Albert Sánchez Piñol

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Albert Sánchez Piñol

Albert Sánchez Piñol (1965 - vivente), scrittore e antropologo spagnolo.

Pagliacci e mostri[modifica]

  • La struttura fisica d'Idi Amin era impressionante: dotato di una stazza proporzionale alla sua altezza d'un metro e novanta, per nove anni consecutivi detiene il titolo di pugilato dell'Uganda nella categoria dei pesi massimi. Tre solchi verticali gli ornavano la fronte. Quando era in preda di uno dei suoi abituali attacchi di rabbia, le cicatrici gli si gonfiavano fino a diventare d'un rosso intenso rendendo ancora più truce il suo aspetto. (p. 15)
  • Il tiranno che avrebbe devastato l'Uganda, il despota che avrebbe ucciso migliaia di sudditi, era ritenuto dai suoi superiori un esempio di disciplina e d'obbedienza all'ordine coloniale. Altri meriti non ne aveva e non gli erano nemmeno richiesti. Le autorità non si presero neppure la briga d'insegnarli un inglese minimamente corretto. Era sufficiente capire quattro ordini. Neanche quando arrivò alla presidenza Amin perse tempo a migliorare il proprio inglese. Gli bastava soltanto impartire quattro ordini. (p. 16)
  • Obote era stato educato ai principi della tradizione democratica inglese. Come per molti altri dirigenti africani, il punto di partenza era una concezione socialista di ampio respiro da raggiungere in Uganda attraverso la via parlamentare. I problemi di Obote erano tanto prevedibili quanto insolubili: un paese che aveva strutture del XIX secolo doveva guadagnare il supposto socialismo del XXI in un breve lasso di tempo. Per affrontare le resistenze, Obote fece ricorso alla forza dello Stato. Un po' alla volta l'Uganda si trasformò in una specie di dittatura civile e risultava paradossale che, entro certi limiti, la mentalità obotista fosse restia ad abbandonare il modello democratico. (p. 16)
  • Obote divenne lo sponsor politico di Idi Amin. La sua carriera militare fu quindi fulminea mentre faceva il lavoro sporco, vale a dire terrorizzare o liquidare i nemici del presidente.
    Sembra per ora inconfutabile che Obote abbia commesso un errore classico. Quando ti avvali di un cane per eliminare i lupi, il cane alla fine, dopo aver fatto fuori tanti lupi, diventa peggio di tutto il branco. (p. 17)
  • [Riguardo Jean-Bedel Bokassa:] Se lo si accusa di essere stato un dittatore, la mente corre subito a Chaplin; se lo si ritiene un pazzo, il suo delirio napoleonico è stato troppo perfetto: di tutti i pazzi che si sono creduti l'imperatore dei francesi, lui è stato l'unico che sia riuscito a incoronarsi imperatore dei centro africani. Comunque lo si voglia giudicare, Bokassa va talmente là di ogni accusa che il tribunale della Storia, prima di pronunciare la propria sentenza, si porrà la domanda: ma è davvero esistito Jean Bedel Bokassa? (p. 37)
  • Al governo c'è David Dacko, accusato dal popolo di essere un burattino in mano a Parigi. La gente lo conosce come "la vache qui rit" per la somiglianza col disegno che compare sulla confezione dei noti formaggini francesi. Dacko rilascia due dichiarazioni tipiche dei presidenti africani che stanno per essere spodestati. La prima:
    – Il colonnello Bokassa è buono solo a collezionare medaglie.
