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Masolino D'Amico

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Masolino D'Amico (1939 – vivente), critico teatrale, traduttore e giornalista italiano.

Citazioni di Masolino D'Amico

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Citazioni in ordine temporale.

  • Malgrado la ricchezza della sua tavolozza cromatica, malgrado l'ampiezza dei suoi orizzonti geografici, malgrado l'infinita varietà delle sue situazioni, Stevenson non affronta mai, almeno esplicitamente, l'argomento del sesso. Di conseguenza fu ben presto proposto ai bambini, e finì per assumere, perlomeno presso la generazione che al momento attuale governa le scelte, la fisionomia dello scrittore che si è letto da piccoli e dal quale ci si emancipa per passare a qualcosa di più serio e maturo [...].[1]
  • Benché la testimonianza sopraccitata dimostri la sua reputazione di persona di intelligenza eccezionale, nessuno fra quanti ebbero contatti con lei sembra avere sospettato l'altezza del suo genio. Questa altezza si manifestò in svariate lettere, e soprattutto nella poesia. È una poesia la cui caratteristica più appariscente risiede nel suo totale il anticonformismo: il successo lentamente arriso alla Dickinson sarebbe venuto nei tempi moderni, quando retrospettivamente si trovarono in lei anticipazioni di esperienze centrali nella nuova letteratura americana. Tale anticonformismo riguarda tanto le idee, quanto la forma nella quale queste sono espresse; fra le prime balzando in primo piano l'ironia per non dire la sfiducia nell'incrollabile religiosità di stampo calvinista di cui era saturo il suo ambiente (non che questa religiosità da cui prese le distanze non lasciasse comunque tracce profonde nel suo modo di ragionare e di esprimersi), unita alla costante, intensa ricerca di un'elevazione, di una fuga dalla quotidianità, nel sogno e nell'avventura intellettuale vissuta con una concretezza accostabile ai cosiddetti poeti metafisici del Barocco inglese.[2]
  • [Su Emily Dickinson] Quanto al «come» tradurla, risultando ovviamente impossibile riprodurre l'effetto di (finta?) ingenuità, di (finta?) facilità, di (finta?) orecchiabilità caratteristico di molti componimenti, rimane soltanto la scelta fra una concisione che renda qualcosa della scarna e misteriosa incisività dell'originale, e una relativa verbosità che, ovviamente scegliendo fra i significati possibili, si preoccupi piuttosto che di tradurre, di spiegare, rimandando all'originale stampato a fronte.[2]
  • [Su Enrico Maria Salerno] Salerno era un attore sommo che il teatro aveva prestato troppo spesso al cinema e alla tv in virtù della sua fotogenia e della versatile bravura, all'origine dell'enorme varietà dei ruoli propostigli.[3]
  • Con Jerzy Grotowski la cosiddetta avanguardia del teatro moderno raggiunse il punto estremo, quello dopo il quale non c'è che involuzione, o ripartenza; in altre parole, Grotowski fu colui che più di ogni altro mostrò che per sopravvivere il teatro doveva spogliarsi, rinunciare non solo a scenografie, costumi, effetti di luce, e insomma a ogni pretesa di creare un'illusione con metodi che apparivano ridicoli nell'età del cinema e della televisione, ma addirittura azzerarsi, fino a restare col solo attore, fatto di corpo e voce.[4]
  • Protagonista spesso popolaresco e sempre buono, leale e generoso, robusto uomo del sud dai grandi occhi azzurri che guardavano dritto in faccia l'interlocutore, Raf Vallone fu, come star cinematografica, quasi un unicum nel cinema italiano degli ultimi anni quaranta e dei primi anni cinquanta.[5]

