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Grazia Deledda

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Grazia Deledda nel 1926
Medaglia del Premio Nobel
Medaglia del Premio Nobel
Per la letteratura (1926)

Grazia Deledda (1871 – 1936), scrittrice italiana.

Citazioni di Grazia Deledda

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  • [...] I Misteri del Popolo di Sue, quel gran romanzo; glorioso o infame secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l'anima poetica dell'ardente fanciulla.[1]
  • Io non sogno la gloria per un sentimento di vanità e di egoismo, ma perché amo intensamente il mio paese, e sogno di poter un giorno irradiare con un mite raggio le fosche ombrie dei nostri boschi, di poter un giorno narrare, intesa, la vita e le passioni del mio popolo, così diverso dagli altri così vilipeso e dimenticato e perciò più misero nella sua fiera e primitiva ignoranza.[2]
  • Mutiamo tutti, da un giorno all'altro, per lente e inconsapevoli evoluzioni, vinti da quella legge ineluttabile del tempo che oggi finisce di cancellare ciò che ieri aveva scritto nelle misteriose tavole del cuore umano.[3]
  • Possibile che non si possa vivere senza far male agli innocenti?[4]
  • Tutti siamo impastati di bene e di male, ma quest'ultimo bisogna vincerlo, Antonio. L'acciaio che è l'acciaio viene temprato e ridotto a spada, da chi vuol vincere il nemico.[5]

Canne al vento

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Tutto il giorno Efix, il servo delle dame Pintor, aveva lavorato a rinforzare l'argine primitivo da lui stesso costruito un po' per volta a furia d'anni e di fatica, giù in fondo al poderetto lungo il fiume: e al cader della sera contemplava la sua opera dall'alto, seduto davanti alla capanna sotto il ciglione glauco di canne a mezza costa sulla bianca collina dei Colombi.
Eccolo tutto ai suoi piedi, silenzioso e qua e là scintillante d'acque nel crepuscolo, il poderetto che Efix considerava più suo che delle sue padrone: trent'anni di possesso e di lavoro lo han fatto ben suo, e le siepi di fichi d'India che lo chiudono dall'alto in basso come due muri grigi serpeggianti di scaglione in scaglione dalla collina al fiume, gli sembrano i confini del mondo.

Citazioni

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  • La luna saliva davanti a lui, e le voci della sera avvertivano l'uomo che la sua giornata era finita. Era il grido cadenzato del cuculo, il zirlio dei grilli precoci, qualche gemito d'uccello; era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era sopratutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa: sì, la giornata dell'uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti. [...]
    Efix sentiva il rumore che le panas (donne morte di parto) facevano nel lavar i loro panni giù al fiume, battendoli con uno stinco di morto, e credeva di intraveder l'ammattadore, folletto con sette berretti entro i quali conserva un tesoro, balzar di qua e di là sotto il bosco di mandorli, inseguito dai vampiri con la coda di acciaio.
    Era il suo passaggio che destava lo scintillio dei rami e delle pietre sotto la luna: e agli spiriti maligni si univano quelli dei bambini non battezzati, spiriti bianchi che volavano per aria tramutandosi nelle nuvolette argentee dietro la luna: e i nani e le janas, piccole fate che durante la giornata stanno nelle loro case di roccia a tesser stoffe d'oro in telai d'oro, ballavano all'ombra delle grandi macchie di filirèa, mentre i giganti s'affacciavano fra le roccie dei monti battuti dalla luna, tenendo per la briglia gli enormi cavalli verdi che essi soltanto sanno montare, spiando se laggiù fra le distese d'euforbia malefica si nascondeva qualche drago o se il leggendario serpente cananèa, vivente fin dai tempi di Cristo, strisciava sulle sabbie intorno alla palude.
    Specialmente nelle notti di luna tutto questo popolo misterioso anima le colline e le valli: l'uomo non ha diritto a turbarlo con la sua presenza, come gli spiriti han rispettato lui durante il corso del sole; è dunque tempo di ritirarsi e chiuder gli occhi sotto la protezione degli angeli custodi. (1913, cap. I, pp. 3-5)
  • «Adattarsi bisogna» disse Efix versandogli da bere. «Guarda tu l'acqua: perché dicono che è saggia? perché prende la forma del vaso ove la si versa.»
    «Anche il vino, mi pare!»
    «Anche il vino, sì! Solo che il vino qualche volta spumeggia e scappa; l'acqua no.»
    «Anche l'acqua, se è messa sul fuoco a bollire,» disse Natòlia. (cap. IV)
  • «E perché nascere
    «Oh bella, perché Dio vuole così!» (cap. IV)
  • «E le mie padrone? Non s'accorgono?»
    «Loro? Sono come i santi di legno nelle chiese. Guardano, ma non vedono: il male non esiste per loro.» (cap. V)
  • [...] l'amore è quello che lega l'uomo alla donna, e il denaro quello che lega la donna all'uomo. (cap. VI)
  • «Il rimedio è in noi» sentenziò la vecchia. «Cuore, bisogna avere, null'altro...» (cap. VII)
  • Un uomo libero è sempre adatto per una donna libera: basta ci sia l'amore. (cap. IX)
  • E come i bambini ed i vecchi si mise a piangere senza sapere il perché, – di dolore ch'era gioia, di gioia ch'era dolore. (cap. IX)
  • La vita passa e noi la lasciamo passare come l'acqua del fiume, e solo quando manca ci accorgiamo che manca. (cap. XII)
  • Efix mangiava e raccontava, con parole incerte, velate di menzogna timida; ma quando ebbe gettato le briciole e il fondo del bicchiere sul pavimento, – poiché la terra vuole sempre la sua piccola parte del nutrimento dell'uomo, – si drizzò un po' sulla schiena e i suoi occhi si circondarono di rughe raggianti. (cap. XVI)
  • «Siamo nati per soffrire come Lui; bisogna piangere e tacere...» disse con un soffio.
    E questo fu il suo augurio. (cap. XVII)