    La seconda:
    – È troppo stupido per guidare un colpo di stato. (p. 39)
  • Bokassa aveva un particolare riguardo nei confronti dell'altro sesso. Le pattuglie militari facevano chiudere locali sospetti di dare copertura alla prostituzione. Una volta, ad esempio, decise che il miglior modo per onorare la Festa della Mamma era quello di liberare tutte le detenute. E lo fece. Ma non basta. Gruppi femministi di pressione, che avevano un certo peso nella Repubblica Centrafricana, lo esortarono a porre termine alla discriminazione nei confronti delle donne. Poco dopo Bokassa firmò un decreto che minava alle basi il maschilismo nazionale: si vietava la poligamia. [...] Sfortunatamente non si può affermare che Bokassa fosse del tutto coerente con lo spirito delle leggi che lui stesso aveva promulgato: ebbe più di settanta mogli. (p. 40)
  • La Repubblica Centrafricana era uno stato povero. Benché nel sottosuolo vi fossero alcuni giacimenti di minerali assai preziosi, la stragrande maggioranza della popolazione non viveva certo grazie a queste risorse. La posizione geografica non incoraggiava gli interscambi; Bangui si trovava lontano dalle rotte commerciali con l'aggravante che nemmeno i paesi vicini disponevano di buone vie di comunicazione. Il peggio era però l'ossatura politica. La sovranità statale era una congettura. Parigi esercitava una tutela non esplicita, lì e in altri paesi dell'area. (p. 47)
  • Bokassa aveva la rara capacità di saper mescolare comicità e tragedia. Credeva davvero che il trattamento riservatogli fosse ingiusto. Scrisse al Papa. Nessuna risposta. Scrisse al Segretario Generale dell Nazioni Unite. Nessuna risposta. Scrisse ad Amnesty International! Lui, che a suo tempo era stato uno dei governanti più denunciati dall'organizzazione a tutela dei diritti umani, ne chiedeva ora la protezione. Dimenticava che non c'era motivo per difenderlo. Il castello di sua proprietà, dove abitava, era un autentico palazzo che contrastava con i penitenziari che aveva creato in Centrafrica. (p. 56)
  • [Su Hastings Banda] La sua identificazione con la classe media inglese era così perfetta che soltanto il colore della pelle denunciava la sua provenienza. (p. 64)
  • L'integralismo cristiano lo portava ad avere comportamenti ultra puritani. Il suo senso del pudore era estremo. (p. 64)
  • Nonostante le grandi difficoltà che il processo di decolonizzazione presentava, Banda lo diresse con geniale abilità. Riuscì a evitare lo scontro razziale e si trasformò in un paladino del pacifismo per porre fine agli scontri violenti. (pp. 65-66)
  • Gli europei del Malawi vedevano di buon occhio Banda: i suoi modi, così britannici, finirono per affascinare persino gli inglesi più restii a concedere l'indipendenza agli africani. (p. 66)
  • La sua personalità sarebbe stata acclamata dentro e fuori il paese e i futuri storici l'avrebbero consacrato come personaggio di imprescindibile riferimento. C'era soltanto un piccolo inconveniente: Banda non aveva la minima intenzione di morire. (p. 66)
  • Banda era smanioso di dare un fondo mistico alla sua leadership. Nei suoi discorsi faceva sempre citazioni bibliche; si beava quando officiava le preghiere, ma soprattutto quando pronunciava sermoni. (p. 67)
  • Gli amici europei di Banda lo consideravano un «autocrate conservatore». Ma era qualcosa di più: un vecchio rimbambito con manie di grandezza. La cosa più grave era però aver trasformato in legge le sue follie. (p. 67)
  • Fare sermoni davanti a un folto pubblico gli piaceva enormemente. Uno dei suoi spunti preferiti era la parabola del figliol prodigo. Ironia della sorte. O forse piuttosto una proiezione psicologica, poiché il suo caso aveva invertito i termini della storia biblica: si trattava di un uomo che, tornato a casa limpido e puro, comincia ad arraffare tutto quel che può dalla medesima. (p. 70)
