Vai al contenuto

William Faulkner

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
(Reindirizzamento da L'urlo e il furore)
William Faulkner, 1954, fotografia di Carl Van Vechten
Medaglia del Premio Nobel
Medaglia del Premio Nobel
Per la letteratura (1949)

William Cuthbert Faulkner (1897 – 1962), scrittore statunitense.

Citazioni di William Faulkner

[modifica]
  • [Chi scrive] Deve imparare da sé che la più vile di tutte le cose è avere paura.[1]
  • Fra il dolore e il nulla io scelgo il dolore.[2]
  • Il nome di un uomo, in genere considerato una semplice espressione di quel che un uomo è, può in qualche modo essere una sorta di presagio di quel che sarà, se si riesce ad afferrarne in tempo il significato.[3]
  • L'uomo fa molto più di ciò che può o deve sopportare. E così finisce col credere di poter sopportare qualunque cosa. E questo è il terribile. Che possa sopportare qualunque cosa, qualunque cosa.[4]
  • L'uomo non capisce quello che è un bene per lui neanche quando se lo ritrova sotto il naso.[5]
  • La salvezza del mondo sta nella sofferenza dell'uomo.[6]
  • Molto spesso un uomo è la somma delle sue disgrazie.[7]
  • Scopo di ogni artista è arrestare il movimento, che è vita, con mezzi artificiali, e tenerlo fermo ma in tal modo che cent'anni dopo, quando un estraneo lo guarderà, torni a muoversi, perché è vita.[8]
  • Sognate e mirate sempre più in alto di quello che ritenete alla vostra portata. Non cercate solo di superare i vostri contemporanei o i vostri predecessori. Cercate, piuttosto, di superare voi stessi.[9]
Non sforzarti di essere migliore degli altri, cerca di essere migliore di te stesso.
  • Vivere in un qualsiasi angolo del mondo oggi ed essere contro l'uguaglianza per ragioni di razza e colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve.[10]

Attribuite

[modifica]
  • Gli artisti immaturi copiano. I grandi artisti rubano.[11]
[Erroneamente attribuita] La citazione viene spesso attribuita erroneamente a Faulkner. La prima attribuzione risale al 1974 ma non vi sono riscontri effettivi tra i suoi scritti o le sue dichiarazioni ufficiali. Una prima versione di questa frase sembra risalire al 1892, quando William Henry Davenport Adams s'espresse a proposito della produzione artistica, benché si riferisse più ai poeti che agli artisti in senso lato: «i grandi poeti imitano e migliorano, mentre quelli piccoli rubano e si rovinano.» Poi, nel 1920, Thomas Stearns Eliot scrisse (riferendosi però sempre ai soli poeti): «I poeti immaturi imitano; i maturi rubano.» Nel 1959 comparve per la prima volta una frase simile in cui per l'appunto si faceva riferimento agli artisti e non ai poeti nello specifico: «Gli artisti immaturi prendono in prestito; gli artisti maturi rubano.» Versioni leggermente diverse di questa citazione sono state in seguito attribuite, oltre allo stesso Faulkner (1974), a Stravinskij (1967) ed a Picasso (1988).[12]

Santuario

[modifica]

Da dietro lo schermo di cespugli che circondava la sorgente, Popeye guardava l'uomo che beveva. Un sentiero appena visibile portava dalla viottola alla sorgente. Popeye guardò l'uomo – un uomo alto e magro, senza cappello, con un paio di vecchi pantaloni di flanella grigia e una giacchetta di tweed sul braccio – venire giù per il sentiero e inginocchiarsi a bere alla sorgente.
La sorgente scaturiva alle radici di un faggio e fluiva su un fondo sabbioso ondulato a volute. Era i circondata da un folto di canne, rovi, cipressi e eucalipti sul quale, come dal nulla, si posavano chiazze di luce. Da qualche parte, nascosto, segreto e tuttavia vicino, un uccello cantò tre note e tacque.
Alla sorgente, l'uomo che beveva teneva il viso accostato alle miriadi di infranti riflessi del suo bere. Quando si tirò su, vide in mezzo ad essi il riflesso scheggiato della paglietta di Popeye, anche se non aveva sentito alcun rumore.
Vide, che lo fissava di là della sorgente, un uomo minuto, le mani nelle tasche della giacca, una sigaretta che gli pendeva sul mento. Indossava un vestito nero, con una giacca stretta e corta. I pantaloni, rimboccati una volta, erano incrostati di fango sopra le scarpe infangate. Il viso era di uno strano colore esangue, come visto alla luce elettrica; contro il silenzio assolato, con quella paglietta di traverso e i gomiti un po' in fuori, aveva la piatta crudeltà della latta pressata.

