Matilde Serao

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Matilde Serao

Matilde Serao (1856 – 1927), scrittrice e giornalista italiana.

Citazioni di Matilde Serao[modifica]

  • Attraverso tutta la rettorica delle sue idee e delle sue narrazioni, attraverso quel concetto ristretto del bene e del male, fiorisce una certa verità popolare, che sarà poi il punto di partenza onde i sociologi e gli artisti trarranno il grande materiale del romanzo napoletano. Piccola verità popolare, invero, e che consisteva soltanto nel chiamare coi loro veri nomi i tetri frequentatori delle bettole, col loro nome esatto e colla loro topografia i vicoli sordidi e lugubri, dove si annida in Napoli l'onta, la corruzione, la morte: piccola verità affogata nella frondosità fastidiosa del romanziere, che ha cominciato a vedere, ma che non ha forza, coraggio, tempo di veder molto, di veder tutto: piccola verità, dirò così esteriore, che la falsità bonaria del resto annega, ma che è verità, ma che è uno spiraglio di luce attraverso la tenebra, ma che è la fioca lampada nella notte profonda, che altri vedrà e che li condurrà alla loro strada, a tutta quanta la verità com'è, nuda, schietta, tutta piena di strazio, ma non senza conforto. (da un articolo necrologico del 1891.[1])
  • Dal primo giorno che ho scritto, io non ho mai voluto e saputo essere altro che una fedele e umile cronista della mia memoria. Mi sono affidata all'istinto e non credo che mi abbia ingannato.[2]
  • Fresca profonda verde foresta. La luce vi è mite, delicatissima, il cielo pare infinitamente lontano; è deliziosa la freschezza dell'aria; in fondo al burrone canta il torrente; sotto le felci canta il ruscello ... Si ascende sempre, fra il silenzio, fra la boscaglia fitta, per un'ampia via ... Tacciono le voci umane ... Non v'è che questa foresta, immensa, sconfinata: solo quest'alta vegetazione esiste. Siamo lontani per centinaia di miglia dall'abitato: forse il mondo è morto dietro di noi. Ma ad un tratto, tra la taciturnà serena di questa boscaglia, un che di bianco traspare tra le altezze dei faggi. Questa è Ferdinandea. (dal Corriere di Roma del 19 settembre 1886)
  • Giammai principe sopportò le avversità della fortuna con la fermezza silenziosa e la dignità di Francesco secondo. Colui che era stato o era parso debole sul trono, travolto dal destino, dalla ineluttabile fatalità , colui che era stato schernito come un incosciente, mentre egli subiva una catastrofe creata da mille cause incoscienti, questo povero re, questo povero giovane che non era stato felice un anno, ha lasciato che tutti i dolori umani penetrassero in lui, senza respingerli, senza lamentarsi; ed ha preso la via dell'esilio e vi è restato trentaquattro anni, senza che mai nulla si potesse dire contro di lui. Detronizzato, impoverito, restato senza patria, egli ha piegato la sua testa sotto la bufera e la sua rassegnazione ha assunto un carattere di muto eroismo. Galantuomo come uomo e gentiluomo come principe, ecco il ritratto di Don Francesco di Borbone.[3]
  • I gusti sono differenti. Vi è chi, leggendo il giornale, si diletta nei brillanti paradossi dell'articolo di fondo, seguendone mentalmente le evoluzioni: molti frequentano l'appendice, pianterreno lugubre e sanguinoso, dove si commettono, sera per sera, i più atroci delitti: alcuni scelgono la cronaca interna dove leggono importantissimi fatti avvenuti nell'Uraguay, a Capracotta o a Roccacannuccia; altri prediligono i telegrammi particolari, tanto particolari che talvolta i fili del telegrafo non ne hanno saputo nulla: non mancano, infine, gli amatori della quarta pagina. (da Estratto dello stato civile, in Dal vero)
  • [Scrivendo a un amico poco dopo il suo arrivo a Roma] Io sto bene come salute fisica, come salute morale sono in un periodo di produzione febbrile da far paura: scrivo dappertutto e di tutto con audacia unica, conquisto il mio posto a forza di urti, di gomitate, col fitto e ardente desiderio di arrivare, senza avere nessuno che mi aiuti o quasi nessuno. Ma tu sai che io non do ascolto alle debolezze del mio sesso e tiro avanti per la vita come se fossi un giovanotto».[4]
  • L'unica cosa che possa attenuare le proporzioni di un fiasco è lo pseudonimo, santuario in cui si ricovera dignitosamente l'autore offeso, pronto ad uscirne nel caso di un successo. E dove mettete quella cara libertà di sbizzarrirsi, di punzecchiare l'amico? Nessun obbligo di esser modesto, facoltà di dire sciocchezze, paradossi, financo verità: tutti sorrideranno, nessuno andrà in collera ed in questi tempi di squisitissime suscettività nervose, un parafulmine morale è cosa molto utile. Si stabilisce un dualismo, uno sdoppiamento, una impersonalità piena di diletto; l'uomo arrischia le sue riserve senza paura, la donna anche si mette in campo.[5]
  • Ma il ponente, si sa, serve a cullare col suo rombo il paesaggio napoletano che dorme, è la canzone che concilia il sonno delle persone, delle case e degli alberi.[6]
  • [Rispondendo ai colleghi del Corriere di Napoli che, stupiti dalla sua decisione, le chiedevano i motivi del suo trasferimento a Roma] Nient'altro che scrivere. Questo è il mio mestiere. Questo è il mio destino. Scrivere fino alla morte.[7]
  • [Napoli, dopo lo sventramento] Per un minimo di civiltà, voi avete perduto, tutto o in parte un massimo di bellezza, di carattere, di poesia. [...] Certo! [era] Sporca, puzzolente, incivile, barbara, forse: ma fulgente, ma splendida di un superbo carattere, ma affascinante di vivacità e di languore insieme; ma bella di una beltà sua inimitabile [...].[8]
  • Poche province meridionali e sopra tutto poche città hanno monumenti così importanti e così degni di studio come Benevento. Capitale di un forte ducato, sede di principi valorosi, conserva ancora oggi nei suoi monumenti le tracce dell'antica grandezza.[9]
  • Qui e la spunta la roccia, nuda, nera, ciclopica. Non è dunque questo Ferdinandea? No, questo è Pazzano: paese di pietra e paese di ferro. Sta nell'aria e si respira il ferro: sgorga e si rovescia dalla bocca delle miniere, rossastro, sottilissimo, dilagante in flutti di polvere. (agosto 1883)  Se sai qual è la fonte di questa citazione, inseriscila, grazie. citazione necessaria
  • «Non si vede quel caldaione di Montecitorio,» riprese il deputato toscano, con la voce diventata più aspra: «è affogato tra le case; noi affoghiamo in esso. Un forno di cartapesta, dentro cui si cuoce lentamente, con una cottura disseccante, temperatura da bachi che addormenta tutte le audacie e riscalda tutte le timidità, che finisce per dare una dannosa cocciutaggine a tutti gl'irresoluti, e che solleva qualche pseudo-idea sotto il cranio dei cretini. Non si vede di qui il paese della politica, color di legno, come il signor Comotto ha voluto che fosse. Tutti gli abitanti di quel tamburone di cartone si agitano, gridano o tacciono, per una legge, per una leggina, per una ferrovia, per un ponte: più della legge, piccola o grande, più di ogni ferrovia o di ogni ponte, esser ministro, portare un'uniforme, sentirsi assordato dalla marcia reale nei paesi dove si arriva, aver per naturali nemici gli amici di prima, sentirsi dare del ladro dai giornali, vedersi aprire le lettere private da un segretario troppo zelante... e altre dolcezze simili. Vi sono dei disgraziati che desiderano di esser segretari generali! Uno di questi disgraziati sono stato io. Oh, brutto forno che fai ridurre l'uomo come una fava secca, arso da un desiderio irrefrenato e consumato dalla inettezza di questo desiderio!» (On. Giustini[10])
  • Romba, romba il Vesuvio, proprio su noi, proprio su tutti noi: alto è l'incendio del cratere, oramai, nella sera che discende; si erge, spaventosa, innanzi a noi, la duplice massa bruna e mostruosa delle due lave immote: ardono, esse, profondamente, le lave; e, intanto, una pazzia è nelle persone, popolani, contadini, signori, indigeni, napoletani, stranieri, come una tragica gazzarra è intorno a quel paesaggio di tragedia, fra il pericolo appena scongiurato di questa notte, e il pericolo imminente di domani! (da Il giorno, 1906; ora in Sterminator Vesevo. Diario dell'eruzione aprile 1906, 1910)
  • Sotto il vivo raggio del sole, il glauco mare freme di gioia; è fresco, è profumato. Le sue voci seduttrici sono irresistibili, e bisogna evitare di guardare per non gettarvisi dentro, anelanti del suo abbraccio. Le serate sono splendide, la Villa è gaia, le fanciulle sotto gli alberi somigliano molto alla Galatea di Virgilio, sono più... o forse meno vestite, ecco tutte, ecco tutto. Ci è da divertirsi, ci è da respirare a pieni polmoni l'aria leggiera, ci è da sorridere, financo, financo... ci è da innamorarsi. Non per te, lo so, e già mi pento di questa insinuazione contro la fedeltà di un uomo che emulerà Filemone e Bauci. (da una lettera a Gaetano Bonavenia da Napoli del 23 giugno 1878[11])
  • [Su Benevento] Una delle più antiche e delle più gloriose città del Mezzogiorno[9].