Donna Ester, ricordandosi che gli piacevano i fiori, spiccò un geranio dal pozzo e glielo mise fra le dita sul crocefisso: in ultimo ricopri il cadavere con un tappeto di seta verde che avevano tirato fuori per le nozze. Ma il tappeto era corto, e i piedi rimasero scoperti, rivolti come d'uso alla porta; e pareva che il servo dormisse un'ultima volta nella nobile casa riposandosi prima d'intraprendere il viaggio verso l'eternità.

Incipit di alcune opere

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Cenere

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Cadeva la notte di San Giovanni. Olì uscì dalla cantoniera biancheggiante sull'orlo dello stradale che da Nuoro conduce a Mamojada, e s'avviò pei campi. Era una ragazza quindicenne, alta e bella, con due grandi occhi felini, glauchi e un po' obliqui, e la bocca voluttuosa il cui labbro inferiore, spaccato nel mezzo, pareva composto da due ciliegie. Dalla cuffietta rossa, legata sotto il mento sporgente, uscivano due bende di lucidi capelli neri attortigliati intorno alle orecchie: questa acconciatura ed il costume pittoresco, dalla sottana rossa e il corsettino di broccato che sosteneva il seno con due punte ricurve, davano alla fanciulla una grazia orientale. Fra le dita cerchiate di anellini di metallo, Olì recava strisce di scarlatto e nastri coi quali voleva segnare i fiori di San Giovanni, cioè i cespugli di verbasco, di timo e d'asfodelo da cogliere l'indomani all'alba per farne medicinali ed amuleti.

Colombi e sparvieri

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Dopo una settimana di vento furioso, di nevischio e di pioggia, le cime dei monti apparvero bianche tra il nero delle nuvole che si abbassavano e sparivano all'orizzonte, e il villaggio di Oronou con le sue casette rossastre fabbricate sul cocuzzolo grigio di una vetta di granito, con le sue straducole ripide e rocciose, parve emergere dalla nebbia come scampato dal diluvio.
Ai suoi piedi i torrenti precipitavano rumoreggiando nella vallata, e in lontananza, nelle pianure e nell'agro di Siniscola, le paludi e i fiumicelli straripati scintillavano ai raggi del sole che sorgeva dal mare. Tutto il panorama, dai monti alla costa, dalla linea scura dell'altipiano sopra Oronou fino alle macchie in fondo alla valle, pareva stillasse acqua.

Cosima

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La casa era semplice, ma comoda: due camere per piano, grandi, un po' basse, coi pianciti e i soffitti di legno; imbiancate con la calce; l'ingresso diviso in mezzo da una parete: a destra la scala, la prima rampata di scalini di granito, il resto di ardesia; a sinistra alcuni gradini che scendevano nella cantina. Il portoncino solido, fermato con un grosso gancio di ferro, aveva un battente che picchiava come un martello, e un catenaccio e una serratura con la chiave grande come quella di un castello. La stanza a sinistra dell'ingresso era adibita a molti usi, con un letto alto e duro, uno scrittoio, un armadio ampio, di noce, sedie quasi rustiche, impagliate, verniciate allegramente di azzurro: quella a destra era la sala da pranzo, con un tavolo di castagno, sedie come le altre, un camino col pavimento battuto. Null'altro. Un uscio solido pur esso e fermato da ganci e catenacci, metteva nella cucina. E la cucina era, come in tutte le case ancora patriarcali, l'ambiente più abitato, più tiepido di vita e d'intimità.

