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Nicola Abbagnano

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Nicola Abbagnano

Nicola Abbagnano (1901 – 1990), filosofo italiano.

Citazioni di Nicola Abbagnano

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  • L'esistenza appare come un ex-sistere dal niente. (da La struttura dell'esistenza)
  • L'ideale della ragione che si era affacciato nel mondo moderno con Grozio e Cartesio ha trovato in Spinoza una delle sue prime determinazioni tipiche. (da Storia della filosofia, UTET, Torino, 1948)
  • La laicità va considerata come autonomia reciproca non solo tra il pensiero politico e il pensiero religioso, ma tra tutte le attività umane, che debbono essere subordinate le une alle altre in un rapporto di dipendenza gerarchica né possono essere assoggettate a fini o a interessi che sono ad esse estranei, ma debbono autonomamente svolgersi secondo le proprie finalità e secondo regole interne. Ciò corrisponde, nei rapporti tra le attività, alla libertà nei rapporti tra gli individui. (citato in Carlo Flamigni, Laicità senza aggettivi, carloflamigni.it, luglio 2012)
  • La ragione è essa stessa fallibile e tale fallibilità deve trovar posto nella logica. (da Scritti neoilluministici. 1948-1965, a cura di Bruno Maiorca, UTET, 2001)
  • La situazione finale dello sforzo verso l'essere realizza la propria essenziale unità con la situazione iniziale. (da La struttura dell'esistenza, Paravia, 1939)
  • La verità è appunto l'espressione astratta e simbolica di un dato istante della vita; e come questa non è mai uguale a se stessa ma si trasforma in un moto che non ha riposo, così pure quel suo aspetto correlativo muta secondo il ritmo di essa. (da Le sorgenti irrazionali del pensiero, F. Perrella, Genova – Napoli – Firenze – Città di Castello, 1923)
  • Marco Aurelio non dirige le sue riflessioni agli altri ma soltanto a se stesso. I Ricordi non sono una lezione per un discepolo ideale o reale (come erano state le Lettere a Lucilio di Seneca), ma lo sforzo continuo di ricordare a se stesso i capisaldi filosofici che solo possono garantirgli la serenità e la pace interiore.
    Essi hanno perciò un colorito drammatico che manca ad altre opere morali antiche e moderne. L'interlocutore di Marco Aurelio è soltanto lui stesso: Marco Aurelio, imperatore e uomo. Solo dentro di sé egli crede di poter trovare la legge della verità e del bene. Cercare la solitudine è inutile, egli dice; occorre ritirarsi in se stesso perché solo nell'intimo della propria anima si può trovare la tranquillità e la verità. Questo atteggiamento, che fu fatto proprio dal mondo cristiano, è il leit motiv fondamentale dei Ricordi di Marco Aurelio. In se stesso, l'uomo trova la ragione con cui la provvidenza divina ha ordinato l'universo, e il criterio della verità e della condotta morale.
    Ma ritirandosi in se stesso, l'uomo non si ritrova nell'isolamento: la ragione lo lega a tutti gli uomini cui essa è comune. (da Marco Aurelio riletto per il nostro tempo, La Stampa, 13 febbraio 1969, p. 3)
  • Nel mondo moderno l'Allegoria ha perduto il suo valore e si è negato che essa possa esprimere la natura o la funzione della poesia. Si è visto in essa l'accostamento di due fatti spirituali diversi, il concetto da un lato, l'imagine dall'altro, tra i quali essa stabilirebbe una correlazione convenzionale e arbitraria (Croce); e soprattutto la sì è accusata di trascurare o di rendere impossibile l'autonomia dell'imagine poetica la quale non avrebbe una vita propria perché sarebbe subordinata alle esigenze dello schema concettuale cui dovrebbe dar corpo. Buona parte dell'estetica moderna dichiara perciò l'Allegoria fredda, povera e noiosa; e piuttosto insiste, nell'interpretazione della poesia e in generale dell'arte, sul valore del simbolo che può essere vivo ed evocatore perché l'imagine simbolica è autonoma e ha un interesse in se stessa cioè un interesse che non mutua dal suo riferimento convenzionale a un concetto o ad una dottrina. Tuttavia, se si tiene conto della potenza o della vitalità di certe opere d'arte di chiara struttura allegorica (per es., della Divina Commedia e di molte pitture medievali e rinascimentali) si deve dire che l'Allegoria non necessariamente rende impossibile l'autonomia e la leggerezza dell'imagine estetica e che, in certi casi, anche la corrispondenza puntuale tra l'imagine e il concetto può non riuscire mortificante per la prima e non togliere ad essa la vitalità dell'arte o della poesia. T. S. Eliot ha fatto, proprio a proposito di Dante, una difesa in questo senso dell'Allegoria. (da Dizionario di filosofia, Utet, Torino, 1971)
  • Per scoprire l'autentica oggettività del mondo l'uomo non deve pensare il mondo come una parte di sé, ma deve sentire se stesso come parte del mondo. (da Filosofia, religione, scienza, Taylor, 1967)
  • Solo chi si isola da se stesso e dal prossimo, è veramente solo. (da La saggezza della vita, Rusconi, 19859)

