Irene Bignardi

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.

Irene Bignardi (1943 – vivente), critica cinematografica italiana.

Citazioni di Irene Bignardi[modifica]

Citazioni in ordine temporale.

  • [Su Il mostro] [...] se Benigni è sempre irresistibile e le risate arrivano comunque, troppo spesso le situazioni sono costruite e insistite e le invenzioni anche divertenti della sceneggiatura sono bruciate dall'insicurezza della regia e dall'incontenibilità dell'interprete.[1]
  • È un peccato che in un insieme fluido e intelligente, in cui Scola ritrova il suo stile migliore, riaffiorino le tentazioni della vecchia commedia degli eccessi e della caricatura, per esempio nel "tavolo" della bella Nadia Carlomagno, che ha dato appuntamento al ristorante, contemporaneamente, a tutti i suoi amanti e introduce uno stridente stile da pochade. E peccato anche che i collegamenti tra tavolata e tavolata non siano più agili e nervosi, anzi, che lascino a volte la sensazione di ritrovarci sempre allo stesso punto di una situazione che non si muove. Peccato perché il quadro sociologico forse è un po' troppo romano ma vivido, gli interpreti bravi quando non eccellenti (basti per tutti l'ottimo Tirabassi), la fotografia di Franco Di Giacomo molto bella ed è brillante la cornice narrativa (riassunta dal lungo piano sequenza in cui l'intero ristorante si ferma al suono del concerto per arpa e flauto di Mozart) che porta la forma-pranzo a degli estremi ancora intentati nonostante l'ormai fitta tradizione di film conviviali. La sensazione che lascia La cena è così, da una parte, il disappunto di fronte a un bel film imperfetto cui avrebbe giovato un lavoro di lima – dall'altra il piacere di un cinema altamente professionale, colto, spesso acuto, che disegna con humour e intelligenza il ritratto dell'italiano medioborghese di oggi.[2]
  • [Su Matrix] [...] abile frullato misto di Bibbia e yoga, metafisica e matematica, kung fu e Sergio Leone, buddhismo e arti marziali, alta tecnologia e messaggi messianici, velo di Maya e Alice nel paese delle meraviglie, e chi più ne trova più ne metta.[3]
  • [Su Matrix] Nei quindici anni che separano la fantascienza di Matryx [sic] da quella di Blade Runner l'elemento umano, a dispetto di quanto dichiarano i due brillanti fratelli Wachowski, si è perso nella confusione narrativa (provate, per piacere, a riraccontare la trama del film e gli andirivieni tra le due realtà) e nelle trovate tecniche. Ancora più lontano è il ricordo del gruppo di resistenti di Fahrenheit 451. Forse i Wachowski pensano di aver fatto un film sulla ricerca di un nuovo umanesimo, ma dovrebbero sapere che il mezzo è il messaggio: e Matryx [sic] è invece il trionfo di quella cultura cyber di cui denuncia l'oppressione.[3]
  • Ce la faranno i giovani e meno giovani spettatori al di sopra delle linea gotica a capire quello che si dicono i giovani romani di Come te nessuno mai? Speriamo di sì. O comunque facciano un piccolo sforzo. Perché il film di Gabriele Muccino è il primo, in anni (e almeno dai tempi di "Mignon è partita"), che sappia parlare di adolescenti, ragazzi, occupazioni scolastiche, amori più virtuali che reali, pettegolezzi amorosi, ansie e paure rispetto a quella cosa misteriosa e difficile che è il sesso, senza cadere nelle secche del bozzettismo o nel dovere della denuncia, ma semplicemente lasciandosi andare al piacere del racconto, dei ritratti, dell'ambientazione – fino a comporre un quadro lieve ma credibile, divertente ma tenero di una generazione, o perlomeno di una sua cospicua fetta, romana, borghese, disinibita ma non troppo, di "sinistra": concetto su cui si dibatte con effetti esilaranti e nostalgici, a partire dalla bella sequenza delle voci che sotto i titoli di testa commentano gli eventi cruciali di vent'anni, da Valle Giulia alla vittoria elettorale dell'Ulivo.[4]