Dopo il divorzio

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1904. In casa Porru, nella camera dei forestieri, c'era una donna che piangeva. Seduta per terra, vicino al letto, colle braccia sulle ginocchia rialzate e la fronte sulle braccia, ella piangeva singultando, scuotendo la testa come per significare che non ci era, non c'era più alcuna speranza. Le sue spalle rotonde, il suo dorso ben fatto, coperto dal panno giallo d'un corsetto stretto, s'alzavano e si abbassavano come un'onda.

Elias Portolu

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Giorni lieti s'avvicinavano per la famiglia Portolu, di Nuoro. Agli ultimi di aprile doveva ritornare il figlio Elias, che scontava una condanna in un penitenziario del continente; poi doveva sposarsi Pietro, il maggiore dei tre giovani Portolu.
Si preparava una specie di festa: la casa era intonacata di fresco, il vino ed il pane pronti; pareva che Elias dovesse ritornare dagli studi, ed era con un certo orgoglio che i parenti, finita la sua disgrazia, lo aspettavano.
Finalmente arrivò il giorno tanto atteso, specialmente da zia Annedda, la madre, una donnina placida, bianca, un po' sorda, che amava Elias sopra tutti i suoi figliuoli. Pietro, che faceva il contadino, Mattia e zio Berte, il padre, che erano pastori di pecore, ritornarono di campagna.

Fior di Sardegna

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Siamo in Sardegna, nella parte montuosa della Sardegna, in una piccola città che ci contenteremo di chiamare solo X***, benché nella carta sia segnata con un nome assai sonoro e lungo. X*** possiede la sua brava passeggiata, le sue piazze, esenti ancora di fontane di marmo, e di statue, i suoi caffè splendidissimi, il suo "club", e qualche volta anche a intervalli di due o tre anni, si permette il lusso del teatro: tutto ciò però non impedisce che vi si tragga la vita più noiosa di questo mondo, sicché la più piccola novità basta per mettere in fermento gli abitanti pacifici e poco interessati nelle gravi questioni d'oltre monti e d'oltre mari.

I giuochi della vita

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Goulliau e sua moglie scendevano per via Nazionale. Era ai primi di novembre, ma faceva già freddo e l'aria stagnava umida e nebbiosa sotto il cielo coperto.
A quell'ora, fra le otto e le nove, via Nazionale perdevasi quasi deserta, fra due sfondi fumosi, sotto la luce violacea, ora viva ora smorta, delle lampade elettriche; molti negozi erano già chiusi, i marciapiedi parevano più larghi del solito; i tram scendevano a precipizio, mugolando, tra un fantastico splendore di scintille violette che apparivano e sparivano sui binari umidi. Nel deserto lontano di piazza Termini il getto della fontana slanciavasi tra la nebbia come un enorme stelo di cristallo color lilla.

Il dono di Natale

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I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia.
Era una festa eccezionale, per loro, quell'anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.
Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei.

Il flauto nel bosco

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Per sfuggire, o tentare almeno di sfuggire ad una infelicità che la sorte le aveva mandato gratis, la giovine donna se ne procurò un'altra al prezzo di lire sei mila.
Sei mila lire per due mesi d'affitto di una villa in una stazione climatica di lusso non è molto: il guaio è che la stazione climatica era lontana tre chilometri, e la villa si riduceva ad una casetta bella di fuori con la sua brava torre merlata e la loggia di marmo, e dentro una topaia senza luce, senza acqua, col nido della civetta nella terrazza, le pareti schizzate di zanzare morte, e una temperatura da fornace.

Il paese del vento

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Nonostante tutte le precauzioni e i provvedimenti del caso, il nostro viaggio di nozze fu disastroso.
Ci si sposò di maggio, e si partì subito dopo. Rose, rose, ci accompagnavano: le fanciulle le gettavano dalle loro finestre, con manciate di grano e sguardi d'invidia amorosa: la stazione ne era tutta inghirlandata; e rosseggianti anche le siepi della valle. Rose e grano: amore e fortuna: tutto ci sorrideva.
La mèta del nostro viaggio era sicura, adatta alla circostanza: una casetta fra la campagna e il mare, dove il mio sposo aveva già qualche volta villeggiato: una donna anziana, discreta, brava per le faccende domestiche, da lui già conosciuta, doveva incaricarsi di tutti i nostri bisogni materiali.

