Federico Orlando

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Federico Orlando (1928 – 2014), giornalista e politico italiano.

Citazioni di Federico Orlando[modifica]

  • «Giuristi democratici» e «donne in nero», ecopacifisti e cattopacifisti, comunisti di rito occhettiano e di rito cossuttiano, ex lottacontinuisti, operaisti, terzinternazionalisti, avanguardisti, autonomi e rottami vari del «Movimento», ci avrebbero raccontato che il loro sogno si chiama solo «Pace». È una malattia che Jung identificò quando studiava Hitler, e chiamò pseudologia fantastica. Consiste nell'inventarsi una bugia e finire col credere che sia una verità. La bugia preferita è che nel mondo ci sia un Satana, che oggi è l'Occidente, e che chi lo combatte è un pacifista. Perciò l'Occidente è il nemico di tutti i fondamentalisti antisatanici. [...] Contro il nemico, c'è l'eroe positivo. Ieri era il proletariato, i «popoli giovani». Oggi è il terzomondismo, «ultima versione dell'integrismo», secondo la definizione di Baget Bozzo. [...] Così il fondamentalismo dei pacifisti del Nord e il bellicismo dei fondamentalisti del Sud si uniscono contro il mondo moderno, che nei due secoli dalla rivoluzione americana ha liberato l'Occidente dall'assolutismo, dall'inquisizione, dal giacobinismo, dal nazismo, dal comunismo. Ma ora agli sconfitti di questi «ismi» è tolta anche la gioia di sventolarci sotto gli occhi «allegre bandiere bianche», per dirci che hanno vinto loro. Riposino in pace.[1]
  • In questo tramonto livido della partitocrazia, emergono sulla scena personaggi da legge Basaglia, quella dei maniocomi, e fanno cose da pazzi. La bozza Gualtieri, che vien data alla stampa prima che la relazione ufficiale sia consegnata al Parlamento, anticipa la requisitoria che il procuratore della Repubblica di Roma, a sua volta, sta per pronunciare sul caso Gladio; e che, si dice, chiederebbe l'archiviazione, per manifesta infondatezza, dalle accuse che hanno eccitato prima Casson e poi Gualtieri.[2]
  • Così, prevenendo col verdetto di una magistratura politica (tale è la Commissione stragi) il verdetto della magistratura vera, si mette quest'ultima in una odiosa alternativa: o conformarsi al verdetto politico, contribuendo a montare il processo staliniano contro Cossiga e contro tutta la classe democratica che difese l'Italia dal totalitarismo; o contrapporsi a quel verdetto, esponendosi al linciaggio della canea politico-giudiziaria veterostalinista. E poco conterà se la requisitoria del giudice vero verrà costruita sulle prove, mentre la relazione Gualtieri sarà ispirata dal bisogno di far rumore per catturare voti, magari al lambrusco. Resterebbe lo strazio di un sistema istituzionale dove i politici fanno i giudici e i giudici fanno i politici.[2]
  • I lettori ne tengano conto e diffidino di tutti gli «scandali» che saranno loro propinati dai partiti, impegnati a frugare nelle discariche del passato. E ricordino ai partiti che ben altre cose essi si aspettano: impegni sui programmi, accordi tra forze che si realizzino, riforme per governare la società e risollevare l'economia, istituzioni moderne come hanno chiesto 27 milioni di elettori nel referendum del 9 giugno scorso. La maggioranza degli italiani rifiuta la mortificante scelta fra partitocrazia e leghismo. O le liste offriranno nomi di candidati immuni dalle malattie del sistema, o molti cittadini stavolta andranno al mare sul serio. Non saranno «scandali» o «rivelazioni» a fargli cambiare idea.[2]
  • La libertà dei giornalisti è la capacità di rimanere se stessi, senza suonare nella banda del padrone.[3]
  • I lettori sono pessimi padroni. Montanelli nelle sue infinite esternazioni ha detto questo ma ha anche detto che il giornalista deve stare sempre un passo avanti ai suoi lettori.[4]
  • In Italia c'è sempre stata l'identificazione fra liberale e proprietà, ricchezza, mancanza di regole. C'è stata una destra che ha identificato la crescita liberale del Paese nel rifiuto delle regole. La destra da noi è anarchica, western, si coagula attorno all'interesse personale, da realizzare al di fuori della legge, con l'evasione fiscale, con l'edilizia abusiva, con l'amnistia, con i privilegi, con le corporazioni e attorno all'ideale negativo di contrapporsi a chiunque venga a proporre qualcosa di nuovo, il socialismo, il comunismo. Berlusconi, che è un grande mago, ha interpretato alla perfezione questo desiderio della destra italiana di essere proprietaria e unificata attorno all'anticomunismo.[4]
  • Bossi non può essere definito niente. Bossi è la provincia. E' Poujade, la provincia grigia, ombrosa, biliosa, rabbiosa. I bossiani sono quelli che vedono in Tremonti il salvatore della patria perché gli parla di riduzione delle tasse.[4]
  • Quando incontro in Transatlantico i miei ex compagni di partito, Antonio Martino, Alfredo Biondi, Raffaele Costa, dico loro: "Ma che cavolo state facendo? Non avete niente da dire di fronte a un governo che come prima preoccupazione porta la legge sul falso in bilancio e la tassa di successione per i patrimoni ultramiliardari?"[4]
  • [La destra liberale] E' rimasta un mito. Vuoi che ti dica una cosa che per uno che è stato il condirettore di Montanelli può sembrare una bestemmia? Per me la destra ideale oggi è Eugenio Scalfari. Può sembrare audace ma è così.[4]
  • [«Anche a te, come a Montanelli, fa paura questa destra?»] Enormemente. Questa è una destra che vuole le mazzate, il pugno forte. Il Paese è ancora più reazionario dei suoi capi. Io ascolto Radio radicale dove si riversano le fogne della società, la feccia, sento delle cose tremende: "Gli hanno sparato in fronte? Dovevano sparargli in bocca! Nelle orecchie!" Questo è il modo di parlare di tanta borghesia, non solo dei nullafacenti di paese.[4]

