Cesare Balbo

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Cesare Balbo, 1848

Cesare Balbo (1789 – 1853), politico e scrittore italiano.

Citazioni di Cesare Balbo[modifica]

  • E tu rispondi con un illustre: – Mi tengo da nulla se mi considero; ma da molto, se mi vi paragono.[1]
  • [Alle milizie del primo regno italico] Ecco i verde-vestiti; or deh proteggavi / L'itala sorte.[2]
  • Fa meglio che chi fa male; fa più che chi fa nulla; fa quel poco, e dormi in pace: e venga poi la gloria, o non venga, venga la riconoscenza o la sconoscenza degli uomini, che importa tanto poi? Che te n'importa, se pur credi in Dio?[3]
  • Le cospirazioni sono opere da medio evo più che dell'età presente o future; da civiltà sconnessa, non da una ferma; il temerle come il farle, è da uomini rimasti indietro; e fra le numerose condizioni della civiltà presente che contrastano alle cospirazioni, la pubblicità sola basterebbe a farle impossibili.[4]
  • Ma intanto, della cresciuta gloria di Dante congratuliamoci, come di felice augurio colla nostra età, colla nostra Patria. Ella ha molti altri grandi scrittori, anzi i più grandi in ogni arte o scienza moderna; il più gran lirico di amore, il più gran novellatore, il più grand'epico grave, il più grande giocoso, il più gran pittore, il più grande scultore, il primo de' grandi fisici moderni e il maggior degli ultimi: Petrarca, Boccaccio, Tasso, Ariosto, Raffaello, Michelangelo, Galileo e Volta. Vogliam noi glorie, vanti, supremazie? Non ci è mestieri ire in cerca d'ignoti o negati. Tutti questi ce ne daranno. Ma vogliamo noi aiuti? e non a ingegno, di che non abbiam difetto, ma a virtù, se già così sia che ne sentiam bisogno? Torniamo pure, abbandoniamoci all'onda che ci fa tornare al più virtuoso fra' nostri scrittori, a colui che è forse solo virilmente virtuoso fra' nostri classici scrittori. In lui l'amore non è languore, ma tempra; in lui l'ingegno meridionale non si disperde su oggetti vili, ma spazia tra' più alti naturali e soprannaturali; in lui ogni virtù è esaltata, e i vizi patrii od anche proprii sono vituperati, e gli stessi errori suoi particolari sono talora occasioni di verità più universali; la patria città, la patria provincia e la patria italiana sono amate da lui senza stretto detrimento l'una dell'altra, e massime senza quelle lusinghe, quelle carezze, quegli assonnamenti più vergognosi che non l'ingiurie, più dannosi che non le ferite; e i destini nostri allor passati, presenti o futuri, sono da lui giudicati con quella cristiana rassegnazione alla Provvidenza divina, che accettando con pentimento il passato, fa sorgere con nuova forza ed alacrità per l'avvenire. Noi cominciammo con dire, essere stato Dante il più italiano fra gli italiani; ma ora, conosciuti i fatti ed anche gli errori di lui, conchiudiamo pure, essere lui stato il migliore fra gl'Italiani. S'io m'inganno sarà error volgare di biografo; ma come o perché s'ingannerebbe ella tutta la nostra generazione?[5]
  • Sono raffreddato, il che mi fa sembrare lo scalone del vostro palazzo più lungo, se non vi trovo, e sempre corto, se vi trovo.[6]

Della storia d'Italia dalle origini fino ai nostri giorni: sommario[modifica]

Incipit[modifica]

Gli antichi, ed alcuni moderni, credettero i popoli primitivi nati sul suolo in varie parti della terra; ma le scienze fisiologiche, le filologiche e le storiche progredite non concedono tali origini moltiplici; ne ammettono una sola, dall'Asia media tra l'Indo e l'Eufrate, e da una famiglia cresciuta in tre schiatte, semiti, camiti e giapetici. – L'Europa, salve poche e piccole eccezioni, fu tutta de' giapetici. I primi stanziativi furono, secondo tutte le apparenze, i iavani, iaoni, o ioni; i quali popolarono ciò che chiamiam Grecia e i paesi all'intorno, e diedero nome di Ionio al mare ulteriore. – I secondi furono probabilmente i tiraseni, tirseni, raseni o tirreni, i quali occuparono ciò che chiamiamo Italia, e diedero similmente il nome di Tirreno al mare ulteriore ad essi.

