultimo grido di passione della pittura lombarda prima di ripiegare le ali nel verismo.[5]
  • L'Italia è un Paese di contemporanei senza antenati né posteri perché senza memoria di se stesso.[6]
  • [Adolfo Wildt] La sua voce ha alti e bassi improvvisi: o grida o bisbiglia. Di corpo egli è piccolo e lieve, agile a cinquantasett'anni quanto un adolescente. I capelli son radi, grigi, corti e ritti. Sul volto raso, ossuto quanto un teschio, la pelle elastica e bruna si distende o si raggrinza in smorfie eccessive. Si direbbe che per un niente egli voglia dare al suo volto il massimo dell'espressione, con quel poco che ha. Tutto è mobile, occhi, sopracciglia, palpebre, narici, labbra, orecchie, e tutto si sposta su quella faccia cubica a distanze inaspettate. Le sopracciglia ecco, si congiungono ad angolo ottuso sul mezzo della fronte, componendo una maschera tragica e plorante, che tien del giapponese. D'un tratto si distendono, si separano, si pacificano, e tra l'una e l'altra restano quattro dita di pelle nuda.[7]
  • Noi abbiamo qualche puro disegnatore che nulla ha da invidiare a certi acclamati francesi. Basterebbe nominare tre nomi: Cesare Pascarella, Luigi Arnaldo Vassallo e Pietro Scoppetta, i quali farebbero con una collezione dei loro disegni patetici o ironici, mollemente sensuali o rudemente sintetici, la fama di qualunque esposizione.[8]
  • Parlare di razza e cercare le origini ataviche nell'arte d'uno scultore o d'uno scrittore è fuori moda, e m'inchino; ma oso sfidare anche Benedetto Croce, se vedesse i tragici contorcimenti e i simboli astrusi di quest'arte, a non gridare al tedesco e a non pensare che Mathias Grünewald[9], ad esempio, abbia suggerito a Adolfo Wildt vesti, volti, gesti, mani, spasimi e svenimenti. Ho scelto pel paragone un pittore perché i marmi di Wildt traforati, assottigliati, lucidati, tanto che ogni raggio e riflesso vi si frantumano e immillano, suggeriscono a noi italiani il confronto prima con la pittura che con la scultura come l'intendiamo noi da Vulca[10] a Canova.[11]
  • [Su Henry de Montherlant] [...] uno scrittore muscoloso e spietato, anzi insolente, formatosi, carattere e stile, nella guerra e nello sport più rischioso, tanto che s'è perfino esercitato in parecchie corride a fare da espada. Nelle lodi dei corpi belli e dell'ardimento continuo e del franco piacere, lo stesso D'Annunzio sembra meno sfrontato di lui perché spesso attutisce l'urto con l'olimpica evocazione degli antichi e dell'arte.[12]

Bello e brutto[modifica]

  • Chi vuol conoscere Luca Signorelli, deve salire a Orvieto, non solo perché nella cappella Nuova al duomo egli descrivendo il gran Giudizio e i premi e le pene d'oltretomba ha dipinto il suo capolavoro, ma anche perché vi vedrà due ritratti che v'ha lasciati di sé stesso in quell'età di sessant'anni, tanto vivi e fieri da valere cento biografie. (p. 44)
  • Molti pittori mutano Dio ogni stagione. Al loro confronto un merito di Felice Casorati è d'essere monoteista. Per questo riconosci le opere di lui al primo sguardo, sode, semplici, chiare, ben bilicate, un poco gelate dalla magica geometria come si conviene al secolo calcolatore; e per questo tanti giovani lo seguono, così che ha più scolari lui nel suo studio che i professori di pittura nelle Accademie. (p. 268)
  • [Domenico Morelli] [...] sceneggiatore insuperabile e anche melodrammatico, animo ardente la cui fiamma troppo spesso si spegneva nel sospiro d'un bozzetto. (p. 275)

Cose viste[modifica]

