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Giovanni Arpino

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Giovanni Arpino (1927 – 1987), scrittore e giornalista italiano.

Citazioni di Giovanni Arpino

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  • Cara Signora, mi tolgo il cappello | il suo nome è una stella nella curva del cielo | il suo nome rimbomba della terra alla luna. | Mi vesto a festa, lancio i coriandoli | il suo nome è un nome | che si legge anche Torino. | Il suo nome è una montagna | di tanti scudetti, | agli altri la manfrina, una lacrima, un peto. | Il suo nome è il migliore, il suo nome è il più forte. | Tu dici: sono gob. E gli altri: sono morto. | Il suo nome si allunga, | si contorce in un lamento | ma resta l'idea in tutte le genti. | Si restringe, si allunga, fa eco rotondo | che perda che vinca tra i primi del mondo. | Juventus, gridano, | o Goba o Madama, | sei forte, sei cattiva, fai girare le scatole. | Ma un'altra non c'è | e nessuno è stanco | di soffrire e cantare il tuo nero e il tuo bianco.[1]
  • Come la Mole Antonelliana o la Tour Eiffel, come l'Arco di Tito o la milanese piazza del Duomo, la Juve è, a suo modo, un monumento che deve saper mantenere intatta la propria identità.[2]
  • Da Superga a Meroni a Ferrini, la storia del Toro obbedisce a un copione drammatico. Di rappresentazione in rappresentazione, società tifosi, giocatori si sono cuciti addosso una divisa mentale ormai indelebile come la maglia granata: è più importante soffrire che non vincere.[3]
  • Fanno più disastri gli scienziati di quanti ne abbiano combinati gli ignoranti.[4]
  • Già Blok aveva intravisto nel progresso della civiltà, nell'idolatria della macchina e del ferro la minaccia di una America russa, ove l'età «ferrosa» avrebbe soffocato la dolce Russia di legno, cara a Serghej.[5]
  • Il luogo comune dice che metà Italia ama la Juventus e metà Italia l'odia. Io credo sia profondamente sbagliato: è molto più amata, solo anche d'un amore corretto, di un amore non facinoroso. E quelli che credono d'odiarla, non è odio di classe, ma invidia di classe.[6]
  • Il Torino - come tutti sanno - è una fede. E anche se non sempre la fede può vincere, il suo valore resta incontaminato.[7]
  • JUVE, JUVE La vecchia signora, la madama, la signora omicidi, Juve primo amore, la fidanzata d'Italia, l'ambasciatrice d'Italia, il miglior «sponsor» per Torino e l'entità piemontese: sono soltanto i più noti nomignoli e definizioni che hanno etichettato il Football Club Juventus, una realtà sportiva, sociale e umana di ormai quasi centenaria storia, una «identità» di stile e di opere che non trova riscontri nella Penisola.[8]
  • La Juventus è universale, il Torino è un dialetto. La Madama è un "esperanto" anche calcistico, il Toro è gergo.[3]
  • Mille società sportive, piccole e grandi, si cancellano a vicenda perché il loro modo di essere era dilettantesco fin dalle origini, viveva d' emotività, di risultati, di traguardi miracolosamente raggiunti, di sfide occasionali. La Juventus: mai. Gioca nel tempo. Il suo "valore" non è in un titolo in più o in meno, ma nella durata.[9]
  • [Sulla finale della Coppa delle Fiere 1970-1971] [...] la memoria torna sempre a quel 35' minuto del primo tempo: quando Anastasi, solo, ben lanciato, libero come un aquilotto in volo, batte di destro e il pallone fugge maligno (e punitivo per chi l'ha colpito malissimo) oltre la traversa. La Coppa Fiere era lì, in quell'attimo, in quel vuoto verde tra un portiere tagliato fuori e due difensori inglesi annaspanti alle spalle del centrattacco bianconero. Li si è chiusa la partita, poi continuata nella cronaca banale di un incontro confuso, accanito, agonisticamente rispettabile, ma senza più il guizzo illuminato e prezioso che distingue il grande calcio.[10]