Citazioni[modifica]

  • Il fatto sta che gli eventi tutti di questa guerra [la prima guerra d'indipendenza italiana] dimostrano ora facilissimamente ad insegnamento (che Dio voglia non disperdere) delle generazioni future, che la somma, che il tutto di questa prima, ardita, forse temeraria, generosa guerra d'indipendenza, era, doveva essere, non poteva non essere se non nell'esercito piemontese; che questo doveva dunque serbarsi, salvarsi, mantenersi, accrescersi, aiutarsi, incoraggiarsi, lodarsi, amarsi, e quasi adorarsi unicamente da tutta Italia; e tenersi perciò dal suo capo coraggiosamente, inalterabilmente sulla difensiva, ogni volta che non venisse un'occasione quasi sicura di offensiva; e prendersi questa allora solamente, e finché durasse l'occasione, tornando poi alla difensiva, dando tempo alle popolazioni di procacciarsi armi ed esercitarvisi, ed ai principi italiani di mandar aiuti, ed ai popoli di accorrervi; dando tempo, insomma, a quel tempo che è il più grande alleato di tutte le guerre d'insurrezione, che era allora il solo nostro. Ma le stolte grida fecero fare una guerra tutta opposta, una guerra in furia, una guerra che volevasi corta e grossa; e questo fu l'errore che perdette tutto, che il perderà, se occorre, altre volte; perché da questo nacquero tutti gli altri, piccoli e grandi, numerosi, di rado interrotti, sempre risorgenti, e finalmente fatali. (vol. II, Appendice, p. 215)
  • Il periodo de' sette mesi che seguì tra la prima e la seconda campagna[7] di nostra guerra d'indipendenza fu così fecondo d'errori e d'insegnamenti politici, come era stato il primo di militari; fu anzi un cumulo, un precipizio, un vero baccanale d'inciviltà. La guerra d'indipendenza aveva fatto tacere le esagerazioni di libertà, la stolta idea dell'unità: cessata ora la prima, scoppiarono quelle e questa. Se l'Italia media o meridionale fossero state mature all'indipendenza, allora si sarebbe veduto, allora sarebber sorte sottentrando al vinto Piemonte: ma fu tutto all'opposto; d'allora in poi non sorse, non accorse un battaglione da quelle due Italie imbelli e distratte. (vol. II, Appendice, pp. 233-234)

Incipit di alcune opere[modifica]

Meditazioni storiche[modifica]

Edizione del 1855

A coloro che tenendo essere una oramai la letteratura di tutta la Cristianità, e vedendo in essa scriversi tanti libri di argomento simile al mio, domandassero come io speri riuscire utile ancora fra tanti; io confesserei di non aver nulla a rispondere, come solo potrei qui, in poche parole. Tutti noi meditatori o discorritori di storia pretendiamo non avere altro scopo che la verità, altra via ad essa che l'imparzialità; e tutti più o meno schiettamente accenniamo aver letti i predecessori e compagni, e per ciò appunto malcontenti, aver afferrata la penna quasi Giovenali per isdegno, o quasi Correggio e Montesquieu per coscienza di essere noi pure da tanto. Quindi i leggitori già non badano a tutto ciò. Ma mentre gli uni lasciano impazienti qualunque libro ei presumono pari a molti in che non trovarono satisfazione; altri, all'incontro, fermi in credere doversi questa all'ultimo trovare nella maggior parte degli oggetti proseguiti costante mente dalle menti umane, cercano se la trovassero mai nel nuovo libro; nel quale poi si avanzano tanto almeno da poterne giudicare da sè, indipendentemente da qualunque promessa fallita o fallibile. Ad uso di questi ultimi ho cercato esporre nella Meditazione Prima le ragioni e le speranze, men del libro da me scritto, che della scienza da coltivata.