  • Dancer in the Dark è, si potrebbe azzardare, Rosetta in musical, con la dolcezza al posto della rabbia: un film di tale invenzione, forza, stile, da far perdonare al regista le campane finali di Le onde del destino e l'insopportabile Idioti. E al contrario di quest'ultimo è un film pieno di autentica pietà, laicamente religioso, onesto.[5]
  • [Su Dancer in the Dark] [...] mai si è visto, in una storia del genere, un dolore così autentico, un realismo così scandaloso e poco scandalistico.[5]
  • [Su Alessandro Blasetti] È stato un cineasta totale, capace di ogni avventura e ogni esperimento, dal realismo alla fantasia, un anticipatore e precursore del cinema di poi, un organizzatore, un cineasta aperto alle idee altrui, un grande che sapeva incoraggiare gli esordienti e scoprirne il talento, un intellettuale capace di essere popolare, un narratore che metteva tutto il peso della sua bravura nell'impegno a non deludere il pubblico.[6]
  • [Su Space Cowboys] In un tessuto produttivo impeccabile Eastwood regista si muove con classica eleganza (anche se con qualche smagliatura nella direzione degli attori) e Eastwood sceneggiatore si dimentica di darci alcune spiegazioni fondamentali [...]. Della tecnologia si sa, bisogna fidarsi con un atto di fede negli effetti speciali. Dei buchi logici i più si dimenticheranno travolti dagli eventi. Resta, con buona pace di Samuel Goldwyn, quello che Eastwood, con allegro ottimismo, ci vuole dire: che non si è mai troppo vecchi, che ci si può sempre riprovare.[7]
  • [Su The Man Who Cried] La storia di Susie [...] appartiene al mondo del mélo. Anzi, ne farebbe parte se Sally Potter, che si fida troppo di se stessa come sceneggiatrice, non avesse costruito attorno a Christina Ricci un copione frammentato, in cui, a volo d'uccello, ambiziosamente concentra una storia che ci porta dalla Russia del 1927 a Hollywood negli anni '40 senza mai riuscire a far risuonare un sentimento autentico.[8]
  • Love Story divenne un classico della lacrima e portò in giro per il mondo una celebre battuta che, confesso, non ho mai capita bene, ma che viene sempre citata come un esempio di etica amorosa: "L'amore è non dover mai dire mi dispiace". Lo dice lei, la bruna e bella Jennifer Cavalleri, studentessa di musica alla prestigiosa Università di Radcliffe, di origine italiana ma una volta tanto non stereotipata, brillante, pugnace, diretta, spiritosa, intelligente, orgogliosa delle sue origini per quanto modeste.[9]
  • La grandezza di Philip Roth sta nella sua abilità a tessere attorno a una piccola, a volte miseranda fantasia di sesso, quasi una Madeleine dei sensi (una fellatio improvvisa, una carezza osée) il tessuto fitto di un’epoca, le trame della Storia. E’ questa commistione che ci ha spinto a continuare a leggerlo, dimenticando le sue piccole e grandi ingenuità, le sue fissazioni e le sue brutalità, la franchezza a tratti imbarazzante e le menzogne da cretese. E’ la sua scrittura: rapinosa e semplice, colta e quotidiana, spiritosa e sapiente, letteraria e diretta. Quella di uno dei grandi scrittori del secolo. Che  piaccia o non piaccia ai giudici di Stoccolma.[10]