  • [A proposito di Benito Mussolini] Labbra diritte, mandibole prominenti, mento quadrato, è il suo volto fisso, volontario, diciamo classico. (v. I)
  • Se a taluno degli assidui più melomani si chiede quale è stato l'evento più straordinario tra tante bellezze, è probabile che risponda essere stata la stecca d'un tenore meritamente celebre all'ultimo atto d'un'opera non tutta degna, ormai, d'essere celeberrima.
  • Si è sempre i meridionali di qualcuno. (In casa del Petrarca)
  • Odio il punto esclamativo, questo gran pennacchio su una testa tanto piccola, questa spada di Damocle sospesa su una pulce, questo gran spiedo per un passero, questo palo per impalare il buon senso, questo stuzzicadenti pel trastullo delle bocche vuote, questo punteruolo da ciabattini, questa siringa da morfinomani, questa asta della bestemmia, questo pugnalettaccio dell'enfasi, questa daga dell'iperbole, quest'alabarda della retorica. Quando, come s'usa nei nostri tempi scamiciati, ne vedo due o tre in fila sul finir d'un periodo, che sembrano gli stecchi sul didietro di un'oca spennata, chiudo il libro perché lo sento bugiardo. Adesso v'è anche chi te l'accoppia con l'interrogativo, che par di veder Arlecchino appoggiato a Pulcinella. Tanto odio questa romantica lacrimuccia nera quando la vedo sgocciolare sulla povera candida pagina, che in essa mi immagino di scoprire or la causa or l'effetto, certo il chiaro simbolo di tutti i mali delle nostre lettere, arti e costumi. E se potessi far leggi, bandirei il punto esclamativo dalla calligrafia, dalle tipografie, dalle macchine da scrivere, dall'alfabeto Morse, con la speranza che a non vederlo più gli italiani se ne dimenticassero anche nel parlare e nel pensare, e pian piano espellessero dal loro sangue questo microbio aguzzo il quale dove arriva fa imputridire i cervelli e la ragione e rimbambisce gli adulti, acceca i veggenti, instupidisce i savi, indiavola i santi... Il punto esclamativo è il servo scemo dell'interiezione.
  • [Castel Sant'Angelo] Salgo fino alla terrazza. Che gloria! Nel tepore che avvolge questo decembre mentre si viene addormentando nell'inverno, nell'aria limpida che dietro l'Aventino, dietro il Quirinale, dietro il Pincio, dietro i Parioli rivela, dagli Albani ai Sabini, tutti i monti lontani con quel tanto di neve in cima che separi il loro azzurro dall'azzurro del cielo, ci si sente leggeri, schiariti, esilarati. E si capisce che anche questo gran San Michele quassù ringuaini la spada.
    Vi saranno cento persone stamane su questa terrazza, felici come me, lo sguardo imbambolato dalla gran luce. Tutto popolo. E c'è chi si protende dal parapetto a guardare, e resta così immobile come aspettasse l'ali per partire a volo. C'è chi si sdraia per terra, contro il muro del mastio, lasciandosi imbevere di sole e di cielo. E ognuno è solo. Anche gl'innamorati si dividono, svuotati e rapiti da questa immensità. No: c'è un omone tarchiato e sanguigno che in romanesco spiega a due amici di provincia nientemeno che «l'idea del Bernini». Ha tratto di tasca una grossa chiave, l'ha volta verso San Pietro: – Ecco quale era l’idea del Bernini. Voleva rifare a forza di porticati la chiave di San Pietro. L'occhio della chiave, lo vedete, l'ha fatto: è il porticato rotondo, quello là, davanti alla basilica. La canna della chiave doveva venir giù per Borgo fino a qui sotto, fino a Ponte Sant’Angelo. Ponte Sant'Angelo, in fondo, sarebbe stato il rettangolo cogl'ingegni della chiave. Capite? Ma il progetto, al papa non gli piacque. Diceva: Li forestieri lassamoli venì su ste straducce e pe' sti vicoli: cosi quanno arrivano davanti a la piazza, je fa più effetto. Capite come fu? Era un papa che ragionava fino. — Ma i due non gli dànno più retta. Anche loro sono partiti in sogno, e stanno a guardare il fiume giallo, Borgo Vecchio, San Pietro, i palazzi del papa e, dietro, gli alberi del Giardino, color di ruggine. (vol I, 1921-1927, Sansoni, Firenze, stampa 1951, pp. 210-211)

Garibaldi piange[modifica]

  • Un sottufficiale di marina m'apre il cancello. Sono nel cortile della casa di Giuseppe Garibaldi.
    Si sa, questo luogo sembra di conoscerlo a mente. La prima volta lo vidi che ero bambino, in una stampa dell'Emporio Pittoresco: il pino a due tronchi, e ai suoi piedi il sedile, e di fronte il fico; la casetta nana con due finestre e una porta, la prima casa che egli costruì a Caprera; e accanto, l'altra appena più alta, di legno.
  • Sul masso di granito che chiuse la salma in nero: «Garibaldi». Ecco, mi torna all memoria che in quella stampa di quando ero bambino si vedeva presso la sua casa lui stesso in piedi, di faccia, appoggiato alle sue grucce.
  • Garibaldi s'è rifugiato, s'è riposato qui; ma ha vissuto altrove, là dove ha agito, là dove c'erano uomini contro lui o dietro a lui, da villa Pamphily a Bezzecca, dove:
    s'udivano | passi in cadenza ed i sospiri | de' petti eroici nella notte.[13]