Il ventre di Napoli[modifica]

Incipit[modifica]

Efficace la frase, Voi non lo conoscevate, onorevole Depretis, il ventre di Napoli. Avevate torto, perché voi siete il Governo e il Governo deve saper tutto. Non sono fatte pel Governo, certamente, le descrizioncelle colorite di cronisti con intenzioni letterarie, che parlano della via Caracciolo, del mare glauco, del cielo di cobalto, delle signore incantevoli e dei vapori violetti del tramonto: tutta questa rettorichetta a base di golfo e di colline fiorite, di cui noi abbiamo già fatto e oggi continuiamo a fare ammenda onorevole, inginocchiati umilmente innanzi alla patria che soffre; tutta questa minuta e facile letteratura frammentaria, serve per quella parte di pubblico che non vuole essere seccata per racconti di miserie. Ma il governo doveva sapere l'altra parte; il governo a cui arriva la statistica della mortalità e quella dei delitti; il governo a cui arrivano i rapporti dei prefetti, dei questori, degli ispettori di polizia, dei delegati; il governo a cui arrivano i rapporti dei direttori delle carceri; il governo che sa tutto: quanta carne si consuma in un giorno e quanto vino si beve in un anno, in un paese; quante femmine disgraziate, diciamo così, vi esistano, e quanti ammoniti siano i loro amanti di cuore, quanti mendichi non possano entrare nelle opere pie e quanti vagabondi dormano in istrada, la notte; quanti nullatenenti e quanti commercianti vi sieno; quanto renda il dazio consumo, quanto la fondiaria, per quanto s'impegni al Monte di Pietà e quanto renda il lotto. Quest'altra parte, questo ventre di Napoli, se non lo conosce il Governo, chi lo deve conoscere? E se non servono a dirvi tutto, a che sono buoni tutti questi impiegati alti e bassi, a che questo immenso ingranaggio burocratico che ci costa tanto? E, se voi non siete la intelligenza suprema del paese che tutto conosce e a tutto provvede, perché siete ministro?

Citazioni[modifica]

  • Napoli è il paese dove meno costa l'opera tipografica; tutti lo sanno: gli operai tipografi sono pagati un terzo meno degli altri paesi. Quelli che guadagnano cinque lire a Milano, quattro a Roma, ne guadagnano due a Napoli, tanto che è in questo benedetto e infelice paese, dove più facilmente nascono e vivono certi giornaletti poverissimi, che altrove non potrebbero pubblicare neppure tre numeri. I sarti, i calzolai, i muratori, i falegnami sono pagati nella medesima misura; una lira, venticinque soldi, al più, trenta soldi al giorno per dodici ore di lavoro, talvolta penosissimo. I tagliatori di guanti guadagnano novanta centesimi al giorno. E notate che la gioventù elegante di Napoli, è la meglio vestita d'Italia: che a Napoli si fanno le più belle scarpe e i più bei mobili economici; notate che Napoli produce i migliori guanti. (pp. 20-21)
  • Ascoltate un poco, quando una operaia napoletana nomina i suoi figli. Dice: le creature, e lo dice con tanta dolcezza malinconica, con tanta materna pietà, con un amore così doloroso, che vi par di conoscere tutta, acutamente, la intensità della miseria napoletana. (p. 24)
  • La massima golosità è il soffritto: dei ritagli di carne di maiale cotti con olio, pomidoro, peperone rosso, condensati, che formano una catasta rossa, bellissima all'occhio, da cui si tagliano delle fette: costano cinque soldi. In bocca, sembra dinamite. (p. 29)
  • Credete che al napoletano basti la Madonna del Carmine? Io ho contati duecentocinquanta appellativi alla Vergine, e non sono tutti. Quattro o cinque tengono il primato. Quando una napoletana è ammalata o corre un grave pericolo, uno dei suoi, si vota a una di queste Madonne. Dopo scioglie il voto, portandone il vestito, un abito nuovo, benedetto in chiesa, che non si deve smettere, se non quando è logoro. Per l'Addolorata il vestito è nero, coi nastri bianchi; per la Madonna del Carmine, è color pulce coi nastri bianchi; per l'Immacolata Concezione, bianco coi nastri azzurri; per la Madonna della Saletta, bianco coi nastri rosa. Quando non hanno i danari per farsi il vestito, si fanno il grembiule; quando mancano di sciogliere il voto, aspettano delle sventure in casa.
    E il sacro si mescola al profano. Per aver marito, bisogna fare la novena a san Giovanni, nove sere, a mezzanotte, fuori un balcone, e pregare con certe antifone speciali. (p. 34)
  • [...] questo ricco sangue napoletano si arroventa nell'odio, brucia nell'amore e si consuma nel sogno [...]. (p. 39)
  • È gente umile, bonaria, che sarebbe felice per poco e invece non ha nulla per essere felice; che, sopporta con dolcezza, con pazienza, la miseria, la fame quotidiana, l'indifferenza di coloro che dovrebbero amarla, l'abbandono di coloro che dovrebbero sollevarla.
    Felice per l'esistenza all'aria aperta, eredità orientale, non ha aria; innamorata del sole, non ha sole; appassionata di colori gai, vive nella tetraggine; per la memoria della bella civiltà anteriore, greca, essa ama i bianchi portici che si disegnano sull'azzurro, e invece le tane dove abita questa gente, non sembrano fatte per gli umani, e dei frutti della terra, essa ha i peggiori, quelli che in campagna si dànno ai maiali; e vi sono vivande che non assaggia mai. (p. 39)
  • Il popolo napoletano, che è sobrio, non si corrompe per l'acquavite, non muore di delirium tremens; esso si corrompe e muore pel lotto. Il lotto è l'acquavite di Napoli. (p. 45)
  • E, in ultimo, sapete che è accaduto? Che il popolo, non potendo abitare il Rettifilo, di cui le pigioni sono molto care, non avendo le traverse a sua disposizione, non avendo delle vere case del popolo, è stato respinto, respinto, dietro il paravento! Così si è accalcato molto più di prima; così il Censimento potrebbe dirvi che tutta la facciata del Rettifilo, è poco abitata, e tutto ciò che è dietro, disgraziatamente, è abitato più di prima; che dove erano otto persone, ora sono dodici; che lo spazio è diminuito e le persone sono cresciute; che il Rettifilo, infine, ha fatto al popolo napoletano più male che bene! (p. 96)
  • Quel che si è fatto a Nizza e a Montecarlo, ha formato la fortuna di tutta la Cornice da Mentone a Hyères quel che si è fatto al Cairo, ha formato la fortuna di tutto l'Egitto: sia, sia, questa opera buona, questa opera santa, e in questo paese così bello e così povero, così affascinante e così pieno di miseria, in questo paese così delizioso e dove si muore di fame, in questo paese dall'incanto indicibile, si dia alla industria del forestiero la forma larga, felice, fortunata, che porti, a Napoli, il solo modo di far vivere centinaia di migliaia di persone! (p. 110)
  • Un cattivo odore di stantio, di cose antiche e consunte, tenute troppo tempo chiuse e tirate fuori, si è diffuso nell'aria che respiriamo, da qualche giorno. Nei primi comizî, nei primi proclami, con una certa finzione di serietà, anche, son venuti fuori dagli armadi sgangherati della rettorica amministrativa: il partito clerico-borbonico, il partito clerico-moderato, il partito socialistoide, il partito anarcoide e, persino, guarda, guarda, quella consumatissima cosa che è il partito liberale. (1906, p. 138)
  • Troppo ho sofferto nell'onore e nella prosperità: troppo ho lagrimato di vergogna e di indignazione. Io debbo cominciare per salvarmi, se voglio esser salvata da tutto, da tutti. Nelle mie mani è la mia prima risurrezione: cioè quella della mia esistenza, morale, cioè quella del mio decoro sociale. Farò, io, veder al mondo, all'Europa, all'Italia che di tutti i doni della sorte, io sono degna, che di tutti gli aiuti fraterni, io sono degna, io, Napoli, paese di gente onesta, mandando al Comune solo gli onesti, chiedendo ad essi, che da essi si prosegua e si esalti la mia riabilitazione! (p. 143)