Sul Silmarillion, La Stampa, 18 novembre 1978

  • È leale dire subito che capita di rado a un libro complesso come il Silmarillion di Tolkien [...] di potersi avvalere di un lavoro di traduzione-interpretazione intelligente e amorevole come quello compiuto da Francesco Saba Sardi. È leale anche aggiungere che questo stesso libro [...] non soltanto ha avuto tutti gli onori della stampa, ma, il che in un certo senso conta di più, si è immediatamente insediato in vetta alle classifiche dei più venduti.
  • Il Silmarillion è, come «libro da leggere», faticosissimo, per non dire impossibile. Del resto, non era neppure destinato alla pubblicazione. Se ne era sentito parlare; si sapeva che l'autore del Signore degli Anelli, già salutato dal suo amico Auden come il creatore di un mondo intero, con moltissime e varie razze nonché una sua storia, una sua lingua, una sua mitologia, teneva nel cassetto, di quel mondo, gli antecedenti, anzi, per così dire, i testi sacri. Ora che il figlio di Tolkien, Christopher, ha aperto il cassetto paterno, apprendiamo che le coordinate dei popoli e del mondo in questione cominciarono ad essere tracciate addirittura una quarantina d'anni prima del libro famoso; che per tutta la vita Tolkien, insomma, continuò segretamente a mettere insieme le basi da cui la storia del Signore degli Anelli scaturì.
  • Perché illeggibile questo libro, che abbiamo accostato addirittura alla Bibbia? Ma perché creando dei finti testi sacri, Tolkien si comportò come del resto richiedeva l'ispirazione alla letteratura altomedievale nordica dalla quale aveva preso le mosse (e che insegnava a Oxford). E cioè, non si abbandonò al piacere di descrivere personaggi; represse il suo incantevole senso dell'umorismo; assunse toni uniformemente solenni e criptici; sgranò elenchi di nomi, ètimi, parentele, dinastie. In una parola, non narrò; lasciò i fatti nudi, schematici e innumerevoli come in una serie di iscrizioni votive. I cinque blocchi che trattano le vicende dei tre Silmaril non vanno quindi etichettati come racconti; sono qualcosa di forse più alto e ambizioso, certo di diverso.
  • Concludendo: una manna, o meglio, una minera, per i convertiti. Ma probabilmente un osso duro da rodere per i neofiti, che faranno meglio ad accostarsi a Tolkien lungo le strade già note.

Persone speciali

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  • Allora molti dell'ambiente avevano il loro soprannome. De Sica, per esempio, era «il Buono»; Sordi era «il Mostro». L'aggettivo sottolineava un lato appariscente della maschera dell'individuo in questione. De Sica pubblicamente era indulgente e benevolo; nella personalità di Sordi il lato conservatore e qualunquista coesisteva con quello opposto, ferocemente dissacratore, in un modo che poteva sembrare inquietante. (p. 111)
  • [Sergio Amidei] È quindi indubbiamente uno dei padri fondatori del neorealismo. Subito dopo però è anche uno dei primi, forse addirittura il primo, a prevedere e a guidare l'evoluzione del neorealismo in quella che oggi è chiamata commedia all'italiana, definizione generica con cui si accenna a quel cinema che continuò l'attività di cronaca e denuncia dei fatti nostri in chiave ironica, o satirica. (p. 113)
  • Amidei, antifascista, simpatizzante comunista, uomo deciso a raccontare agli italiani i misfatti tra cui vivono e sono vissuti, si accorge che, dato anche il clima stabilitosi dopo il referendum e con la supremazia democristiana, potrà farlo solo, o comunque principalmente, col ricorso all'ironia: la censura perseguita gli autori «seri», ma lascia ai buffoni la loro tradizionale impunità. (p. 114)