Novelle[modifica]

Francesca[modifica]

In una villa dove già vissi alcuni anni, fu da maestro di scuola un prete molto buono e sociabile; del quale, come aveva detto messa e finita la scuola o l'ufficio, e se occorreva qualche confessione, ogni sollazzo era alla state ir a diporto su per que' colli, od a sonar gli organi e i gravicembali ne' castelli all'intorno; e il verno poi entrar nelle case de' signorotti e de' villani di quel contado, ed ivi, come si dice, fare stalla, che tant'è come in città far conversazione. E perché virtuoso e pio e pacifico uomo egli era, ogni suo conversare tendeva a ispirare pace e pietà. Ond'egli poi solea con gli altri preti suoi amici darsi vanto di non far altro là, che continovar lo insegnamento della dottrina cristiana incominciato alla scuola e spiegarla con gli esempi, che fanno più impressione, ma che non tutti starebbero bene in chiesa. — E veramente, egli aggiugnea sorridendo, anche queste vecchierelle usano così, e volendo dar insegnamenti alle giovani, subito vengono agli esempi; ma questa differenza è tra esse e me, che elle li scelgono presso le vicine e contemporanee, io sempre li cerco in tempi antichi e luoghi sconosciuti. Nè so se nel modo loro sia più efficacia, ma nel mio certo è più carità.

Toniotto e Maria[modifica]

«E voi qual è il parer vostro?» disse uno de' più giovani della brigata rivolgendosi al maestro. «Io?» rispose, «io non parlo mai di politica. Le donne e i preti ne sono dispensati; ed io non voglio lasciar perdere il privilegio, che mi par grandissimo.» «Tuttavia...» riprese il giovane. Ma un altro alzò la voce, e poi un altro, e molti insieme, e in breve la disputa diventò caldissima, finché tra 'l chiasso e la confusione si udì uno dire: «Almeno al tempo de' Francesi...» «Al tempo de' Francesi,» interruppe allora agitato oltre al solito il maestro, «al tempo de' Francesi eravi la coscrizione.» «E v'è anche adesso,» dissero due o tre. «Al tempo de' Francesi,» riprese il maestro, e lo ripeté la quarta volta, «al tempo de' Francesi v'era la coscrizione, che era tutt'altro vedersi strappar figli, sposi e fratelli dalle braccia, legati come animali immondi, per andare mille miglia lontano a un macello.... che era un macello almen per noi, cui non importava, nè doveva importar nulla di quelle guerre. E quelli che le hanno fatte non son quelli che ne abbian forse patito più; ma quelli che vi hanno perduto, così senza pro nè consolazione di proprio principe o propria patria, quanto essi amavano. Benché ed anche di quelli che vi hanno forse preso gusto, quanti l'hanno crudelmente pagato poi?» E qui si fermava, e parea pure voler dir altro. E perché era ben voluto dalla brigata, ed udito volentieri al solito, ed or tanto più, come succede a qualunque si tace durante una lunga disputa, e non parla se non quando egli n'ha il cuor pieno, e l'han votato gli altri; certo tutti si tacevano, e parevano aspettassero ch'ei pur continovasse. Onde egli ricominciando: «Se non credessi di attristar la festa che facciamo, io vi direi quello che dinanzi a me stesso è succeduto; e vi ho avuto parte, che ne porto, e credo ne porterò tutta la mia vita i segni nel cuore. Ma non è novella piacevole di niuna maniera; è storia di poveri contadini, che non la direi a contadini. A voi altri forse servirebbe a mettervi d'accordo su queste dispute; chè in altro modo io non vi voglio entrare.»

La bella Alda[modifica]

