Raffaele La Capria

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Raffaele La Capria

Raffaele La Capria (1922 – 2022), scrittore e sceneggiatore italiano.

Citazioni[modifica]

  • [Su Napoli] La nostra non è la città di quel "chi ha avuto ha avuto ha avuto, chi ha dato ha dato ha dato" che spesso le attribuiscono. Chi ha dato e chi ha avuto restano sulle rispettive posizioni. Intransigenti nel valutarle. Appassionandosi ancora nel discuterne, dopo quarant'anni. Finché una città trova parole per parlare di sé, fa emergere contrasti all'interno di questo discorso e riesce a interessare anche gli altri, vuol dire che non è morta.[1]
  • Qui avevo più volte soggiornato nel tempo della giovinezza, conoscevo tutta la costa da Amalfi a Positano e Nerano, insenatura per insenatura tutta l'avevo esplorata sopra e sott'acqua. Sì, le linee del paesaggio erano ancora quelle, e quelle le balze i picchi le rocce inabissate nell'azzurro. Sì, era tutto là, davanti a me, il colore del mare visto dall'alto era sempre d'un blu ceramica, duro compatto e luccicante, e dalle curve della strada si godeva sempre lo stesso fantastico colpo di scena. E però dov'era l'incanto? [...] Era come se un esercito di voraci parassiti avesse preso possesso di una bella pianta frondosa e ne avesse divorato le radici che la fanno vivere, bucato le foglie e i rami. Niente era stato rispettato, nessuno dei miei ricordi rimaneva intatto. [...] Come un estraneo ripercorrevo adesso i cari luoghi d'una volta, ma io non appartenevo più a loro e loro non erano più parte di me, non mi parlavano più, mi venivano incontro disanimati e diversi, privi d'ogni potere incantatorio. Tutti gli dei che una volta li abitavano li avevano silenziosamente abbandonati...[2]
  • A Capri si dovrebbe arrivare come turisti individuali, non di gruppo. Venirci dopo averla lungamente sognata e immaginata. Capri non dovrebbe entrare necessariamente nelle gite organizzate delle agenzie. Non dovrebbe essere venduta come prodotto di consumo obbligato. Dovrebbe venirci solo chi ne fa esplicita richiesta; chi l'abbia prima lungamente sognata, immaginata e desiderata.[3]
  • A Napoli, – e in questo mondo di kamikaze dove pietà l'è morta – siamo andati «molto oltre tutto quello che si poteva immaginare». Se eliminassimo tutti gli assassini che vanno in giro nelle nostre città si dovrebbe aprire una succursale dell'Inferno.[4]
  • [Maschere] Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella sono l'Italia del popolo, che si rappresenta, si denigra e si riscatta con la felicità che trasmette questo trio. Un'Italia del passato, ma che si può riconoscere oggi dovunque.[5]
  • E così mentre la crisi globale si annunciava tremenda come uno tsunami, a destra e a sinistra erano immersi fino al collo in questa disputa e dimenticavano tutto il resto. Uno diceva la gallina, l'altro diceva l'uovo, uno diceva «le nostre idee sono chiare», l'altro diceva «siamo sereni», tra continue «pause di riflessione» e l'assicurazione che «stavano lavorando», il Paese ormai diventato indifferente sia alla gallina che all'uovo andava inesorabilmente chissà dove, chissà dove, chissà dove...[6]
  • In ogni caprese c'è un fondo antico e genuino che si sente nel dialetto stretto e nella scontrosa e a volte brusca natura contadina, e una realtà più sciolta e disinvolta acquisita dal rapporto con gli ospiti stranieri che hanno amato e celebrato l'isola.[7]
  • Qui avevo più volte soggiornato nel tempo della giovinezza, conoscevo tutta la costa da Amalfi a Positano e Nerano, insenatura per insenatura tutta l'avevo esplorata sopra e sott'acqua. Sì, le linee del paesaggio erano ancora quelle, e quelle le balze i picchi le rocce inabissate nell'azzurro. Sì, era tutto là, davanti a me, il colore del mare visto dall'alto era sempre d'un blu ceramica, duro compatto e luccicante, e dalle curve della strada si godeva sempre lo stesso fantastico colpo di scena. E però dov'era l'incanto? [...] Era come se un esercito di voraci parassiti avesse preso possesso di una bella pianta frondosa e ne avesse divorato le radici che la fanno vivere, bucato le foglie e i rami. Niente era stato rispettato, nessuno dei miei ricordi rimaneva intatto. [...] Come un estraneo ripercorrevo adesso i cari luoghi d'una volta, ma io non appartenevo più a loro e loro non erano più parte di me, non mi parlavano più, mi venivano incontro disanimati e diversi, privi d'ogni potere incantatorio. Tutti gli dei che una volta li abitavano li avevano silenziosamente abbandonati...[8]
  • [...] la borghesia napoletana non si è saputa raccontare; non ci sono romanzi e personaggi che la rappresentano, così come invece hanno saputo fare in Sicilia con De Roberto, Verga, Tomasi di Lampedusa; Napoli ha eccelso soltanto nel pensiero, è stata più avanti, non solo della Sicilia ma anche di altre regioni italiane, nella speculazione filosofica.[9]
  • Ma è l'Italia il vero problema di Napoli.[10]
  • Libellula, chi ti diè questo nome? | Chi scelse la successione musicale delle labiali, | li-bel-lu-la, | come note uscite dai tasti di un pianoforte? | Due grandi e colorate ali trasparenti, tremule e trepide, quelle sei tu. | E tanto alata sei che quando sorvoli le acque stagnanti e l'erbe dei prati | di te solo le ali si vedono, velate veline di seta lucente. | A volte ti fermi nell'aria, tu, senza peso e imponderabile, leggera aligera. | Se lieve sulla pista di ghiaccio io vedo una fanciulla | che forma aeree figure | danzanti, e sicura volteggia, salta, si leva e atterra, | è a te che penso, a te paragono la sua leggerezza. | "Come una libellula" | vuol dire una controllata eleganza in liberata energia.[11]