Il ritorno del figlio

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Fu una sera dell'aprile scorso che il possidente Davide D'Elia, tornandosene in calesse da una sua fattoria, credette di vedere in mezzo alla strada un agnellino sperduto: guardando meglio si accorse che era un bambino, avvolto in una vecchia sciarpa di pelo nero; così piccolo che al sopraggiungere del veicolo non si mosse neppure, tanto che il cavallo stesso, non facendo a tempo a scansarsi, si fermò di botto.

Il sigillo d'amore

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Da venti anni Adelasia di Torres viveva nel suo castello del Goceano. Già la leggenda ve la diceva rinchiusa dal suo secondo marito, Enzio, il biondo chiomato bastardo di Federico II; ma in realtà ella vi si era ritirata dopo la partenza di lui per le guerre d'Italia.
Bello, elegante, guerriero e poeta, Enzio aveva venti anni, e venti meno di lei; e sebbene sposandola si fosse incoronato Re di Sardegna, non poteva certo starsene quieto nella piccola reggia di Ardara, dove fino a pochi anni prima i patriarcali Giudici di Torres dettavano leggi e sbrigavano gli affari di Stato seduti sotto una quercia.

Il vecchio della montagna

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Melchiorre Carta saliva la montagna, ritornando al suo ovile.
Era un giovane pastore biondastro, di piccola statura; una ruga gli si disegnava fra le sopracciglia folte e nere, che spiccavano nel fosco giallore del suo volto contornato da una rada barbetta rossiccia. Anche la sopragiacca di cuoio del suo costume era giallognola, e il cavallino che egli montava era rossastro, tozzo, angoloso e pensieroso come il suo padrone.

L'anellino d'argento

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  • In Sardegna esistono ancora le case delle fate. Solo che queste fate erano piccolissime; piccole come bambine di due anni, e non sempre buone, anzi spesso cattive: in dialetto si chiamavano Janas e ancora è in uso una maledizione contro chi può averci fatto qualche dispetto: – Mala Jana ti jucat – mala fata ti porti; vale a dire, ti perseguiti.
    Il mio sogno, da bambina, era di visitare queste domos de Janas e poterci penetrare: ma essendo esse lontane dall'abitato, per lo più in luoghi deserti e rocciosi, la cosa non era facile.
    Le storielle che un servetto d'ovile raccontava ogni volta che veniva in paese per cambiarsi la camicia e per andare a messa, aumentavano il mio desiderio.
    Questo servetto raccontava dunque di aver più volte visitato le domos de Janas, e abbassava la voce nel descriverne i particolari. – La porta è bassa e stretta, fatta con lastre di pietra; e bisogna entrare carponi: sulle prime non si vede che una piccola stanza, un antro tutto di sassi, dove si rifugiano le bisce e le lucertole; ma se tu hai la pazienza e l'avvertenza di cercare, troverai una pietra mobile che gira come un uscio, ed è la vera entrata alla casa delle Janas. Ancora bisogna penetrare carponi, ma subito ti trovi in una stanza alta più di sette metri, tutta dorata come un pulpito, con la vôlta dipinta di stelle; tu vedi di fronte a te, per migliaia di usci spalancati, una fila di stanze, una più bella dell'altra, che finiscono in una loggia sul mare.
    Questo era il particolare che più affascinava: questo sboccar della misteriosa casa sotterranea nell'infinito respiro del mare.

L'edera

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Era un sabato sera, la vigilia della festa di San Basilio, patrono del paese di Barunèi. In lontananza risonavano confusi rumori; qualche scoppio di razzo, un rullo di tamburo, grida di fanciulli; ma nella straducola in pendio, selciata di grossi ciottoli, ancora illuminata dal crepuscolo roseo, s'udiva solo la voce nasale di don Simone Decherchi.

L'incendio nell'oliveto

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Dalla scranna antica che il lungo uso aveva sfondato e sbiadito, era ancora lei, la nonna Agostina Marini, quasi ottantenne e impotente a muoversi, che dominava sulla casa e sulla famiglia come una vecchia regina dal trono. Non le mancava neppure lo scettro: una canna pulita che il nipotino più piccolo aveva cura di rinnovare ogni tanto; buona per dare sulle gambe ai ragazzi impertinenti e per scacciare i cani e le galline che penetravano dal cortile; ma sopratutto buona per frugare nel camino, davanti al quale la nonna sedeva in permanenza d'estate e d'inverno, e specialmente per frugarvi quando era sdegnata con qualcuno, cosa che le accadeva spesso.