Citazioni

[modifica]
  • «Già» disse la donna. Si voltò di nuovo verso il fornello. «Sono io che cucino. Cucino per magnaccia, per sfigati, per mezzi matti. Già. Cucino, io.» (cap. 1, p. 15)
  • Tutto quello che volevo era solo una collina dove sdraiarmi. (Horace Benbow: cap. 2, p. 21)
  • Lei vide l'albero che bloccava la viottola, ma tutto quello che fece fu puntellarsi di nuovo. Le parve fosse la logica conclusione disastrosa della serie di circostanze nella quale si era trovata coinvolta. Rimase lì seduta, rigida, a osservare in silenzio mentre Gowan, che sembrava guardare diritto davanti a sé, andava a sbattere contro l'albero a venti miglia all'ora. L'automobile urtò, rimbalzò all'indietro, poi tornò a picchiare contro l'albero e si rovesciò su una fiancata. (cap. 4, p. 41)
  • «Oh, le conosco quelle come te» disse la donna. «Donne oneste. Troppo per bene per avere a che fare con la gente comune. Uscite di nascosto coi ragazzini, ma aspetta che arrivi un uomo». Rigirò la carne. «Prendete tutto quello che potete, ma dare, niente. "Sono una ragazza pura, io; io non le faccio, certe cose". Esci di nascosto coi ragazzini, gli consumi la benzina, ti fai pagare la cena, ma appena ti mette gli occhi addosso un uomo svieni perché tuo padre giudice e i tuoi quattro fratelli potrebbero disapprovare. Ma basta che ti trovi nei guai e da chi corri a piangere? da noi, da quelli che non sono degni neanche di allacciargli la scarpe onnipotenti, al signor giudice». Da sopra il bambino Temple fissava la schiena della donna, il viso come una piccola maschera pallida sotto il cappellino storto. (cap. 7, p. 59)
  • «Un uomo? Tu un uomo vero non l'hai mai visto. Tu neanche lo sai cosa sia esser voluta da un uomo vero. E ringrazia il cielo che non t'è mai successo e non ti succederà mai, perché se no scopriresti quel che vale quel bel faccino, e tutto il resto di te a cui credi di tenere tanto, quando invece ne hai soltanto paura. E se lui è abbastanza uomo da darti della puttana, dirai Sì Sì e ti trascinerai nuda per terra e nel fango perché te lo dica ancora... Dammi quel bambino.» Temple stringeva il piccino fissando la donna, la bocca che si muoveva come se stesse dicendo Sì Sì Sì. La donna buttò la forchetta sul tavolo. «Mollalo» disse, prendendo il bambino. Lui aprì gli occhi e diede un lamento. La donna tirò a sé una seggiola e si sedette, il bambino in grembo. «Me lo prendi uno di quei pannolini stesi là fuori?» disse. Temple restava lì impalata, le labbra che continuavano a muoversi. «Hai paura a andarci, eh?» disse la donna. Si alzò. (cap. 7, p. 61)
  • Guardò l'ultima luce condensarsi nel quadrante dell'orologio, e il quadrante trasformarsi da tondo orifizio nella penombra a disco sospeso nel nulla, il caos originale, e di nuovo trasformarsi in uno sfera di cristallo che nelle sue immobili, misteriose profondità conteneva il caos ordinato del mondo intricato e indistinto sui cui fianchi sfregiati le antiche ferite roteano a folle velocità verso la tenebra entro la quale si appostano nuove sciagure. (cap. 18, p. 144)
  • Che cos'è che fa pensare a un uomo che la donna che sposa o che genera potrebbe, sì, comportarsi male, ma tutte quelle che non ha sposato né generato si comporteranno male di sicuro? (cap. 19, p. 157)
  • «Il tempo non è poi questo gran male, dopotutto. Basta usarlo bene, e si può tirare qualsiasi cosa, come un elastico, finché da una parte o dall'altra si spacca, e eccoti lì, con tutta la tragedia e la disperazione ridotta a due nodini fra pollice e indice delle due mani.»
    «Resti o non resti, Horace?»
    «Penso che resterò» disse Horace. (cap. 20, p. 172)
  • In capo a un anno ci morirà, o finirà in manicomio, da quel che succede su in quella camera tra quei due. C'è qualcosa di strano che ancora non ho capito. Forse è lei. Non è nata per questa vita. Bisogna esserci nati, per questo, come bisogna esser nati per fare il macellaio o il barbiere, immagino. Nessuno lo farebbe solo per guadagnare o per divertirsi. (cap. 23, p. 205)
  • La voce della notte – insetti, quello che fossero – lo aveva seguito in casa; capì d'un tratto che era la frizione della terra sul suo asse mentre si avvicinava il momento in cui doveva decidere se continuare a girare oppure rimanere ferma per sempre: una palla immobile nello spazio raggelante attraverso il quale, come fumo gelido, si avvitava uno spesso odore di caprifoglio. (cap. 23, p. 207)
  • Fuori, nell'aria fresca del mattino, Horace prese a respirare profondo. «Si riempia i polmoni» disse. «Una nottata in quel posto basterebbe a far venire il delirium tremens a chiunque. L'idea di tre persone adulte... Mio Dio, certe volte mi convinco che siamo tutti bambini, eccetto i bambini. ma oggi sarà l'ultimo giorno. A mezzogiorno uscirà libero: se ne rende conto?» (cap. 27, p. 258)