I nani tra le colonne[modifica]

  • [Attilio Selva] [...] uno dei pochi scultori giovani che sappia di quanta architettura è fatta la scultura [...]. (cap. I, p. 78)
  • Il Dazzi ha due meriti, innegabili e memorabili: d'aver voltato le spalle al pregiudizio delle statue vestite, e d'aver trovato, dopo due o tre tentativi, una linea netta solida caratteristica, d'impeto e pur d'equilibrio. Adesso che ha vinto [il concorso per il monumento a Enrico Toti], deve acquietarsi e meditare: deve cioè, in obbedienza a questa bella linea monumentale e a quest'espressione già tanto ben definita, modellare la sua statua senza enfasi. (cap. I, p. 82)
  • Il Dazzi, di Carrara, laborioso, animoso, espertissimo nell'arte sua, seppe spesso frenarsi e parlare con semplicità: la testa colossale del Toti qui è la prova di questa sua forza. [...].
    La statua di Enrico Toti nella gran luce d'una piazza o d'un parco romano dovrà sembrare con la sua gamba monca, quasi un frammento d'una statua antica che la passione abbia per prodigio rianimata e lanciata contro gl'immutabili barbari, a uccidere e a morire. (cap. I, p. 83)
  • C'è per poco a Bologna una bella piazza di più: una piazza con quattro torri. Due le conosce tutto il mondo: la Garisenda e quella degli Asinelli. Le altre due, pare che fino a cinque o sei anni fa non le conoscesse più nessuno, nemmeno per sentito dire: la torre degli Artenisi e la torre dei Riccadonna. Sono venute fuori, rosse e rozze, dalle demolizioni del centro di Bologna tra via Mazzini e via Capreria, ma potenti e imponenti sebbene i loro venticinque metri d'altezza sieno una statura da casa borghese in confronto ai quarantasette metri della Garisenda e ai novantotto della Asinelli regina del cielo. E si sposano così bene, nella stessa piazza, a quelle due, col colore e con le linee, e rivelano súbito con tanto pittoresca evidenza al passante più distratto, l'aspetto della fiera Bologna di sette od otto secoli fa, tutta torri, che si rimane estatici a guardarle, il cuore in sogno. (cap. III, p. 184)
  • Bell'uomo, alto, adusto e muscoloso, con quella timidezza di gesto che hanno i marinai troppo alti e troppo grossi in confronto all'angustia delle loro cuccette e cabine, conoscevo bene Romano Romanelli e la storia della sua passione per l'arte. [...], Romano aveva lasciato anni fa la sua carriera di marinaio per l'amore della scultura, e non più giovanissimo s'era messo a studiare e a modellare con un fervore di assiduità che poteva servire d'esempio ai tanti genii svogliati e divini della «sensibilità» oggi di moda. (cap. IV, p. 216)
  • I modellatori di medaglie, antichi e nuovi, si possono, alla fine, ridurre a due specie: quelli che appiattiscono e ricamano teste e invenzioni così da uguagliarne il rilevo al cordone del contorno, e la loro arte minuta e gentile tiene ancóra della moneta; quelli che più arditi trattano la medaglia a gran chiaroscuro come un bassorilievo, né temono aggetti e spessori purché distribuiti e pesati con norma d'arte e severamente stretti dalla morsa della forma rotonda, come furono «i medaglioni di getto» del Pisanello e dei suoi imitatori veneti, lombardi e toscani del quattrocento. Già ai primi del cinquecento, col Cellini, col Leoni, col Pastorino, si tornava verso la finezza e la minuzia della moneta dove l'orafo ammansa spesso e stanca la foga dello scultore. ( cap. IV, p. 218)
  • In questo libro [Scoperte e massacri][14] i bei messia sono Renoir e Cézanne; e nessuno aveva finora parlato di loro agl'italiani con l'amore e la conoscenza con cui qui ne parla Ardengo Soffici. Egli possiede una qualità che una volta era tipicamente toscana: la qualità didattica. Si sente che, ad esporre con chiarezza le idee più astruse, è felice per sé prima che pel vantaggio dei lettori. Ad esempio la «teoria del movimento nella plastica futurista» è enunciata da lui più limpidamente che dallo stesso Boccioni. (cap. IV, p. 229)
  • [...] la più importante raccolta di scultura [nella Esposizione di Torino del 1919] è quella esposta dal triestino Attilio Selva. Già due anni fa a Roma, in una mostra nella casina sul Pincio, egli aveva riunito alcune opere sue; ma qui la maturità del suo sapere, la cosciente pienezza del suo stile sono più chiaramente visibili anche perché si tratta di tutti lavori recenti. Cere e gessi; nessun lavoro di grandi dimensioni. Ma v'è tanta prontezza di sensibilità. tanta freschezza d'espressione, tanto fine scelta dei particolari in questi volti dell'Adolescente e di Marcellina; v'è nei due nudi, Susanna ed Enigma, un ritmo di linee così riposato e così chiuso e insieme un così sano amore della bella verità che mi è caro ripetere ancora una volta essere Attilio Selva una delle più sicure speranze della giovane scultura italiana. (cap. IV, p. 242)