L'ospite

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Suonò l'Ave.
Margherita si fece rapidamente il segno della croce e mosse le labbra.
- Angelus... Angelus...
Non ricordava altro quella sera, perché ella ripeté la dolce parola almeno dieci volte. Poi le sue labbra pallide si fermarono del tutto, semiaperte, quasi ad aspirare il vento che recava, vibrando, i rintocchi dell'Ave.

La chiesa della solitudine

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Maria Concezione uscì dal piccolo ospedale del suo paese il sette dicembre, vigilia del suo onomastico. Aveva subìta una grave operazione: le era stata asportata completamente la mammella sinistra, e, nel congedarla, il primario le aveva detto con olimpica e cristallina crudeltà:
"Lei ha la fortuna di non essere più giovanissima: ha vent'otto anni mi pare: quindi il male tarderà a riprodursi: dieci, anche dodici anni. Ad ogni modo si abbia molto riguardo: non si strapazzi, non cerchi emozioni. Tranquillità, eh? E si lasci vedere, qualche volta."

La Giustizia

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Un giorno d'autunno, ritornando da una caccia in palude, don Stefano Arca fu assalito da febbre così violenta che quasi batté la fronte sul lastrico del cortile quando, giunto a casa, smontò da cavallo. A stento si mise a letto.
«Stene, Stene, cos'hai avuto?», gli chiese il vecchio padre, avvicinandosi a piccoli passi incerti, e chinandosi a mani giunte sul letto.
Nel far con esile voce l'ansiosa domanda, la piccola persona del vecchio tremava. Stefano, con gli occhi chiusi e il volto grigio, non rispose; don Piane[6] restò a lungo davanti al letto, sempre più curvandosi, con le dita nodose intrecciate, e le pupille velate da una triste visione di morte.

La madre

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Anche quella notte, dunque, Paulo si disponeva ad uscire.
La madre, nella sua camera attigua a quella di lui, lo sentiva muoversi furtivo, aspettando forse, per uscire, ch'ella spegnesse il lume e si coricasse.
Ella spense il lume ma non si coricò. Seduta presso l'uscio si stringeva una con l'altra le sue dure mani di serva, ancora umide della risciacquatura delle stoviglie, calcando i pollici uno sull'altro per farsi forza; ma di momento in momento la sua inquietudine cresceva, vinceva la sua ostinazione a sperare che il figlio s'acquetasse, che, come un tempo, si mettesse a leggere o andasse a dormire. Per qualche minuto, infatti, i passi furtivi del giovane prete cessarono: si sentiva solo, di fuori, il rumore del vento accompagnato dal mormorio degli alberi del ciglione dietro la piccola parrocchia: un vento non troppo forte ma incessante e monotono che pareva fasciasse la casa con un grande nastro stridente, sempre più stretto, e tentasse sradicarla dalle sue fondamenta e tirarla giù.

La regina delle tenebre

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A venticinque anni, bella, ricca, fidanzata, senza aver mai provato un dolore veramente grande, un giorno Maria Magda si sentì improvvisamente il cuore nero e vuoto.
Fu come il principio d'un malore fisico, che andò di giorno in giorno aumentando, allargandosi, spandendosi.
Ella era felice in casa sua, e un'altra felicità l'aspettava. Ma per raggiungere la nuova felicità, doveva abbandonare l'antica, e le sembrava che allora il rimpianto della famiglia lontana, della dolce casa paterna, della libertà perduta, della patria abbandonata, le avrebbero dato una indicibile nostalgia, avvelenandole la nuova felicità.

La via del male

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Pietro Benu si fermò un momento davanti alla chiesetta del Rosario.
"È appena la una" pensò. "Forse è troppo presto per andare dai Noina. Dormiranno, forse. Quella gente è ricca e si prende tutti i comodi."
Dopo un momento d'esitazione riprese la strada, dirigendosi al vicinato di Sant'Ussula, che è all'estremità di Nuoro.

Le tentazioni

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Felix Nurroi era un uomo grandemente timorato di Dio. Teneva il suo ovile vicino al fiume Tirso, nelle tancas del suo padrone, un giovine cavaliere del Marghine. Felix era un uomo sui cinquant'anni, piccolo, sbarbato e calvo. Siccome soffriva mal d'occhi, teneva un paio d'occhiali neri a reticella; inoltre indossava quasi sempre un gabbano turchino, da soldato, stretto alla vita da una corda. Pareva un frate. Egli era uno di quegli uomini ai quali il timor di Dio impedisce di far fortuna. Lavorava come un cane e dava scrupolosamente la metà, e forse più, al padrone.

Leggende sarde

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Il diavolo cervo

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Nei monti di Oliena, nei contrafforti calcarei dai picchi acuti di un azzurro latteo che si confonde col cielo, esistono grandi crepacci – ricordi di antichissime convulsioni vulcaniche – di alcuni dei quali non si distingue il fondo.