Era stata una giornata grigia, un'estate grigia, un'annata grigia. Per strada i vecchi indossavano il cappotto, e nei Giardini del Lussemburgo, mentre passavano Temple e suo padre, le donne sedevano a lavorare a maglia avvolte nei loro scialli e anche gli uomini che giocavano a croquet giocavano in cappotto e mantelline, e nella triste oscurità dei castagni il secco schioccare delle palle e le grida occasionali dei bambini avevano un che di autunnale, di coraggioso ed evanescente e desolato. Da dietro la rotonda con la sua spuria balaustra greca, rappresa di movimento, pervasa da una luce grigia dello stesso colore e della stessa tessitura dell'acqua che la fontana si divertiva a far ricadere nella vasca, veniva una continua cascata di musica. Proseguirono, oltrepassarono la vasca dove i bambini e un vecchio con un misero cappotto marrone facevano navigare le loro barchette, e entrarono di nuovo sotto gli alberi e trovarono da sedersi. Immediatamente una vecchia arrivò con decrepita prontezza a riscuotere quattro sous.
Sotto il padiglione, una banda vestita del blu orizzonte dell'esercito suonava Massenet e Skrjabin, e Berlioz come una leggera spalmatura di torturato Čajkovskij su una fetta di pane stantio, mentre il crepuscolo si dissolveva in umidi barlumi dai rami, sul padiglione e sui funghi severi degli ombrelli. Ricchi e sonori gli ottoni si abbattevano e morivano nello spesso crepuscolo verde, rotolando su di loro in tristi onde opulente. Temple sbadigliò al riparo della mano, poi tirò fuori uno specchietto e lo aprì su un visino in miniatura imbronciato, scontento e triste. Suo padre le sedeva accanto, le mani incrociate sul pomo del bastone, la rigida barra dei baffi perlata di umidità come argento ghiacciato. Temple richiuse lo specchietto, e da sotto l'elegante cappellino nuovo parve inseguire con gli occhi le onde della musica dissolversi negli ottoni morenti, al di là della vasca e dell'antistante semicerchio di alberi dove, a severi intervalli, meditavano le morte, tranquille regine di marmo maculato, e via verso il cielo che giaceva prono e vinto nell'abbraccio della stagione della pioggia e della morte.

L'urlo e il furore

[modifica]

Sette aprile 1928
Al di là dello steccato, fra i rampicanti, potevo vederli giocare. Procedevano verso la bandiera, ed io li seguivo, lungo lo steccato. Luster frugava fra l'erba, sotto l'albero in fiore. Sfilavano la bandiera e colpivano la palla. Poi rimettevano a posto la bandiera, andavano sul terrapieno, prima tirava uno, poi l'altro. Procedevano ancora, ed io ancora a seguirli, lungo lo steccato. Luster si allontanava dall'albero in fiore, avanzavano lungo lo steccato, si fermavano, ci fermavamo anche noi, mi mettevo a guardare fra i rampicanti, mentre Luster frugava nell'erba. «Attento, caddie». Tir. Si allontanarono, attraversando il prato. Aggrappato ai pali dello steccato, li guardavo che si allontanavano.