  • [Ultraottantenne] Non è stanco perché ha camminato o altro, ma stanco per il carico degli anni. Com'è giusta la parola «carico», perché la sua stanchezza è quella di chi ha portato dei pesi. Ecco perché si dice «il peso degli anni». È anche una stanchezza mentale? Certo anche quella. Gli sfuggono nomi di amici che lui ben conosce, molti di loro sono morti, la sua memoria si aggira ormai in un cimitero.[12]
  • Quando lasci Roma per Capri passi in tre ore da una zona del mondo a un'altra. È come se passassi un oceano. Un salto che normalmente ti richiede dodici ore di aereo. C'è una trasformazione così radicale del paesaggio, della orografia, di tutto, che all'improvviso passi da una dimensione a un'altra. E quella in cui passi, quando arrivi a Capri, è la dimensione del mito. Poi questo mito è stato sporcato, degradato, quel che vuole. Ma nonostante tutto...[13]
  • Roma è diventata la città dei mendicanti. Non ne ho mai visti tanti a Napoli, a Palermo e in nessun'altra città italiana. I mendicanti vengono tutti a Roma, come per un tacito accordo, molti vengono anche dall'estero, e occupano le vie e le piazze del centro storico, quelle più battute dai turisti.[14]
  • Roma non è sporca è disordinata, e questo disordine spesso fa pensare che è sporca.[15]
  • Sarà perché sono napoletano e ce l'ho con lui per come ha usato Napoli, ma si sarà capito ormai che a me questo Malaparte non piace, non mi piace la sua orrificazione della realtà, soprattutto quella della Napoli del 1944 evocata ne La pelle, e non posso fare a meno di ricordare con quanta maggiore pietà e precisione, e un umanissimo sense of humour, quella stessa realtà fu descritta dall'inglese Norman Lewis (in Napoli ' 44, Adelphi).[16]
  • Se è vero che ci sono nel mondo isole belle come Capri, nessuna isola, nessuna al mondo può vantare una storia come quella di Capri.[7]
  • Un'identità forte è una finestra sul mondo, capace di includere in sé anche le altre. Se è debole, invece, si limita a glorificare se stessa, rinchiudendosi nei confini del localismo.[17]
  • Se il nulla fosse pensabile sarebbe come cancellare l'esistenza del Dio Creatore e questo è impossibile perché la sua creazione è sotto gli occhi di tutti.[18]
  • [...] la Napoli dimenticata, l'altra faccia di una città che ha dato all'Italia Benedetto Croce, Salvatore Di Giacomo, anche se tutto questo viene trascurato perché nella rappresentazione della città prevale sempre l'osservazione sulla plebe. Io credo che la borghesia napoletana non si è saputa raccontare; non ci sono romanzi e personaggi che la rappresentano, così come invece hanno saputo fare in Sicilia con De Roberto, Verga, Tomasi di Lampedusa; Napoli ha eccelso soltanto nel pensiero, è stata più avanti, non solo della Sicilia ma anche di altre regioni italiane, nella speculazione filosofica.[19]
Citato in Com'erano brutti gli anni Settanta quando troppi ragazzi sparavano, Corriere della sera, 28 novembre 2008, p. 55
  • Non posso sopportare quelli che si danno da fare per salvare il mondo o per le grandi cause. Diffido delle grandi e buone cause, non le nego, ma sto attentissimo perché le buone cause sono, a volte, tranelli terribili.
  • [Hai letto Capri e non più Capri?] È uno dei libri che più rivelano il mio sentimento rispetto alla natura. Quelli che hanno la mia età hanno vissuto in un'epoca in cui l'acqua del mare era chiara sempre.
  • Alessandro Piperno: In fondo quando avete scritto Mani sulla città [film di Francesco Rosi] era questo il sentimento che ti animava.
    Raffaele La Capria: Franco Rosi e io credevamo, allora, che servisse a qualcosa. Poi non ci abbiamo creduto più. Franco Rosi ha fatto un bel film. Il film è venuto bene. Lì, per esempio, la società è affrontata in maniera diretta.
    Alessandro Piperno: E di quel film cosa pensi oggi?
    Raffaele La Capria: È un film basato su un principio di onestà che va oltre l'ideologia. Napoli è stata uccisa dalla speculazione edilizia. Si combatteva contro questa speculazione... Cambiare la struttura urbanistica di una città significa cambiarne la morale. E Napoli è cambiata moltissimo dopo la speculazione edilizia: è stato allora che sono arrivate le periferie inabitabili, è stato allora che è nata la «corona di spine», così viene chiamata a Napoli la periferia, «corona di spine». Ed è allora che, come scrivevo in L'occhio di Napoli, se ti capita di sbagliare strada, vai a finire in periferia e puoi arrivare all'inferno.
Da Perché un uovo è sempre un uovo, Corriere della sera, 5 gennaio 2010, p. 41
  • Il sonno della ragione, cioè della logica elementare, genera mostri e mostriciattoli, e quanti ne vediamo oggi andare in giro per il mondo! Con loro meglio non averci nulla a che fare, ed è questo soprattutto che mi tiene disimpegnato. Ma ogni volta che mi accorgo che il contenitore (la concettualizzazione) diventa più importante del contenuto, mio malgrado mi impegno e sento l'irresistibile bisogno di spacchettare per vedere che cosa c'è dentro il pacco.
  • Mentre la verità si deve cercare e si può discutere, l'evidenza non si cerca e non si dovrebbe discutere, perché si vede.
  • Per un intellettuale non è ammessa per nessuna ragione la distrazione, e se proprio vuoi praticarla devi imparare l'uso della «distrazione vigilante» che ti tiene in uno stato di continua perplessità.
  • Vorrei anch'io poter dire con Rimbaud: «Volo alto sopra l'azione». No, non volo, ma mi sforzo di distinguere la verità dall'evidenza, e dico che la verità è problematica, è coperta, mentre l'evidenza è più semplice e semplicemente dovrebbe rivelarsi al solo suo apparire.