Al tempo d'una delle discese de' Francesi per la comba di Susa, che qual sia non lo potrai accertare, avvenne, che rimasta a guardare il passo importante delle Chiuse una schiera d'uomini d'arme, questi, secondo il consueto di tutti gli uomini d'arme, invasori antichi e nuovi, e più dei distaccati e lasciati indietro, incominciarono in varii modi a taglieggiare ed opprimere il paese all'intorno. Benché, essendo alleati del Duca e provveduti da lui d'ogni bisogna; ed avendo ordine da' proprii capi di vivere co' terrazzani come amici; e solendo poi i Francesi, a differenza di altre genti, e ad eccezione di alcuni scellerati che si trovano in tutte, essere ladri solamente per necessità, o tutt'al più per a tempo, e quando, come dicono essi medesimi, l'occasione fa il ladrone; certo i ladronecci erano men frequenti che non sarebbesi temuto; e se n'erano fatti alcuni da qualche mal soldato, e dalla gentaglia dell'esercito, per lo più anche erano da' cavalieri e da' capitani severamente castigati; e la riparazione sborsata o da essi, o dai delinquenti, o tavolta dal Duca. Ma se per soldati erano radi i loro peccati contro il settimo e il decimo comandamento di non pigliare e non desiderar la roba d'altri; tanto più frequenti, forza è pur confessarlo, erano quelli fatti contro il sesto e il nono, di non usurpare e non desiderare la donna altrui. È vizio antico e noto de' Francesi. Noto il famoso macello de' Vespri Siciliani al tempo di Carlo d'Angiò. Carlo VIII ne perdè il regno. A' tempi nostri ne durano vive le memorie, che i posteri cercheranno nelle storie, e forse nell'opuscolo de' Romani in Grecia, nelle belle canzoni milanesi del Porta e del Grossi, e nelle piemontesi del Calvo, e mille altre canzoni, anche troppe; chè gl'Italiani così d'accordo in cantare, ben avrebbero dovuto esserlo più in resistere. Come poi in tutte queste invasioni, così in quella di cui è la nostra istoria, i Francesi, che qualunque sia il merito personale di ciascuno di essi, ognuno se lo porta come in mano, e subito lo fa vedere, e per così dire lo spende e scialacqua in moneta piccola, dovunque arrivassero incominciavano a farsi ben volere; nè eran dimorati due o tre dì in una terra o in una casa che non paressero esservi da gran tempo; ed entravano a parte de' negozi e de' divertimenti domestici, e si facevano come della famiglia; e se non era di quella loro eterna frase del chez nous, che monta a ciò, a casa nostra si fa così, e si fa meglio che da voi; quasi che ognuno di essi sarebbe paruto nato e cresciuto della famiglia e del paese dove era arrivato poc'anzi. Ma che valeva? Tutto ciò era perfidia, e mentre cotestoro parevano aiutare, adulare, compiacere al padrone di casa, non ad altro miravano che alla padrona o alla padroncina, di cui insidiavano la fede e l'amore. Gran vantaggio almeno hanno sopra questi Francesi, e gran preferenza meritano gli altri invasori. I quali mostrandosi subito schiettamente e generosamente quali sono, nè si fanno mai da maschi nè da femmine perfidamente amare, nè ingannano i popoli soggetti, e dal primo all'ultimo giorno con ammirabil costanza, non sono un'ora mai da sè stessi diversi.

Margherita[modifica]

Ei non ha cosa di che io cerchi più correggere i miei scolari, come delle sciocche paure e superstizioni che quasi tutti mi vengono arrecando dalla casa paterna. Delle quali, ogni volta che io volli chiedere ragione agl'ignoranti genitori, il più sovente trovai che non davano credenza essi medesimi a quelle befane, a quegli uomini, o lupi neri, a quegli spiriti, di che andavano spaventando i paurosi monelli. Ma dicono non potersi educare bambini, nè far loro fare ciò che si vuole, o trattenerli da ciò che non si vuole senza queste paure. Stolta pigrizia di questi, come di molti altri educatori! che studiano diminuire le difficoltà non a' loro fanciulli, ma a sè stessi; e quando loro è chiesta una spiegazione, danno invece una bugia; e invece d'una correzione una bussa o una paura. Molte di queste poi, principalmente se il luogo aiuti colla spaventosa apparenza, rimangono anche negli adulti, e passano d'una in altra generazione, asserite finalmente come cose vere, e credute ab antico. Tuttavia, perché uso andar cercando quel po' di bene che si trova quasi sempre anche nel male, credo che di quella non mal intenzionata origine delle superstizioni popolari venga che quasi tutte hanno in sè qualche insegnamento virtuoso; ed alle novelle di esse rimane siffatto vantaggio sopra molte di quelle immaginate dagl'ingegni più colti, ma più corrotti.

Imilda[modifica]