La leggenda di Aggius

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Al finire del secolo XVII c'erano in Aggius – piccolo villaggio della Gallura – due ragazzi, figli di due famiglie nemiche, che, come accade sovente in Sardegna, ed anche altrove, facevano all'amore.

La leggenda di Castel Doria

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Interessanti sono le leggende intorno a Castel Doria; e specialmente quella dell'ultimo principe.
Pare che questo misterioso maniero sia stato edificato dai Doria verso il 1102, quando cioè i Genovesi fortificarono tutti i loro possedimenti al nord dell'isola, e specialmente l'attuale Castel Sardo.

Il castello di Galtellì

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Una notte dello scorso dicembre restai più di due ore ascoltando attentamente una donna di Orosei che mi narrava le leggende del castello di Galtellì[7].
Il suo accento era così sincero e la sua convinzione così radicata che spesso io la fissavo con un indefinibile sussulto, chiedendomi se, per caso, queste bizzarre storie a base di soprannaturale, che corrono pei casolari del popolo, non hanno un fondamento, e qualcosa di vero.

La leggenda di Gonare

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I santi, Nostra Signora e Gesù stesso in persona pigliano spesso viva partecipazione in molte leggende sarde. Non c'è Madonna che non abbia la sua storia, e quasi tutte le chiese, specialmente le chiesette di campagna, le piccole chiese brune perdute nelle pianure desolate o nei monti solitari, e che hanno l'impronta delle costruzioni pisane o andaluse, sono circondate da una tradizione semplice o leggendaria.

San Pietro di Sorres

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Questa leggenda la lessi tempo fa in un giornale letterario sardo, La terra dei nuraghes, diafanamente scritta da Pompeo Calvia, uno dei più gentili poeti sardi.
È sulla chiesa di S. Pietro di Sorres, vicino a Torralba: un'antica chiesa storica, ora quasi rovinata, ritenuta, dice il Calvia, per il più antico monumento dell'arte medioevale che vanti la provincia.

La scomunica di Ollolai

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Radicatissima è ancora nel popolino sardo la credenza che la scomunica del papa o magari di un semplice sacerdote, apporti davvero maledizione su chi è lanciata e sulle sue generazioni.

Madama Galdona

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Pare ci fosse a Sassari una ricca dama, molto pia e devota, chiamata madama Galdona, la quale, venuta a morire, testò un suo possedimento ai frati di non ricordo più qual ordine.

Marianna Sirca

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Marianna Sirca, dopo la morte di un suo ricco zio prete, del quale aveva ereditato il patrimonio, era andata a passare alcuni giorni in campagna, in una piccola casa colonica che possedeva nella Serra di Nuoro, in mezzo a boschi di soveri.
Era di giugno. Marianna, sciupata dalla fatica della lunga assistenza d'infermiera prestata allo zio, morto di una paralisi durata due anni, pareva uscita di prigione, tanto era bianca, debole, sbalordita: e per conto suo non si sarebbe mossa né avrebbe dato retta al consiglio del dottore che le ordinava di andare a respirare un po' d'aria pura, se il padre, che faceva il pastore ed era sempre stato una specie di servo del fratello prete, non fosse sceso apposta dalla Serra a prenderla, supplicandola con rispetto:
"Marianna, dà retta a chi ti vuol bene. Obbedisci".

Nel deserto

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Un palmizio le cui foglie sembravano lame di spade arrugginite dal vento marino, sorgeva tra l'ultima casetta del villaggio e la landa che finiva col mare.
Il villaggio pareva disabitato, e ad accrescere quest'impressione non mancavano qua e là alcune rovine coperte di musco giallastro e popolato di lucertole. Anche i muri della casetta del palmizio e quelli del cortile che la fiancheggiava, si sgretolavano e si slabbravano; e intorno alle finestruole dalle imposte scolorite si scorgevano le pietre rossiccie.

Nell'azzurro

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Vita silvana

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Vi parrà un romanzo, o mia bionda e piccola lettrice, ma è una storia vera: tanto vera che io, per narrarvela, cambio i nomi delle persone e dei luoghi alle quali e nei quali accadde.
Figuriamoci in Sardegna, nella mia verde e sconosciuta Sardegna, e cominciamo.

Sulla montagna

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È una mattina d'agosto. Sull'ampio cielo, chiuso dalle linee sottili e frastagliate delle montagne, rese turchine dalla lontananza, passano grandi nuvole cenerine, come mandre di nebbia, che svaniscono sui lembi ancora limpidi d'azzurro.