I taccuini[modifica]

  • Il gran male di d'Annunzio è stato circondarsi di gente meschina e piccola che, vicino a lui, ascoltando lui si credeva subito geniale, divina, infallibile. (p. 63)
  • V'era anche a far da spettatore Palazzeschi, una gamba sull'altra, una mano sull'altra appoggiate al ginocchio, immobile: gatto sornione, e amico fidato. (p. 315)

La decima esposizione d'arte a Venezia - 1912[modifica]

  • [...] Vittorio Pica, uomo di gusto sicuro, di prudenti giudizii e, nell'arte contemporanea, di molta dottrina. (p. 14)
  • Ludwig Dettmann, dal trittico del Lavoro esposto qui nel 1895 alla Colazione esposta nel 1907, è stato sempre rappresentato a Venezia da opere più importanti di queste; anzi vi è anche oggi rappresentato meglio dalle due tele che sono da anni nella Pinacoteca civica del Palazzo Pesaro. Al sano realismo d'una volta succedette in lui, sulle tracce dell'Uhde, un misticismo un poco duro e tedesco che faceva discendere angeli e visioni raggianti sulle scene più semplici e famigliari dei contadini della bassa Germania. Poi la sua tavolozza si cominciò ad appesantire, le forme vennero a svanire in un pennelleggiare sporco e disordinato che manca di gusto, di chiarezza e di misura. (p. 33)
  • Pietro Canonica ha raccolto in una sala quattordici sculture sue non tutte egualmente lodevoli. Modellatore squisito ed insistente, d'una delicata finezza nei busti femminili come provano qui il busto schivo e malinconico della principessa Doria-Pamphily e quello aperto e imperioso di donna Franca Florio, d'una dolcezza tenerissima nel rendere i volti infantili, come in questo piccolo gesso della principessina Murat degno di Houdon e di Pajou, egli talvolta vuol giungere al patetico e al tragico e gli mancano le ali, perché altra è la sua indole. Allora crea questa Pietà, questo Abisso, questo Crocifisso dove alcune parti sono modellate con fermezza ma manca il vigore della sintesi e come nel volto o nelle mani del Crocifisso, si ricorre, per trovar l'espressione dello spasimo, ad un realismo trito ed antiquato senza forza d'emozione. (p. 41)
  • [...] non dico [...] che uno scultore come il Canonica debba limitarsi a scolpire busti di donne o bimbi, sebbene nell'antichità scultori deliziosissimi come il Laurana abbiano tranquillamente fatto con quelli la loro gloria. V'è qui un busto in bronzo del generale Scheremetzeff (il Canonica in questi ultimi anni ha lavorato molto in Russia con un successo che ricorda quello ottenuto lassù nel settecento da tanti nostri pittori, ritrattisti come lui) la cui testa scarna e tagliente è un esempio d'arte sobria ed energica. Dico solo che egli dovrebbe conoscere meglio i propri confini e vivervi contento perché son già vasti ed egli può regnarvi in pace di lavoro. (p. 41)
  • Il Lerche nella sua inestinguibile passione per la ricerca delle novità, non solo di forma ma anche di materia, in tutte le arti decorative, s'è chiuso per mesi nella vetreria Toso a Murano e, disdegnando le forme tradizionali settecentesche in cui quest'arte s'è venuta da anni volgarizzando e isterilendo, ha creato e crea vasi e piatti di vetro di nuove fogge con pesci, molluschi, farfalle, schizzati con brio, scintillanti dei più accesi eppure armoniosi colori di pasta di vetro tra il vetro. (p. 43)

Ottocento Novecento e via dicendo[modifica]

