Gianni Rocca

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Gianni Rocca (1927 – 2006), giornalista italiano.

Stalin[modifica]

Incipit[modifica]

Quando fu chiaro che anche Gorbaciov, al pari di Kruscev, per sbarazzarsi di un ingombrante passato, ricorreva alla demonizzazione, nacque nell'Autore l'irresistibile desiderio di «rileggere» Stalin. Fu davvero ed esclusivamente – come si vorrebbe far credere – un despota asiatico, un tiranno sanguinario, il traditore del leninismo, un incidente di percorso nella Rivoluzione d'Ottobre, un paranoico, un pazzo? Ma chi se non Stalin, il bolscevico, con le armi che gli erano state fornite da Lenin – dittatura del proletariato, partito unico, disprezzo per tutti i valori «borghesi» – seppe industrializzare la Russia, in pochi anni, battere la Germania di Hitler nel più grande scontro militare di tutti i tempi, trasformare il corrotto e feudale paese degli Zar nella superpotenza che si contrappone da oltre quarant'anni agli Stati Uniti d'America?

Citazioni[modifica]

  • [Il quarto giorno del XIV Congresso del PCUS del 1925] Kamenev, il bolscevico della vecchia guardia, uno dei prediletti di Lenin, il compagno d'esilio di Stalin, rompe gli indugi e va alla tribuna. Parlerà per cinque ore, dimostrandosi assai più abile di Zinoviev. Ormai aveva compreso che il punto chiave della lotta nel partito era diventato Stalin. Lui andava colpito, non altri. Due i cardini del suo intervento: il gensek[1] è prigioniero di una linea profondamente errata, quella di Bucharin; i suoi poteri sono diventati eccessivi. (cap 14, p. 125)
  • Alla testa della «rifondata» organizzazione [della NKVD] viene posto Genrich Jagoda, il quale aveva percorso tutta la carriera di poliziotto del regime sotto Dzerzinski prima, e Menzinski poi. Un uomo abile professionalmente, ma cinico, sempre attento a volgere le vele dove soffiava il vento, seguace di Bucharin negli anni in cui questi era nella cresta dell'onda e subito abbandonato nel momento della disgrazia. (cap. 22, p. 220)
  • Pochi forse sapevano che quell'uomo [Jagoda] dal volto gonfio e viscido era già da tempo un «prigioniero» del gensek, abile collezionista di dossier compromettenti sui suoi collaboratori. Un altro esponente della GPU[2], Triliser, un giorno, gli aveva portato dei documenti tratti dagli archivi zaristi e dai quali Jagoda sembrava compromesso con la vecchia Ochrana[3]. Stalin rimproverò aspramente chi tanto aveva osato contro un suo superiore, ordinandogli di tacere sulla scoperta. Ma quelle carte rimasero nelle sue mani... (cap. 22, pp. 220-221)
  • Nulla di più errato sarebbe comunque ritenere che le grandi purghe del 1937-38 fossero opera di poche migliaia di sadici aguzzini agli ordini «materiali» di Ezov e «politici» di Stalin. Tutto il corpo del partito e dello Stato sovietico erano direttamente partecipi, sia pur con diversi livelli di responsabilità. Inspiegabile, difatti, sarebbe la rassegnata passività dei colpiti e la mancanza di qualsiasi solidarietà organizzata, «politica», nei confronti delle vittime. Al di là dell'efficiente macchina del terrore ezoviana, Stalin poteva contare, dirigendo quella battaglia, sul suo carisma – ormai fortissimo nel paese – ma anche sull'appoggio di quanti vedevano nelle selvagge epurazioni la possibilità di emergere, di scalzare dirigenti e funzionari che ai loro occhi erano sembrati sin allora potenti e inamovibili. (cap. 28, p. 289)
  • Attraverso la contraffazione di una lettera autografa di Tuchacevski − non difficile da realizzare visti gli intensi scambi epistolari a suo tempo intercorsi fra militari tedeschi e sovietici – e di altrettanto credibili lettere di risposta di generali della Wehrmacht, gli uffici specializzati della Gestapo riuscirono a mettere insieme un dossier dal quale appariva netto il «tradimento» di Tuchacevski che chiedeva aiuto ai nazisti, da questi subito concesso.
    Lo scopo dei tedeschi era chiaro: approfittare del clima di tensione già esistente in URSS per indebolire, con quella provocazione, l'Armata Rossa. (cap. 28, p. 298)
  • Jakir, uomo cordiale e allegro, si ribella in carcere alle infami accuse che gli vengono attribuite. Scrive una lettera a Stalin, rivendicando la sua fedeltà al partito e a lui personalmente, che Stalin così postillerà: «Furfante e cortigiano». (cap. 28, p. 301)
  • È stato calcolato, con l'approssimazione delle cifre non ufficiali, che nei due anni del Grande Terrore – 1937-1938 – circa cinque milioni di cittadini sovietici siano finiti negli ingranaggi della NKVD[4] di Ezov, e che il 10% di quella colossale cifra sia stata messa a morte attraverso processi più o meno rapidi seguiti da fucilazione, o da immediate esecuzioni, che «privilegiavano» i colpiti evitando loro l'atroce agonia dei prolungati interrogatori e delle relative torture per strappare le denunce di altri compagni. Il resto sarebbe finito nei gulag a scontare pene del tutto arbitrarie, troncate spesso dalla morte dopo infiniti stenti. (cap. 29, p. 303)
  • Alla ripresa [dell'udienza] Jagoda (immaginabili quali siano state le pressioni e i ricatti su di lui esercitati) si presenta «ammorbidito». Ammette tutto, non è più quello di poche ore prima quando in tono sprezzante aveva risposto a Viscinski: «Io dirò quello che voglio dire io, non trascinatemi più in là». Una frase che era apparsa minacciosa alle orecchie di tutti, quasi un preannuncio di chissà quali sconvolgenti verità. Quell'uomo, un tempo potente capo della NKVD, appariva adesso come annientato, e con appena un filo di voce. Il documento che stava leggendo era la sua definitiva capitolazione. (Fu in quel processo che molti cominciarono a sospettare che, al di là delle pressioni fisiche, fossero somministrati agli imputati «ribelli» delle sostanze che ne sfibrassero la volontà di resistenza e la capacità di pensare.) (cap 29, p. 315)
  • L'8 dicembre [del 1938] Ezov viene definitivamente destituito dalla carica di capo della NKVD. Al suo posto saliva il georgiano Beria, grande adulatore e amico di Stalin. Parve ai più una svolta positiva. Nel quindicesimo anniversario della morte di Lenin, il 21 gennaio 1939, il nome di Ezov sarebbe apparso per l'ultima volta in calce a un pubblico documento. Da quel giorno si sarebbe dissolto nel nulla. C'è chi ritiene sia stato subito passato per le armi, e chi sostiene che abbia finito i suoi giorni, completamente pazzo, in un manicomio criminale. (cap. 30, p. 322)

