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Marco Minghetti

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Marco Minghetti (1860 circa)

Marco Minghetti (1818 – 1886), politico italiano.

Citazioni di Marco Minghetti

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  • Fin d'allora [nel corso di un viaggio in Svizzera] mi appariva chiaro che una democrazia assoluta, se non ha di riscontro un governo solidamente costituito e un forte organismo politico, degenererà presto in anarchia.[1]
  • Il Conte di Cavour, convinto che la unità d'Italia e la sua indipendenza avevano per necessario complemento la fine della potestà temporale del Papa e il possesso di Roma come capitale del Regno, cominciò dal tentare accordi diretti con la corte Pontificia, consenziente l'Imperatore Napoleone[2], e sulla base di «libera Chiesa in libero Stato».
    In cambio della potestà temporale, la Chiesa acquisterebbe in Italia tutta la libertà che aveva sempre invocata come necessaria al suo ministero, libertà di riunione, di pubblicazione, di scelta dei vescovi e via dicendo.
    Sperò il Conte un momento che la grandezza del suo concetto potesse abbagliare ed attrarre una parte del sacro collegio: sperò di vincere la parte avversa: ma già nel marzo 1861 era chiaro che la corte di Roma rifiutava sdegnosamente ogni accordo.[3]
  • La logica non trionfa sempre nel mondo, e rare volte nelle assemblee legislative.[4]
  • Non è assurdo che noi, che dovunque, [...] in Francia o in Inghilterra, formeremmo il centro-sinistra o addirittura la sinistra, siamo qui l'estrema destra, come se fossimo dei reazionari?[5]
  • Per me Torino era il sacro ostello onde partì la redenzione d'Italia, e tanta gratitudine le era dovuta che, senza un'assoluta necessità per la salvezza della patria, sarebbe stata colpa l'offenderla[6]. Ma oggi ancora persisto a credere, che la Convenzione di settembre ebbe questo carattere di necessità assoluta, e che, senza di essa, e senza il trasferimento della capitale[7], non avremmo potuto né essere alleati della Germania nel 1866[8] per l'acquisto della Venezia, né tampoco venire a Roma nel 1870.[9]
  • Usciva allora in luce a Torino un giornale mensile che s'intitolava Il Cimento, fondatovi dal Cesari, dal Farini e da altri. Noi eravamo pensosi della grande diffusione che aveva la Civiltà Cattolica, periodico fondato dai gesuiti, il quale s'era annunziato come un giornale che voleva congiungere la scienza colla religione, ed aveva finito per combattere ogni principio di progresso e di libertà, e perciò esortavamo Il Cimento a fare una polemica assidua coi redattori di quella. Io scriveva insistendo perché non lasciassero di svelarne i sofismi. Imperrocché i gesuiti, oltre la materiale alterazione dei fatti contemporanei per renderli odiosi, avevano anche preso a considerare tutto quanto il periodo storico, che corre dalla riforma protestante sino ad oggi, come un'opera di umana perfidia, e in quella vece il medio-evo come il vero tipo di società, come il trionfo della città di Dio sulla città dell'uomo.[10]

I partiti politici e la ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione

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  • Quel sommo ingegno di Aristotile aveva scorto innanzi ad ogni altro come le forme di governo, per sé buone, potessero facilmente degenerare. Così il principato degenerava in tirannide, l’aristocrazia in oligarchia, la democrazia in demagogia. E noi, seguendo quella dottrina, dobbiamo guardare che il governo parlamentare, in sé buono, non degeneri in una ibrida forma, che di bontà non avrebbe che le apparenze. (cap. I, p. 2)
  • In un moto rapido di dissoluzione, abbiamo visto ai principii sostituirsi ambizioni, al partito i gruppi, e agl'interessi della nazione gl'interessi delle chiesuole. (cap. II, p. 20)
  • La frequenza delle crisi ministeriali è indizio d'una crisi ben più profonda ed estesa, la quale minaccia di paralisi, non soltanto l'azione del parlamento, ma la vita nazionale. Non è compromesso soltanto lo sviluppo politico, e già sarebbe molto; ma anche lo sviluppo morale ed economico del paese. (cap. II, p. 20)
  • [Parlando di clientelarismo e abusi dei "politicanti"] Se le cose dovessero continuare di questo passo, è evidente che il governo parlamentare perderebbe ogni prestigio, e verrebbe in uggia alle popolazioni, le quali più che di guarentige politiche, hanno bisogno di giustizia austera e di amministrazione imparziale. (cap. II, p. 179)
  • [Rivolto agli "avversari del governo costituzionale" che, incapaci "d'immaginare qualcosa di più perfetto, falliscono"] Pertanto io lascio costoro alla orgogliosa ed ignorante baldanza onde maledicendo a tutti, sè medesimi adorano. (cap. III, p. 185)