La ballerina[modifica]

Incipit[modifica]

Carmela Minino, in piedi presso il cassettone, macchinalmente, contò ancora una volta il denaro che teneva chiuso nello sdrucito piccolo portafogli: e vi trovò sempre le medesime diciotto lire, tre biglietti da cinque e tre biglietti da una lira che vi erano il giorno prima e la settimana prima. Si cavò di tasca il portamonete che portava addosso, quando usciva e dove riponeva i pochi spiccioli per pagare l'omnibus, per pagare la sedia, alla messa, per bere un bicchier d'acqua: vi pescò sette soldi. E con un atto puerile e triste guardò desolata e ansiosa intorno, quasi che dalle nude pareti della sua stanza, dai poveri mobili strettamente necessarii potesse uscire, fantasticamente, qualche immaginaria somma di denaro che venisse ad aumentare il suo così insufficiente capitaletto.

Citazioni[modifica]

  • Sotto il cielo basso e bigio, in quel tetro giorno di novembre, il camposanto di Napoli che occupa una delle sue più belle e più amene colline, quella di Poggioreale, conservava il suo aspetto d'immenso e florido giardino signorile: e i suoi cespuglietti di fìori vivaci che circondano le tombe e le sue siepi di bosso e di mortella che dividono gii ombrosi viali dai campi pieni di lapidi e i boschetti di alberi dove da mattina a sera cinguettano gii uccellini, gli alberi alti che ombreggiano le sue cappellette, le sue chiesette, i suoi più grandi monumenti, gli conservano, in ogni stagione questo grandioso aspetto di parco aristocratico, qua e là interrotto da piccoli editici ora vezzosi, ora pomposi. Non solo nel giorno della commemorazione dei morti, ma sempre vi lavorano giardinieri, sotto la direzione di qualcuno che ama quel camposanto teneramente, e le più belle rose di Napoli vi crescono e i meravigliosi crisantemi, di ogni tinta, ne smaltano persino le aiuole dei poveri e in tutte le stagioni pare che vi sorrida dolcemente la primavera dei morti. Tutto l'anno il camposanto di Poggioreale ha un aspetto, nella sua florida solitudine, raccolto, non triste; mentre in quel giorno, coi suoi viali neri di gente, con tutte le porte delle sue cappelle, delle sue chiese, dei suoi grandi monumenti da cui escivan chiarore di cerei, canti liturgici e odore d'incensi, misto a quello dei fiori freschi, il suo aspetto, sempre, non era triste, ma singolare, ma bizzarro, come di una strana fiera mortuaria, come di una mai vista pompa funebre, in un parco vastissimo, percorso da una folla immensa e svariata. (vol. I, pp. 43-44)
  • Ella sorrideva dagli occhi e dalle labbra, danzando, mentre il suo corpo pieghevole si arrotondava allo slancio lievissimo: ella danzava, senza che mai quel sorriso, quel lampeggio degli occhi venissero meno, per la fatica: ella danzava, così, come se null'altro ella fosse venuta a fare, sulla terra. E veramente, la sua irresistibile perizia, veramente la delizia di quella danza facevano delirare le platee: e dal loggione dove il popolo si ammassava nelle serate classiche alle poltrone d'orchestra dove si raccoglieva la nobiltà napoletana, il nome di Amina Boschetti era acclamato come quello di una trionfatrice. La coprivano di fiori, di doni, di gioielli: le offrivano i loro cuori e le loro fortune: ed ella tutto accoglieva, sorvolando su tutto, sapendo che i fiori, i gioielli, i cuori, le fortune, erano fatti per lei, perché i suoi piedini calzati dalle fini scarpette di raso rosa vi facessero in mezzo una gaia danza. (vol. I, pp. 55-57)

Leggende napoletane[modifica]