  • Quando ai primi del secolo [XIV], la nuova fabbrica [del duomo di Orvieto] minacciò, dalla parte dell'abside, di rovinare, gli orvietani chiesero consiglio a un architetto senese, Lorenzo Maitani, figlio d'uno scultore Matano che era, sembra, come tanti altri lapicidi e marmorari, d'origine maremmana. Lorenzo salì più volte ad Orvieto, e sono suoi, a rifianco dell'abside e della tribuna, gli archi e gli speroni contro i quali poi vennero erette la Cappella del Corporale e la Cappella Nuova [...]. (p. 91)
  • [...] Giacomo Serpotta palermitano, morto duecento e due anni addietro, lavorava in stucco, e tanto ha operato, sempre nella sua Sicilia e sopra tutto a Palermo che, artigiano perfetto, doveva anche procedere con una sicurezza e velocità meravigliosa,
    e con opra indefessa
    stupida far la maraviglia istessa,
    come scrisse il poeta don Vincenzo Parisi quando nel 1719 furono scoperti gli stucchi nell'Oratorio di San Domenico. (p. 109)
  • [Giacomo Serpotta] Scultore di stucco, si chiamava da sé; e tanto rapido, gentile, lustro e guizzante era nel modellare che talune sculture le firmava con una lucertola, traducendo dal dialetto il suo nome in una figura. (pp. 109-110)
  • Giuseppe Maria Crespi, bolognese, detto lo Spagnolo, sembra, dal modo d'abbigliarsi, si formò alla scuola specialmente del Burrini[15] ma studiò i quadri del Guercino giovane più avvolti di luce, e dei veneziani; e fu anche affrescante, come si vede a Bologna nel palazzo Pepoli. Da prima con questi contrasti d'ombre e di luci seppe costruire solide composizioni di grande rilievo; poi sulle creste delle luci il suo colore finì a sfumare fresco e iridato, tra bianco, grigio e violetto, con una invenzione improvvisa e inesausta. (p. 125)
  • Le pieghe e giunture delle carni sono spesso un poco tonde e flosce e, con l'oscurarsi delle parti in ombra, le luci e i brilli che modellano volti, gesti e vesti, sembrano guizzare sull'unto. Ma il Crespi è un pittore che sempre si diverte nel dipingere, e che nella pennellata di tocco ha da essere paragonato, per quanto più savio, all'indiavolato Magnasco[16] suo contemporaneo. (p. 125)
  • Lo Steppes è [...] un paesista innamorato delle rocce dolomitiche, dei cieli azzurri rigati da nuvole bianche, dei piccoli laghi alpini, tondi e immobili come specchi. Ha un pennello minuto ed esperto, e un attentissimo senso dell'ora su quelle solitudini eccelse; e ogni suo paese è orchestrato sopra poche note di colore con una commovente delicatezza. (p. 160)

Più vivi dei vivi[modifica]

  • [Piero della Francesca] Era per lui la figura umana come un'architettura, e le sue architetture dipinte respirano nello spazio col ritmo con cui l'uomo respira. Questo sovrano dell'arte e della scienza pittorica, costruttore d'uomini e di donne che sembrano tutti destinati a comandare o a regnare, modelli d'umanità, per l'intrepidezza dell'animo, la dignità del portamento, la bellezza del volto, la semplicità maestosa delle vesti, questo sovrano, dico, ha informato del suo esempio la pittura ferrarese. (p. 75)
  • A Schifanoia[17], Francesco del Cossa descrive la vita della corte e della città sotto Borso[18] con una scioltezza e un'eleganza che dovette allora, tra scene dal vero e ritratti, soddisfare a gara donne e cavalieri. Il colorire schietto, le forme giovanili ed agili ma anche sode e piene, la fedeltà al vero così spontanea e costante che le tre Grazie muscolose, ritte sull'alta rupe, si direbbero, meglio che nude, spogliate, col taglio del busto ancora segnato sulla vita, mettono nelle scene serene e nelle figure gradevoli un che di popolano, di muscoloso e d'ardito. (p. 84)
  • In Francesco del Cossa, l'arte o, meglio, lo stile resta sempre padrone e signore del vero. (p. 85)
  • Con Ercole Roberti, alla felicità della forza e della salute s'aggiunge quella della grazia. Le figure vivono in una placida luce e se ne avvolgono e la respirano. (pp. 85-86)
  • Tutto è chiaro ed equilibrato [in Ercole Roberti], con una punta di mondanità, quale si addice al pittore caro ad Eleonora [d'Aragona], all'artista che pel matrimonio d'Isabella [d'Este] e per quello di Beatrice d'Este disegnò e ornò fino il letto nuziale. (p. 86)
  • [...] si può dire che la pittura ferrarese sia col Roberti assurta ormai alla serenità della pittura fiorentina e veneziana, dove la natura più che osservata è contemplata, più che copiata è scelta, e lo spettatore, più che percosso dalle dure parole e dalle rotte grida, è rapito dalla musica delle forme e dei colori. (p. 86)
  • [...] dal Battistello[19], e dallo Stanzione[20] deriva Bernardo Cavallino, l'anima più gentile, poetica e tassesca fra tutti costoro [gli altri maestri della pittura napoletana del Seicento], con la grazia ombrosa e pieghevole delle sue giovani sante, con la sua pennellata leggera e piumosa, con le sue sete spiegazzate, gli azzurri languidi, i grigi di perla, i bruni infocati che si spengono nel pallore dei volti. (p. 189)
  • Luca Giordano [...], fiacco di disegno, ardito di colore, fu sul finire del Seicento il più rinomato dei nostri pittori in tutta Europa, da Madrid dove affrescò, fino a Costantinopoli dove mandò tele ammirate. Bastano i ritratti da lui dipinti e le vaste e pingui naturemorte a darci il rimpianto di quel ch'egli avrebbe potuto fare se avesse preferito la qualità alla quantità e l'arte al guadagno. (p. 197)