Le donne italiane nelle belle arti al secolo XV e XVI

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Chiunque prenda a considerare attentamente le istorie d'Italia nel XV e nel XVI secolo, dovrà persuadersi come le donne (specialmente se di case signorili) si educassero con grandissima cura, e come gran profitto della educazione sapessero trarre. A quel tempo le donne furono tenute capaci di venire in eccellenza al pari degli uomini, coi quali gareggiarono soprattutto negli studii che si chiamano umani, e nel fervore per l'antichità classica. E di questa mirabile attitudine, e di ciò che potevano fare, ebbero esse stesse piena conoscenza, senza salirne in orgoglio o in vanagloria. Né stimarono che il governo della famiglia fosse impedimento alle lettere, anzi neppure alla vita pubblica, nella quale talune presero notevol parte. Autrici di pregevolissime prose e poesie, più spesso ispirarono pittori e poeti, dando tèmi acconci ad opere importanti e poscia accettandone la dedica come di cosa che in parte loro spettava. Raccolsero a sé dintorno nei ritrovi quotidiani il fiore dei dotti che vivevano nelle città loro, e coi lontani per lettere frequenti conversarono, infondendo la cortesia in quegli animi che tenevano ancora della salvatichezza del Medio Evo: di guisa che la civiltà moderna di tutta quanta l'Europa è grandemente debitrice alla cultura delle donne italiane.

Citazioni

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  • [...] quella [donna], in cui appare più stupendamente il sentimento delle Arti e la munificenza nel proteggerle, è certamente Isabella Gonzaga[11]. Essa é il tipo più compiuto della Principessa còlta di quel tempo, e, come ebbe a dire un moderno scrittore, non vi fu mai creatura più atta a intendere e gustare il bello, e che più si rallegrasse di possedere ed ammirare i capolavori dell'Arte[12]. (p. 12)
  • [Elisabetta Sirani] [...] essendo stata allevata con ogni cura da Giovanni Andrea suo padre, amico e scolaro di Guido Reni, venne in perfezione dell'arte, e salì in fama sino dalla prima giovinezza, sicché meritò che non pure i cittadini suoi la onorassero, ma altresì Cosimo III di Toscana e altri Principi passando per la città andassero a visitarla. Di lei, sebbene morta a ventisette anni, rimangono molte pregevolissime opere: la gran tela che si trova nella Certosa di Bologna e rappresenta il Battesimo di Cristo, fatta a venti anni, e nella Pinacoteca un Sant'Antonio di Padova, al quale apparisce il Bambino Gesù. V'ha un Amore addormentato nel Museo di Parigi, due donne in atto di acconciarsi nella Galleria di Vienna, e in quella di Monaco una figura allegorica che simboleggia il Genio della volubilità. Si dilettò molto eziandio d'incidere ad acqua forte, e le sue incisioni sono descritte da Adamo Bartsch[13]
    La sua morte fu quasi improvvisa e in mezzo ad atroci spasimi, perciò si credé che fosse fatta avvelenare da un senatore Reali, che indarno l'aveva pregata di lasciarsi amare. Non solo ella avrebbe, secondo la fama, rifiutate le sue profferte, ma dimostratogli il suo disprezzo, ed esiste tuttavia una caricatura a penna del brutto amatore, che vuolsi fosse cagione della sua ira e del perfido disegno. (pp. 29-30)
  • I Bolognesi piansero acerbamente Elisabetta Sirani, e Saulo Guidotti volle che fosse sepolta nella sua tomba gentilizia, accanto a Guido Reni che ella aveva preso a modello. Di lei ci rimane un ritratto di sua propria mano: dove mostra se stessa in atto di fare il ritratto del padre; e sebbene non possa dirsi propriamente, bella, v'è nelle sue fattezze regolari una dolcezza singolare, e nei suoi occhi una vivacità soave e malinconica. Elogi, poesie, iscrizioni, non le mancarono: ma il maggior vanto rimane nelle sue pitture, e nella speranza di ciò che avrebbe potuto fare vivendo. (p. 30)
  • D'Irene da Spilimbergo molto dissero i suoi coetanei, né mancarono anche recenti scrittori di onorarla. [...]. E invero che può esservi di più compassionevole che vedere una giovane bella, aggraziata, con occhi tanto vivaci, che il popolo veneziano solea chiamarli maghi, virtuosissima, dotata da natura delle più rare attitudini, già cólta in molte scienze, già maestra nell'arte, in quel punto che dava di sé le più grandi speranze, perire improvvisamente a venti anni? Che se il suo nome si rannoda a un'antica e onorata famiglia, se ha parentela ed amicizia fra i più chiari e più qualificati uomini di un grande Stato com'era allora Venezia, il dolore della sua immatura fine si fa sentire ancora più vivamente. (p. 31)
  • [Irene da Spilimbergo] Fin da bambina mostrò un ingegno singolarissimo, e prima si dedicò alle lettere e alla musica. Nelle lettere fece grandissimo profitto, sicché fu tosto in grado di conoscere e di gustare gli scrittori classici, nella musica apprese in breve spazio le cose più difficili, suonò il liuto, l'arpicordo[14] e la viola, e pervenne a tanto, che ella cantava sicuramente a libro ogni cosa, accompagnando la prontezza del cantare con accenti sì dolci e con sì mesta, graziosa e soave maniera, con quanta altra donzella cantasse giammai. (p. 32)
  • Anche nel disegno [Irene da Spilimbergo] era peritissima, ma quando le fu mostrato un ritratto di Sofonisba Anguissola fatto di sua mano, sentendo maravigliose lodi di lei nell'arte della pittura, mossa da generosa emulazione s'accese tutta nel desiderio di agguagliarla. E le fu cosi benigna la fortuna, che il Tiziano, il quale allora teneva il primato fra i pittori, non esitò a farsele maestro, vincendo quella ritrosia ch'egli ebbe generalmente ad accogliere scolari. Sotto guida cosi valente Irene fece in poco men di due anni tali progressi, che il maestro medesimo ne stupiva. (p. 32)
  • [Irene da Spilimbergo] [...] tale era l'ardore di lei nel dipingere, e tale il desiderio di non abbandonare ad un tempo gli altri studii, che sebbene delicatissima non perdonava a fatiche, vegliava le notti, né curava i rigori di un inverno che fu gelido oltremodo. E a chi la pregava di prendere riposo e le poneva innanzi agli occhi i pericoli di una vita troppo sollecita e sprezzata, ella rispondeva col motto che da se medesima aveva scritto nella porta del suo studio:
    Quel che destina il ciel non può fallire.
    E il cielo avea destinato che ella perisse, perché presa da morbo inopinato e crudele perdé la vita in pochi giorni nel 1560; di che in Venezia fu in tutte le classi grandissimo il cordoglio, e suonarono alto le lodi di questa singolare fanciulla. (p. 32)
  • Marietta Robusti, figlia di Jacopo detto il Tintoretto, era nata nel 1560, fu emula del padre, e superò il fratello [Domenico] specialmente nel fare i ritratti. Massimiliano imperatore la invitò alla sua Corte, ma al padre che l'amava teneramente non reggeva l'animo di lasciarla da sé partire. V'era nell'animo suo quello che si suol chiamare un presentimento di dover perderla presto, ed ella infatti mori di soli trent'anni. (p. 37)