Storia del teatro inglese

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  • Nei decenni centrali del Cinquecento, la diffusione del teatro come passatempo universale si sviluppò a Londra con una progressione impressionante. Fra il 1576 e il 1642 furono allestiti almeno duemila lavori, e possediamo i testi più o meno completi di circa settecentocinquanta, 236 per il periodo 1583-1616, anno della morte di Shakespeare. Si calcola che intorno al 1605, quando la voga toccò l'apice, sui forse 160.000 abitanti di Londra e dintorni le presenze a teatro fossero di 21.000 la settimana. A quest'epoca la capitale era dotata di almeno quattro o cinque grandi playhouses, in grado di ospitare fino a 2000 spettatori ciascuna. (p. 18)
  • Bisognerebbe cercare di distinguere quando si parla di teatro «elisabettiano» (termine che è consuetudine estendere anche a quello che a rigore dovrebbe chiamarsi giacobiano e carolino, dai sovrani venuti dopo la Regina Vergine), fra i testi destinati ai teatri «pubblici» o playhouses, e quelli per i teatri allora detti «privati», ossia al coperto, presso la Corte o nelle sale esclusive ad uso delle compagnie dei fanciulli. (p. 21)
  • John Keats definì Shakespeare «poeta camaleonte», capace di aderire a ciascuna sua creatura fino ad annullare la propria personalità – di provare lo stesso piacere nel calarsi in uno Iago o in una Imogen[6]. In effetti nessun autore di teatro, e pochissimi sommi poeti o narratori in qualunque lingua, ha mai dato vita a una paragonabile moltitudine di caratteri. (p. 32)
  • Ben Jonson, self-made man, fu londinese e amante della vita di città, aggressivo e collerico, mondano e fiero della propria erudizione quanto Shakespeare, del quale amò proporsi un po' come antagonista, fu nostalgico della campagna dov'era nato, gentile e diplomatico di modi, schivo e propenso a nascondersi fino a far dubitare i posteri della sua stessa esistenza. (p. 39)
  • [Roger Boyle] [...] nominato da Carlo II Lord Orrery, fu autore, su istigazione del sovrano, delle prime tragedie «eroiche», così chiamate per la loro funzione di proporre alti ideali ai loro nobili spettatori mostrando esempi di fulgide gesta ispirate dall'onore; e anche per il metro caratteristico di molte di esse, il cosiddetto «heroic couplet» o distico eroico, coppie di decasillabi a rima baciata, molto impiegato anche nella poesia satirica o didascalica di quest'età e della successiva. (p. 46)
  • [...] continua a sprigionare un certo fascino la figura dello sciagurato Nathanael Lee (1639?-92), attore fallito e psichicamente tarato, che passò cinque anni nel terribile manicomio di Bedlam e poi rilasciato e ricoveratovi ancora, morì mentre tentava un evasione. (p. 48)
  • Delle tragedie lasciate da Lee, una dozzina circa [...] solo le prime tre sono in rima, e anche lui dopo l'adozione del blank verse[7] venne allontanandosi dalla tragedia eroica regolare. Solo che mentre Dryden proponeva di farlo andando nella direzione della compostezza, il febbrile, stravagante, logorroico Lee sostituì piuttosto agli sfoghi dei suoi titanici protagonisti un po' marloviani i casi lacrimosissimi di eroine infelici additate alla pietà, in questo anticipando il sentimentalismo dell'età borghese. (p. 48)
  • Come attore, Garrick introdusse una nuova dinamicità che reagiva allo stile statico e declamatorio di Betterton[8] e seguaci; come capocomico pretese disciplina, professionalità, puntualità alle prove; come tecnico introdusse migliorie sia nelle luci sia nel décor, importando da Parigi il famoso scenografo Philippe Jacques de Loutherbourgh. (pp. 55-56)
  • [...] nelle commedie di Pinter la vicenda è spesso poco chiara, né si va verso uno sbocco che la concluda davvero; inoltre i personaggi violano con disinvoltura alcune leggi non scritte del teatro, per esempio contraddicendo quello che avevano appena detto su se stessi, e che il pubblico, abituato per convenzione a far tesoro di tali informazioni, aveva preso per buono. In compenso il dialogo è sempre teso e scattante, costruito su ritmi molto precisi in cui i silenzi hanno lo stesso valore delle battute [...]. (p. 84)
  • [Alan Ayckbourn] Con gli anni la comicità di questo autore, mai per la verità troppo spensierata, si è venuta velando di un pessimismo sempre meno dissimulato, quasi con un crescendo di sfiducia nelle sorti dei suoi personaggi e del suo Paese: il messaggio implicito è comunque che finché si riesce a ridere della propria paralisi, c'è speranza. (p. 91)

Note

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  1. Da Quando Stevenson racconta il diavolo, La Stampa, 23 novembre 1982, p. 3.
  2. a b Da Il diamante Emily, La Stampa, 18 dicembre 1986, p. 3.
  3. Da Salerno, il grande dai mille volti, La Stampa, 1 marzo 1994.
  4. Da La poetica del "senza", La Stampa, 16 gennaio 1999.
  5. Da Uno sguardo da Raf Vallone, La Stampa, 1º novembre 2002.
  6. Personaggi di Otello e Cimbelino.
  7. Verso sciolto.
  8. Thomas Patrick Betterton (1635 – 1710), attore teatrale inglese.

Bibliografia

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Voci correlate

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Altri progetti

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