Explicit[modifica]

I funerali [di Stalin] furono grandiosi. Il popolo sovietico attonito, sgomento era in lacrime. Come i comunisti di tutto il mondo. Ovunque risuonavano parole di omaggio all'inflessibile uomo di acciaio, al capo bolscevico, all'erede di Lenin, al costruttore del primo paese socialista, al vincitore di Hitler, al leader delle masse oppresse di tutto il mondo. Durante i giganteschi incolonnamenti della folla moscovita verso la bara di Stalin si verificarono resse spaventose. Centinaia di persone furono travolte dalla pressione della gente che continuava, implacabile, ad avanzare. Era l'ultimo «tributo» della Russia al suo gensek, un finale di tregenda degno dei grandi zar della Santa Russia. Nei gulag, sparsi in tutta l'Unione, le solenne note dell'Eroica che accompagnavano il lento procedere della salma di Stalin, nel suo ultimo cammino, parevano ai detenuti come il lieve soffio del vento, quando s'annuncia la primavera.

Note[modifica]

  1. Acronimo del russo general'nyj sekretar' (segretario generale).
  2. Acronimo del russo Gosudarstvennoe političeskoe upravlenie (Direttorato politico dello Stato) polizia segreta sovietica dal 1922 al 1934.
  3. Ochrannoe otdelenie (Sezione di sicurezza) polizia segreta della Russia zarista.
  4. Acronimo del russo Narodnyj komissariat vnutrennich del (Commissariato del popolo per gli affari interni).

Bibliografia[modifica]

  • Gianni Rocca, Stalin. Quel "meraviglioso" georgiano", Le Scie, II edizione, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1989. ISBN 88-04-31388-9

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