Raffaello

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  • La pittura come tutte le arti belle nacque nel santuario e ne fu dapprima ornamento e decoro. Un antico Statuto dell'arte dei pittori senesi del 1355 comincia con queste parole: «Noi siamo per la grazia di dio manifestatori agli uomini grossi che non sanno lettere delle cose miracolose operate in virtù e per virtù della fede.»[15] (cap. 1, p. 2)
  • Quando Giotto tiene il campo nella pittura, gli storici ne additano i contemporanei come scolari, e non s'accorgono che s'egli a tutti lor sovrasta, non è men vero che molti sursero da lui indipendenti e forse sovente senza aver conoscenza delle opere sue. (cap. 1, p. 5)
  • Nato di volgar gente, ottuso alquanto nel senso dell'udito, fu chiamato prima il Sordicchio, e poi più tardi, Pinturicchio. E anch'esso il Vasari lo accagiona di carattere strano e fantastico, e dice che morì d'invidia e di crepacuore, avendo colle sue ubbie porto occasione ai frati di S. Francesco a Siena, appo i quali lavorava, di scoprire entro una cassa cinquecento ducati d'oro. Ma il vero è, che egli ebbe una rea moglie, la quale, d'accordo col drudo, lo serrò in casa e lo tenne quivi privo di ogni conforto a morire di stenti e di inedia: sicché dobbiamo compiangerne la fine e non condannarlo. Ma, riguardandolo come pittore, parmi che sia agevole persuadere chiunque visita Roma, della grandezza del Pinturicchio; il quale io non dirò superiore al Perugino, ma non oserei tampoco dirlo da meno. (cap. 7, pp. 39-40)
  • Molti scrittori d'arte hanno detto, e si ripete dall'universale, che Raffaello ebbe tre distinte maniere: l'una che chiamasi umbra o peruginesca[16], l'altra fiorentina, e romana la terza. Anzi v'ha chi nella maniera romana discerne due periodi che si potrebbero contrassegnare, ponendo ad esempio dell'uno la Madonna di Foligno, e dell'altro la Trasfigurazione. Il quale giudizio se contiene a mio avviso qualche parte di vero, ha però molto di artificioso e d'inesatto. (cap. 12, p. 72)
  • Comunque la storia abbia a segnalare in Giulio [papa Giulio II Della Rovere] difetti e colpe grandi, rimane pur sempre uno dei personaggi più singolari e più eccelsi della storia moderna. Tanto più che al suo tempo già cominciava rapidamente a scadere la potenza morale dei Pontefici, e veniva meno quella specie di arbitrato che essi avevano esercitato per tanti secoli, consenzienti principi e popoli; [...]. (cap. 15, p. 97)
  • Una nota caratteristica della scuola di Raffaello è questa: che non appena morto il maestro, essa sentì gli influssi di Michelangelo e ne fu modificata profondamente. (cap. 37, p. 259)
  • A Lodovico Carracci si appartiene l'onore di aver dato alla scuola eclettica la dottrina e l'esempio, la teorica e la pratica. Imperocché egli insegnava come bisognasse unire l'osservazione della natura alla imitazione di tutte le scuole, togliendone il meglio, e temperando insieme ogni maniera di stile; e, nelle grandi sue opere, si sforzava di porre in atto il medesimo pensiero. (cap. 37, p. 263)

