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Giona A. Nazzaro

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Giona A. Nazzaro

Giona Antonio Nazzaro (1965 – vivente), critico cinematografico e scrittore svizzero naturalizzato italiano.

Citazioni di Giona A. Nazzaro

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Citazioni in ordine temporale.

  • [Su Henry Koster] Rappresentante esemplare del cinema hollywoodiano medio dell'epoca classica, fu dotato di un tocco leggero e arguto e si specializzò nella realizzazione di film modesti ma sempre salutati da un notevole successo di pubblico. Regista d'attori, legò il suo nome a interpreti amati dal pubblico come Deanna Durbin, Betty Grable e James Stewart, specializzandosi in musical e commedie per famiglie.[1]
  • [Su Henry Koster] I tratti salienti della produzione di K. furono subito evidenti: sceneggiature ben calibrate, interpreti efficaci e gradevoli e una regia costantemente al servizio dell'intreccio e pertanto pressoché invisibile [...]. Questo stile volutamente sottotono permise al regista di porsi al servizio degli studios garantendogli una reputazione di efficace e affidabile artigiano.[1]
  • Dopo il disastro di Giallo, film indegno persino delle più sciagurate produzioni filippine del compianto Bruno Mattei, anche il fan più sfegatato di Dario Argento non poteva far altro che gettare la spugna. Per cui la notizia di un Dracula stereoscopico interpretato da Thomas Kretschmann e Rutger Hauer non poteva non evocare scenari disastrosi. E invece no. Con un minimo di obiettività, non può non riconoscere che in questo Dracula c'è del buono. Argento sceglie un approccio, come dire?, vecchia scuola rispetto alle mode vampiresche del momento che vogliono i succhiasangue anemici ed emo come in Twilight o gay e pansessuali come in True Blood. Come ai tempi di Riccardo Freda o Renato Polselli, Argento realizza un film ottocentesco. Vittoriano. Si ricorda della Hammer, ovviamente, e firma un film avvolto in un'ambientazione elegante e realistica, gioca con la profondità di campo, e si diverte a inondare di sangue le scene più crude.[2]
  • Last Days on Mars di Ruairi Robinson si riallaccia sin dalla prima inquadratura all'incompreso Mission to Mars di Brian De Palma. [...] il film mette immediatamente in luce una sorprendente capacità narrativa in grado di sintetizzare velocemente snodi narrativi obbligati senza rinunciare per questo a una credibile stratificazione dei personaggi.[3]
  • [In Kreuzweg - Le stazioni della fede] Brüggeman, nonostante corteggi con grande impegno un cinema trascendentale, fatica a trasmettere la vertigine dello scandalo del sacro o, meglio, di ciò che trascende la sfera della comprensione umana. La passione di Maria, adolescente che desidera offrire la sua giovane vita a Dio affinché il fratellino Johannes, forse affetto da autismo, possa iniziare a parlare, non convince mai del tutto. Il fascino un po' acerbo, e tutto di intenzione di Kreuzweg sta nell'idea che fissità equivalga a trascendenza. Brüggeman ambisce allo stordimento dell'indicibile raggiunto nell'ascesi formale, privando però il suo film dell'ossigeno necessario a farlo vivere, pulsare come organismo cinematografico (mentre è noto che Dio come il Diavolo si muove negli interstizi). Certo, il film possiede una potenza massimalistica innegabile, plumbea, e il gioco della corrispondenza delle stazioni con quelle della protagonista è orchestrata con grande intelligenza.[4]
  • Il film [Kreuzweg] si offre allo sguardo attraverso il suo approccio osservazionale. E la contraddizione di Brüggeman è nel volere evocare il sacro da un discorso eminentemente politico [...]. Invece il miracolo, soprattutto al cinema, non si spiega, lo si fa vedere all'opera. E lo si mostra, stando alla lezione di registi come Pialat, come discontinuità del reale, come possibilità di uno scandalo, come segno dell'occhio che vede troppo o troppo poco. Brüggeman, purtroppo, ancorato alla sceneggiatura della sorella [...] resta prigioniero del suo progetto formale e ideologico senza riuscire a compiere il balzo, filmico, verso l'ineffabile. Kreuzweg è anche un film potente ma irrisolto, che mentre da un lato progetta di lasciare le porte aperte all'indicibile, le chiude senza remore. In questo senso, piuttosto che corteggiare Dreyer, modello irraggiungibile, sarebbe stato utile ripassare la lezione di Ulrich Seidl.[4]
  • Sarebbe banale cedere alla tentazione di pensare che il magnifico A Hidden Life rappresenti un'abiura dei film realizzati da Malick dopo The Tree Of Life. Questo nuovo fondamentale tassello nel percorso del regista statunitense opera infatti una straordinaria fusione fra le esigenze di un racconto lineare e uno sguardo in grado di esplorare lo spazio come in volo perenne, teso fra cielo e terra.[5]
  • Che gli ultimi anni della produzione di Terrence Malick siano stati fraintesi è a dir poco un eufemismo. In questo senso La Vita Nascosta non cambierà probabilmente molto il modo in cui il cinema del regista statunitense viene considerato. Ed è un vero peccato, visto che il film si può annoverare senza problema alcuno fra gli esiti maggiori di una ricerca formale e filosofica che non ha eguali nel cinema contemporaneo.[6]
  • La progressione di Brandon Cronenberg è stata esponenziale e nulla ha a che fare con il suo essere figlio di David. Certo, l'esordio Antiviral evidenziava punti di contatto con la poetica del genitore, mentre Possessor, poco considerato anche fra i seguaci del genere, rivelava un'evoluzione sorprendente che però non lasciava certo immaginare il salto quantico di Piscina infinita: presentato al Sundance 2023, il film rappresenta senz'ombra di dubbio la dichiarazione politica più audace del regista.[7]
  • [In Piscina infinita] Brandon Cronenberg mette in scena un puntualissimo saggio sulla fine del dolore e della morte, e intrecciando indissolubilmente il concetto di colpa alla punizione, e la punizione al dolore, crea un teatro della dissoluzione del patto sociale di rara lucidità. Il punto terminale della storia coincide con la fine del corpo inteso come esperienza unica e non riproducibile. Come se avesse spostato dall'opera d'arte al sistema della punizione le riflessioni di Benjamin sulla riproducibilità, Cronenberg mette in piedi un processo nitidissimo di derealizzazione del principio di realtà. Burroughsianamente, niente è vero e tutto è permesso.[7]