Questo Dracula non è un vampiro

la Repubblica, 23 gennaio 1993

  • [Dracula di Bram Stoker] è un ossimoro. Perché è un film sicuramente d'autore, che concentra tutte le passioni, la voglia di invenzioni, l'avventurosità nello sperimentare le infinite possibilità del mezzo cinematografico care - e costate care - al grande Coppola: ma al tempo stesso è un 'blockbuster' hollywoodiano, con un cast di stelle, un budget di 45 milioni di dollari, e l'evidente e preponderante progetto di stupire. Perché promette - appunto - di voler essere filologicamente fedele al testo di Stoker, e invece va a rileggerselo a modo suo, innestando i riferimenti e le paure dell'età dell'Aids nella storia immortale scritta cent'anni fa (nel 1897) da Bram Stoker in risposta alle ossessioni e alle fobie sessuali dell'età vittoriana, e inventandosi una storia d'amore tra il conte Dracula e Mina Harker con tanto di catarsi finale. Perché è un film pieno di invenzioni di stile, ma a tratti sembra un'antologia di centoni del peggiore horror. Perchè é un film che dovrebbe procurare pelle d'oca e far scorrere adrenalina, e invece annulla gli eccessi di climax con una stuporosa ripetizione di meraviglie. Perché è un bel film brutto (ma il gioco finisce qui: non è un brutto film bello).
  • Tolta l'indubitabile cultura e la meraviglia, il suo film è un'addizione di putrescenze e di sangue, di kitsch gotico, di scene madri e di climax che non portano a nulla: né alle emozioni che fornivano i "Nosferatu" di Murnau e - sì -di Herzog, né ai brividi di grana grossa dei vampiri Hammer, né alle risate di Polanski, di "Amore al primo morso" e di "Dracula Dracula Dra" . Anche i veri colpi di ironia - per esempio la testa mozza che per uno sberleffo del montaggio si trasforma in un arrosto - non impediscono che il film bordeggi senza equilibrio tra citazioni e caricatura.
  • Coppola ha sacrificato una delle metafore più sconvolgenti e insinuanti dell'età moderna alle necessità di un lavoro su commissione, al divertimento del suo superartigianato e al gusto più facile del pubblico, che in America ha accolto questo blob dell'orrore con tale entusiasmo da far sperare che presto tutte le sue difficoltà finanziarie saranno risolte. Ce lo auguriamo di tutto cuore per lui e per noi suoi ammiratori: vuol dire che la prossima volta potrà tornare a lavorare in assoluta libertà.

Gli Stati Uniti? La nuova Babilonia

la Repubblica, 6 dicembre 1997

  • Sono un'ammiratrice di Joe Dante. Ma, per una volta, diamo a Cesare quel che è di Cesare. E cioè diamo a Martyn Burke, lo sceneggiatore di La seconda guerra civile americana (che dai titoli di testa risulta "un film di Joe Dante"), il merito di avere scritto uno dei copioni più intelligenti, densi, puntuali, divertenti di questi anni. E di aver quindi contribuito in maniera determinante a costruire un film che - nonostante una certa povertà di produzione e una regia un po' incolore, da attribuire probabimente all'origine televisiva - riesce a conciliare le ragioni dell'intrattenimento con quelle del rispetto per il pubblico. Diamo anche a Joe Dante il merito di aver fatto il salto verso un cinema da adulti senza tradire il suo istinto popolare per un divertimento semplice e diretto. Anche se parlare di "divertimento" e di "adulti" può sembrare contraddittorio con quello che si vede sullo schermo: una schiera di umani che si comportano in maniera scriteriata - ma tragicamente verosimile.
  • La seconda guerra civile americana è stato giustamente definito un film all'incrocio tra Stranamore e Quinto potere. Altro che "give me your tired, your poor", altro che datemi i vostri poveri, come recitano i versi di Anna Lazarus incisi sulla statua della libertà. Altro che "melting pot". Altro che "patria di schiavi fuggiaschi". Gli Stati Uniti del prossimo futuro - imprecisato ma vicino - del film di Dante stanno esplodendo.
  • Non c'è una morale, nella satira feroce di La seconda guerra civile americana, ma un avvertimento, una messa in allerta. Non si possono lasciare andare le cose a se stesse, il melting pot va organizzato, i media hanno responsabilità immense.
    E si esce dal film con l'inquietante sensazione di esserci divertiti davanti ai nostri guai venturi.