Ricordi di un filosofo

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  • Napoli, del resto, rimase sostanzialmente impermeabile al fascismo. Lo furono gli stessi notabili che pure nel '22, alla vigilia della marcia su Roma, s'erano spellate le mani ad applaudire Mussolini al teatro san Carlo. Altrettanto estraneo agli slogan mussoliniani fu il popolo, per atavico irridente scetticismo (un difetto, a volte, può trasformarsi in virtù). (da Don Benedetto e io, p. 12.)
  • Quando sessant'anni fa m'aggiravo per Napoli, e fiutavo l'aria salmastra tra le grida dei venditori di pesce, non m'imbattevo di certo nello Spirito Assoluto, che avanza nella Storia attraverso la sua dialettica fatta di tesi, antitesi, sintesi. M'aggrediva, dolorosa e dolcissima, soltanto la molteplice realtà. Vedevo i volti dei partenopei, le loro espressioni irridenti, con una saggezza antica e popolaresca, tutt'una con la miseria insieme aulica e familiare della «Napoli nobilissima», tra la barocca solennità dei monumenti e lo squallore dei bassi. Mi dicevo che la Ratio hegeliana era ben remota da tutto questo, dalla bellezza delle donne, dagli sguardi abbaglianti degli occhi morati dietro le lunghe ciglia delle ragazze giù a Toledo e a Chiaia, nell'allegria chiassosa che ti veniva incontro ovunque, anche nella povertà, anche nei laceri panni multicolori fatti asciugare nei vicoli alla brezza notturna, sotto la luna. Era forse l'Assoluto a essere il soggetto del mondo reale, della storia, o non piuttosto la molteplicità degli individui, con i loro autentici bisogni? (da L'assoluto e l'odor di pesce, p. 20)
  • A «istruirmi» sull'umanità fu anche l'antica astuzia partenopea, quella che viene detta «arte d'arrangiarsi», ovvero di sopravvivere a una miseria forse invincibile. C'erano per esempio i venditori d'oro falso, che si accostavano con sfacciata impudenza ai turisti appena sbarcati, o in procinto d'entrare da Zi' Teresa, per vendere qualche «patacca», c'erano i vecchi di San Gennaro dei Poveri che, a pagamento, da Piazza Carlo III andavano nelle case a piangere i morti, e potevano spingersi per la bisogna (a tripla paga o almeno doppia: 150 lire) fino a Vietri e a Sorrento; a ogni angolo c'erano gli acquaioli, che t'offrivano boccali d'acqua ghiacciata, assieme ai venditori improvvisati di pasta, vermicelli fumanti e appena scodellati, con su uno spruzzo di pomodori e pepe; e c'erano le prostitute, giovani e vecchie, che vendevano se stesse col medesimo sguardo, ora sfrontato ora implorante. Nei libri, e nei piccoli fatti d'ogni giorno, trovavo una continua, reciproca conferma [...] (da Nella Napoli nobilissima, p. 31)
  • Mai il cielo di Torino, con la corona ancora innevata delle Alpi, m'apparve circonfusa di chiarità solare come quando, il 28 aprile 1945, finì l'incubo della guerra. La città venne invasa dalle migliaia di automezzi che, prima occultati perché i tedeschi intendevano requisirli, procedevano ora strombazzando per il centro, in un'allegra festa popolare. La città, distrutta per un terzo dai bombardamenti, da quel momento non pensò che a ricostruire, in quel fervido clima di speranze che aveva preso tutta la nazione. (da Le scimmie di Sartre, p. 58)
  • [...] l'antiumanesimo è un fatto caratteristico di certe filosofie contemporanee che a prima vista sono agli antipodi di quella che Severino difende.