Citazioni su Marco Minghetti

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  • Andò Marco alla caccia e colle fisse | pupille un augellin prese di mira; | ma Laura [moglie del Minghetti] impietosita a Marco disse: | perché tiri all'uccel che a te non tira? (Giovanni Prati)
  • Il Farini temperando, ammaestrato dall'esperienza, l'audacia irriflessiva de' propositi, riuscì uomo di stato; il Minghetti, indole mite e educata dagli studi a cercare i civili progressi senza ricorrere alla violenza, fu indotto dal succedersi degli avvenimenti a immedesimarsi in una politica rivoluzionaria, e nei suoi accorgimenti arditissima. (Gaspare Finali)

Note

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  1. Dai Miei ricordi, vol. 1, cap. 3, p. 103.
  2. Napoleone III di Francia, nipote di Napoleone Bonaparte.
  3. Da La convenzione di settembre, p. 2.
  4. Da un discorso alla Camera dei Deputati, 28 aprile 1878; citato in Claudio Magni, Marco Minghetti, uomo di stato, L. Roux, 1894.
  5. Da una lettera ad un collega del 1880; citato in Ernesto Galli della Loggia, Intervista sulla destra, Laterza, 1994.
  6. Privandola del rango di capitale del Regno.
  7. Da Torino a Firenze.
  8. Nella terza guerra d'indipendenza.
  9. Da La convenzione di settembre, pp. 219-220.
  10. Dai Miei ricordi, vol. 3, cap. 8, pp. 17-18.
  11. Citata con il cognome del marito Francesco II Gonzaga.
  12. Baschet cit. da Firmin Didot, Alde Manuce et l'Hellénisme à Venise. Paris, 1875. [N.d.A.]
  13. Adam von Bartsch (1757-1821), artista e scrittore d'arte austriaco.
  14. Strumento musicale a corde munito di tastiera, frequentemente utilizzato in Italia nel XVI e XVII secolo.
  15. Vedi Carteggio di Artisti pubblicato dal Gaye. Firenze 1839-40, vol. 2, part. I. [N.d.A., p. 2]
  16. Per l'influenza che esercitò su di lui il suo maestro Pietro Perugino.

Bibliografia

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  • Marco Minghetti, I partiti politici e l'ingerenza loro nella giustizia e nell'amministrazione, stampa di Nicola Zanichelli, Bologna, 1881.
  • Marco Minghetti, La convenzione di settembre (un capitolo dei miei ricordi), pubblicato per cura del principe di Camporeale, Nicola Zanichelli, Bologna, 1890.
  • Marco Minghetti, Le donne italiane nelle belle arti al secolo XV e XVI, Estratto dalla Nuova Antologia, Firenze, Giugno 1877.
  • Marco Minghetti, Miei ricordi, terza edizione, vol. 1 Anni 1818-1848, L. Roux e C., Editori, Roma-Torino-Napoli, 1888.
  • Marco Minghetti, Miei ricordi, seconda edizione, vol. 3 1850-1859, L. Roux e C., Editori, Roma-Torino-Napoli, 1890.
  • Marco Minghetti, Raffaello, Nicola Zanichelli, Bologna, 1885.

Altri progetti

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