Amore e psiche[modifica]

Incipit[modifica]

Uno spazio bianco si riempie man mano di parole, ed è la prima pagina di un libro, una lettera scritta con un inchiostro che non lascia traccia, un antico marmo dissepolto inciso di caratteri ermetici... Chi sogna si sforza di leggere le parole, se riuscirà a decifrarle avrà una risposta alle domande decisive che lo riguardano. Ma le parole non si afferrano, sono distorte, ondeggianti, viste come attraverso uno schermo d'acqua. Chi sogna sa di sognare, eppure questo non lo rassicura. (da Opere, p. 309)

Citazioni[modifica]

C'è una cosa che vorrebbe non cambiare? Forse sì. Vorrebbe che lo sguardo di sua figlia restasse sempre così com'è. E invece è la sola cosa che certamente cambierà. Lei imparerà a dire correttamente cìnema, a dire avevo, e tutto si staccherà da lei per diventare una parola, un nome. Imparerà a usare il condizionale, e non sarà il tempo di un verbo ma quello della separazione. Nei suoi occhi immuni di esperienza passerà l'ombra della consapevolezza, e anche lei forse vorrà cambiare tutto, a cominciare da se stessa. (da Opere, p. 350)

Colapesce[modifica]

Incipit[modifica]

C'era una volta... una bella giornata: col cielo tutto azzurro, il mare tutto calmo, l'aria luminosa e tiepida, e bianche vele lontano, come gabbiani, docili all'onda. I gozzi dei pescatori rientravano dopo la pesca della notte nell'arco della marina, e che silenzio c'era intorno! L'acqua era trasparente, si vedevano gli scogli sommersi, le alghe e la sabbia ondulata del fondo, e i pesci che nuotavano snelli tra le maglie di sole smaglianti. Una giornata insomma come di rado se ne vedono ancora, una bella giornata di tanti e tanti anni fa, quando il mondo pareva più pulito intatto e nuovo, quasi fosse appena uscito dal fiato di Dio.

Citazioni[modifica]

  • L'occasione fu il compleanno di mia figlia che ancora non sapeva leggere e che dunque si trovava nella condizione ideale per ascoltare le favole che le inventavo. Mi stava a sentire con una specie di sognante rapimento. [...] Se mia figlia avesse avuto in avvenire qualche inclinazione letteraria e avesse saputo leggere criticamente un libro, si sarebbe accorta che questa piccola favoletta a lei dedicata segna nel complesso dell'opera del suo papà il passaggio dallo stile elaborato e dalla struttura sofisticata dei primi libri (quel musicale alternarsi di "polifonia" e "monologo interiore" di Ferito o morte) a una scrittura più diretta e lineare, più semplice ma non meno meditata, che inizia con Fiori giapponesi e prosegue con La neve del Vesuvio, Capri e non più Capri e i libri venuti dopo. Quella scrittura che proprio i suoi occhi attenti e il suo ascolto innocente mi avevano suggerito. (Premessa, pp. 401-402)

L'amorosa inchiesta[modifica]