  • Mancano a noi le nere foreste del Nord, le nere foreste degli abeti, cui l'uragano fa torcere i rami come braccia di colossi disperati; mancano a noi le bianchezze immacolate della neve che dànno la vertigine del candore; mancano le rocce aspre, brulle, dai profili duri ed energici; manca il mare livido e tempestoso. Sui nostri prati molli di rugiada non vengono gli elfi a danzare la ridda magica; non discendono dalle colline le peccatrici walkirie, innamorate degli uomini; non compaiono al limitare dei boschi le roussalke bellissime; qui non battono i panni umidi le maledette lavandaie, perfide allettatrici del viandante; il folletto kelpis non salta in groppa al cavaliere smarrito. (da La città dell'amore, p. 3)
  • Napoli, la città della giovinezza, attendeva Parthenope e Cimone; ricca, ma solitaria, ricca, ma mortale, ricca, ma senza fremiti. Parthenope e Cimone hanno creata Napoli immortale. (da La città dell'amore, p. 4)
  • Se interrogate uno storico, o buoni ed amabili lettori, vi risponderà che la tomba della bella Parthenope è sull’altura di San Giovanni Maggiore, dove allora il mare lambiva il piede della montagnola. Un altro vi dirà che la tomba di Parthenope è sull’altura di Sant’Aniello, verso la campagna, sotto Capodimonte. Ebbene, io vi dico che non è vero. Parthenope non ha tomba, Parthenope non è morta. Ella vive, splendida, giovane e bella, da cinquemila anni. Ella corre ancora sui poggi, ella erra sulla spiaggia, ella si affaccia al vulcano, ella si smarrisce nelle vallate. È lei che rende la nostra città ebbra di luce e folle di colori: è lei che fa brillare le stelle nelle notti serene; è lei che rende irresistibile il profumo dell’arancio; è lei che fa fosforeggiare il mare. Quando nelle giornate d’aprile un’aura calda c’inonda di benessere è il suo alito soave: quando nelle lontananze verdine del bosco di Capodimonte vediamo comparire un’ombra bianca allacciata ad un’altra ombra, è lei col suo amante; quando sentiamo nell’aria un suono di parole innamorate; è la sua voce che le pronunzia; quando un rumore di baci, indistinto, sommesso, ci fa trasalire, sono i suoi baci; quando un fruscìo di abiti ci fa fremere al memore ricordo, è il suo peplo che striscia sull’arena, è il suo piede leggiero che sorvola; quando di lontano, noi stessi ci sentiamo abbruciare alla fiamma di una eruzione spaventosa, è il suo fuoco che ci abbrucia. È lei che fa impazzire la città: è lei che la fa languire ed impallidire di amore: è lei la fa contorcere di passione nelle giornate violente dell’agosto. Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non ha tomba, è immortale, è l’amore. Napoli è la città dell’amore. (da La città dell'amore, p. 5)
  • Ognuno sa che Iddio, generoso, misericordioso e magnifico Signore, ha guardato sempre con occhio di predilezione la città di Napoli. Per lei ha avuto tutte le carezze di un padre, di un innamorato, le ha prodigato i doni più ricchi, più splendidi che si possano immaginare. (da Virgilio, p. 9)
  • Il bigio palazzo si erge nel mare. Non è diroccato, ma non fu mai finito; non cade, non cadrà, poiché la forte brezza marina solidifica ed imbruna le muraglie, poiché l’onda del mare non è perfida come quella dei laghi e dei fiumi, assalta ma non corrode. Le finestre alte, larghe, senza vetri, rassomigliano ad occhi senza pensiero; nei portoni dove sono scomparsi gli scalini della soglia, entra scherzando e ridendo il flutto azzurro, incrosta sulla pietra le sue conchiglie, mette l’arena nei cortili, lasciandovi la verde e lucida piantagione delle sue alghe. Di notte il palazzo diventa nero, intensamente nero; si serena il cielo sul suo capo, rifulgono le alte e bellissime stelle, fosforeggia il mare di Posillipo, dalle ville perdute nei boschetti escono canti malinconici d'amore e le monotone note del mandolino: il palazzo rimane cupo e sotto le sue vôlte fragoreggia l’onda marina. Ogni tanto par di vedere un lumicino passare lentamente nelle sale e fantastiche ombre disegnarsi nel vano delle finestre: ma non fanno paura. (da Il palazzo dogn'Anna, 1895, pp. 69-70)
  • Là, dove il mare del Chiatamone è più tempestoso, spumando contro le nere roccie che sono le inattaccabili fondamenta del Castello dell'Ovo, dove lo sguardo malinconico del pensatore scuopre un paesaggio triste che gli fa gelare il cuore, era altre volte, nel tempo dei tempi, cento anni almeno prima la nascita del Cristo Redentore, una isola larga e fiorita che veniva chiamata Megaride o Megara che significa grande nell'idioma di Grecia. Quel pezzo di terra s'era staccato dalla riva di Platamonia, ma non s'era allontanato di molto: e quasi che il fermento primaverile passasse dalla collina all'isola, per le onde del mare, come la bella stagione coronava di rose e di fiorranci il colle, così l'isola fioriva tutta in mezzo al mare come un gigantesco gruppo di fiori che la natura vi facesse sorgere, come un altare elevato a Flora, la olezzante dea. Nelle notti estive dall'isola partivano lievi concenti e sotto il raggio della luna pareva che le ninfe marine, ombre leggiere, vi danzassero una danza sacra ed inebbriante; onde il viatore della riva, colpito dal rispetto alla divinità, torceva gli occhi allontanandosi, e le coppie di amanti cui era bello errare abbracciati sulla spiaggia davano un saluto all'isola e chinavano lo sguardo per non turbare la sacra danza. Certo l'isola doveva essere abitata, ne' suoi cespugli verdi, nei suoi alberi, nei suoi prati, nei suoi canneti, dalle Nereidi e dalle Driadi: altrimenti non sarebbe stata così gaia sotto il sole, così celestiale sotto il raggio lunare, sempre colorita, sempre serena, sempre profumata. Era divina, poiché gli dei l'abitavano. (da Megaride, 1895, pp. 163-164)
  • Lassù, sul colle, vive il bosco verdeggiante dalle fresche ombrie. I sentieri si allungano a perdita d'occhio sotto i grandi alberi; sulla terra scricchiolano lievemente le foglie morte. La vegetazione sbuca possente dal suolo, s'ingrossa nei tronchi nodosi, si espande nei rami che s'intrecciano, nelle innumerevoli foglie lucide e brune; ai piedi degli alberi cresce l'erba morbida e minuta, dalle foglioline piccine. Nelle siepi fiorisce l'anemone, e sfoglia al suolo i suoi petali la rosa selvaggia. Schizzano, sfilano le lucertoline grigio-verde, dalla testolina mobile ed intelligente, dalla coda nervosa. Sotto gli archi dei grandi alberi penetra temperata la luce; tra foglia e foglia il sole getta sulla terra dei cerchielli ridenti e luminosi; raggi sottili e biondi passano fra i rami. Il silenzio è profondo; è lontana, lontana la rumorosa città. Un profumo vivificante si espande; ogni tanto il garrito allegro di un uccello fa ondeggiare le conche rosee dell'aria. Non è, non è la piccioletta e magra natura dei giardini tagliati ad angoli retti, squadrati, polverosi e malinconici; non sono le aiuole di fiorellini variopinti che non dànno freschezza, non dànno ombra, tirati su con cure infinite; non è la natura corretta e riveduta, sfacciata e pomposa che si stende al sole senza vergogna, riarsa, secca. È la forte e possente natura che irrompe dalla terra vera, e allaga, e innonda la campagna come oceano di verdura; è la natura pudica e grande del bosco, che si ammanta di foglie, che vela il volto divino, che molce la passione delle sue nozze nell'ombre discrete, nei placidi silenzi, nei recessi ignoti. È nell'immenso bosco che si sogna; nei quadrivi lontani trapassa rapidissimo un lieve fantasma; nei bruni tronchi apparisce qualche leggiadro volto di donna; la foglia che cade sembra il rumore di un bacio scoccato. È nel discreto e amabile bosco che s'ama... (da La leggenda di Capodimonte, 1895, pp. 201-203)
  • Pensa, o poetica amica, al felice connubio dell'arte con la natura, pensa alla celeste armonia fra l'uomo che crea ed il mondo da lui creato, pensa alla città che sarà bella e buona, tutta bianca e colorita dal sole, senza macchie, senza cenci: oh, allora, allora! O lontano avvenire, o giorno splendido che come quello di Faust meriteresti di essere fermato... (da La leggenda dell'avvenire, 1895, pp. 224-225)

