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Filippo Antonio Gualterio

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Filippo Antonio Gualterio

Filippo Antonio Gualterio (1819 – 1874), politico e storico italiano.

Gli ultimi rivolgimenti italiani

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  • Non appena gli spiriti si riebbero dalla prima impressione di un'elezione così subitanea, ognuno cominciò ad indagare l'animo del pontefice [Pio IX]. Il nome e le azioni del defunto [papa Gregorio XVI] non si ricordavano se non per odioso confronto, ed erano subbietto di spregio più ancora di quello che per l'ordinario a Roma suole accadere durante l'interregno per opera de' malcontenti, e nei primi giorni del novello pontificato per opera degli adulatori. Vecchio costume di quella città, conseguenza funesta del principio elettivo, quanto a ciò che concerne alla parte temporale! La storia ci porge molti esempi di codesta popolare giustizia postuma ed ingenerosa; e ci narra vendicate sul cadavere di Alessandro VI le vergogne del suo regno e le nequizie del figliuolo[1], e strascinate con la corda al collo le statue del fiero Paolo IV, quasi a vendetta degl'impiccati nepoti. Ora questa licenziosa consuetudine riceveva più forti impulsi dalle politiche passioni che agitavano i popoli; e se vi aveva pur qualche freno che la rattenesse, non era se non la speranza dell'avvenire. (parte II, vol. I, cap. I, p. 1)
  • [...] in Piemonte l'aspettazione sul conto del pontefice [Pio IX] non era menomamente contrariata dal disinganno patito, per la non avvenuta elezione del cardinal Gizzi. Questo cardinale essendo stato nunzio a Torino, erasi conosciuto da molti così da vicino che l'opinione pubblica ed il favore dei liberali non poteva in quella città rappresentarselo qual ideale del riformatore e del principe destinato a straordinarie imprese, come forse le poche e sobrie parole di lode dette sopra di lui da Massimo d'Azeglio avevano fatto credere a molti nel resto d'Italia. (parte II, vol. I, cap. I, p. 4)
  • La presenza di lord Palmerston alla direzione degli affari [esteri del Regno Unito] fu riguardata in Europa, dai governi assoluti singolarmente, come un iniziamento di politica meno conservatrice e meno amica di Francia; il che veramente non poteva dirsi, dacché i primi atti di questo ministro accennavano per lo contrario a voler operare di pieno accordo con quella potente nazione. Ciò senza dubbio sarebbe stato d'utile grandissimo alla causa della libertà nell'intiero Continente, non che alla Francia stessa, comunque sempre gelosa e mal sofferente financo dell'amicizia della sua possente e fortunata vicina. (parte II, vol. I, cap. I, pp. 35-36)
  • L'entusiasmo prodotto da quel decreto [che concedeva l'amnistia] si propagò come elettrica scintilla per tutte le parti di Roma. Una turba di gente per impazienza di manifestare la propria gratitudine, non ostante le fitte tenebro notturne, correva al Quirinale[2], e con applausi fragorosi e grida di non mai vista gioia salutava il pacificatore dello Stato romano. Questa spontanea espressione di cordiale riconoscenza toccava al vivo il cuore del papa [Pio IX], il quale gustò certamente in quella notte un piacere di che raro è possa un principe godere; l'omaggio cioè di un intiero popolo non ipocrita e non interessato, unito alla soddisfazione interna della propria coscienza per un atto buono da nessuno secondo fine consigliato. (parte II, vol. I, cap. III, p. 63)
  • Non era ancora pubblicata l'amnistia [concessa da Pio IX], che queste [le "male voglie" della setta sanfedista] qua e là apparivano più o men palesi, secondo che l'ipocrisia o la passione consigliava gli amici del passato. Quegli che più apertamente fe' manifesta la sua opposizione, fu il cardinale Della Genga legato della provincia di Pesaro ed Urbino, nepote a Leone XII. Ereditato aveva dallo zio l'odio verso i principj nati colla rivoluzione o da lei suscitati, una ostinata volontà, e una tendenza a modi assoluti di governo: vittima egli stesso dei duri modi dello zio, de quali non cessò mai di lamentarsi, non aveva potuto ciononostante vincere le naturali tendenze. Vissuto nel fiore degli anni suoi in mezzo ai Gesuiti, succhiò presso di loro coi pregiudizj della romana corte tutte le dottrine gesuitiche; sicché a quella congregazione rimase sempre devoto, e fu nemico accanito di tutti i novatori politici in generale, e del Gioberti in particolare. (parte II, vol. I, cap. V, p. 100-101)
