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Michele Prisco

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Michele Prisco

Michele Prisco (1920 – 2003), scrittore e giornalista italiano.

Citazioni di Michele Prisco

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  • [Napoli, vista da San Martino] [...] a poco a poco emersero in quella velata malinconia, nella foschia dei vapori rosei azzurrastri e violacei, fra un brusio di voci perpetue e lontane, i profili delle case, le squadrature dei terrazzi, le rampe tortuose, le scale a precipizio. Cercava un taglio diritto da riconoscere una strada, e non lo trovava: restava questo aspetto informe e caotico di concrezione uscita dal mare, rimasta a secco, scavata con lenti e individuali accorgimenti per trovarvi riparo.[1]
  • Gli occhi di Betsy Blair in Calle Mayor miti e spenti anche se con un sospetto d'innocente e involontaria furbizia; e poi come s'illuminano quando l'amore li accende. Da quel momento, trasfigurata, l'attrice recita solo con gli occhi.[2]
  • [...] il ruolo dello scrittore non è quello di suggerire delle soluzioni perché la sua missione è ad un tempo più modesta e più alta: il romanziere deve forzare il lettore ad interrogare su se stesso e sul senso del suo destino.[3]
  • La consonanza assoluta della gente napoletana con la città che la tiene stretta è il fatto capitale, che non somiglia a nessun altro fenomeno sociologico di altrove, perché New York o Londra potrebbero mutare a loro piacimento la loro disposizione urbanistica e la gente neviorchese o londinese non muterebbe di un soffio il suo modo di vivere. [...] Ed è proprio dunque da questo costante abbraccio fra la città e la sua gente, da questo rapporto che all'apparenza è anche irrazionale ma che poi si rivela come un preciso equilibrio di forze concomitanti, che nascono tanti aspetti della socialità napoletana. [(Mario Stefanile)]
    Parole che vorremmo fossero meditate dai vari inviati speciali quando vengono quaggiù a diagnosticare le piaghe di Napoli: che sono le stesse piaghe della nazione, ingrandite, se si vuole, o esasperate, solo da questa situazione di fondo registrata da Stefanile. Del resto, aggiungiamo a nostra consolazione, se questi inviati non l'hanno capita, la nostra Napoli, non l'hanno capita neppure tanti ospiti illustri, e ben più validi sul piano letterario: non l'hanno capita, vogliamo dire, né Dumas né Anatole France né Lamartine né Mommsen, i quali l'interpretarono, com'è naturale, ciascuno secondo le reazioni del proprio temperamento. E poi non dimentichiamo le eredità impostate nel nostro sangue: fenicia, greca, moresca, e forse anche slava se la filosofia del «lassamme fa a' Ddio» si apparenta al «nitchevò» russo: per non parlare dell'eredità del Vesuvio, questa specie di Moby Dick nostrano.
    Anche per tutto questo in nessun altro luogo del mondo si ritrova con la stessa evidenza che acquista a Napoli la testimonianza di un rapporto immediato viscerale e continuo fra i cittadini e la città, senza la mediazione e anzi a dispregio della legge, della norma e dell'autorità. Pensate per un momento a Spaccanapoli, dove una folla pittoresca, geniale, fertile d'inventiva, sembra quotidianamente accreditare – con parole, gesti e atteggiamenti – la sua duplice singolarità alla Giordano Bruno: scoprire la gioia di vivere nella sua deprimente miseria, e trovare nelle sue scarse felicità un invito alla malinconia e alla rassegnazione. Ecco perché prima che una città, Napoli è a suo modo una categoria umana, e il suo connotato più rilevante resta l'imprevedibilità e il suo destino quello di favorire e continuare a favorire, con la sua permanente contrapposizione e contraddizione – di paesaggio, di storia, di costume, di vita – un'abbondante fioritura di luoghi comuni che ne perpetuano un'immagine di falso folclore e ininterrotto colore locale [...][4]
  • Si stendeva sul golfo una caligine colorata, un cumulo di vapori che andavano dal rosa all'azzurro al viola, conferendo al paesaggio, come il riverbero d'uno specchio rotto, quella vaghezza di riflessi, di ombre, di tinte e di lumi ch'è la tristezza di Napoli. [...] In nessuna casa di Napoli la luce era stata ancora accesa. Ma quante case, Gesù! Da far venire il capogiro a fissarle un poco a lungo: era così grande, Napoli? Non s'era mai affacciata[5] da San Martino su Napoli: è uno spettacolo meraviglioso. Era grande, la città, a starci dentro non sembrava: ora osservava le facciate stinte delle case, predominavano l'intonaco rosa e il colore grigio, il rosa pareva un riverbero di fuoco e il grigio un tappeto di cenere vulcanica: riconosceva le cupole argentate delle chiese, i terrazzi asfaltati pieni di rattoppi come la biancheria dei poveretti, le buche dei palazzi distrutti: e le strade dove si trovano? Un groviglio, a guardarle da quassù, un crudo e umido intrico di pietre.[6]