Dall'intervento alla Camera dei deputati, 17 giugno 1997

Resoconto stenografico 212. Seduta di martedì 17 giugno 1997

  • Poiché questa è la prima volta che prendo la parola in quest'aula sulla questione della Somalia, il mio primo pensiero è rivolto ai quattordici soldati italiani morti in quel paese ed ai cento rimasti feriti.
  • È relativamente inutile, a mio giudizio, scomodare, come è stato invece fatto, il fascismo delle Forze armate, il machismo, il superomismo: sono tutti veleni che corrono nel sangue della nazione italiana non da oggi e certamente da ancor prima che il fascismo si configurasse come fenomeno politico. D'altra parte basta ispirarsi, guardarsi intorno a quello che fanno i democraticissimi eserciti che in tempi non lontani, quando io ero ragazzo, combattevano per le famose libertà atlantiche. Mi riferisco ai pestaggi da parte di marines per esercitazione [...] oppure ai comportamenti dei guerriglieri urbani di tutte le tinte [...] e magari dei nostri vicini croati, serbi e bosniaci (ripeto: non soltanto serbi).
  • Meno inutile, invece, [...] è forse ricordare che anche l'esercito, e non soltanto gli assistenti di filosofia del diritto ed altri uomini di cultura dell'università di Roma, è il frutto della violenza e della vigliaccheria della cultura sessantottina e settantasettesca che continua ad avvelenare il nostro paese, così come fascismo, «machismo» e superomismo hanno avvelenato la prima metà del nostro secolo. Era la cultura della P38, la cultura di quelli che dicevano che uccidere un fascista o un carabiniere non era reato; la cultura che ha insegnato alle generazioni che oggi esprimono i parlamentari, i professori, gli ufficiali delle Forze armate, l'irrisione di ogni cultura ricevuta dal passato, di ogni rispetto umano, familiare, ideologico per l'altra parte.
  • Dunque noi oggi abbiamo da difenderci dalle conseguenze di una cultura scolastica della violenza e del disimpegno da ogni responsabilità umana, che è benzina in una società come quella italiana, unica nell'Europa occidentale a conoscere fenomeni di criminalità organizzata di massa. Io domando a voi [...] quanti mafiosi, quanti camorristi, quanti giovani «picciotti», magari anche ex sessantottini o soltanto mafiosi, sono via via finiti nei reparti più violenti dell'esercito. [«È una fissazione quella del sessantotto!»] Sì, è una fissazione, e sono molto contento di non aver mai rivisto le mie posizioni in materia. [...] Vorrei sapere [...] quanti sparatori del sessantotto e del settantasette, quanti giovani mafiosi siano finiti nelle formazioni più violente dell'esercito e quali note caratteristiche facciano più titolo per le ferme dei volontari. Le sarei grato, signor ministro, se su questo punto mi fornisse qualche chiarimento. Dunque, più scuola, più bonifica sociale; meno «leoncavallini», meno corpi separati nelle caserme, meno filosofi del diritto, meno perdonismi, meno amnesie ed amnistie, meno spinelli liberi, meno massacri del sabato notte. Più obblighi, signor Presidente: siamo padri di famiglia, ricordiamolo a noi stessi ed agli altri; dunque, più obblighi e più bocciature a scuola e nella vita [...] anche perché a bocciare comunque sarà la vita. Anche gli stupratori della Somalia [...] sono dei bocciati dalla vita. [...] Ma vorrei sapere quante bocciature quegli stupratori hanno avuto a scuola; quanti calci nel sedere la società civile ha dato a questi giovani irresponsabili.
  • Una democrazia liberale sa che gli uomini si costruiscono non insegnando loro pietismo e lassismo, ma doveri e valori. Ciò vale per i soldati come per i politici e per i giornalisti, quei giornalisti [...] che per quattro o cinque anni hanno fatto finta di niente di fronte alla pioggia di notizie che raggiungeva le redazioni, salvo poi ingrandire gli avvenimenti quando alcune foto, condite di sadismo sessuale [...] non hanno più consentito di nascondere la realtà dei fatti in una terra nella quale avremmo dovuto svolgere una missione di pace. Onorevole Andreatta, lei ha un compito molto delicato ed importante; mi permetta però di dirle che forse il suo collega Berlinguer ne ha uno ancora più importante.