  • Nel panorama un po' troppo polveroso e chiacchierone degli allenatori di calcio in Italia, uno come Heriberto, che non strilla né soffia nella tromba, è di per sé un fenomeno, bello o brutto, amato o disamato a seconda di infiniti pareri personali. Ma certo è un uomo, ritagliato in un suo legno tutto speciale, con spigolosità che hanno un loro preciso carattere.[11]
  • Non avessimo bisogno delle donne saremmo tutti signori.[12]
  • [Il gatto] Non risponde ai richiami, ma sta bene attento a ogni trillo del telefono, a ogni colpo di citofono, a ogni scampanellata alla porta. Perché non desidera estranei, gente che può occupargli il divano [...].[13]
  • [Sulla strage dell'Heysel] Non uscire sconfitti moralmente da Bruxelles [19]85, aver accettato da giocare una gara infernale, e tuttavia corretta, è un fatto juventino che solo tra molto tempo verrà misurato nella sua validità; che poi sia un grande esempio sportivo, viene di conseguenza.[14]
  • Ogni vero ricordo è ancora un richiamo, una verità che ci lavora nelle ossa, un febbrile atto di sfida al buio di domani.[15]
  • [...] Quando dici Juventus sei conosciuto da Helsinki a Melbourne, dal Canada al Pakistan. Ed è questa 'identità' che diventa biglietto da visita internazionale...[16]
  • [Sulla strage dell'Heysel] Qui ricordiamo le 39 vittime di Bruxelles il 29 maggio 1985 trucidate da brutale violenza. Quando onore, lealtà, rispetto cedono alla follia, è tradita ogni disciplina sportiva. Alla nostra memoria il compito di tenerla viva.[17][18]
  • Russ cume 'l sang | fort cume 'l Barbera | veuj ricurdete adess, me grand Turin. | En cui ani 'd sagrin | unica e sula la tua blessa jera.[19]
Rosso come il sangue | forte come il Barbera | voglio ricordarti adesso, mio grande Torino. | In quegli anni di patimenti | unica e sola la tua bellezza era.
  • Se non avrai nemici significherà che hai sbagliato tutto.[20]
  • [Nel 1978, sulle sponsorizzazioni nel calcio italiano] [...] si addensano i nuvoloni della pubblicità intesa quale manna per i club indebitati: c'è chi studia sigle capaci di non turbare il tifoso romantico; c'è chi medita sponsorizzazioni massicce in grado di trasformare, se non le maglie, lo stadio, visto quale luogo deputato per la consumazione dello spettacolo; e c'è chi spera di ridurci tutti quanti, spettatori e protagonisti, ad Arlecchini carichi di toppe colorate, come i piloti di Formula 1.[21]
  • Si scrive Juventus si pronuncia scudetto. "Vincere sempre, e con classe" è l'imperativo categorico della Signora. Nata come "seleçao" della borghesia torinese, via via è assurta a modello: una riserva dov'è vietato illudersi, dove giocare fa rima con lavorare, dove la vocazione ha il sigillo della professione. È un carattere di ferro la "fidanzata d'Italia". Dentro lo stile, c'è lo stiletto.[3]
  • [La Juventus è] un complesso di forze vestito d'eleganza. È come una struttura. Certe volte sembra una scultura di quelle infinitamente moderne con qualque tocco liberty.[22]
  • [Sull'Inter] Una squadra che ha sempre avuto la nomea di stramba, estrosa, inventiva ma a volte troppo lunatica.[11]
  • Valtellina, Valcamonica, giù fino ai laghi, alla Brianza, a Milano, non sono soltanto «luoghi» ma una culla storica in cui moltissimi di noi possono riconoscersi, anche se vengono da lontane regioni e da parlate diverse. Tra le mille Italie che conosciamo, questa è un'Italia di confine ma anche un «cuore» e un «fiato» che ci assomigliano.[23]

Stampa Sera del lunedì, 23 maggio 1977, p. 1.