  • Cara Elène, mentre ti scrivo mi appari com'eri allora quando per la prima volta ti vidi. Allora tu eri splendida e il tuo splendore non cessò mai di abbagliarmi, anche quando nel pieno della mia immaturità feci di tutto per offuscare l'azzurra dignità del tuo sguardo. Ti scrivo a tanti anni dai fatti che voglio raccontare, e ti scrivo perché tu fosti, come si dice, il mio primo amore. Non so se i primi amori sono tutti altrettanto tormentati come fu il mio e, credo, anche il tuo. Ma per cominciare vorrei dirti che mi innamorai di te prima di conoscerti, perché era quella l'epoca in cui il primo amore poteva essere un nome, un nome che veniva prima della persona. (Lettera al primo amore, p. 11)
  • Mia cara, sono stato per te un padre assente, lo so, ma ora non ti scrivo per dimostrarti il contrario, ti scrivo per dirti come fu e in quali circostanze mi trovai quando dovetti separarmi da te. A dir tutta la verità io ancora non so bene quel che allora accadde a me e a tua madre, mentre invece credo di aver intuito quel che tu confusamente sentivi in un'età in cui non ti era facile capire quel che succedeva intorno a te. E in questo, credimi, non sono stato assente. Ci pensavo ogni giorno, e cercavo di vedere con i tuoi occhi anche le cose che accadevano tra me e tua madre. Nella finzione, in una "fiction", si sa come stanno le cose e come tutto va a finire, perché la "fiction" è una storia inventata, e per uno scrittore è un progetto estetico che dev'essere organizzato e portato fino alla fine, con una certa strategia, alla conquista di un significato e di un'emozione complessiva. Nella vita invece non si sa mai bene quello che accade, e mentre accade il punto di vista è troppo vicino e ci sono troppe interferenze estranee dentro i pochi fatti essenziali, quelli che contano veramente, interferenze che ci distraggono dall'immediatezza dell'accadere e sono fuorvianti. (da Lettera alla figlia, p. 45)
  • Caro babbo, lo sai che per me tu eri l'esempio vivente di tutte le perfezioni? Il tuo naso era perfetto, le tue orecchie erano perfette, la forma della tua testa era perfetta, la scriminatura che divideva da una parte i tuoi pochi capelli era perfetta, e tu, mi ricordavi per tutte queste perfezioni che ti attribuivo, un attore, di quel cinema anni Trenta che cominciò a sfornare una serie di divi a cui tutti avremmo voluto assomigliare. C'era solo una piccola cosa in te che non era perfetta: l'unghia dell'indice della tua mano sinistra era leggermente deformata, era un po' più spessa delle altre e incarnita. Normalmente non si notava, ma i bambini hanno un occhio speciale per notare anche la più lieve imperfezione, e io l'avevo notata e ti avevo domandato come mai quell'unghia era diversa dalle altre. Tu mi dicesti che quando eri piccolo un colpo di martello sbagliato ti aveva spappolato la punta del dito e che l'unghia rimarginandosi era diventata così. Io pensai solo al dolore che dovevi aver provato e poi pensai che le unghie delle altre tue dita erano tutte belle tonde e talmente curate che sembravano appena uscite dalla manicure. Più tardi, quando non ero più un bambino ma un adolescente che cominciava a toccarsi facendo fantasie, non so perché una volta mi sorpresi a pensare che forse la storia del colpo di martello non era vera e che quel dito poteva essere difettoso dalla nascita. Perché lo pensai? Forse perché oscuramente sentivo di aver ereditato da te un'imperfezione che non riguardava solo il mio corpo, ma una parte esigente di me che non avevo ancora bene individuata. (da Lettera al padre, pp. 79-80)

L'armonia perduta[modifica]

Incipit[modifica]

Un amico, di me più giovane, da Napoli mi scrive: "Noi che siamo nati dopo la guerra non abbiamo per Napoli nessuna inclinazione particolare. La viviamo come residenti che la conoscono a fondo, ma la sua sirena non ci addormenta né il suo canto ci toglie la pace. Tra la mia generazione e la tua, nei confronti di Napoli, c'è stata una rottura. Noi, credo, abbiamo saputo servirci della città senza lasciarci prendere da lei. Possiamo starvi lontano senza sentirci per questo esiliati. Insomma la mia generazione ha radici assai meno radicate, qui, che non la tua. Ci sentiamo omologati a un'umanità forse più anonima, ma anche meno chiusa su se stessa e le proprie abitudini. Non so dirti se è un bene o un male, ma dopotutto a Parigi a New York o a Londra è più difficile incontrare gente così profondamente legata al proprio 'topos' e che lo scomoda con tanta frequenza.