Tornando io già una sera in sull'imbrunire alla mia terra da alcuni casolari dove avevo a balia un mio bimbo, vennemi incontrato il buon maestro, che tornava credo da suonar l'organo di quella pieve, a' piè d'una scoscesa via, anzi quasi un burrone scavato tra due altissime sponde dall'acque. Dove, oscurandosi tra lampi e lampi il cielo a un tratto, e incominciando a cader larghe goccie annunziatrici di temporale, e a scivolare il lubrico terreno, e a non più reggerci i piè, ci sforzavamo pure amendue d'andar innanzi ed arrivare prima che franasser l'acque ad una casupola a mezza costa, solo abitato che sia o si scorga in quella vallea. Quando a dispetto della fatica che si durava incominciò il loquace maestro: «Non vi par questo vero agguato da ladri? Mirate, muro di qua, muro di là, non un'uscita; un uomo ne fermerebbe dieci.» «Sì», diss'io, «ma il maggior pericolo per ora è di cadere tra questi fanghi; nè i ladri sono sì mal accorti da mettere bottega in tal deserto, dove non passano tre lire al giorno; e poi c'è là la casupola che guarda il passo dai ladri, e così ci salvi dall'acque.» «O quanto alla casupola», disse il maestro che appunto per a ciò avea messo il discorso, «sapete voi chi l'abita? Un brav'uomo che n'ha ammazzati tre egli solo in un giorno.» «Come?» diss'io. Ed egli: «Al tempo della sua gioventù ei fu già....» ma non ebbe tempo, chè appunto il padrone della casa, avendoci veduti, era venutoci incontro, e sorreggendo il buon maestro ci faceva entrare nella casupola, dove già donna e fanciulli avevano acceso il fuoco di fuscelli e fogliacce di gran turco, e poi recatoci il vin bianco, che è in quel paese, come il pane e il sale degli antichi, primo e sacro segno di ospitalità. E non era bevuto il primo bicchiere, che il contadino, il quale aveva udito le ultime parole del maestro: «Io credo» disse, «che avevate incominciato a narrare a questo signore il gran fatto della mia gioventù; e perché non è cosa ond'io abbia ad arrossire io stesso la narrerò.» E incominciò ab ovo una lunga storia di certe dispute tra l'arciprete e il sindaco di quel paese, accadute trent'anni addietro, ma così nuove in sua memoria come se fosse stato ieri, e vi si riscaldava sopra come allora; ma intanto il compagno mio che fin da principio dimenavasi sulla sedia, forse per dispetto che gli fosse tolta di bocca la narrazione, ora non potendo più reggere al modo in che era fatta, e meno alle millanterie del bravo: «A che monta tutto ciò? Io dirollo in due parole. Il sindaco e l'arciprete eran due uomini senza cervello, che disputavano su non so che; anzi credo che nol sapessero nemmeno essi, e la prova è che ci voglion tante parole a farlo capire. Avean torto tutti e due; ma più il prete, perché prete. Nimici essi, nimici tutti gli uni con gli altri nel paese; i quali poi aveano tanto più torto, che si facean nimici pe' fatti altrui. Questo qui fece la scioccheria di prender una delle parti, non so nemmeno quale, e non me ne curo; e perché era più giovane e più bravo, e come dicono qui, più bullo degli altri, egli avea nome, forse senza colpa sua, di capo di parte. Tre de' contrarii lo assalirono un giorno allo uscir di Messa; certo è, essi furono gli assalitori; egli a dar mano a un coltello, e metterne in terra uno; poi a fuggire inseguito dai due, e vedendogli discosti l'un dall'altro, a rivolgersi al più vicino, ucciderlo; ed aspettato il terzo, questo pure uccise.» «Oh», interruppi io, «questo l'è pure un bel fatto, e tal quale come quello...» Ma riprese più forte il maestro: «A che servono comparazioni? Quest'uomo non sa le storie vostre; e se volete parlare di un antico che ammazzò in guerra tre nimici del suo re, la comparazione non istà; perché questi uccise in pace tre sudditi del nostro. Scappò, uscì del paese, fu giudicato contumace; poi, consigliato tornare, tornò e fu assolto come dovea, perché l'avea fatto in propria difesa; e del resto, come vedete, ha moglie e figliuoli, ed è vivuto sempre da galantuomo, e lo è. Ed è tanto più da lodare, che al solito chi mette mano al sangue anche con ragione, continua poi a torto, e diventa facinoroso. Ma ad ogni modo, figliuol mio, l'uccidere, se non fu delitto, è almeno disgrazia; e non si vuol darsene vanto, ma compiangerla, e principalmente dinanzi a questi vostri figliuoli. Che se non avete avuto altro torto, avete avuto quello di mettervi in cose che non toccavano a voi, in vece di vivere in pace con tutti. E queste parti a che conducano ne' paesi grandi come ne' piccoli ve lo voglio dir io; e perché è cosa antica, dirovvi oggi tutti i nomi, che questo signore li potrà andar a riscontrare ne' libri, e dirvi quanto sia vero l'esempio. E venite qua, voi altri fanciulli; che la pioggia fa un chiasso che assorda.