Incipit di alcune opere

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La provincia addormentata

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La sorella gialla

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Nella camera c'era un odore caldo e sgradevole, mi prese subito alla gola: quasi mi pareva d'essere rientrata nella stalla, quando la mucca s'era sentita male. Mancava il puzzo del letame, ma c'era la stessa aria densa e appiccicaticcia. Marina dormiva. Mi avvicinai lentamente al letto: non era più gialla, era bianca, adesso. Ma aveva il letto, la coperta, sporca di sangue pareva, c'erano macchie rosse che affioravano spandendosi sulla stoffa, c'era quell'odore caldo, fortissimo qui. Istintivamente le tirai di dosso con violenza il lenzuolo, per quanto respinta da quell'alito pesante; vidi il sangue, le aveva bagnato la camicia, le mani aderenti ai fianchi, era scuro e quasi aggrumato appena percettibile, subito si rapprendeva. Lei non mi aveva sentito, non aveva avuto un gesto: io invece tremavo assalita da una frenetica ebbrezza di disinganno e di angoscia. Ma riuscii a gridare ugualmente:
Marina! Marina!
Entrarono tutti, come se fossero stati dietro l'uscio ad aspettare il mio grido: ma ormai bisognava solo lavarla, e metterle un'altra camicia.

Il capriolo ferito

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Quando la sera è carica e silenziosa, i rumori si spogliano d'ogni loro umanità, molti ridiventano semplice suono e acquistano, nella raggiunta impersonalità che li isola, una vibrazione tanto pura da sembrare crudele, traslucida risonanza. Arnaldo pianse, senza ritegni più, lasciandosi scuotere dai singhiozzi con uno spasimo di ritrovamento e d'espiazione che avrebbe potuto dargli ancora un approdo pensato perduto e aiutarlo a risalire dalla profondità della colpa, non importa a che prezzo. Soffocava contro il guanciale i singhiozzi e il suo grosso corpo sussultava a tratti, sembrava un pino tagliato alla base del tronco, caduto senza possibilità di ritrovare con la chioma il cielo, che lo spaurito brusio degli uccelli sbattuti dal nido colma intorno di lamenti e stridori.
«Emanuele,» diceva «ma non sono un assassino? Quel giorno era così bella, Emanuele, e io l'amavo e pensavo di ucciderla...»

Una spirale di nebbia

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E così continuava a fissare assorta la fotografia di sua madre e a rincorrere l'immagine di Valeria, ormai persa abbandonata dietro questo giuoco di sovrimpressioni: e forse perché adesso doveva pensarla morta, eliminata per sempre, avvertiva a un tratto un vago turbamento, un rimorso, no, non proprio un rimorso, semmai un'insofferenza confusa e delusa, una specie di, come poteva definirla, di necessità di riparazione, ma neppure è l'espressione giusta, di maggiore tolleranza e umanità, di ordine, ecco, di pulizia. Per quel bisogno che abbiamo, di fronte alla morte, di sistemare per bene i nostri rapporti con coloro che ci hanno preceduti evitando di lasciare zone d'ombra, sentimenti di cruccio o d'acredine, quasi per sentirsi in pace con noi stessi più che per non sentirsi in debito con loro. Quasi per farci perdonare d'essere ancora vivi…