Explicit[modifica]

  • Ma i napoletani non temono: il Vesuvio è loro vecchio amico, vuole scherzare, è un brontolone, ma presto tacerà. Poi vi è S. Gennaro che con le dita sollevate in atto d'imperio, comanda alla lava di non avanzarsi; le donne pregano il parroco della cattedrale a portare in piazza San Gennaro di argento o il prezioso suo sangue che è conservato nelle ampolline. In qualche chiesetta si prega. Una mattina il sole non viene fuori, una fitta nube grigia nasconde il cielo, piove cenere; i napoletani sorridono ancora e vanno ai loro affari sotto quella strana pioggia. Ma il giorno seguente il rombo diviene tumultuoso, le scosse di terremoto si succedono l'una all'altra, orribili convulsioni squassano il monte, sui cui fianchi s'aprono dappertutto bocche di fuoco, le lave si uniscono, si fondono, sono una lava sola, è una montagna di lava che cammina verso la città coi suoi ruscelli di fuoco; soffocanti fetori di zolfo ammorbano l’aria, piove cenere calda e pesante, acqua bollente, piovono lapilli infuocati sulla città: riuniti al grande vulcano corrispondono con pauroso miracolo ridestati, le eruzioni dei monte Echia, dell’Epomeo e di Pozzuoli. Piove la morte. Nel clamore disperato dei morenti, nel fragore delle case che crollano, nel tuono del terremoto, nella spaventosa tempesta del mare che si rizza incollerito o ribelle, nel bagliore sanguigno che appena rischiara le cupe tenebre, in uno sconquasso che capovolge la natura e le cose, la lava vittoriosa entra in Napoli e Napoli finisce di morire in un incendio colossale.

    E che? Tu sorridi ancora, orgogliosa creatura? Ti comprendo: leggo nel tuo pensiero come in un libro dalle pagine aperte. Tu pensi quello che io penso; tu sorridi a quella morte; questa Napoli che fu creata dall’amore, che visse nella passione della luce, dei colori smaglianti, dei profumi violenti, delle notti innamorate, visse nel lusso grandioso della natura e nella espansione superba del sentimento, questa città appassionata morirà bene, morirà degnamente nell’altissima e fiammeggiante apoteosi di un oceano di fuoco.

Incipit di alcune opere[modifica]

Addio, Amore![modifica]

Lunga distesa, immobile sotto la bianca coltre del letto, con le braccia prosciolte e le mani aperte, con la bruna testa inclinata sopra una spalla, con un soffio impercettibile di respiro, Anna pareva dormisse da due ore, immersa nel profondo abbandono del sonno giovanile. Sua sorella Laura, che dormiva in un secondo candido lettino da fanciulla, all'altro capo della vasta stanza, aveva quella sera molto prolungata la sua solita lettura notturna, con cui sfuggiva alla conversazione ultima della giornata, fra sorelle. Ma appena l'ombra della lunga e fredda notte d'inverno aveva avvolto le cose e le persone della camera delle due fanciulle, Anna aveva schiuso gli occhi e li teneva fissi, sbarrati sul letto di laura, il cui biancore appariva confusamente, anche nell'oscurità.

All'erta, sentinella[modifica]

Nella luminosa e calda ora pomeridiana, il paesaggio napoletano aveva dormito assai, deserto, silenzioso, immobile sotto il leonino sole di agosto. Nella lunga siesta, da mezzogiorno alle quattro, nessuna ombra d'uomo si era veduta, apparendo e sparendo, sulla gran pianura verde dei Bagnoli; sulla larga via bianca, a sinistra, che viene da Posillipo, rasentando l'ultimo spalto di quella collina che è anche un capo, larga via che è la delizia di quanti amano Napoli, stranieri e indigeni, non una carrozza, non un carretto; non una carrozza, non un carretto sulla dritta via, chiamata di Fuorigrotta, e che ai Bagnoli trova il suo primo angolo, voltando per andare a Pozzuoli, a Cuma, a Baia; non una nave sul mare, che sorpassasse il bellissimo capo di Posillipo, per andarsene lontano, linea nera filante, sormontata da un vago piumetto di fumo; non una vela bianca nel canale di Procida; non una barchetta intorno alla verde isola di Nisida, che prospetta, in tutta la sua lunghezza, la spiaggia dolce dei Bagnoli.

Castigo[modifica]

Un alto e tetro silenzio era nella stanza di Cesare Dias. Egli stava seduto nel seggiolone di cuoio bruno, teneva appoggiati i gomiti sulla grande scrivania di legno scolpito e le due mani gli nascondevano gli occhi e la fronte: si vedean solo i capelli un po' scomposti e le labbra pallidissime sotto i mustacchi disfatti. Fuori, la triste giornata invernale declinava e tetre si facevano le ombre nell'austera stanza, tetre intorno a quella immobile figura di uomo di cui, nell'alto silenzio, parea non si udisse neanche il respiro.

Cuore infermo[modifica]

Finiva la giornata violenta e tormentosa. Dal mattino la terra bruciava sotto lo splendido sole di agosto, bruciava lentamente, consumando le sue sorgenti di vita e di freschezza, diventando gialla, smorta, arida; l'aria rimaneva senza moto, greve, infiammata, carica di profumi acri; i fiori dei giardini morivano, estenuati da quel lusso di calore, simili a coppe d'incenso dove fumano intensamente gli ultimi granelli votivi; le vigne vesuviane, basse, contorte, arse dal nero terreno vulcanico, arse dal sole esalavano un forte sentore di zolfo che saliva al cervello; dai terrazzi saliva un penetrante odore di asfalto liquefatto.

Dal vero[modifica]

Di certo il fanciullo era bellissimo. Aveva gli occhi grandi ed azzurri, ma di quell'azzurro vero, leale che non diventa mai nero di sera; il bianco della cornea era anche irradiato da una tinta bluastra, cosa che faceva sembrare anche più grande la pupilla: i lumi della sala, riflettendosi in quegli occhi azzurri, vi accendevano una stella luccicante, una sola. Poi era biondo; non tendente al giallo, come la Gioconda di Leonardo da Vinci, né al fulvo, come la Maddalena del Tiziano, e nemmeno come dovette essere biondo il danese Amleto: quei capelli erano fini, lucidi, biondi e dolci alla vista, riposavano lo sguardo stanco da tante teste sfrontatamente brune. Quella testina originale, dal profilo abbozzato, dai lineamenti puri, dalla fronte serena, attirava il mio sguardo.

Ella non rispose[modifica]

«Roma, notte di maggio...

«Non vi conosco: non mi conoscete. Non vi ho vista, mai. E vi vedrò, io, forse, mai? Voi, forse, non mi vedrete mai. Eppure la mia anima, inattesamente, si è legata, salda, alla vostra, in un vincolo tanto più tenace e stretto, in quanto che oscuro, fantastico e misterioso: e io sento di amarvi, con tutte le mie forze, come se il vostro volto di donna — siete voi giovane? bella? Non lo so: non vi conosco — come se questo volto chiuso nell'ombra, mi fosse seducentemente noto da mesi e da anni, come se il fascino della vostr'anima, da mesi e da anni si esercitasse su me e mi tenesse e mi avvincesse.