    Sono infatti le filosofie che negano l'Essere e affermano l'apparenza nel suo disordine, nella sua accidentalità, nei giochi arbitrari di cui l'uomo stesso è il risultato casuale. Insistendo sulla differenza tra l'apparenza e l'Essere, queste filosofie attribuiscono all'apparenza, che per esse è la sola «realtà» (se così può chiamarsi) di cui si possa parlare, i caratteri opposti a quelli dell'Essere parmenideo. Severino invece insiste su questi caratteri e nega gli altri. Ma anche egli riduce l'uomo al dominio dell'apparenza e lo vede in esso risolto. «Nel linguaggio dell'Occidente» egli dice, «l'"uomo", "io", "tu", "gruppo", "popolo", "classe sociale", sono parole che esprimono le forme assunte dalla persuasione che isola la Terra, ossia le forme dell'alienazione della verità». In altri termini sono «forme dell'errore». E così l'uomo e il suo mondo sembrano liquidati. Ma l'errore di cui si è detto non può essere commesso che dal Destino e così si può scorgere nell'uomo «l'apparire del Destino» cioè la dimensione nella quale solo è possibile «l'accadimento del mortale» con tutto ciò che esso implica. (da Emanuele Severino, pp. 104-105)
  • Questa alienazione è, secondo Severino, alla base di tutta la civiltà occidentale che ha accettato il nichilismo nella metafisica postparmenidea. Noi pensiamo e viviamo le cose come se fossero un niente. La tecnica non è che la manifestazione saliente di questo atteggiamento, che consiste nel trasformare, produrre, utilizzare le cose come se non avessero una loro realtà, come se fossero un niente. Perciò il trionfo della tecnica, secondo Severino, è il trionfo del nichilismo. Ma coloro che, come lui, si oppongono a questo trionfo e progettano un mondo diverso non si sottraggono realmente al nichilismo perché continuano a credere nel divenire, nella storia, nel tempo, cioè nel dominio del niente. «Le loro istanze e i loro progetti di un mondo più umano, sono i relitti che il deserto, crescendo, si lascia dietro. La filosofia, il cristianesimo, il marxismo, l'arte, sono i relitti del deserto che cresce.» (da Emanuele Severino, p. 107)
  • Una lezione di umiltà scaturisce dalla filosofia di Severino, comunque si voglia giudicarne i suoi presupposti parmenidei: umiltà che, se fa dell'uomo più uno spettatore che un attore, gli è tuttavia indispensabile come conoscenza della propria misura. E il secondo insegnamento che può derivare da questa filosofia è il rispetto per il mondo e per le cose del mondo che, se sono realtà autentiche, non possono essere dall'opera umana ridotti al niente. Infine (e non è certo la cosa meno importante) la filosofia che Severino difende pone come valore supremo il riconoscimento della verità, qualunque essa sia, anche se per l'uomo dolorosa e spiacevole.
    Umiltà, rispetto, fedeltà al vero, non sono valori che vengono comunemente riconosciuti e difesi nell'epoca contemporanea. Non so se sia indispensabile, per riscoprirli, risalire a Parmenide. È certo tuttavia che in questa epoca il fascino del nulla, che si esprime fra l'altro nella violenza e nella distruzione, ha una parte dominante: e che chi la combatte, mettendone in luce le fonti nascoste, rende un servizio non solo alla verità ma agli uomini stessi. (da Emanuele Severino, pp. 107-108)