Le parole del silenzio

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Andavano: senza una meta precisa, e come se non li guidasse un itinerario da rispettare ma soltanto quell'abbandono fiducioso alla macchina che pareva condurli essa per suo conto, e scegliere il percorso e il traguardo. Già da poco avevano lasciato la città, e forse tra breve avrebbe piovuto. Per adesso c'era soltanto questo vento caldo, sonoro, che a intermittenze spingeva verso il centro della via, sull'asfalto, a folate mucchi d'aghi di pino secchi, gli ultimi dell'inverno appena finito, esilissimi fuscelli accoppiati come le forcine: li vedeva alla luce dei fari ed era soprattutto quest'immagine d'arsura ad accrescere il presentimento della pioggia (ma lontano c'erano già lampi silenziosi).

I cieli della sera

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Questo era già qualcosa, lo sapevo: che il paesaggio, intorno, non presentasse troppi cambiamenti. Anzi diciamo che lo ritrovavo uguale: come se, partendo, lo avessi per miracolo fissato non tanto nella memoria quanto piuttosto nella sua realtà materiale, all'apparenza così solida e tangibile, nutrita invece d'allusioni e rimandi evanescenti simile a quelle tipiche inquadrature di certi servizi televisivi quando a un tratto la macchina le arresta perché lo spettatore possa con più margine notare i particolari che la voce fuori campo d'un corretto annunciatore suggerisce o commenta – e in tal modo un albero che poco stormiva al vento d'improvviso si blocca e resta lì davanti ai nostri occhi fermo immoto con le foglie in primo piano che somigliano curiosamente a piume palpitanti contro il cielo quasi prive di materia e farebbero pensare a un asprì di airone o d'altro uccello, ingrandito al massimo, e proprio mentre uno pensa fra stupito e ammirato ma guarda se non sembra una pittura informale e magari in quel momento sente che potrebbe anche conciliarsi con quel genere di pittura e d'esperimenti (se è il tipo che non ama queste cose), di colpo il cameraman o chi per lui riprende a girare la pellicola normalmente e l'immagine con un lieve scarro si rianima ed è di nuovo un albero che stormisce al vento e lungo la strada corre da matti una jeep militare gremita di soldati e in fondo dai terrazzi d'una casa bianca bassa squadrata come un cubo strani personaggi fanno cenni frenetici e possono essere ribelli o civili che aspettano soccorsi.

Note

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  1. Da La dama di piazza, in Letteratura delle regioni d'Italia, Storia e testi, Campania, p. 344.
  2. Da Il mondo della diva, Cinema Nuovo, 1° ottobre 1956; citato in Guido Aristarco, Il mito dell'attore, Edizioni Dedalo, Bari, 1983, p. 258. ISBN 978-88-220-5015-1
  3. Citato in Francesco Grisi, Napoli è per Prisco un personaggio-città, Momento-sera, lunedì 6 – martedì 7 dicembre 1965.
  4. Dalla prefazione a Vittorio Gleijeses, Feste, Farina e Forca, prefazione alla precedente edizione (1976) di Michele Prisco, Società Editrice Napoletana, Napoli, 19773 riveduta e aggiornata, p. X.)
  5. Aurora, protagonista del romanzo.
  6. Da La dama di piazza, Milano, Rizzoli, 1962. Citato in Citato Raffaele Giglio, Letteratura delle regioni d'Italia, Storia e testi, Campania, Editrice La Scuola, Brescia, 1988, pp. 343-344. ISBN 88-350-7971-3

Bibliografia

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  • Michele Prisco, La provincia addormentata, BUR, 1978.
  • Michele Prisco, Una spirale di nebbia, BUR, 1977.
  • Michele Prisco, Le parole del silenzio, Club Italiano dei Lettori, 1981.
  • Michele Prisco, I cieli della sera, Rizzoli, 1970.

Altri progetti

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Opere

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