  • Banda, a suon di fischietto, fece in modo che gli abitanti del Malawi adottassero rigidi modelli morali, però, quanto a lui, si allontanò parecchio dai principi puritani che aveva imposto. A un'età in cui i suoi compatrioti, in grande maggioranza, traevano ormai motivo di conforto dal mondo degli antenati, Banda, lungi dall'adire la via del cielo, cominciò a sprofondare nella melma del vizio e della perversione. (p. 72)
  • Si fece [...] inoltre promotore di una «politica del dialogo» con il Sudafrica dell'apartheid e si dichiarò sempre contrario alle sanzioni internazionali perché riteneva che danneggiassero ingiustamente i «poveri bianchi» contrari al razzismo. Banda, che aveva scelto la via della violenza per far fuori l'opposizione all'interno del proprio paese, condannò sempre la lotta armata dei nazionalisti neri sudafricani che considerava contraria al suo «innato pacifismo». (pp. 73-74)
  • Se fosse morto prima del 1991, i bianchi del Sudafrica avrebbero pianto Banda come l'alleato più prezioso. (p. 74)
  • L'Africa nera è fortemente condizionata da tutto quello che accade nella Repubblica Democratica del Congo, l'ex Zaire. Uno stato immenso, settantatré volte più grande della Catalogna, ricco di rame, cobalto, diamanti, uranio e altre risorse strategiche. Una voce lucida sosteneva che «chi controlla lo Zaire, controlla l'Africa». Un'altra più lugubre sosteneva che «L'Africa ha la forma d una pistola e lo Zaire è il grilletto». Sarebbe dunque nefasto se un bandito qualunque arrivasse a controllare questa pistola geopolitica.
    Mobutu Sese Seko non fu un ladro qualsiasi: è assai probabile che si sia trattato del peggior cleptomane a memoria d'uomo. La sua rapacità era del tutto priva di misura. Godendo di assoluta impunità, rubò tanto e tanto a lungo che il suo regno corsaro sembra frutto di una mente allucinata. (p. 77)
  • La biografia di Joseph-Désiré Mobutu non è affatto degna di nota. Formatosi in una scuola cattolica, ben presto si arruolò nell'esercito coloniale. Diversamente da altri dittatori però, essendo destinato a una sezione di economato, non combatté mai. Qui sta il punto chiave della parabola vitale del giovane sergente. La scienza delle finanze dovrebbe dedicare approfondite ricerche a questo oscuro ufficio dell'amministrazione militare. Non sappiamo quali concrete lezioni abbia applicato Mobutu, doveva trattarsi di pura magia, fatto sta che nel decennio successivo egli era già diventato l'uomo più ricco del continente Africano. (p. 78)
  • Alle masse si presentò come il patriota che restaura l'ordine. Curioso patriottismo il suo, in verità: un militare che, per debellare l'opposizione armata, non esita a far ricorso a mercenari stranieri.
    Mobutu però non diede mai di sé l'immagine del tipico macellaio africano. A livello planetario, il suo berretto in pelliccia di leopardo, gli occhiali scuri e il bastone d'avorio, gli conferivano quell'aura un po' paternalistica e un po' pittoresca. La sua immagine, veneranda. I suoi modi, affabili. Il suo gusto per i vini francesi, eccellente. Quasi tutti i governi erano disposti a perdonargli che si proclamasse il Messia, il Redentore o il Timoniere. A ben guardare, non doveva essere per niente facile governare un paese immenso come lo Zaire. (pp. 78-79)
  • Mobutu si rese conto che non faceva un bel vedere uccidere gli oppositori. Così, ogni volta che poteva, preferiva comprarli. In termini generali il suo messaggio era: io e lei possiamo trovare un accordo, di sicuro abbiamo lo stesso vizio. (p. 79)
  • [...] secondo le stime più ottimistiche, Mobutu aveva accumulato alla fine della sua vita una fortuna pari a 4 miliardi di dollari distribuita in tutto il mondo. In questo periodo il debito estero dello Zaire ammontava a 5 miliardi di dollari. A proposito, il motto ufficiale del partito era: «Servire gli altri, non servirsi». (p. 83)