Fantasia[modifica]

— Il fioretto di domani è questo — disse il predicatore, leggendo un cartellino: — Voi offrirete a Maria Vergine i sentimenti di rancore che avete nel cuore e abbraccerete la compagna di scuola, la maestra, la serva che credete di odiare.
Nella penombra della cappella vi fu un movimento tra le educande grandi e tra le maestre: le piccine non si mossero. Delle piccine qualcuna sonnecchiava, qualcuna sbadigliava dietro la manina: sui rotondi visetti si dilatava la contrazione della noia.

Fior di passione[modifica]

Fulvio s'inchinò, prese dalla mano di Paola il gelato che ella, sorridendo dolcissimamente, gli porgeva, e le disse, guardandola negli occhi:
- Vi amo.
- Non dovete amarmi – mormorò lei, senza scomporsi, seguitando a sorridere.
- E perché?
- Perché ho marito – ribatté ella, ma placidamente.
- Non importa!

Gli amanti: pastelli[modifica]

Donna Grazia scrive così, di questo suo amante:
La prima volta in cui Nino Stresa mi mancò di rispetto, fu in un ballo. Ero vestita di broccato bianco, quella sera: e il busto del vestito era sostenuto, sulle spalle, da due fascie di brillanti che formavano manica. Egli, Nino Stresa, mi cominciò a guardare, di lontano, poco dopo la mia apparizione nel ballo: e non potei più fare un movimento per passeggiare o per ballare, senza sentire il suo sguardo fermo sovra me.

I capelli di Sansone[modifica]

Paolo Joanna andava e veniva per la stanza, vestendosi, straccamente, ancora tutto pieno di sonno. Sul suo letto disfatto stavano una quantità di giornali aperti e spiegazzati, cascavano dalla sponda, giacevano sul tappetino miserabile, erano quelli della sera innanzi, su cui si era addormentato, su cui si era arrotolato, dormendo: quelli della mattina, ancora chiusi dalle fascette multicolori erano deposti sul vecchio tavolino da notte, accanto a una tazza da caffè — e attratte dal fondiccio melmoso del caffè, dove lo zucchero si liquefaceva, le mosche vi ronzavano attorno — e un sottile odore d'inchiostro di stamperia fluttuava nell'aria.

Il paese di cuccagna[modifica]

Dopo mezzogiorno il sole penetrò nella piazzetta dei Banchi Nuovi, allargandosi dalla litografia Cardone alla farmacia Cappa e di là si venne allungando, risalendo tutta la strada di Santa Chiara, dando una insolita gaiezza di luce a quella via che conserva sempre, anche nelle ore di maggior movimento, un gelido aspetto fra claustrale e scolastico. Ma il gran movimento mattinale di via Santa Chiara, delle persone che scendono dai quartieri settentrionali della città, Avvocata, Stella, San Carlo all'Arena, San Lorenzo e se ne vanno ai quartieri bassi di Porto, Pendino e Mercato, o viceversa, dopo il mezzogiorno andava lentamente decrescendo; l'andirivieni delle carrozze, dei carri, dei venditori ambulanti, cessava: era un continuo scantonare per il Chiostro di Santa Chiara, per il vicolo Foglia, verso la viuzza di Mezzocannone, verso il Gesù Nuovo, verso San Giovanni Maggiore. Presto, la gaiezza del sole illuminò una via oramai solitaria.

Il romanzo della fanciulla[modifica]

Come Maria Vitale schiuse il portoncino di casa, fu colpita dalla gelida brezza mattutina. Le rosee guancie pienotte impallidirono pel freddo; il corpo giovenilmente grassotto rabbrividì nell'abituccio gramo di lanetta nera: ella si ammucchiò al collo e sul petto lo sciallino di lana azzurra, che fingeva di essere un paltoncino. Nella piazzetta dei Bianchi non passava un'anima: la bottega del fabbro era ancora chiusa, la tipografia del Pungolo era sbarrata: per i vicoli di Montesanto, di Latilla, dei Pellegrini, dello Spirito Santo che sbucavano nella piazzetta, non compariva nessuno. Una nitida luce bigia si diffondeva sulle vecchie case, sui vetri bagnati di brina, sui chiassuoli sudici: e il cielo aveva la chiarezza fredda, la tinta metallica e finissima delle albe invernali. Allora Maria Vitale, mentre si avviava, sorpresa dal silenzio e dalla solitudine, fu côlta da una vaga inquietudine.

L'infedele[modifica]

Tre sono i personaggi di questa istoria d'amore: Paolo Herz, Luisa Cima e Chérie. Malgrado il suo cognome tedesco, Paolo Herz è italiano, di madre e di padre italiani, delle provincie meridionali. Veramente, non è inutile aggiungere che l'avo paterno di Paolo era tedesco. Questo nonno aveva lasciato la Germania in piccolissima età, emigrando in Italia: qui era cresciuto, aveva lavorato ad accrescere la sostanza famigliare e il decoro del nome Herz: qui si era ammogliato con una italiana, e aveva procreato dei figli. Così i legami con la patria di origine, almeno quelli esteriori, si eran venuti col tempo, con la lontananza, rallentando e poi, più tardi, sciogliendosi: tanto che gli Herz sembrava non conservassero più nessuna traccia nordica nel temperamento e nel carattere.

La mano tagliata[modifica]

Tutto chiuso nella preziosa pelliccia di lontra, fumando una fine e odorosa sigaretta russa, Roberto Alimena guardava distrattamente il facchino dalla blusa azzurra che, ritto nel compartimento di prima classe, collocava pazientemente sulla reticella i bagagli eleganti e ricchi del giovane viaggiatore, le valigie, i sacchi da viaggio, i portamantelli, le borsette di cuoio dalle cifre di argento: R. A.

La moglie di un grand'uomo[modifica]

Vi era una volta una fanciulla — ohimè quante ve ne furono e quante ve ne sono! — una fanciulla che doveva pacificamente sposare un giovanotto. Costui era un bravo ragazzo, negoziante all'ingrosso di spirito e di zucchero; i suoi buoni amici dicevano che del primo non gliene rimaneva mai in deposito e del secondo troppo, volendo significare, con una ignobile freddura, che era buono e stupido.

La virtù di Checchina[modifica]

Venne ad aprire Susanna, la serva. Portava un vestito di lanetta bigia, stinto, rimboccato sui fianchi, lasciando vedere una sottana frusta di cotonina scura; il grembiule di tela grossa era cosparso di macchie untuose; teneva in mano uno strofinaccio puzzolente. Entrando, Isolina fece una smorfia di disgusto.
– C'è Checchina? – chiese.
– C'è – rispose Susanna, stringendo le sue labbra sottili di beghina.
– E che fa?
– Stiamo ripulendo i mobili, col petrolio.
– Volevo dire che si sentiva questo puzzo! E non ci pigliate una malattia, voi?
– Il puzzo del petrolio non fa male.

Le amanti[modifica]

La grande fiamma[modifica]

Nell'ora tarda della sera, partita l'ultima persona amica o indifferente, per la quale essa provava l'orgogliosa e invincibile necessità di mentire, chiuse tutte le porte ermeticamente, piombata la casa nel profondo silenzio notturno, interrogate con lo sguardo sospettoso fin le fantastiche penombre della sua stanza solitaria, dove sola vivente era una pia lampada consumantesi innanzi a una sacra immagine, prosciolto il suo spirito dall'obbligo della bugia e le sue labbra dall'obbligo del sorriso, ella si lasciava abbruciare dalla grande fiamma.

