Fernaldo Di Giammatteo

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Fernaldo Di Giammatteo (1922 – 2005), critico cinematografico e storico italiano.

  • [Su Stazione Termini] Film commerciale? No, non si direbbe che De Sica sia sceso tanto in basso, al contrario, qui c'è lo sforzo di conservare ad ogni costo la propria dignità (non le aspirazioni artistiche, si capisce) e l'indubbia capacità di attuare questo proposito. Non è il caso di essere spietati con Stazione Termini, perché si commetterebbe un grossolano errore [...]. Il film è stato visto anche come un esercizio di stile. [...] La situazione romantico-moralista trattata da De Sica, secondo i pochi convinti suggerimenti di Zavattini, si inquadra in un certo senso (e dunque, supera di molto i confini dell'esercizio di stile) in quelle vaghe correnti cinematografiche e letterarie insieme, che si sono profilate da poco tempo in Italia e che appaiono [...] molto sensibili alla sfiducia e alla accorta debolezza di tanta parte della nostra borghesia.[1]
  • [Su Nosferatu il vampiro] Il film è un confronto 'metafisico' fra le pulsioni che si contendono il dominio della psiche. Confronto nel quale la presenza del vampiro – il non morto che deve essere ricacciato negli abissi della coscienza – ha valore di pretesto e di esplicitazione visiva: il conte Orlok-Nosferatu è la materializzazione di un'idea astratta, mentre il conte Dracula del romanzo è il signore di un regno delle tenebre che tiene in ostaggio tutti coloro cui accade di avvicinarlo e che può essere sconfitto, e riconsegnato definitivamente alla morte, solo ricorrendo agli esorcismi della superstizione popolare (l'aglio, la rosa selvatica, il crocifisso, l'ostia consacrata), poiché la superstizione – ricorda il saggio professore olandese – “è stata prima fede di uomo e nella fede ha sue radici”. Che lo spunto sia uguale (il viaggio di un agente immobiliare in Transilvania per trattare la vendita di una proprietà: a Londra nel romanzo, a Wisborg in Germania nel film), che esistano corrispondenze fra alcuni personaggi (Jonathan Harker è l'Hutter del film, Mina è Ellen) e fra certi episodi della vicenda (il viaggio della goletta con il vampiro a bordo, la peste) non significa molto, perché non solo la struttura tematica è completamente diversa ma anche l'impianto narrativo – pletorico e confuso nel romanzo, prosciugato e lineare nel film – segue un andamento opposto, concludendosi quello letterario con la uccisione di Dracula per sgozzamento e infissione di un paletto nel cuore, e quello filmico con il sopraggiungere dell'alba che incenerisce Nosferatu. Infine, Dracula è zeppo di morti e di vampiri (il vampirismo è come una epidemia, chi ha ceduto il suo sangue a un vampiro diventerà vampiro a sua volta) mentre Nosferatu culmina nella scomparsa del vampiro e nella morte della donna che gli si è offerta.[2]
  • Otto e mezzo è un film stupefacente. Teso nello sforzo di appendere allo schermo, come un trofeo, la sua psicologia, Fellini ha compiuto un salto pericoloso e spettacolare. Ha dovuto inventarsi una lingua nuova, morbida e flessuosa, che non ripetesse le convenzioni del racconto tradizionale. C'è riuscito. Il suo esperimento è una delle cose più stimolanti che, da questo punto di vista, abbia fatto il cinema italiano, pur così facondo oggi di tentativi e di invenzioni. Costretto a seguire unicamente il ritmo delle sue fantasticherie, ha saputo eliminare i confini tra la realtà e il sogno per immergersi in una nuova dimensione temporale che non ha alcun rapporto con la vita e che — insieme — non precipita mai nelle deformazioni surrealistiche o espressionistiche.[3]

Note[modifica]

  1. Da Rassegna del Film, maggio 1953; citato in Stazione Termini, cinematografo.it.
  2. Da Tra Stoker e Freud, ilcinemaritrovato.it.
  3. Da Bianco e nero, anno XXIV, n. 4, aprile 1963; citato in Otto e Mezzo, federicofellini.it.

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