Citazioni[modifica]

  • Vi sono alcuni luoghi nel mondo, come Napoli (o Vienna, Praga, Venezia, Trieste, Alessandria, New Orleans, eccetera) dove la storia si è arrestata, è rimasta irrealizzata. Non si è evoluta gradualmente dispiegando tutte le proprie potenzialità, com'è accaduto a Londra a Parigi o a New York, ma a un certo momento (nel passato prossimo o in uno più lontano) per ragioni note o (per lo più) misteriose, c'è stato un blocco. Il blocco non riguarda soltanto la storia degli eventi, ma proprio il processo di crescita; riguarda la lingua, che rimane fissata a modi di pensare, parole, strutture, non più adeguate; riguarda la visione del mondo, il sentimento della vita, che si chiudono nell'autocontemplazione così tipica di quei luoghi dove tutto è già accaduto, e da cui tutto sembra ormai accadere sempre altrove... (Il blocco, p. 15)
  • [Nel 1799] le orde della Santa Fede avanzarono come i mongoli, Ruffo come il flagello di Dio, e devastarono massacrarono distrussero. [...] Considerando la plebe non un problema sociale risolvibile ma un dramma antico e insolubile, la piccola borghesia cercò di ammansirla come Orfeo ammansiva le fiere, suonando in un modo tutto suo il flauto suadente del dialetto. (Il ricorso al dialetto, pp. 28-30)
  • Tra le tante descrizioni della plebe del Seicento e Settecento fatte dai viaggiatori o ritrovate nelle cronache e nei documenti del tempo, nessuna mi ha colpito con la tragica immediatezza dei quadri di Micco Spadaro che ho rivisto nella Mostra sul Seicento a Napoli. Furono dipinti, è vero, in momenti di emergenza (rivolta di Masaniello, peste, eruzioni, ma forse proprio per questo ci fanno finalmente sentire in tutta la sua drammatica evidenza quale specie di ribollimento umano doveva essere in certe situazioni la plebe di allora. (La plebe nei dipinti di Micco Spadaro, p. 83)

La bellezza di Roma[modifica]

Incipit[modifica]

Sono un impiegato, un impiegato di concetto che vive nella Capitale della spesa improduttiva ricevendo un trattamento adeguato all'incommensurabilità della mia concettosa prestazione. «Si viene a Roma in cerca di un lavoro, poi si trova un impiego.» Così è accaduto anche a me, ho capito cosa voleva dire Flaiano, anzi ne ho fatto esperienza. Voleva dire che un impiego è diverso da un lavoro, è qualcosa di molto più sottile ed inclassificabile. Roma è prevalentemente una città di impiegati che non hanno trovato un lavoro e che lo Stato mantiene in cambio di prestazioni incontrollabili.

Citazioni[modifica]

  • Cos'è oggi Roma, allora? Cos'è diventata? Da Caput Mundi a Kaputt Mundi, del Mondo Occidentale, dell'Europa. Sempre più appartenente ad un Mediterraneo inquinato da raffinerie e attraversato da correnti clerico fasciste. Punto di confluenza dei risentimenti di un Sud mafioso malato e sottosviluppato. Centro di oppressione Buro-Ministeriale, Aeroporto di Fiumicino di programmi e governi, Torre di Babele dei linguaggi pseudopolitici. Gran Teatro degli ammicchi e delle allusioni, Capitale dell'inciucio dove sfilano sulla passerella, con sorrisi da padrino e accessi di «moraloneria», come ossessivi incubi trentennali, troppi Mostri Sacri della Gran Cosca al potere e troppe Sibille Romane. Di qui l'Europa sembra lontana, perfino l'Europa Minima del funzionario che ha competenza di un problema e tratta appunto di quello e non di altro. L'Europa delle superstiti speranze sembra irraggiungibile, e Roma sempre più irrecuperabile all'Europa. (Roma oggi, p. 16)
  • Roma negli anni '50 non era la Roma devastata di oggi. Roma è sempre stata un po' disastrata dal punto di vista urbanistico, però non era come oggi. Era una città piacevole, e per me piena di amici; nella mia stessa condizione si trovavano tanti altri intellettuali venuti da tutte le parti d'Italia. Quindi si formavano quasi naturalmente dei punti di incontro, nei ristoranti, in certi caffè... era una città piacevole. (Roma negli anni '50, p. 39)
  • La luce: la qualità della luce di certe mattine romane è qualcosa di incredibilmente bello... Corot è stato il pittore di questa luce, a Roma ha fatto molti suoi quadri, a Roma ha capito che stava nel posto giusto. Vi sono certe mattine di sabato in cui esco insieme con il cane, e andiamo a passeggio, a comprare il giornale, in cui Roma sfolgora, e si sente che è stata costruita da gente che pensava in grande. Ci sono delle piazze architettonicamente grandiose, scenografiche, molto adatte a sposarsi con questa luce, ad esempio piazza Navona, piazza di Trevi, piazza di Spagna, una piazza neoclassica come piazza del Popolo, una alla De Chirico, come piazza del Quirinale. Gli antichi monumenti si stagliano nella luce in maniera meravigliosa, si vede la poetica geometria della città... io conosco molte città: Parigi, Londra, New York. Ognuna ha il suo carattere, però una città architettonica come Roma, così a misura d'uomo, è impossibile trovarla... a Parigi ci sono belle piazze, ma hanno una proporzione smisurata rispetto alle piazze romane. Invece le piazze romane hanno la misura giusta. In questo senso Roma è la città più bella che esista. (Cosa affascina di Roma, p. 62)

L'estro quotidiano[modifica]

Incipit[modifica]

Mio padre è morto a Roma a ottant'anni, l'età che ho io adesso. Vivere lontano da Napoli e da palazzo Donn'Anna era il suo cruccio, è morto per questo. Si manteneva bene, il suo profilo era sempre cinematografico, gli anni non avevano prodotto danni notevoli. Non era cadente, le sue guance non erano flosce, ma aveva assunto la fragilità di un uccellino, come se le sue ossa, il suo scheletro, si fossero assottigliate. E morto senza accorgersene, mentre guardava la televisione.