I due spagnuoli[modifica]

«Narrereteci voi una novella, maestro?» disse una gentildonna che era con noi in una di quelle ultime lunghe sere di novembre, che quando s'ha buona compagnia io le conto per uno de' migliori piaceri della villa. «Narrereteci voi una novella? Io ho lette quell'altre scritte dall'amico nostro che è qui; ma dicono che narrate da voi sieno troppo più piacevoli, ed io, dopo che vi ho conosciuto, volentieri lo credo. Se non che, ei mi pare vi dilettiate soverchio cogli spiriti e colle apparizioni; che io ben vi posso dire non mi danno paura, ma troppo ripetute forse mi darebbero noia. Oltreché dei tempi antichi abbiamo novelle che ne avanzano; e se molte sono sconce, molte pure sono da leggersi per tutti; e il novellare di quelle cose e que' costumi, è proprio un portar acqua al mare, o chiocciole in Astigiana.» «Signora,» disse il maestro, «io novello a modo mio, come mi viene il destro, di cose vecchie o nuove senza distinzione, e senza intenzione di far novelle nè all'antica nè alla moderna. E certo, dette così come le dico io, nel nostro dialetto piemontese, anzi nel mio tra astigiano e langaruolo, ben credo che elle non possano nè olezzare nè putire mai d'imitazione del Lasca, o di messer Giovanni Boccacci. Che se poi l'amico volendole scrivere, e nol sapendo fare, come pur dovrebbe, nel dialetto in che son dette, le scrive in italiano, egli ci pensi; purché non le scriva io; chè fuor della scuola io non intingo mai penna in calamaio.» «Non so» disse la gentildonna «chi s'abbia a dir più pigro dei due; o voi, maestro, che avete votato odio alla penna, o voi, amico, che avendo il vizio di tôrla in mano, la usate poi così scioperatamente in baie di questa sorta. E quasi direi che voi siate il peggiore dei due; perché niun uomo ha l'obbligo di scrivere; sì bene, volendo pur iscrivere, di farlo, o tentar di farlo almeno, sopra qualche cosa che serva.» «E' mi pare» diss'io «che voi non v'abbiate il torto; e già me n'ero avvisato da me, che che io dicessi a' miei leggitori sull'utile di passar meco un'ora d'ozio; ond'io mi vo' pur correggere, e più non iscriverò.» «Ecco,» disse la gentildonna, «conclusione a rovescio: io vi diceva, scrivete qualche cosa utile; e voi concludete, non iscriverò.» «Perché» ripresi io «per iscrivere qualche cosa utile, e' si vuol avere, primo, qualche cosa utile in capo; secondo, scienza di scriverla; terzo, volontà; quarto, agio; quinto, stampatore; sesto, libraio; settimo, leggitori. Vedete quante cose, oltre forse le dimenticate.» «Or certo, eccovi al solito degli autori, a lagnarvi di stampatori, librai, e leggitori; dovreste vergognarvene, voi principalmente autor dilettante, principiante....» «Or principian elleno le ingiurie?» «Signor no, ma senza ingiuria io vi dico che non mancano stampatori nè leggitori agli autori, ma più sovente....» «Bene, bene, mancherammi altro, mancherammi altro. Ma io non entro in dispute, e vi rispondo, o novelle o nulla. Non novelle? dunque nulla.» «Ma volete voi la mia?» interruppe il maestro che da mezz'ora dimenava la lingua in bocca, «volete la mia? Dirovvene una modestissima che ce la disse un ufficiale amico di Toniotto, una volta che lo venne a vedere al paese, e incominciarono a parlare della guerra di Napoleone contro alla Spagna ch'egli avean fatta amendue, ma più lungamente l'ufficiale, ed ambi erano come innamorati de' lor nemici spagnuoli. E dicendo io che ce n'era de' buoni e de' cattivi, l'ufficiale rispondeva, che anzi ce n'era di quelli buonissimi e cattivissimi a vicenda, od anche a un tempo. Ed osservando io che tutti i popoli meridionali sono così, l'ufficiale mi rispondeva che non tutti, e poi ci disse questa storia, che l'aveva udita da una delle persone interessate. Onde, avendola io udita da lui, e voi da me, l'avrete passata per tre bocche solamente. Vedete perciò quanta credenza le dobbiate dare. Or la volete voi?» «Sì» disse la gentildonna.

L'ebrea[modifica]

Erano anni che il maestro non ci aveva più narrato nulla. E il maestro era invecchiato, invecchiati noi uditori suoi, ed in parte anche mutati. Mancava quella persona fra tutte che era l'anima di tutte, quella che ascoltando ispirava, e senza fare, senza dir nulla, in mezzo a tutti, spandeva su tutti come un'aura di pace e di virtù. Così fanno gli angioli del cielo intorno a noi.