Citazioni

[modifica]
  • I nomignoli sono una cosa volgare. Li usa solo la gente ordinaria. (Sette aprile 1928, 1997, p. 55)
  • È un pezzo che scappi, disse Jason, ma non sei mai andata piú in là dell'ora di cena. (Sette aprile 1928, 1997, p. 62)
  • Quando l'ombra del telaio si disegnò sulle tendine era tra le sette e le otto del mattino, e fui di nuovo dentro il tempo, sentendo il ticchettio dell'orologio. Era quello del nonno e quando me lo diede il babbo disse: Quentin, eccoti il mausoleo di ogni speranza e desiderio; è molto probabile, purtroppo, che te ne serva anche tu per ottenere il reducto absurdum di ogni umana esperienza, che non farà per i tuoi bisogni individuali piú di quanto fece per i suoi o per quelli di suo padre. Non te lo do perché tu possa ricordarti del tempo, ma perché ogni tanto tu possa dimenticarlo per un attimo e non sprecare tutto il tuo fiato nel tentativo di vincerlo. Perché, disse, le battaglie non si vincono mai. Non si combattono nemmeno. L'uomo scopre, sul campo, solo la sua follia e disperazione, e la vittoria è un'illusione dei filosofi e degli stolti. (Due giugno 1910, 1997, p. 67)
  • Non è quando capisci che nulla può aiutarti – religione, orgoglio, qualsiasi cosa – è quando capisci di non aver bisogno di nulla. (Due giugno 1910, 1997, pp. 70 sg.)
  • Parlavano tutti insieme, con voci insistenti e impazienti, contraddittorie, trasformando una cosa irreale in una possibilità, poi in una probabilità, poi in un fatto incontrovertibile, come fa la gente quando i suoi desideri diventano parole. (Due giugno 1910, 1997, p. 104)
  • Mi sembra che la gente, che tanto si fa usare dalle parole, sia coerente almeno in questo: nell'attribuire saggezza a una lingua immota; […]. (Due giugno 1910, 1997, p. 105)
  • Io non prometto mai niente a una donna, e non le faccio capire che cosa ho intenzione di darle. È l'unico modo per tenerle a bada. Lasciarle sempre nell'incertezza. (Sei aprile 1928, 1997, p. 173)
  • Sono lieto di non avere una di quelle coscienze che si devono sempre incoraggiare come un cucciolo malato. (Sei aprile 1928, 1997, p. 203)
  • I bianchi danno i quattrini ai negri perché sanno che il primo bianco che arriva con una banda se li riprende, e allora il negro si rimette a lavorare per guadagnarne degli altri. (p. 16)
  • Sono sempre le abitudini oziose quelle che si rimpiangono. (p. 63)
  • Quel che vi è di meglio nel pensiero si aggrappa come edera morta su vecchi mattoni morti. (p. 79)
  • Un uomo vivo è meglio di qualsiasi uomo morto, ma nessun uomo vivo o morto è molto migliore di qualsiasi altro uomo vivo o morto. (p. 84)

Incipit di alcune opere

[modifica]

La città

[modifica]

Io non ero ancora nato, ed era così il cugino Gowan ad esserci, ed era grande abbastanza per vedere e ricordare e aggiornarmi più tardi quando anch'io fui grande abbastanza per capire. Cioè, fu il cugino Gowan più lo zio Gavin, o forse meglio lo zio Gavin più il cugino Gowan. Lui – il cugino Gowan – aveva tredici anni. Suo nonno era il fratello del nonno, e così, quando si arrivava a noi, lui e io non sapevamo in quale grado eravamo cugini. Lui chiamava tutti quanti noi, salvo il nonno, «cugini», e noi tutti, salvo il nonno, chiamavamo lui «cugino», e in questo modo ogni cosa era a posto.[13]

Luce d'agosto

[modifica]

Seduta sul ciglio della strada e guardando il carretto che s'avvicina, Lena pensa: «Arrivo dall'Alabama. Un bel pezzo di strada a piedi, dall'Alabama fin qui. Un bel pezzo di strada».[14]

Non si fruga nella polvere

[modifica]

Era mezzogiorno preciso quella domenica mattina che lo sceriffo giunse alla prigione con Lucas Beauchamp anche se la città intera (e d'altronde l'intera Contea) sapeva dalla sera prima che Lucas aveva ucciso un bianco.[15]

Requiem per una monaca

[modifica]