Citazioni[modifica]

  • Ne Il posto delle fragole di Bergman, in una muta silenziosa sequenza appare al protagonista circonfusa di una bianca luminosità irreale, l'immagine del padre e della madre che da una barca pescano con la canna in un lago. Tutto è calmo e immobile immerso in un tempo fermo dove la vita e la morte sembrano essere la stessa cosa. Come si sente, in quell'immagine struggente che il passato è irrimediabilmente passato e nello stesso istante è irrimediabilmente presente, fa parte di un presente che non avrebbe senso senza quella mancanza, senza quella lacerante partecipazione delle figure di chi ci fu caro, in quell'eterno crocevia di vita e di morte che sono le nostre vicende familiari e private. (p. 23)
  • Letto il Cato Maior ovvero De senectute di Cicerone per capire se anche a me come ad Attico il suo libro avrebbe potuto dare un po' di consolazione. Non so ad Attico, ma a me non ne ha data proprio nessuna. (p. 40)
  • Il buon Dio ha creato tutto questo? Un mondo in cui ogni creatura, anche l'uomo, per sopravvivere ha bisogno di uccidere e "mangiare" un'altra creatura? No, non può essere. Ci dev'essere uno sbaglio. [...] Ma quanta atroce, inutile sofferenza, va in vendita sul bancone gelato di un supermercato! E com'è normale l'ottusa indifferenza! Ci dev'essere un errore da qualche parte, un errore grosso, un Orrore. (p. 79)

Napolitan graffiti[modifica]

  • Dirò perché Napoli non è, a mio parere, come una qualsiasi altra città italiana o europea, e in cosa consiste la sua diversità. Tutte le città, è ovvio, sono diverse l'una dall'altra, ma io voglio dire che Napoli è più diversa, e che da questa diversità dipende anche il rapporto sempre ambivalente e spesso doloroso che gli scrittori napoletani intrattengono con la loro città. È più diversa innanzitutto perché i suoi problemi sono diversi e troppo spesso appaiono irrisolvibili anche sulla carta, problemi di cui sembra impossibile venire a capo con la ragione, quel tipo di problemi, insomma, come la fame nel mondo o la sovrappopolazione che, anche se nel caso di Napoli su scala ridotta, la rendono allo stesso modo «irredimibile». (p. 18)
  • (Lo cunto de li cunti) è il primo e il più grande di tutti i racconti della nostra tradizione in dialetto napoletano; non solo perché ne è il fondamento, ma perché ne segna anche il punto più alto. Infatti non è una raccolta di fiabe anonime come ce ne sono tante (per esempio quelle siciliane del Pitré), ma di racconti fiabeschi e fantastici di un unico autore dotato di genio e versatilità straordinari. Il dialetto in cui è scritto il Pentamerone oggi non è più parlato, e risulta difficile anche alla lettura. È il dialetto napoletano del Seicento, il dialetto della plebe tumultuosa di quel tempo. Ho cercato di spiegare a modo mio le ragioni per cui il cambiamento è avvenuto, e come la «lingua tosta», cioè dura e senza la musicale dolcezza che vi fu aggiunta dopo, fu a poco a poco trasformata nella «lingua molle», il dialetto parlato oggi a Napoli, non più terribile e certo meno tosto, da una borghesia spaventata dagli eccessi della plebe, dalle stragi e dagli orrori che posero fine alla rivoluzione del 1799. (p. 29)
  • Quando vidi il film realizzato da Vittorio (Caprioli) [Si riferisce al film Leoni al sole], feci un'altra scoperta. Dopo tutto il lavoro di sceneggiatura, giorni e giorni per precisare questo e quell'episodio, questo o quel personaggio, questo o quell'ambiente, quando poi il film era girato, montato, doppiato e io lo vedevo nel buio della sala, non riconoscevo niente di quello che avevo scritto. [...] Cercando di analizzare le cose capii che quando in una sceneggiatura scrivevo che nella stanza dove si svolgeva una scena c'era un letto, una sedia, un comodino, la parola stanza, letto, sedia, comodino, era indeterminata, poteva essere lasciata all'immaginazione. Ma quando poi nel film vedevo la stanza, il letto, la sedia, il comodino non erano più indeterminati, ma erano quelli che vedevo e non altri, quella stanza e proprio quella, quel letto e proprio quello, quelle sedie e quel comodino. E lo stesso accadeva per i personaggi. Fu così che imparai, umilmente, che il film apparteneva al regista, al creatore delle immagini; e imparai a distinguere meglio la portata delle parole da quella delle immagini. (p. 208)

Ferito a morte[modifica]

Incipit[modifica]