La marchesina[modifica]

«E il libro de' Cavalieri serventi?» diss'io al maestro, una di queste sere che tornando d'una camminata più lunga del solito, non so se fosse stanchezza della brigata, o quiete naturale a quell'ora e a quella luce crespuscolare, tutti stavamo da alcuni minuti in gran silenzio. «E il libro de' Cavalieri serventi?» diss'io per ridestar la conversazione. «Che libro?» rispose il maestro. «Quello che ci avete promesso, se non m'inganno, narrandoci la novella di Margherita.» «Che promessa? che novelle?» riprese egli. «Io v'ho detto per celia, che sarebbe a fare su ciò un bel libro; ma chi vorrà pensar davvero, che, bello o brutto, io sia per far un libro mai? E poi, massimamente questo.» «Il maestro ha ragione,» disse uno de' giovani. «Che se il far un buon libro dipende, prima d'ogni cosa, dallo sceglier un buon soggetto, e principalmente un soggetto nuovo, certo questo de' cavalieri serventi, degli amori illegittimi, è così pesto e ripesto in tutte le lingue, e in tutti i toni, che non credo ci sia verso non che di farne un libro ma nemmeno di dir nulla di nuovo oramai.» «Oh, in ciò parmi che v'inganniate;» dicemmo quasi a un tempo il maestro ed io; ma io vedendo che il maestro aveva a cuore la risposta, e sperando poi ch'ei la facesse, come succedeva sovente, con qualche novella, che buona o grama pur ci occupasse quel rimanente di serata, lo lasciai dire; ed egli difatto incominciò così; prima predicando e poi narrando, e di nuovo ripredicando.

Il filosofo[modifica]

Non so perché, nè veramente se succeda da tutti come a me: che certi vizj m'accorano più assai, se mi ci abbatto in contado che non in città. Forse viene da quell'idea, che, giusta o falsa, tutti pur più o meno abbiamo, delle corruzioni delle città, e della innocenza della vita villereccia; onde là i vizj non ci stupiscono, e qua sì. Fra que' vizj poi che in villa mi paiono, per così dire, più contro natura, egli è quello di ogni sorta d'ipocrisia. In città, dove ognuno vuole accostarsi a una parte e per essa alzarsi a far fortuna, è naturale che si affettino da ogni uomo or queste or quelle virtù affettate dalla parte. In villa, dove si vive più solo, e dove ci è meno a perdere e meno a guadagnare a non mostrarsi quale uno è, pare che sia anche più sozzo: appunto, come un tradimento par più vile, quanto più vile è il prezzo che se ne raccoglie.

L'ufficiale in ritiro[modifica]

Alberto era figliuolo d'un signore ricco; ma più che ricco, nobile e potente alla corte di.... al tempo dell'invasione de' Francesi in Italia. Scappato il suo Principe, deposto egli dei suoi impieghi, e rimasto in sospetto dei repubblicani possessori della potenza, fu anche in breve arrestato e tenuto in castello quasi ostaggio. Quei repubblicani utopisti, come li chiama il Botta, erano così poco sicuri del popolo sovrano, in nome di cui reggevano, che erano anzi obbligati a prendere precauzioni contra la sua indocilità a lasciarsi liberare e far felice. Alberto aveva allora di dodici in quattordici anni. Allevato signorilmente alla moda d'allora, cioè, come si dice volgarmente, nella bambagina, aveva studiato tanto bene che male; ma del resto era indietro di quattro o cinque anni in ogni cosa rispetto ai figliuoli di ogni buon borghese od artigiano, che non avessero tre o quattro persone da mettere intorno al preziosissimo erede. Usciva poco di casa, non aveva forse mai preso nè pioggia, nè vento; di rado il sole, non certo quel di febbraio o di marzo, micidiale, come si sa, ai figliuoli dei signori, quantunque cercato avidamente, e continuamente provato da quelli delle razze più grossolane. Le rivoluzioni mutando cose più gravi, mutò anche questa, che tuttavia non è forse così piccola. La madre di Alberto, ansiosa del marito ed inferma in casa, lo mandava su e giù al castello a portare e riportare le commissioni; e non c'era a pensare da mandarlo accompagnato dall'abbate o in carrozza, chè i Giacobini si sarebbero burlati di questi modi aristocratici, e gli avrebbero chiuse in faccia le porte. La rivoluzione apportò dunque ad Alberto la libertà; la libertà forse più effettiva che apportasse. E bisogna dire che tutte le regole ammettono eccezioni, perché Alberto non ne abusò. È vero che la madre lo faceva seguire e vigilare da lungi, e che il giovane, anche quando l'avesse voluto, non avrebbe potuto fare grandi scappate. Ma i sorveglianti non poterono impedire ch'ei si trattenesse sovente a far conversazione alle porte del castello coi militari che le guardavano, conversazioni che si prolungavano sovente assai pel reciproco piacere del fanciullo avido di quelle novità, curioso e vivo per naturale, e di quei militari già vecchi di servigj ma giovani d'età, e a cui perciò era grata per qualche momento la vista, il cicaleccio d'un bello e vivace giovanetto, il quale ricordava all'uno il fratello, all'altro il figlio, lasciato come dicevano ai focolari. Tutti i maestri di studio del fanciullo, ma quelli principalmente di latino, si lamentarono d'allora in poi della svogliatezza e della dissipazione del fanciullo. La madre si lamentava del nuovo chiasso che facevasi in casa. Non era altro più che tamburi, esercizio, e bastoni rivolti in fucili, e grida di comandi militari gettati al vento.