Sessanta[modifica]

  • Uno dei vantaggi del piacere sul dolore è che al piacere puoi dire basta, al dolore non puoi. (II)
  • La coscienza è un dialogo che facilmente diventa alterco. E allora finisce purtroppo ad aver ragione quello dei due che grida più forte e più a lungo: l'istinto. (III)
  • A paragone del presente sembra bello il passato perché gl'imbecilli defunti nessuno li ricorda. (IV)
  • Grassa pigrizia quella per cui si chiama Dio tutto ciò che non si riesce a spiegare. Dio sarebbe la somma della nostra ignoranza? (VI)
  • La noia è un'invenzione degl'infingardi. (VII)
  • Sì, la coscienza è uno specchio. Almeno stesse fermo. Più lo fissi, invece, e più trema. (VIII)
  • Una puntura di zanzara, prude meno, quando sei riuscito a schiacciare la zanzara. (IX)
  • Vedi di non chiamare intelligenti solo quelli che la pensano come te. (X)
  • Voler dimenticare il passato è come voler dimenticare la legge di gravità. Si può fare un salto, ma chi lo fa deve, quando ricade, essere più attento di chi ha fatto soltanto un passo. (XI)
  • Sia benedetta la bugia che ci lascia vivere e che si chiama speranza. (XIII)
  • Vecchio è chi più non desidera che, comunque, vivere. Di questi vecchi alcuni hanno solo ventanni. (XV)
  • Dubitare di sé stesso è il primo segno dell'intelligenza. (XVI)
  • La giovinezza non sta nel mutare idee e passioni ogni giorno, ma nel provare ogni giorno le proprie idee e passioni contro la realtà, per vedere se tagliano. (XVIII)
  • Chi descrive il proprio dolore, anche se piange è sul punto di consolarsi. (XIX)
  • La felicità è un modo di vedere. (XXI)
  • Il libro che più m'ha consolato in questa vita, mi rincresce, non è d'un italiano: è Montaigne. Potessi quella sera portarlo con me e lassù rileggermelo, guardando ogni tanto tra due nuvole la dolce terra... (XXIV)
  • Per meglio sopportare un dolore dell'animo immagina che sia un dolore del corpo, e che una ferita d'amore o d'amor proprio sia una ferita della carne: rimarginata in cinque o dieci giorni, guarita in venti. E per tanto poco ti disperi? (XXVII)
  • Quello che non si scrive, è perduto. Quello che è scritto male, è come se non fosse scritto. (XXVIII)
  • Se vuoi offendere un avversario, lodalo a gran voce per le qualità che gli mancano. (XXXIII)
  • Credi nella bellezza e nel suo fascino eterno, in questa vita e forse nell'altra. (XXXV)
  • Molte anime nobili amano il prossimo loro soltanto quando è miserabile, ammalato, agonizzante; quando insomma sono sicure della loro superiorità. (XXXVI)
  • Non aspettare che il vento gonfi la vela della tua fortuna. Soffiaci dentro da te. (XXXIX)
  • Essere un mediocre non è una pena. La pena è accorgersene. Ma è un mediocre chi s'avvede d'esserlo? (XLII)
  • Si chiama diritto quel momento in cui la forza si riposa e prende respiro. (XLIV)
  • Triste dote l'esperienza. Vuol dire che a rileggere la mia pagina stampata, vi scorgo più difetti di quelli che vi scorgevo a trent'anni. E doppio è lo sforzo per ricominciare. (XLV)