Il sabato andavamo ad Arcore[modifica]

  • Quando, poche settimane prima che scoppiasse Mani pulite, scrissi un fondo denunciando "i camorristi di Palazzo Marino", Silvio Berlusconi mi telefonò irritatissimo, spiegandomi che ero arrivato a Milano, non a Napoli.
  • Il 21 febbraio, quattro giorni dopo l'arresto di Chiesa, viene a farmi visita Ugo Finetti, vicepresidente della Regione Lombardia, magna pars del socialismo milanese. Lo accompagna Paolo Berlusconi, che non è ancora l'editore del Giornale (lo diventerà il 16 luglio: e per questo Montanelli fin dal 20 gennaio aveva scritto a Silvio informandolo che il preannunciato passaggio di proprietà non avrebbe potuto modificare le intese sull'indipendenza del Giornale e del suo direttore, a suo tempo intercorse con Silvio e «sempre rispettate»). Finetti era pallido, Paolo aveva l'aria di essere seccato per il fatto che i vari appelli rivolti a me da esponenti della Fininvest, affinché il Giornale non turbasse i rapporti del gruppo con il Psi, continuassero a cadere nel vuoto. Finetti ha una cartella con articoli della nostra cronaca milanese, sottolineati con evidenziatore color verde pisello. Me li consegna affinché io possa contestarli ai colleghi cronisti. «I giudici della Procura – mi spiega Finetti – fanno i fascicoli con i ritagli dei giornali, proprio come questo: poi, quando succede qualcosa, si trovano una documentazione già abbondante e vanno a scavarvi quello che vogliono.» Paolo Berlusconi taglia corto: «Con le istituzioni, Regione, Comune, Fiera, noi dobbiamo lavorare, perciò dobbiamo poter mantenere buoni rapporti».
  • In quegli stessi mesi (gennaio-febbraio 1992) al capocronista Giuliano Molossi, e in sua assenza al vice Ario Gervasutti, arriva una telefonata di Bobo Craxi, capogruppo in consiglio comunale. È furioso per «insinuazioni» sui legami di Mario Chiesa con il Psi milanese, raccontati dai nostri cronisti. E minaccia: «Dopo le elezioni del 5 aprile, ci sarà un repulisti, molte teste cadranno al Giornale [...]. Prima di parlare col vostro padrone, vi ripeto che dovete smetterla di rompere i coglioni. Siete il solito giornale veterofascista, leghista, filodemocristiano». Il 29 telefona Fedele Confalonieri, braccio destro di Berlusconi: è incavolato perché in cronaca è stata pubblicata una foto di Bettino Craxi con Chiesa. Mi chiede, fuori dal suo stile sempre equilibrato: «È un sabotaggio a Berlusconi? Ma se per mantenere Il Giornale dobbiamo inimicarci Craxi, meglio rinunciare al Giornale».

Bibliografia[modifica]

  • Federico Orlando, Il sabato andavamo ad Arcore, Larus, 1995.

Note[modifica]

  1. Citato in Non sventolano più le «allegre bandiere bianche», il Giornale, 1 marzo 1991.
  2. a b c Citato in Carte false, il Giornale, 30 gennaio 1992.
  3. Citato in Fucilate Montanelli, Editori Riuniti, 2001.
  4. a b c d e f Dall'intervista di Claudio Sabelli Fioretti, L'Adige, 10 agosto 2002.

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