Tramontando il sole[modifica]

- Chiarina, ti presento un amico, Giovanni Serra – disse la padrona di casa, mentre Serra faceva un grande inchino.
- Oh Anna, ma io lo conosco! – esclamò Clara Lieti, vivacemente, stendendogli la mano con un atto famigliare.
- Veramente? E come? – soggiunse Anna, con quel falso interesse mondano, che copre di amabilità la perfetta indifferenza.
- Da vari anni.... da moltissimi anni.... da un numero infinito di anni, lo conosco – e Clara finì con una risatina squillante.

L'amante sciocca[modifica]

Paolo Spada aspettava la sua nuova innamorata, con una vivace curiosità mescolata a una certa tenerezza piena d'indulgenza e a movimenti improvvisi e insoliti di buon umore. Egli aveva realizzato, finalmente, dopo alcuni anni vissuti fra i tormentosi piaceri di amori inconsciamente complicati, dopo aver adorato delle bizzarre e inquietanti creature che eran tali, naturalmente, o che si affrettavano a diventare bizzarre e inquietanti al suo contatto, dopo essere stato adorato nelle forme più turbolenti, più folli e più tetre dalle medesime creature, finalmente, egli aveva realizzato un suo antico desiderio: desiderio fluttuante sempre in quell'anima, ora sommersa in fondo al naufragio di qualche stravagante passione, ora galleggiante sul mare cheto che segue le tempeste, il desiderio, cioè, di amare una donna semplice e di esserne amato.

Sogno di una notte d'estate[modifica]

Massimo era solo. L'amico d'infanzia, non veduto da anni e poi incontrato improvvisamente per la via, dopo il lieto riconoscimento era venuto, alle sette, a pranzare in casa di Massimo. E costui che trascinava pesantemente il fardello di un'estate cittadina, mentre tutti gli altri anni era partito nel mese di giugno, si riprometteva una buona serata di ricordi, in compagnia dell'amico ritrovato.

Nel paese di Gesù[modifica]

In mare.

Un giorno, un'ora, un minuto prima della partenza, tutto il febbrile entusiasmo di chi parte si dilegua. L'egoistico ardore con cui si son fatti i preparativi del viaggio, la gaia fretta che par quasi quella del prigioniero cui sorrida, ineffabile, la libertà imminente, quel vivo sogno interiore che rende un po' folli gli occhi di colui che deve andar via, tutto svanisce, lasciando al suo posto un dubbio freddo e sterile, una sottile e opprimente angoscia.

O Giovannino, o la morte[modifica]

Alle dieci e mezzo di quella domenica, il sagrestano della parrocchia dei Ss. Apostoli uscì sulla porta dell'antica chiesa napoletana e cominciò ad agitare vivamente un grosso e stridulo campanello di argento. Il sagrestano, appoggiato allo stipite della pesante vecchia porta di quercia, scrollava il campanello a trilli, a distesa, continuamente: serviva per avvertire i fedeli di via Gerolomini, del vico Grotta della Marra in Vertecoeli, della piazza Ss. Apostoli, delle Gradelle, che fra poco sarebbe cominciata nella chiesa dei Ss. Apostoli la messa cantata, la funzione grande di Pentecoste.

Pagina azzurra[modifica]

Infine, quando tu sei partita per Castellamare, la tua, diciam così, attrezzeria, era completa. Non hai dimenticato nulla qui, tranne due o tre disgraziati condannati alla città forzata e che sospirano dietro le tue treccie bionde, scomparse per la linea di Napoli—Castellamare. Rassicurati dunque. Tutto parte con te. Abbiamo fatto insieme uno dei nostri allegri inventari: nulla mancava.

Piccole anime[modifica]

Una fioraia[modifica]

Date lilia......

La bimba camminava lentamente, rasentando il muro, per la via stretta e tortuosa dei Mercanti. Ella non guardava nelle botteghe, non alzava gli occhi a quella lunga striscia di cielo che appariva fra le alte case, non guardava neppure dinnanzi a sé. Guardava le pietre, come se le contasse. Camminava, senza curarsi del fango del selciato, degli urtoni che le davano, di qualche rara carrozza che passava.

Giuochi[modifica]

Era una grande casa di provincia, con un portone sempre chiuso, quello nobile, pei signori, che vi davano un forte picchio col battente — e un portone sempre spalancato, quello dove passavano i carri di grano, di vino, di carbone, di pasta. Sopra, gli stanzoni vasti, alti di soffitto, con le travi foderate di carta fiorata, coi muri dipinti di giallo chiaro o di lilla pallido.

Canituccia[modifica]

Nella penombra, seduta sulla panca di legno, sotto la cappa nera ed ampia dei focolare, Pasqualina, con le mani sotto il grembiule, recitava il rosario. Non si udiva che il pissi pissi delle labbra sibilanti le preghiere. La cucina tutta affumicata, con la larga tavola di legno verde-bruno, con la madia oscura, con le sedie a spalliera dipinta, senza un punto luminoso, s'immergeva nella notte. Il fuoco, semispento, covava sotto la cenere.

Profili[modifica]

Ella porta quel poetico e soave nome che Leopardi ha amato: Nerina. E in tutta la persona di questa fanciulletta alta e sottile è diffuso un mite riflesso di poesia. La mollezza dei capelli castagni, abbandonata in lunghe anella sulle spalle, lascia libera una fronte larga, bianca e spirituale: fronte pensierosa, come i grandi occhi bruni, egiziani; occhi limpidi e profondi, pieni di calma, a cui un principio di miopìa dà, talvolta, una incertezza come di sogno, o una finezza elegante di sguardo.

Alla scuola[modifica]

Aspettavamo i giorni di tirocinio con una ansietà segreta. I giorni di lezione erano monotoni, spesso tristi. Noi studiavamo senza voglia, malamente, con programmi incerti, con professori troppo severi o assolutamente inetti. Eravamo già maestre e l'essere trattate da scolarette ci umiliava, ci stizziva. A casa, qualcuna di noi aveva la povertà, quasi tutte una miseria decente — e chi un fratello ebete, chi un padre paralizzato, chi una matrigna tormentatrice, qualche piaga celata con cura, qualche vergogna nascosta con una nobile pietà, qualche infelicità, qualche ingiustizia del destino, a cui la rassegnazione era completa.

Nebulose[modifica]

Sulla via che si allunga, diritta, quasi interminabile, sotto i pioppi, camminavano lentamente i due amanti che non si amavano. Lasciavano alle spalle un tramonto di viola: andavano verso un tramonto di un grigio tenue delicatissimo. Ella si trascinava stanca e svogliata, facendo strisciare nella polvere la punta del suo ombrellino, trattenuto mollemente dalle dita: lo sguardo aveva la sola espressione di una grande lassezza.

La moda[modifica]

È utile qui dire, che nessun bimbo può essere assolutamente brutto; che nessun bimbo ispira una completa ripugnanza. Se sono malaticci, hanno la dolcezza di una malattia; se sono rachitici, hanno la malinconia attraente di un corpo condannato; se sono precoci, hanno quel sapore strano e acre delle piccole anime, già troppo grandi. Infine potranno avere il naso camuso o gli occhi piccoli o la bocca grande — ma avranno sempre qualche cosa bella: o la guancia rotonda o la delicatezza della pelle o la morbidezza dei capelli, o avranno, nello insieme, tanta grazia soave, tanta freschezza, tanta gioventù che vale come bellezza.