La spigola, quell'ombra grigia profilata nell'azzurro, avanza verso di lui e pare immobile, sospesa, come un reattore quando lo vedi sbucare ancora silenzioso nel cerchio tranquillo del mattino. L'occhio fisso, di celluloide, il rilievo delle squame, la testa corrucciata di una maschera cinese — è vicina, vicinissima, a tiro. La Grande Occasione. L'aletta dell'arpione fa da mirino sulla linea smagliante del fucile, lo sguardo segue un punto a destra delle branchie. Sta per tirare — sarà più di dieci chili, pensa — e la Cosa Temuta si ripete: una pigrizia maledetta che costringe il corpo a disobbedire, la vita che nel momento decisivo ti abbandona. Luccica lì, sul fondo di sabbia, la freccia inutile. La spigola passa lenta, come se lui non ci fosse, quasi potrebbe toccarla, e scompare in una zona d'ombra, nel buio degli scogli. Adesso sta inseguendo la Grande Occasione Mancata. Per lunghi oscuri corridoi sottomarini, ombre come alghe viola, e gelo in tutto il corpo. Man mano che si abitua a quel morto chiarore distingue le poltrone del salotto, il lungo tavolo di legno scuro, il paralume verde, il divano, la macchia di caffè sul cuscino giallo. La spigola dev'essere scomparsa in qualche angolo buio, dietro quel cassettone o nella stanza di là, sotto il letto dove lui ora sta dormendo. Ma non importa più, ormai ci siamo, eccola La Scena. Si ripresenta sempre identica: lo sguardo di Carla che splende come un mattino tutto luce in fondo al mare, e lei così vicina — anche il battito del cuore, è pazzesco! — vicina, con l'occhio marino aspettando. E poi offesa? stupita? incredula? prontamente disinvolta comunque, eccola di nuovo seduta sul letto pettinandosi, per sempre lontanissima, che tenta di superare l'imbarazzo. Lui la guarda mentre lei si pettina i capelli raccolti sulla nuca, bionda coda di cavallo oscillante — luminosi come sulla spiaggia nella notte di Capodanno! — lui senza vita e un sorriso umiliato che copre il desiderio di morire. E i ragazzi, t'immagini le facce? le risate? le chiacchiere, se sapessero. Lui, solo, con la Grande Occasione Mancata, e tutti i loro occhi aperti sulla Scena.

Citazioni[modifica]

  • [...] Del governo di Don Ramiro Guzman, duca di Medina Las Torres e Viceré di Napoli – anno 1644 mi pare – resta solo il palagio fabbricato da lui nella riviera di Posillipo, che chiamasi ancora Palazzo Medina, ora in gran parte ruinoso quasi che inabitabile e cadente. E questa, diciamo, sarebbe la Storia. Ora interviene il bradisismo: Sotto l'occhio ironico del sole, spregiatore di ogni umano pensiero, la qui dolcissima ma non per questo meno feroce Natura, nemica della Storia, inizia la sua opera paziente utilizzando per l'occasione una tecnica indicata appunto col nome di bradisismo e facente parte di quel piano, a lunghissima scadenza, che prevede l'annullamento totale di uomini e cose, e di tutto quello che la ragione umana ha costruito, cioè la Storia. E, nel caso particolare, di questo palazzo. (1996, p. 18)
  • [Il Palazzo Donn'Anna] Negli ultimi trecent'anni il palazzo ha resistito agli umori del mare, agli scossoni delle onde e delle bombe, ma i secoli lo vinceranno con la pazienza, millimetro per millimetro, fino a quando le tranquille acque napoletane canteranno vittoria in una bella giornata come questa, come fanno già sui tre o quattro scogli superstiti della villa di Pollione sotto Capo Posillipo, e i pesci nuoteranno nelle stanze irriconoscibili per le incrostazioni marine, l'erosione di alghe e i molluschi litofagi. Solo questione di tempo. (1996, p. 19)
  • [...] Palazzo Medina – sbiadito nella nebbia del sole, con quelle mura corrose di pergamena, i buchi neri delle finestre infossate, in tutta la sua tufacea grandiosa vecchiaia a tener testa al trionfante azzurro sempre giovane mare. (1996, p. 74)

Un giorno d'impazienza[modifica]

Incipit[modifica]

Domani alle sei a casa tua. Appena sveglio avevo risentito le parole di Mira, dette ieri sera, bisbigliate al mio orecchio. E stavo ancora a pensarci su, ne valeva la pena? Per un tipo come quella che nemmeno mi piaceva. Ma come si fa a stabilire la differenza tra voler provare un sentimento e provarlo di fatto? Per tutta l'estate me lo ero domandato, oggi avrei potuto appurarlo. E di colpo, proprio per questo, temevo l'incontro con lei. (da Opere, p. 55)

Citazioni[modifica]

Dove l'avrà trovata Enrico quella distinzione tra uomini e personaggi? In una lettera scritta da qualcuno non si sa bene a chi, nel '43, e capitata per caso nelle sue mani. Ma forse l'aveva inventata là per là, apposta per ferirmi. Gli uomini, a suo avviso, meritevoli di rispetto, i personaggi invece proprio per niente. E io che c'ero cascato: A quale categoria appartenevo, secondo lui? Sarebbe stato meglio non domandarglielo, lo avevo previsto, ero un personaggio, uno spregevole personaggio. E perché? Ci aveva pensato: perché inciampi ogni momento nell'idea che ti sei fatta di te stesso, non sei... genuino, capisci? (da Opere, p. 62)