Dracula, il padre di tutti i vampiri

la Repubblica, 10 febbraio 2004

  • Dracula ha vampirizzato il suo autore, Bram Stoker. Lo ha vampirizzato in due modi. Attraverso il suo capolavoro, quello che dal 1897, in forma compiuta e proteiforme, ha aggiunto un mito al pantheon delle nostre paure collettive o, per i più cinici e robusti, alle paure di cui farsi beffe (si vedano Roman Polanski con i suoi vampiri gay a Renato Rascel con il «cha cha cha» del «vampiro dal nero mantello»), fino ad assorbire la vita dell'autore in quella della creatura. E attraverso l'incontro fatale che nel 1876 ha portato Bram Stoker, anzi Abraham, classe 1847, irlandese, già bambino malaticcio, laurea in matematica al Trinità College di Dublino, gigante rossocrinito, burocrate dalla vita noiosa, marito poco entusiasta di una ex fidanzata di Oscar Wilde, autore dell'eccitante volume I doveri degli impiegati nelle udienze per i reati minori in Irlanda, nell'orbita di un grande vampiro - di attenzione, passioni, ammirazione - qual era Sir Henry Irving, attore magnifico, accentratore massimo. Due orbite fatate da cui non è più uscito. In un certo senso si potrebbe anche dire che il vampirologo ha vampirizzato se stesso.
  • Pur con qualche lungaggine e qualche digressione di troppo, Dracula è un capolavoro al di fuori dei generi, una costruzione brillantemente organizzata, una struttura narrativa modernissima, con i tre punti di vista del giornale stenografato di Jonathan Harker, delle lettere di sua moglie Mina, del diario del dottor Seward registrato su fonografo, che vanno a comporre con altri materiali e altri interventi un quadro della paura vittoriana della sessualità, della liberazione femminile, delle malattie veneree imperversanti allora come oggi, della solitudine di chi è diverso o semplicemente della paura ultima, che tutto finisca - o non finisca - con la morte.
  • La qualità originale di Dracula - che non esaurisce i suoi meriti - è l'intreccio tra il materiale fantastico e il materiale storico. Perché si sa che esistette, alle spalle di Dracula, la figura storica di Vlad Dracul o Vlad Tepes l'Impalatore, crudelissimo voivoda della Valacchia, vissuto alla metà del quindicesimo secolo, responsabile della morte di almeno trentamila persone, despota abilissimo nel governare col terrore. Si sa che ovunque nel mondo ricorre il mito del vampiro, declinato in forme diverse e ricchissime, e che Stoker ne ha adattate un buon numero a Vlad Dracul per creare il Conte Dracula.

Note[modifica]

  1. Da Attenti al mostro così dolce e goffo, la Repubblica, 28 ottobre 1994, p. 33.
  2. Da I mostri d'Italia alla trattoria Scola, la Repubblica, 27 novembre 1998, p. 45.
  3. a b Da Frullato misto cyber-action, la Repubblica, 8 maggio 1999.
  4. Da Romani borghesi di sinistra, la Repubblica, 2 ottobre 1999, p. 44.
  5. a b Da Bjork, elfo lappone umiliato e offeso, repubblica.it, Cannes, 18 maggio 2000
  6. Da Blasetti, l'uomo dagli stivali che folgorò il giovane Fellini, la Repubblica, 4 luglio 2000.
  7. Da la Repubblica, 31 agosto 2000; citato in Space Cowboys, cinematografo.it.
  8. Da la Repubblica, 4 settembre 2000; citato in The Man Who Cried - L'uomo che pianse, cinematografo.it.
  9. Da La vera storia nascosta dietro "Love Story", repubblica.it, 25 marzo 2018.
  10. Da Roth: libertino tra i libertini, erudito tra gli eruditi, repubblica.it, 23 maggio 2018.

Altri progetti[modifica]