  • Non si può disconoscere, al fondo dell'atteggiamento designato a tutt'oggi come «pensiero debole» e che continua ad avere in Gianni Vattimo il proprio méntore, una traccia persistente di quella brama dell'infinito che fu propria del romanticismo. All'infinità dell'Essere, della Verità, della Perfezione, che il romanticismo sognava, esso sostituisce l'infinito della caducità, dell'errore, del male, come natura propria del mondo, e così assolutizza l'apparenza nei suoi caratteri peggiori e fa dell'esperienza umana il destino del nulla. Questo nuovo sogno romantico, che è l'inverso di quello ottocentesco, può forse attrarre come espressione letteraria della crisi, dei mali imperanti, dei pericoli ai quali l'umanità va oggi incontro, ma non indica alcuna via d'uscita.
    Ne è consapevole Vattimo? Ritengo di sì. E ritengo che la stia cercando. (da Gianni Vattimo, p. 113)
  • Interrogarci su una «politica» degli intellettuali è oggi importante anche perché viviamo in un momento in cui i cosiddetti «prodotti culturali», sono sempre più coinvolti nel consumismo. Sono spesso manipolati in vista di un successo immediato e labile che talora non ottengono o che dura lo spazio di un mattino. Si propongono spesso di urtare, irritare, scandalizzare (cosa anche questa molto difficile) per imporsi con il marchio di una novità assoluta, che è pura illusione. Assumono spesso la funzione e il valore di slogans destinati a incrementare lo spaccio di idee balorde e di fanatismi fittizi. E gli autori di essi non esitano a presentarsi sul palcoscenico, a recitare in costume, a dare lo spettacolo che ritengono più propizio al loro successo. [...]
    Una parte dell'amara tristezza che oggi pervade il mondo degli intellettuali è dovuta appunto alla coscienza della loro perduta o diminuita autonomia decisionale, del pericolo incombente di poter sopravvivere solo come strumenti di forze che apprezzino l'opera loro solo come mezzo occasionale di successo, da buttar via quando non riesce più utile. (da I rischi del consumismo, pp. 142-143)
  • Una personalità non può esprimersi col proprio suicidio o con l'omicidio di quella degli altri. E il suicidio e l'omicidio sono i fini latenti di un sesso che si ribella alla propria misura. Sadismo e masochismo sono i limiti estremi di questa tendenza, che conosce tutti i gradi intermedi. È in nome del femminismo che oggi solitamente si protesta contro la riduzione del partner sessuale a cosa, a oggetto strumentale, non più valido di una bambola di gomma. Ma in realtà chiunque fa del partner una cosa, si degrada in cosa. (da Sesso e morale, p. 166)
  • Il divertimento, nella forma in cui oggi viene usufruito, è un'evasione velleitaria dai problemi della vita verso l'accettazione immediata degli aspetti più appariscenti della vita stessa. Esso non cerca la serenità ma l'oblio, non la pace ma l'agitazione, non il godimento, ma l'orgia. E così i problemi di fondo gli rimangono nascosti e le loro possibilità di soluzione si allontanano. Non sono le forme marginali, cui si appiccica l'etichetta di «evasione», che costituiscono l'evasione più grave, ma le forme dominanti, preferite dalla moltitudine, accettate senza discussione, incoraggiate dal successo. E di fronte ad esse si pone la domanda: che cosa ci «divertirà» dal divertimento? (da Evasioni dal quotidiano, pp. 170-171)

Bibliografia

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