  • Consiglio a un giovane cronista: — Se vuoi carpire una notizia, di' che già la sai. (LV)
  • Nelle polemiche sui giornali la sola difesa valida è l'assalto. (LVIII)
  • Piegare il più crudele e inflessibile padrone nostro, il tempo, obbligarlo ad allungarsi, ad abbreviarsi, a interrompersi, a pesare o a volar via a nostro piacimento, ecco il miracolo della musica. Ed è giusto, per questo miracolo, chiamarla divina. (LIX)
  • Una donna, in ogni consiglio che dà, anche senza volerlo mette un poco del proprio vantaggio. Segui pure il consiglio, ma prima misura quel vantaggio. (LX)
  • Il disprezzo del passato o è ignoranza o è paura. (LXVI)
  • L'uomo che afferma "Io posso quel che voglio" è un impotente. (LXXIII)
  • Se non hai nemici, fattene. Solo i tuoi nemici perderanno tempo a parlare di te. A parlarne male? Che te ne importa? (LXXV)
  • La fede è d'oro, l'entusiasmo è d'argento, il fanatismo è di piombo. (LXXVII)
  • Il giornalista è il solo scrittore che, quando prende la penna, non spera nell'immortalità. (XCVI)
  • Amare al buio, dormire al sole, mangiare in silenzio: tre sciocchezze. (CII)
  • Se vuoi ingiuriare qualcuno, ingiurialo con amabilità. (CIII)
  • L'amore in questo assomiglia a Dio: per raggiungerlo bisogna crederci. (CIX)
  • Dì bene del tuo nemico soltanto se sei certo che glielo andranno a ripetere. (CXI)
  • La solidarietà è la forza dei deboli. La solitudine è la debolezza dei forti. (CXIII)
  • Dai libri che leggi, posso giudicare della tua professione, cultura, curiosità, libertà. Dai libri che rileggi, conosco la tua età, la tua indole, quello che hai sofferto, quello che speri. (CXIX)
  • La donna innamorata non perdona le offese che le ha fatto il suo uomo, le dimentica. L'uomo innamorato non dimentica le offese fattegli dalla sua donna, le perdona. (CXLIII)
  • A odiare perdi tempo e salute. A disprezzare guadagni l'uno e l'altro. (CLVIII)
  • Se vuoi assaporare la virtù, pecca qualche volta. (CLXXI)
  • L'ignoranza è la palpebra dell'anima. La cali, e puoi dormire e anche sognare. (CXCVI)
  • Forse l'esperienza giova a questo o a quell'uomo. All'umanità non giova a niente. (CCXLII)
  • Fammi un favore, e siimene grato. (CCXCI)
  • Il male è che la generosità può anche essere un buon affare. (CCLXXVI)
  • II rimpianto è il passatempo degl'incapaci. (CCLXXIX)
  • L'astuto è un uomo intelligente che ha paura d'essere un imbecille. (CCCXXVIII)
  • Un amico t'ha rubata l'amante? Gli perdonerai. Tu hai rubato l'amante a un tuo amico? Non gli perdonerai mai. (CCCL)[21]
  • Il genio senza ingegno è una barca senza remi.
  • Niente assomiglia tanto a una donna onesta quanto una donna disonesta della quale tu ignori le colpe.
  • Quando la donna che t'ama, ti loda, non t'insuperbire: loda sé stessa.
  • Quando la tua donna sarà sicura di farti felice soltanto col suo amore, sii sicuro che per te comincia l'infelicità.