Explicit[modifica]

Domani alle sei — cosa avrà voluto dire — a casa sua. E stavo ancora a pensarci su, ne valeva la pena? Per una che nemmeno mi piaceva. Domani alle sei — era ridicolo, assurdo, e perché poi dovevo andarci — a casa sua? Per ricominciare tutto da capo con le stesse parole e gli stessi pensieri, per ritornare nel cerchio al punto di prima e dire e fare le stesse cose, per ricadere, come se non ne avessi avuto già abbastanza, in un altro giorno d'impazienza? (da Opere, p. 138)

Note[modifica]

  1. Citato in Nello Ajello, I duellanti di Napoli, in La Repubblica.it, Archivio, 21 maggio 1994.
  2. Da Ultimi viaggi nell'Italia perduta, Avagliano, 1999. In AA. VV., Italia nostra., Napoli, miseria e nobiltà, n. 456, settembre 2010, Gangemi, Roma, 2010, p. 6.
  3. Citato in Ermanno Corsi, Aspettando Capri, prefazione di Francesco Paolo Casavola, Guida, Napoli, 2003, p. 35. ISBN 88-7188-723-9
  4. Da È vero, hanno paura: che c'è di strano?, Corriere della sera, 1 novembre 2009, p. 11.
  5. Da Le tre maschere dell'Italia che non si arrende, Corriere della sera, 21 novembre 2009, p. 53.
  6. Da Uovo di sinistra, gallina di destra, Corriere della sera, 4 novembre 2008, p. 47.
  7. a b Da Capri, la memoria di un'Isola-Stato, Corriere della sera, 28 settembre 2009, p. 35.
  8. Da Ultimi viaggi nell'Italia perduta, Avagliano, 1999. In AA. VV., Italia nostra., Napoli, miseria e nobiltà, n. 456, settembre 2010, Gangemi, Roma, 2010, [1]
  9. Citato in Arbore, La Capria e Napoli in un docufilm su Rai Storia, Cinemaitaliano.info, 27 settembre 2014.
  10. Da Ma è l'Italia il vero problema di Napoli, Corriere della Sera, 9 gennaio 2008.
  11. Da Libellule; in Esercizi superficiali, Edizioni Mondadori, 2012, p. 3. ISBN 8852022201
  12. Da Le confessioni di un ottuagenario, Corriere della sera, 28 agosto 2009, p. 39.
  13. Citato in Gian Antonio Stella, Capri. Ti odio per troppo amore, Corriere della sera, 25 luglio 1996, p. 23.
  14. Da Roma ora è la capitale dei mendicanti, Corriere della sera, 21 agosto 2009, p. 21.
  15. Da Il vero male è il disordine estetico, Corriere della sera, 26 maggio 2009, p. 15.
  16. Da Malaparte gran bugiardo Il suo trucco c'è e si vede, Corriere della sera, 21 aprile 2009, p. 37.
  17. Citato in Dario Fertilio, Le mille Italie e l'identità nazionale, Corriere della sera, 8 agosto 2009.
  18. Da La favola che aiuta a vivere, Corriere della sera, 14 dicembre 2009, p. 30.
  19. Citato in Arbore, La Capria e Napoli in un docufilm su Rai Storia, Cinemaitaliano.info, 27 settembre 2014.

Bibliografia[modifica]

  • Raffaele La Capria, Amore e psiche; in Raffaele La Capria, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Silvio Perrella, coll. I Meridiani, A. Mondadori, Milano, 2003, pp. 307-96. ISBN 88-04-51361-6
  • Raffaele La Capria, Colapesce; in Opere, a cura di Silvio Perrella, Mondadori, Milano, 2003, pp. 399-428. ISBN 88-04-51361-6
  • Raffaele La Capria, Ferito a morte, Milano: Club degli editori, 1969.
  • Raffaele La Capria, L'amorosa inchiesta, Mondadori, Milano, 2006.
  • Raffaele La Capria, L'armonia perduta, Mondadori, Milano, 1986.
  • Raffaele La Capria, L'armonia perduta, Mondadori, Milano, 1986. Mondadori-De Agostini Libri, collana Grandi Premi della Letteratura italiana, Novara, stampa 1996.
  • Raffaele La Capria, La bellezza di Roma, Mondadori, Milano, 2014.
  • Raffaele La Capria, L'estro quotidiano, Coll. Scrittori italiani e stranieri, Mondadori, Milano, 2005, ISBN 88-04-53602-0
  • Raffaele La Capria, Napolitan graffiti: come eravamo, Coll. Piccola biblioteca La scala, Rizzoli, Milano, 1998, ISBN 88-17-66096-5
  • Raffaele La Capria, Un giorno d'impazienza; in Raffaele La Capria, Opere, a cura e con un saggio introduttivo di Silvio Perrella, coll. I Meridiani, A. Mondadori, Milano, 2003, pp. 53-138. ISBN 88-04-51361-6

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Opere[modifica]