Memorie infantili

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Infanzia!... È forse questa una parola magica e misteriosa, un geroglifico orientale, inteso indistintamente dall'anima, dalla mente, dal cuore, nei quali desta ricordi soavi, dolcissimi, benché sfumati tra le nebbie del passato, e sorrisi vagolanti e dolci come quei ricordi, e sussulti di rimpianto e dimenticanze del presente?

Una terribile notte

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Ardo era un bambino disobbediente.
Aveva nove anni e si trovava con suo padre nella Gallura, che è una regione montuosa e pittoresca, al nord della Sardegna. In Gallura vi sono villaggi ed anche città, ma la maggior parte degli abitanti vive sparpagliata nelle campagne, in case certo non di lusso e artistiche come le ville, ma comode e pittoresche, formanti microscopici villaggi chiamati, nel dialetto di quelle forti ed ardenti popolazioni: stazzos.

La casa paterna

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27 Luglio.

... A R... – mia piccola città natia – siamo arrivati verso le otto. Impossibile descrivere la strana impressione che provai, nel rivedere, dopo tanti anni di lontananza, le mie campagne, la mia valle, il mio cielo.

Racconti sardi

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Di notte

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Potevano essere le undici quando la piccola Gabina si svegliò nel gran letto di legno della stanza di sopra, ove dormiva sempre con la sua mamma che le voleva tanto bene.

Il mago

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Vivevano in fondo al villaggio, uno dei più forti e pittoreschi villaggi delle montagne del Logudoro, anzi la loro casetta nera e piccina era proprio l'ultima, e guardava giù per le chine, coperte di ginestre e di lentischi a grandi macchie.

Ancora magie

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Zio Salvatore, il nostro vecchio fattore, cominciò:
- Figlioli miei, io non sono stato sempre agricoltore: ero nato per diventare qualcosa di grande, prete almeno, ma i casi e l'estrema povertà della mia buona mamma, non lo permisero.

Romanzo minimo

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Su, in alto, sullo sfondo azzurrino delle montagne calcaree, sotto il cielo fresco di una dolcezza profonda da cielo di paesaggio fiammingo che mi ricorda i quadri più noti di Van-Haanen, la nostra casa verde dominava il villaggio: col suo tetto aguzzo su l'elegante cornicione bianco, le finestre gotiche al secondo piano e il verone che la circondava tutta al primo, esile, alta, la tinta verde smaltata dal sole, pareva una casetta cinese di porcellana, così fresca e allegra che ancora, nonostante il triste caso che vi racconterò e che mi costrinse ad allontanarmene per sempre, il suo ricordo mette una nota gaia nelle memorie della mia fanciullezza.

La dama bianca

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Vicino ad uno dei più pittoreschi villaggi del Nuorese, noi abbiamo un podere coltivato da una famiglia dello stesso villaggio.
Il capo di questa famiglia, già vecchio, ma ancora forte e vigoroso, – strano tipo di sardo con una soave e bianca testa di santo, degna del Perugino, – viene ogni tanto a Nuoro per recarci i fitti ed i prodotti del podere, e ogni volta ci racconta bizzarre storie che sembrano leggende, invece accadute in realtà tra i monti, i greppi, e le pianure misteriose ove egli ha trascorso la sua vita errabonda, e a molte delle quali egli ha preso parte... Egli si chiama zio Salvatore.

In sartu (Nell'ovile)

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Zio Nanneddu Fenu aveva l'ovile dalla parte di Tresnuraghes, cioè quasi due ore distante da Nuoro, in una bella tanca dove l'erba durava fresca sino al mese di giugno. Ogni due o tre giorni la moglie o la figlia, la simpatica Manzèla[8], si recavano a piedi, da Nuoro all'ovile di zio Nanneddu, per godersi una giornata di sole e portare delle vivande al vecchio pastore.

Il padre

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Ritto sovra un ciglione erboso, quasi sull'orlo dello stradale, Jorgj Preda, soprannominato Tiligherta, aspettava da più di un quarto d'ora la sua piccola innamorata, Nania, la figlia del cantoniere.

Macchiette

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Albeggia. Sul cielo azzurro cinereo d'una dolcezza triste e profonda, curvato sull'immenso paesaggio silenzioso, passano sfiorando larghi meandri di un rosa pallidissimo, via via sfumanti nell'orizzonte ancora oscuro. Grandi vallate basse, ondeggianti, uniformi, s'inseguono sin dove arriva lo sguardo, chiazzate d'ombra, selvaggie e deserte. Non un casolare, un albero, una greggia, una via.