Perdizione[modifica]

Mentre la bionda mammina placidamente ricamava un orlo di camiciuola e Mario, seduto sul tappeto, intagliava certi soldatini dipinti di rosso e di azzurro sulla carta, entrò improvvisamente il giovane padre, tutto allegro:
— Su, Mario, su fantoccetto mio, fatti vestire da mammina ed usciamo: ti conduco a spasso.

Gli spostati[modifica]

Suo padre è un giornalista, sua madre una maestra di lingue straniere. Il bimbo ha otto anni, ma pare che ne abbia dodici per le strane cose che sa, per le singolari risposte che dà. Egli è già stato a Venezia, a Firenze, a Napoli, non gli resta più nessuna impressione di paesaggio per la sua gioventù: egli si stringe nelle spalle quando gli nominano il Vesuvio o la gondola.

Salvazione[modifica]

Dopo il forte momento della passione — nelle placide ore di conversazione, quando le confidenze sgorgano, in una espansione spontanea, quando l'intimità sa essere amichevole e amorosa, Flavia parlava volentieri dell'infanzia propria, di quel giocondo tempo, tutto sole, tutto baci, tutto confetti. Questi ricordi la esaltavano, e come se sognasse, guardando lontano, con la voce tremante di emozione, narrava ancora di quante dolcezze l'aveva circondata l'amore materno.

Storia di due anime[modifica]

La bottega dei santi era la penultima della piccola via bassa e oscura, che sinuosamente lega la piazza grande di santa Maria la Nova alla piazzetta di santa Maria dell'Aiuto: e godeva un po' d'aria, un po' di luce, sol perché, dirimpetto ad essa, le antiche e brune case del vecchio quartiere popolare cessavano e poco indietro si ergeva la chiesa della Madonna dell'Aiuto, avente, accanto, il portoncino della sua Congregazione di Spirito.

Citazioni su Matilde Serao[modifica]

  • Che Matilde fosse una donna eccezionale – nel senso letterale di un'eccezione alle regole: la regola dell'ambiente italiano e quella del suo genere sessuale – se ne accorse perfino una signora snob come la scrittrice americana, ma europea per scelta e per gusto, Edith Wharton, la pupilla di Henry James. Quando negli ultimi anni della Vecchia Europa, alla vigilia della Grande Guerra, la incontrò nell'elegante e selettivo salotto parigino di Madame Fitz-James, la Wharton non esitò a definirla nel suo diario «una donna tozza e grossa, rossa in faccia e sul collo», riconoscendo, però, che quando prendeva la parola era capace di raggiungere punte che l'americana cosmopolita e chic non aveva mai rilevato nei discorsi delle altre donne. (Elisabetta Rasy)
  • Di Roma non la interessavano i monumenti e le opere d'arte, ma la politica, la circolazione di idee e di denaro, la promessa di modernità. Anche se, rispetto alle altre emancipate dell'epoca, non solo le italiane, Matilde fu al tempo stesso più audace e più conservatrice. Non amava le suffragette, ma voleva essere indipendente; apprezzava gli uomini e i piaceri – e i tormenti – dell'amore, ma aveva il gusto degli affari e del denaro; non saltava un giorno di lavoro ma accettava con serenità le sue numerose maternità – come se in lei convivessero un uomo moderno e una donna all'antica. (Elisabetta Rasy)
  • La cultura e l'esperienza si fondevano in lei nello splendore della sua vigorosa intelligenza. (Edith Wharton)
  • La giovane Matilde non avrebbe ripetuto il genio ch'ebbe e quella sua, davvero scespiriana, ampiezza di visione se fosse vissuta altrove o altrove fosse nata all'arte. Il fenomeno più interessante, nell'arte di donna Matilde, è appunto questa sua facoltà di assorbire e di serbare, trasformandolo, il mondo esterno. In un'epoca nella quale non si conosceva ancora Marcel Proust, ella poteva dire di sé: «Dal primo giorno che ho scritto, io non ho mai voluto e saputo essere altro che una fedele e umile cronista della mia memoria. Mi sono affidata all'istinto e non credo che mi abbia ingannato.»
    Non sapremmo immaginare, perciò, fuori di Napoli e di quella Napoli, la più verace e sincera Matilde Serao. Non è possibile staccarla dalle strade e dai vicoli della sua prima giovinezza. (Giovanni Artieri)
  • La Serao, nonostante le ambizioni proprie e la moda letteraria del suo tempo è, e resta, un grande poeta di Napoli. Nasce alla vita dell'arte come una creatura di Napoli, un suggerimento o una espansione della città. (Giovanni Artieri)
  • Matilde Serao fu il simbolo napoletano della rivoluzione femminile, lei che di certo femminista non era, ma ugualmente esempio straordinario di scrittrice, imprenditrice, organizzatrice e madre insieme: potentissima fondatrice di giornali, ricercatrice di fondi, scrittrice inesauribile di romanzi e racconti, candidata al Nobel, scippatole da un'altra considerevole narratrice e figura di donna, Grazia Deledda. (Antonella Cilento)
  • Solo nel 1900 Matilde Serao, autrice di un galateo destinato alle donne in cui vi è una appendice per le care fanciulle, «Piccolo codice per le signorine» –, è molto assertiva nel precisare quando finisce l'infanzia: «Da dodici anni in poi si finisce di essere bimbe», a tredici si è «giovanette», a sedici «signorine» e a diciotto anni si è «presentate in società». (Simonetta Ulivieri)

Note[modifica]

  1. Citato in Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, Saggi critici, vol. IV, Giuseppe Laterza & Figli, Bari, 19222 riveduta, p. 316.</
  2. Citato in Giovanni Artieri, Napoli, punto e basta?, Divertimenti, avventure, biografie, fantasie per napoletani e non, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1980, p. 124.
  3. Da Il re di Napoli, in Il Mattino del 29 dicembre 1894; citato in Gigi di Fiore, L'ultimo re di Napoli. L'esilio di Francesco II di Borbone nell'Italia dei Savoia, UTET, 2018, p. 287. ISBN 978-88-511-6521-5
  4. Citata in Elisabetta Rasy, Matilde Serao, in AA.VV., Italiane. Dall'Unità d'Italia alla prima guerra mondiale, vol. I, Dipartimento per l'informazione e l'editoria, Roma, 2004, pp. 169-170.
  5. Da Pseudonimo, in Dal vero, Perussia e Quadrio, Milano, 1879, p. 23.
  6. Da All'erta, sentinella!, Galli, Milano, 1896, p. 2.
  7. Citata in Elisabetta Rasy, Matilde Serao, in AA.VV., Italiane. Dall'Unità d'Italia alla prima guerra mondiale, vol. I, Dipartimento per l'informazione e l'editoria, Roma, 2004, p. 170.
  8. Da Il Pellegrino appassionato, in Il Pellegrino appassionato, Perrella, Napoli, 19114° migliaio, pp. 60-61. Citato in Emma Giammattei, Il romanzo di Napoli: geografia e storia letteraria nei secoli XIX e XX, Guida, Napoli, 2003, p. 84. ISBN 88-7188-696-8
  9. a b da Corriere di Napoli, N.° 226, anno XVIII; citato in Almerico Meomartini, I monumenti e le opere d'arte di Benevento, 1889, p. 492.
  10. Da La conquista di Roma, Francesco Perrela Editore, Napoli, 1910, pp. 134-135.
  11. Citato in Napoli, punto e basta?, pp. 135-136.

Bibliografia[modifica]

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