  • Dicono che i tiranni si sveglino nel cuore della notte tormentati dagli spettri di quelli che hanno ammazzato. Mobutu no. Ignorava la parola rimorso. Lui aveva venduto Lumumba, il mitico martire dell'Africa postcoloniale. L'ombra di un'accusa del genere sarebbe stata per altri motivo di angoscia. Mobutu invece non si faceva problemi a tesserne pubblicamente le lodi e a dedicargli persino un monumento. La cosa che infastidiva maggiormente Mobutu, come più volte aveva dichiarato, era che gli invitati si bevessero tutto il suo prezioso champagne francese. (p. 84)
  • Touré era riuscito a sconfiggere il generale che nemmeno Hitler aveva piegato. (p. 96)
  • Piaceva a Sékou Touré presentarsi come il gran nemico dell'Occidente e si vantava di essere nel mirino di tutte le grandi potenze e, in particolare, della Francia. Se dobbiamo credere al PDG, il presidente era circondato da elementi pericolosissimi che, con appoggi esteri, ordivano un complotto dietro l'altro. (p. 101)
  • Sékou Touré vantava, tra i dirigenti africani, una formazione politica tra le più solide. In qualità di ex membro del sindacata comunista francese, conosceva abbastanza bene il marxismo che aveva approfondito anche nel corso dei suoi viaggi in Polonia, Jugoslavia e Cecoslovacchia. Grazie all'uso della terminologia marxista, Sékou riuscì a ottenere l'incondizionato appoggio della sinistra nei paesi occidentali. Ma Sékou non aveva accettato il marxismo, aveva bensì concepito una sua personale via: la comunocrazia, che veniva definita come «la pratica della democrazia formale che regge e governa la vita del villaggio». In realtà, l'unica cosa che apprezzava nel comunismo era il primato del partito nel pensiero leninista. (pp. 103-104)
  • Sékou Touré non era il tipico dittatore della mani bucate; il suo stile di vita era semmai ascetico: fumava le sigarette più economiche, risparmiava fino all'ultimo centesimo sulle spese presidenziali e la sua fortuna personale era modesta. (p. 112)
  • Sékou Touré ebbe una fine degna della sua prodigiosa creatività: non solo fu sepolto due volte, ma dopo la sua morte venne anche spodestato. Quindici giorni dopo la pantomima delle esequie, i militari guineani si ribellarono al governo, incarcerando i vertici del PDG. In una esplosione di euforia, migliaia di cittadini si riversarono per le strade a cancellare dai muri gli slogan rivoluzionari, a distruggere i ritratti dell'«Unico e Degno Figlio d'Africa» e a bruciare le Opere complete dell'ex presidente. Soprattutto gli studenti. (p. 116-117)
  • [...] la credenza secondo la quale Hailé Selassié era un discendente diretto del re Salomone, altro non era che un mito. La teoria della discendenza del Re dei Re da Salomone fu elaborata nel corso del XIV secolo, l'epoca d'oro dello Stato etiope. Vale a dire: pura leggenda al servizio del potere imperiale. (p. 123)
  • Fino alla sua morte l'imperatore ebbe due letture preferite: la biografia di Napoleone e Il Principe di Machiavelli... con le annotazione di Napoleone. (p. 126)
  • Secondo i dissidenti etiopi, la frenetica attività diplomatica di Hailé Selassié non era altro che un modo di fuggire dai problemi quotidiani del paese. (p. 131)
  • Non c'erano differenze tra la fortuna personale del Negus e il patrimonio dello stato. (p. 131)
  • Come in ogni congiura feudale che si rispetti, ancora oggi permangono molti interrogativi sulla sua fine. Non c'è dubbio però che la morte del Negus abbia chiuso un'epoca nella storia dell'umanità. (p. 139)