ilmanifesto.it, 6 ottobre 2017.

  • Nata il 14 maggio del 1947 a Berlino, figlia di Claire Mauriac e del diplomatico Yvan Wiazemsky, nipote dell'accademico di Francia François Mauriac, la futura attrice e scrittrice è la discendente diretta di una famiglia aristocratica russa rifiugiatasi in Francia subito dopo la rivoluzione d'ottobre.
  • Anne Wiazemsky ha rievocato le circostanze dell'incontro dei suoi genitori, avvenuto a Berlino, nel volume Mon enfant de Berlin. Dopo avere trascorso l'infanzia fra Ginevra e Caracas, rientra in Francia nel 1961. Alla morte del padre, avvenuta poco dopo, con la madre si reca a vivere dal nonno François, cui la legherà sempre un affetto profondo e tenero nonostante le divergenze che li separavano nei confronti della religione.
  • L'incontro con Robert Bresson, che le offrirà il ruolo di protagonista di Au hasard Balthazar, avviene tramite l'intermediazione di Florence Delay. Il regista realizzerà il film rispettando scrupolosamente gli impegni scolastici della ragazza. Ed è sul set del film che Jean-Luc Godard e Anne Wiazemsky s'incontrano per la prima volta. Lei ricorda che Godard sul set si muoveva con circospezione, in evidente adorazione del maestro, prestandole poca attenzione, anzi mostrandosi addirittura sgarbato.
  • La famiglia di Wiazemsky non vede di buon occhio questa relazione che sembra mettere in pericolo i loro «piani» per lei. La relazione con Godard è vissuta da entrambi con immenso trasporto, al punto che al momento del loro matrimonio semiclandestino, avvenuto a Begnins, in Svizzera, Godard tenta di convincere in tutti i modi il sindaco che celebra il matrimonio di prendere lui il nome della moglie e viceversa.
  • La relazione con Godard s'interrompe nel 1970, nonostante i due continuino a collaborare. Nonostante le obiezioni di Godard, geloso, Anne Wiazemsky inizia a essere richiesta come interprete anche da altri registi. Nel 1968, Pier Paolo Pasolini la chiama per interpretare Teorema. Ammirando Pasolini, Godard non può che cedere.
  • Inevitabilmente, il ‘68 e gli anni immediatamente successivi sono quelli su cui si concentra l'attenzione dei cinefili anche se l'attrice e scrittrice lavora duramente per sottrarsi al cono d'ombra del marito, come testimonia il premio Goncourt ottenuto nel 1993 per il suo romanzo Canines. Cinque anni dopo ottiene il Grand Prix du roman de l'Academie française per Une poignée des gens. Nel 2007 vince il Jean-Freustié per Une jeune fille. Anche nel cinema continua a lavorare collaborando con Philippe Garrel (L'enfant secret e Elle passé trop d'heures sous les sunlights), Claire Denis e André Techiné, fra gli altri. 

Note

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  1. a b Da KOSTER, Henry, in Enciclopedia del Cinema, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2003.
  2. Da La recensione su Dracula 3D, filmtv.it, 20 novembre 2012.
  3. Da Il Manifesto, 22 maggio 2013; citato in Last Days On Mars, mymovies.it.
  4. a b Da Il Manifesto, 29 ottobre 2015; citato in Kreuzweg - Le stazioni della fede, cinematografo.it.
  5. Da Rumore, 2 luglio 2019; citato in La vita nascosta - Hidden Life, mymovies.it.
  6. Da Rumore, 1° febbraio 2020; citato in La vita nascosta - Hidden Life, mymovies.it.
  7. a b Da La fine del corpo, filmtv.it, 20 luglio 2023.

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