Il tribunale è meno antico della città, che sorge sul volgere del secolo come centro di scambio di un agente chickasaw e tale per quasi trent'anni prima di scoprire, non di non aver un deposito per i suoi documenti e certamente non di avere bisogno, ma che soltanto costituendolo o comunque decidendo di costituirlo si poteva far fronte a una situazione che altrimenti avrebbe fatto rimettere quattrini a qualcuno;

Citazioni su William Faulkner

[modifica]
  • Dio mio, Dio mio, non possiamo pubblicarlo. Finiamo tutti in prigione. (Rapporto di lettura, Santuario, 1931)[16]
  • E allora il sospetto molto fondato è che Faulkner non sia molto popolare [fra gli statunitensi meridionali] perché non coltivava il vittimismo anti-yankee. Conosceva, inoltre, un'arte davvero difficile, che forse nessun altro ha mai posseduto in quel grado sublime: quella di descrivere, seguendone con precisione gli andamenti, i rapporti sociali tra bianchi ed ex schiavi, dolci o crudi che fossero, senza mai dare giudizi di alcun tipo, ma anche senza mai smettere di farti toccare con mano il fatto che si trattava di rapporti tra uomini. Non è banale come potrebbe sembrare. Anzi: è quasi impossibile, a meno di non scrivere un comizio o un'omelia, evitare di trasmettere l'impressione che un nero sia un nero e poi, a pensarci bene, per via di certe dichiarazioni dei diritti, anche un uomo. Quando un romanziere attuale ci prova, finisce che se non stai spasmodicamente attento non ti accorgi neppure che tra i protagonisti ci siano dei neri. Tanta «cecità nei confronti del colore» contiene in sé qualcosa di ammirevole, ma ha più valore come tacito comizio antirazzista che come descrizione dei rapporti sociali, in quanto per ora esiste solo nei romanzi.
    Riuscire a scrivere come Faulkner è ancor oggi qualcosa di sovversivo, che credo non vada bene né ai neri, né ai bianchi. (Flavio Baroncelli)
  • Non importa che i suoi romanzi parlino essenzialmente di dinamiche familiari piuttosto contorte ambientate immancabilmente nel Sud degli Stati Uniti: importa come sono strutturati. Il modo in cui costruisco i miei libri, in cui intreccio voci e storie, l’ho imparato da lui. (David Quammen)

Note

[modifica]
  1. Dal Discorso di accettazione del premio Nobel per la Letteratura, Stoccolma, 10 dicembre 1950, in W.F.
  2. Da Palme selvagge.
  3. Da Luce d'agosto.
  4. Da Luce d'agosto.
  5. Citato in Umberto Veronesi, L'ombra e la luce: La mia lotta contro il male, Einaudi, Torino, 2008, p. 93. ISBN 978-88-06-19501-0
  6. Da Requiem per una monaca.
  7. Citato in Enzo Biagi, Testimone del tempo, SEI, Torino, 1971, p. 113.
  8. Da un'intervista, 1958; citato in Elena Spagnol, Enciclopedia delle citazioni, Garzanti, Milano, 2009. ISBN 9788811504894
  9. Da Sartoris.
  10. Da Paura: il travaglio del profondo Sud: Mississippi, in W.F.
  11. Citato in Darwin Reid Payne, Design for the Stage: First Steps, 1974, p. 236; citato in La frase sugli artisti che rubano, ilPost.it, 23 dicembre 2017.
  12. Cfr.
  13. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937
  14. Citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.
  15. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937
  16. Citato in Storia della bruttezza, a cura di Umberto Eco, Bompiani, Milano, p. 393. ISBN 978-88-452-7389-6

Bibliografia

[modifica]
  • William Faulkner, Santuario, a cura di Mario Materassi, Adelphi, Milano 2006. ISBN 8845921026
  • William Faulkner, Requiem per una monaca, traduzione di Fernanda Pivano, Arnoldo Mondadori Editore, 1964.
  • William Faulkner, L'urlo e il furore (The Sound and the Fury), traduzione di Augusto Dauphiné, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1959.
  • William Faulkner, L'urlo e il furore (The Sound and the Fury, 1929), introduzione di Emilio Tadini, postfazione di Attilio Bertolucci, traduzione di Vincenzo Mantovani, Einaudi, Torino, 1997. ISBN 8806179551
  • William Faulkner, W.F. Scritti, discorsi e lettere, a cura di James B. Meriwether, traduzione di Luca Fusari, Il Saggiatore, 2010.

Filmografia

[modifica]

Altri progetti

[modifica]

Opere

[modifica]