Citazioni su Ugo Ojetti[modifica]

  • È un dimenticato, Ojetti, come in questo Paese lo sono quasi tutti coloro che valgono. Se io dirigessi una scuola di giornalismo, renderei obbligatori per i miei allievi i testi di tre Maestri: Barzini, per il grande reportage; Mussolini (non trasalire!), quello dell'Avanti! e del primo Popolo d'Italia, per l'editoriale politico; e Ojetti, per il ritratto e l'articolo di arte e di cultura. (Indro Montanelli)
  • L'Ojetti è rappresentativo da più punti di vista: ma la codardia intellettuale dell'uomo supera ogni misura normale. (Antonio Gramsci)
  • Quella vecchia canaglia di Ojetti, che dicono stia tirando le cuoia per galanterie nocive ai settantenni, ha per me due definizioni. La pubblica: «L'acuto e amaro Cajumi»; la privata: «Un limone sotto aceto». (Arrigo Cajumi)

Luigi Federzoni[modifica]

  • Egli è quello che i francesi chiamerebbero un manieur d'idées. La qualità più spiccata della sua mente – una curiosità di continuo sveglia e pronta a rivolgersi verso le cose più disparate – lo rende, per dir così, atto a percepire tutte le vibrazioni precorritrici d'ogni cosa che si agiti per l'aria. Questo fa sì ch'egli sia e paia sempre all'avanguardia, ch'egli preferisca sembrar troppo moderno piuttosto che incline a qualche sosta ideale: il che spiega, anche, se non giustifica, certe sue intemperanze di odî e d'amori.
  • Egli è socialista: la qual cosa a molti sembra in flagrante contraddizione con la caramella, i panciotti e i viaggi in sleeping-car dello scrittore viveur: sì che dubitano della sua sincerità. Non ne dubito io, che vedo in questo atteggiamento politico d'un giovane nato e cresciuto in una società conservatrice, il medesimo spirito di sbrigliata opposizione da cui egli è stato condotto a buttare all'aria tanti idoli, anche sacrosantamente venerabili, nel tempio dell'arte. Cominciò appunto per «fronda»: ma all'energia assorbente di quel partito è assai difficile resistere, né egli resistette; e divenne un socialista pronto, convinto e quasi disciplinato.
  • Egli è un grande e costante lavoratore; e veste con l'eleganza di un ricco gaudente, e frequenta salotti e palcoscenici. Egli discute con un'eccellenza o con un altro qualsiasi monumento nazionale ambulante, intorno a un tema gravissimo; e, mentre reca nella discussione la facilità e la facondia del suo coltissimo intelletto, osa intermettere agli alti ragionamenti il frizzo e la botta satirica. Parimenti, in un articolo di giornale o di rivista, approfondisce ed esaurisce un argomento, così, sorridendo, senza affaticare il lettore e senza ch'egli stesso paia mai affaticarsi...
  • Sotto i panni e le abitudini di un giovanotto del bel mondo, sotto la volubile gaiezza della sua conversazione, Ugo Ojetti nasconde la maturità di un carattere fermamente e solidamente volontario, che lo tien lontano dal più spaventoso pericolo, quello delle intime stanchezze spirituali; un carattere supremamente moderno, materiato com'è di scetticismo e di ottimismo, abbastanza scettico per non illudersi e non entusiasmarsi, abbastanza ottimista per non sfiduciarsi e non addormentarsi.

Note[modifica]

  1. Citato in Francesco Filippini, il dossier. Uno splendido pittore morto a 42 anni di tisi, stilearte.it, 4 novembre 2015.
  2. da Corriere della Sera, 6 ottobre 1932; citato in Vittorio Sgarbi, Davanti all'immagine, RCS Rizzoli Libri, Milano, 1989, p. 187. ISBN 88-17-53755-1
  3. Da L'Italia e la civiltà tedesca, Ravà & C. - Editori, Milano, 1915, p. 28.
  4. da L'architettura (Commenti), in Dedalo, 6.1925/26, p. 412.
  5. da Artisti contemporanei: Tranquillo Cremona, in Emporium Rivista mensile illustrata d'arte letteratura scienze e varietà, Istituto italiano d'arti grafiche Bergamo - Editore, volume XXXVIII, ottobre 1913, n. 226, p. 261.
  6. Citato in Indro Montanelli, Il caro indimenticabile Virgilio Lilli, Corriere della Sera, 2 dicembre 2000.
  7. da Lo scultore Adolfo Wildt, in Dedalo, Anno VII, 1926/27, vol. II, p. 452.
  8. da L'arte moderna a Venezia. Esposizione mondiale del 1897, Enrico Voghera Editore, Roma, 1897, p. 214.
  9. Mathis Gothart Nithart, meglio noto come Matthias Grünewald (1480 circa-1528), pittore tedesco noto per la drammaticità visionaria dei suoi temi di carattere religioso.
  10. Scultore etrusco del VI secolo a.C.
  11. da Lo scultore Adolfo Wildt, in Dedalo, Anno VII, 1926/27, vol. II, pp. 442-443.
  12. da Ragazze, Corriere della Sera, 27 settembre 1936, p. 3.
  13. Cfr. Giosuè Carducci, A Giuseppe Garibaldi, in Odi barbare, vv. 5-7.
  14. Ardengo Soffici, Scoperte e massacri. Scritti sull'arte, Vallecchi, Firenze, 1919.
  15. Giovanni Antonio Burrini (1656 – 1727), pittore italiano.
  16. Alessandro Magnasco, detto il Lissandrino (1667 – 1749), pittore italiano.
  17. Palazzo Schifanoia, edificio di Ferrara.
  18. Borso d'Este (1413 – 1471) figlio illegittimo di Niccolò III d'Este e della sua favorita Stella de' Tolomei.
  19. Giovanni Battista Caracciolo, detto Battistello (1578 – 1635).
  20. Massimo Stanzione (1585 – 1656).
  21. Secondo quanto riportato in Sessanta, questa citazione non è stata scritta da Ojetti, ma da lui ritrovata su alcuni fogli dal titolo Consigli a me stesso se per prodigio tornassi giovane fra le pagine di una copia del 1548 delle Prose di Agnolo Firenzuola, appartenuta a un suo zio.

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