Vita di Dante[modifica]

Se Dante non fosse stato altro che poeta o letterato, io lascerei l'assunto di scriverne a tanti, meglio di me esercitati nell'arte divina della poesia, o in quella così ardua della critica. Ma Dante è gran parte della storia d'Italia; quella storia a cui ho dedicati i miei studi, che ho tentata in più guise, ma che non ispero guari di poter compiere oramai. Quindi è che non avendo potuto o saputo ritrarre la vita di tutta la nazione italiana, tento ritrarre quella almeno dell'Italiano che più di niun altro raccolse in sé l'ingegno, le virtù, i vizi, le fortune della patria. Egli ad un tempo uomo d'azioni e di lettere, come furono i migliori nostri; egli uomo di parte; egli esule, ramingo, povero, traente dall'avversità nuove forze e nuova gloria; egli portato dalle ardenti passioni meridionali fuori di quella moderazione che era nella sua altissima mente; egli, più che da niun altro pensiero, accompagnato lungo tutta la vita sua dall'amore; egli, insomma, l'Italiano più italiano che sia stato mai.

Citazioni su Cesare Balbo[modifica]

  • Cesare Balbo dedicò le Speranze d'Italia a Gioberti, e il libro superò Gioberti nel dimostrare quanto l'idea di Mazzini in una Italia unita fosse puerile, sostenibile soltanto da politici da caffè. Consapevole che l'Italia non era mai stata uno Stato o una nazione in senso stretto, Balbo, da storico, era convinto che gli italiani non avrebbero mai accettato di sacrificare i loro capoluoghi di provincia per una capitale nazionale. Tuttavia, a differenza di Gioberti, pensava che il papato, lungi dal volere l'esistenza di un più ampio Stato italiano, sarebbe stato con più certezza il suo nemico. Prima di parlare di un primato degli italiani[8], diceva, è meglio moderare le nostre ambizioni e attendere di poter parlare di parità con gli altri paesi. (Denis Mack Smith)
  • Non comprendo come un uomo di tanto talento, e che aveva avuto qualche parte in affari di governo, e studiava politica, abbia potuto immaginare progetti che nella pratica, nelle condizioni in cui la monarchia di Savoia si trovava e si trova, non avevano ombra di probabile effettuazione. (Clemente Solaro della Margarita)
  • Un uomo che pare un eroe di Plutarco e uno scrittore che pare Plutarco. (Michele Scherillo)

Note[modifica]

  1. Da Pensieri ed esempi, 1857, III, p. 35.
  2. Da Toniotto e Maria, in "Novelle".
  3. Da Pensieri ed esempi, Le Monnier, Firenze, 1854, p. 196.
  4. Da Meditazioni storiche, XVII, Condizioni presenti e probabili della civiltà, p. 523.
  5. Da Vita di Dante, pp. 218-219
  6. Da una lettera a Cavour; citato in Italo de Feo, Cavour: l'uomo e l'opera, A. Mondadori, 1969, p. 146.
  7. Prima e dopo l'armistizio di Salasco del 9 agosto 1848.
  8. Gioberti aveva pubblicato nel 1843 il suo Del primato morale e civile degli italiani.

Bibliografia[modifica]

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