Citazioni su Grazia Deledda

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  • Animata da un precoce bisogno di emanciparsi e da una segreta quanto chiara vocazione letteraria, Grazia Deledda riempì autonomamente le lacune della sua educazione, leggendo qualsiasi libro le capitasse a tiro, dalla Invernizio a Tolstoj. I suoi primi esercizi poetici e narrativi muovevano da influenze decadentiste e tardoromantiche verso più congeniali ispirazioni veriste. (Sandra Petrignani)
  • Così ci fermiamo al Dazio, la casetta della dogana in città, e Vestito di Velluto deve pagare per della carne e del formaggio che porta con sé. Dopo di che scivoliamo via nella fredda strada principale di Nuoro. Penso che questa è la patria di Grazia Deledda, la scrittrice, e vedo una bottega di barbiere: De Ledda. E grazie al cielo siamo alla fine del viaggio. Sono le quattro passate. (David Herbert Lawrence)
  • Il sacrificio non è per Deledda una soluzione salvifica, non c'è nella sua poetica alcun intento assolutorio o moralistico, ma unicamente descrittivo. La tragicità è insita nella vita, ed è l'incapacità (generalmente maschile) di assumere la responsabilità dei propri istinti a radicalizzare il male. Rileggendo in questa chiave Grazia Deledda e sistemando intorno alla centralità del tema erotico (capito perfettamente da D.H. Lawrence) anche il suo splendido panteismo, la sua «ieraticità biblica» e il suo «verismo folclorico» [...], si può tornare a leggerla oggi con attualità e sorpresa insospettabili. (Sandra Petrignani)
  • La signorina Deledda fa benissimo di non uscire dalla sua Sardegna e di continuare a lavorare in questa preziosa miniera, dove ha già trovato un forte elemento di originalità. I suoi personaggi non possono esser confusi con personaggi di altre regioni; i suoi paesaggi non sono vuote generalità decorative. Il lettore, chiuso il libro, conserva vivo il ricordo di quelle figure caratteristiche, di quei paesaggi grandiosi; e le impressioni sono cosi forti, che sembrano quasi immediate, e non di seconda mano, a traverso un'opera d'arte. (Luigi Capuana)
  • Gli eroi della Deledda non hanno mai alcun tratto superomistico: la passione da cui sono sospinti non conosce i compiacimenti orgogliosi che esaltano sopra se stesse le creature dannunziane.
  • Il metodo narrativo della Deledda consiste in una adesione immediata ala realtà vitale, sentita come luogo di un eterno contrasto fra opposte forze, che ponendo a prova tutte le doti dell'uomo ne impegnano e ne realizzano al più alto grado l'umanità.
  • Il senso della miglior narrativa deleddiana sta proprio nella sua irrisolutezza, poiché da essa nasce la forza drammatica degli episodi in cui la crisi delle coscienze esplode, portando finalmente in luce l'unico principio etico cui vada riconosciuto un valore integralmente positivo: il sacrificio di sé.
  • Il vitalismo della Deledda ha una sostanza tormentosamente antiidillica che induce la scrittrice ad affaticarsi di romanzo in romanzo sui termini di una contraddizione destinata a rimanere insolubile, in quanto non illuminata da una organica concezione ideologica o fideistica.
  • In un'opera giovanile, la Deledda definisce Eugenio Sue "quel gran romanziere glorioso o infame, secondo i gusti, ma certo molto atto a commuovere l'anima poetica di un'ardente fanciulla". Queste parole illuminano efficacemente il clima in cui si svolse la sua formazione. Grazia nacque a Nuoro nel 1871, da famiglia benestante. Le elementari furono le sole scuole che frequentò regolarmente. In seguito si abbandonò a una congerie di letture, acavallando Dumas, Balzac, Byron, Sue, Scott, e la Invernizio. La precoce vocazione di scrittrice si alimentò dunque di un disordinato ultraromanticismo, incline ai vividi contrasti di colori e linee, al fervore e all'enfasi dell'orchestrazione melodrammatica.

Note

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  1. Da Stella d'oriente
  2. Da una lettera del 1891; citato dal Presidente della Camera,Partecipazione alla cerimonia per il 150° anniversario della nascita di Grazia Deledda, 10 dicembre 2021.
  3. Da Versi e prose giovanili, a cura di Antonio Scano, Virgilio.
  4. Da La chiesa della solitudine, Mondadori.
  5. Da La fuga in Egitto, Ilisso, Nuoro, 2008, p. 91. ISBN 978-88-6202-041-1
  6. Cipriano.
  7. Castel Roccioso.
  8. Mariangela.

Bibliografia

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Altri progetti

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Opere

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