  • È prassi che i tiranni si autoincensino con titoli da loro stessi inventati, Macías però rappresenta un caso assolutamente eccezionale. I rassegnati bambini guineani avevano l'obbligo di mandare a memoria più di cinquanta proposizioni che descrivevano i meriti del loro grande leader. Indispensabile conoscerli per essere promossi. (p. 143)
  • La dottrina politica di Macías era alla portata di tutti i suoi seguaci. Lui definiva se stesso come «africanista e basta», il che aveva molte più implicazioni di quanto al principio si potesse pensare. Per il Grande Maestro, tutti i problemi del paese provenivano dall'esterno ed erano coloro che diffondevano «idee altrui» a traviare i guineani. (p. 150)
  • Macías era convinto che, grazie alla sua conoscenza dell'economia, sarebbe stato capace di trasformare la Guinea in una Svizzera africana. Ma tutta la sua dottrina economica si riduceva ai rudimenti necessari a distribuire, tra le sue varie mogli, i propri cespiti. (p. 153)
  • La comunità internazionale sembrava [...] vedere in Macías l'uomo di pace di cui alla consegna. Furono isolate le condanne al suo regime. I paesi dell'Europa orientale lo consideravano come liberatore dell'Africa centrale. La Francia e gli Stati Uniti vi facevano investimenti e tacevano. La Spagna franchista non si limitò soltanto a fare investimenti e a tacere, ma impose anche una ferrea censura ai mezzi di comunicazione per impedire che le critiche a Macías potessero guastare le relazioni bilaterali. (p. 155)
  • Ad Hailé Selassié non sarebbe mai venuto in mente di presentarsi candidato in una competizione elettorale: per governare gli bastava la legittimazione divina. Sékou Touré non avrebbe mai dialogato con i capi dell'opposizione: li avrebbe accusati di complottare contro di lui, con l'appoggio del Vaticano e delle SS, e poi li avrebbe liquidati. Idi Amin Dada non invitò mai osservatori sul rispetto dei diritti umani, probabilmente gli era completamente ignoto il concetto stesso... Invece il «Fratello Militante Teodoro Obiang Nguema Mbasogo, Capo di Stato e di Governo, Presidente Fondatore del Partito Democratico della Guinea Equatoriale» (PDGE) agisce in modo ben diverso. Questo militare, formatosi in pieno franchismo nell'Accademia Militare di Saragozza, ha subito una profonda trasformazione. Oggi si riempie la bocca di discorsi sui diritti umani e sulla democrazia e c'è persino chi sembra dargli credito. Una società italiana, con interessi in Guinea, ha riconosciuto il savoir faire del capo di stato e gli ha conferito il Premio Umberto Biancamano «per il rispetto dei diritti umani». È deplorevole il fatto che la società italiana non abbia spiegato quali diritti umani abbia esattamente rispettato. (pp. 161-162)
  • Obiang aveva una straordinaria abilità nel moltiplicare i gesti di democratizzazione senza democratizzare nulla. (p. 167)
  • Ciò che meraviglia sono le lodi provenienti dall'estero. Ne riceve molte. Che Castro o Kim Jong-il ne abbiano incensato la sensibilità democratica, può non sorprendere. Più curioso appare il fatto che un ambasciatore nordamericano abbia affermato che Obiang «ha un interesse personale e particolare al miglioramento della situazione dei diritti umani in Guinea Equatoriale». E ancora di più sorprende che la signora ministro degli Affari Esteri della Spagna abbia affermato di avere con il regime guineano «relazioni cordiali», nonostante il ministro d'Informazione, Cultura e Turismo guineano abbia ricordato che «i politici spagnoli hanno cercato in numerose occasioni di assassinare il nostro presidente». Forse è il sistema del «monopolismo», rafforzato dalle prospezioni petrolifere, il regime che il futuro più immediato riserva all'Africa. (pp. 178-179)

Bibliografia[modifica]

  • Albert Sánchez Piñol, Pagliacci e mostri (Pallassos i monstres), traduzione di Patrizio Rigobon, Scheiwiller, 2009.

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