  • Anche il principe di Carignano, padre di Carlo Alberto, non era stato degenere dagli avi suoi, poiché se non d'alto ingegno fornito, fu ancor egli di molta prodezza. Il suo sangue freddo nelle battaglie fu sempre degno d'ammirazione, ed i suoi soldati lo videro ognora intrepido fra il tuonare dei cannoni, ed immobile come rupe in mezzo alla pioggia dei projetti. Alle istanze del generale che una volta lo invitava a coprire almeno le insegne dell'Ordine dell'Annunziata che aveva sul petto, per non servire di bersaglio ai colpi, i quali frequentissimi lo prendevano di mira: «No (rispose impassibile): mai principe di Savoja non ha coperto questa insegna in faccia al nemico.» Questi erano gl'insegnamenti pratici, e le massime che dovevano formare l'educazione del figliuolo, il quale a questi magnanimi sensi doveva mostrare congiunta la maggiore semplicità ed affabilità. (vol. III, cap. XXXVI, pp. 37-38)
  • [Carlo Alberto di Savoia] Bello della persona nella sua età giovanile, benché di forme non regolari; maestoso e grave di statura che sortì sopra l'ordinaria; avea lo sguardo acuto e penetrante, amabile e affascinatore, quando a lui piaceva; capace sempre di leggere l'altrui pensiero, non mai di tradire il proprio; maestà di re, amabilità di cavaliere, semplicità militare di modi; questo era l'aspetto del giovane principe. La sua presenza in un crocchio di dame poteva rassomigliarsi a quella d'un cavaliere del medio evo, e per l'elegante amabilità del suo tratto, e per l'irresistibile fascino che egli vi esercitava. (vol. III, cap. XXXVI, p. 41)
  • [Carlo Alberto di Savoia] Soldato per natura e per educazione, portava nella milizia, oltre all'aspetto marziale, il maggior coraggio personale, ed il più incredibile sangue freddo; senza però nulla (a dir vero) che mostrasse l'impeto guerresco ed il profondo intelletto dell'arte. La milizia pareva il suo elemento naturale, e tutte le virtù militari erano in esso congiunte, in specie la cura dell'onore e l'amore dell'ordine e della disciplina: quindi l'autorità era da lui militarmente intesa, come, cioè, necessaria tutrice dell'ordine, fondata sulla stima delle personali virtù, e contrappesata dai grandi doveri che incombono a chi la deve esercitare. (vol. III, cap. XXXVI, p. 41)
  • [Carlo Alberto di Savoia] Nulla eravi di bello che non eccitasse la sua fantasia; nulla di grande che non generasse in lui non solo ammirazione, ma desiderio di conseguirlo. Quella fantasia, dotata di tutto l'ardore che può trovarsi in un uomo meridionale, lo trasportava sovente nel campo dell'ideale, e gli faceva ambire sopra ogni cosa le gioje dell'incomprensibile e del misterioso. Così gli stessi principj religiosi che informavano, la sua mente, la fede che era profondamente radicata nel suo cuore, pascevano ed esaltavano quella sua fantasia, avviandola a grado a grado sui sentieri del misticismo. Le abitudini militari dapprima, e poi questa tendenza religiosa, la quale nacque in lui appena ebbe assaggiato le primizie della sventura e del disinganno, gli fecero scegliere una maniera semplice di vivere, e a pochissimi bisogni sottoposta. (vol. III, cap. XXXVI, pp. 41-42)
  • Santorre Santarosa, uomo d'ingegno robusto, d'anima elevata e di coraggio oltre l'ordinario, ma di fervidissima fantasia, tenne sopra ogni altro questa opinione: alla Santa Alleanza non potersi opporre miglior rimedio delle società segrete. (vol. III, cap. XXXVII, p. 49)
  • [Giuseppe Mazzini] Dotato di volontà ostinata, di arte profonda nel congiurare, quest'uomo, il quale potevasi dir nuovo, si fece agevolmente capo di molta gioventù che fremeva, e che nel dolore della non riuscita rivoluzione del 1831 sarebbesi aggregata a qualsivoglia partito, al solo patto di non rimanere oziosa. (vol. III, cap. XXXIX, p. 134)
  • Il Mazzini, mistico per natura, di semplici ed affabili modi, di un'apparente bonomia che procacciavagli reputazione d'integrità, letterato ed erudito, senza esser però dotato di vera eloquenza, usò un linguaggio fantastico, il quale non poteva a meno di colpire per la novità, benché non fosse se non l'espressione di sterilissime idee. Poche infatti erano queste, e si può dire che sopra due sole, come sopra ad un perno, si aggirava tutto il suo sistema, se con tal nome dee chiamarsi. Dio e Popolo era il suo motto. Col primo intendeva ad eccitar fede nell'avvenire, facendo quasi parte e sostegno della sua missione la volontà divina; e sarebbesi pensato ch'egli mirasse a prendere il tuono d'un profeta, e fui per dire di un Maometto. Nel secondo compendiavasi l'idea democratica; e con entrambi poi, piuttosto ad una rivoluzione sociale che politica sembrava accennare. (vol. III, cap. XXXIX, pp. 134-135)
  • [Giuseppe Mazzini] Egli restringeva la sua politica italiana al gran sogno d'una sola e indivisibile Repubblica; costante concetto assurdo delle sétte che hanno travagliato la Penisola. Sempre nel regno del vago e dell'idea, non badò né a interessi né a relazioni politiche: possibilità ed opportunità non conobbe: ad uno scopo ideale non si doveva giungere che con mezzi più ideali ancora. Siffatte idee, messe innanzi in un momento nel quale i più pazzi sogni dei socialisti, dei comunisti e di tutti i pretesi ristauratori della società, colpivano le menti giovanili e trascinavano molte ardenti fantasie, fecero sì che i proseliti della Giovine Italia componessero la loro fede politica di un vero incognito indistinto, di un misto confuso di tutte queste follie pericolose. Egli non abbandonava il concetto politico dell'emancipazione nazionale, ma questa doveva farsi contemporaneamente alla gran rigenerazione sociale, o almeno coi medesimi principi, che si volevano in pari tempo sancire. (vol. III, cap. XXXIX, p. 136)
  • L'atto di formazione della Giovine Italia fu firmato a Parigi[3], insieme con quello della Giovine Alemagna e della Giovine Ungheria, tutte sétte indirizzate ad uno scopo eguale e con le medesime massime. I congiurati europei andavano d'accordo nei principi, ed il centro di essi erano appunto i capi del partito repubblicano, che già cominciava in Francia ad abbattere la monarchia: facevano parte di questo partito molti uomini onesti e moderati, unitamente ai più pazzi demagoghi, e a tutti i sognatori delle nuove teorie sociali. (vol. III, cap. XXXIX, p. 136)
  • [Cesare Balbo] Il suo ingegno, la sua esperienza e le domestiche opinioni l'avevano di buon'ora messo nelle file dei riformatori, prevedendo saggiamente la breve durata dell'opera stolta dei restauratori. La medesima saggezza lo rimosse da ogni eccesso, lo tenne separato dai settarj, anche quando uomini di buona fede pari alla sua, ma d'ingegno più fantastico, si mescolavano a loro; e lo fece sempre nemico ed acerbo contradittore di ogni esagerazione, di ogni follia politica. (vol. III, cap. XLIV, p. 215)
  • [Cesare Balbo] L'Italia era stata sempre l'idolo de' pensieri suoi; e quando non poté o non credé servirla più, si piacque a illustrarne il passato, e trarre da esso a pro dei suoi concittadini esempio e regola per l'avvenire. La sua Storia d'Italia (cioè la parte che venne alla luce) e le sue Storiche Meditazioni svelarono l'uomo pratico, il profondo politico nello storico erudito; additarono insomma l'uomo che seguendo le orme del Machiavello, cerca nella storia le ragioni dei fatti e gli utili insegnamenti. (vol. III, cap. XLIV, p. 216)
  • [Cesare Balbo] La lettura del Primato [di Vincenzo Gioberti] gli diè occasione di riflettere, quanto utile ai concittadini suoi ed alla causa della patria verrebbe dal trattare apertamente e con senno quelle questioni, sulle quali gli uomini onesti e saggi tacevano, e i disonesti e pazzi farneticavano: non essere sperabile nulla di buono, finché o il silenzio non preparava, o le utopie traviavano gl'intelletti delle moltitudini. Molte utili verità trovò nel libro del Gioberti, molto coraggio ammirò, e lo giudicò esempio degno d'imitazione. Ma devoto al Papato, come il Gioberti, guelfo, per così esprimermi, al par dì lui, pienamente d'accordo con lui nel disapprovare le italiche esagerazioni; non portava però la speranza di una riforma politica del Papato fino a pensare quasi una piena resurrezione del medio evo con il gran perno papale, culmine della novella civiltà. Persuaso degli errori del presente governo pontificale, egli non disperava che sul Vaticano potesse sedere un giorno un uomo, il quale per il bene suo e dei suoi successori sentisse di essere principe italiano, come per il bene della civiltà fosse costretto a riconoscere, se non a capitanare, la conquista di questa; senza spingere certo la sua imaginazione al punto da sognare un papato ideale, qual si presentava alla generosa e cattolica, ma più speculativa mente del Gioberti. Questi considerava il Papato con gli occhi del prete e del filosofo, il Balbo con quelli del cristiano bensì, ma eziandio dello storico e del politico. (vol. III, cap. XLIV, pp. 216-217)

Note

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  1. Cesare Borgia.
  2. All'epoca residenza stabile dei pontefici nella loro qualità di sovrani.
  3. A Marsiglia nel luglio 1831.

Bibliografia

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Altri progetti

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