[Sulla Juventus Football Club 1976-1977]

  • Lodiamo questa Juventus, e lodiamo questo Torino. Da mesi sosteniamo che il campionato testé conclusosi è il frutto di un'annata irripetibile. Da mesi la supremazia torinese ha fatto il vuoto dietro di sé, relegando tutti gli altri club al ruolo di comprimari. [...] È stata una stagione che non potremo dimenticare: la Juventus l'ha onorata, rinverdendo di colpo il suo blasone, ammaccato dopo la «caduta» del '76. Il Torino ha dato il massimo. Inutile recriminare dove e come si è perso quel famoso punticino di distacco: i conti, retrospettivamente, appartengono alla scienza del poi, che talvolta laurea anche i somari.
  • Su tre fronti ha vinto la vecchia signora: conquistando la coppa, strappando di forza uno scudetto difficilissimo per il valore dei «cugini» granata, e infine sul piano della compostezza dialettica. Si sa quanto è lungo il romanzo del campionato: ebbene, qui la Juve non si è mai lasciata scappare un aggettivo di troppo, una virgola fuori posto. E questo stile non è lezione secondaria rispetto ad altri «angoli», dove si smarrisce il senso e si ciancia fuor di misura.
  • Al magnifico «Giuanin» e al presidente bisogna rivolgere complimenti, omaggi e brindisi: volevano una squadra da «derby». Ebbene, pur lasciando tre punti nelle due stracittadine ai granata, hanno costituito una «équipe» rocciosa, dove l'esperienza degli uni veleggiava sottobraccio alla vigoria atletica degli altri. Il «cocktail» bianconero ha così potuto meritarsi il primo alloro europeo e l'ennesimo titolo, smaniosamente ambito. È una conclusione logica: la tabella della classifica appare da oggi lo specchio di una verità destinata ad entrare nella leggenda del nostro calcio.

Il buio e il miele

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C'era un grosso moscone dorato che ronzava lungo la finestra del pianerottolo, i muri odoravano di tinta fresca, con una virata improvvisa il moscone mordendo felicemente l'aria individuò lo spiraglio tra i vetri socchiusi, sparì. Mi affacciai anch'io per buttare la cicca. Il cortile sotto era deserto, due magre spanne di cemento nel sole di fine agosto. Più lontano, il verde consunto delle colline oltre il fiume sfumava in un cielo opaco. Con le mani controllai la bustina ben ferma sulla fronte, il nodo e la giusta caduta della cravatta, prima di suonare.

Citazioni

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  • "Davvero lei pensa d'essere una pietra? Diceva così, prima" saggiai la confidenza.
    "Macché. Penso mai io. Tutto qui il segreto: pensare a niente e ridere. Sempre tutta una gran risata. Non diventarmi noioso, Ciccio." [Ciccio e Fausto]
  • "Che significa donna o non donna? Dicono che sono innamorata di lui. Lo dicono tutti, persino mia madre, povera creatura, e di nascosto mi prendono in giro. Solo di nascosto però. Ma non è lo stupido amore, lo svenimento sfessamento che pensano loro. Io ho solo deciso. Io ho scelto. Come un cane s'incammina dietro un tizio per strada, e solo a quello. E aspetta. Aspetta e non ha bisogno di spiegarsi."
    Non sopportai il suo sguardo, che aveva trovato coraggio nel crescere della confessione.
    Mi sentii stupidamente disarmato.
    "Non è amore" disse. "È fedeltà, è fede, è credere e aspettare. Più altre cose. Chiamalo, chiamatelo come volete." [Sara e Ciccio parlando di Fausto]

Viaggio in Italia

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  • Oggi con gli architetti parlo del Canal Grande. [...] La battaglia tra modernisti e conservatori è vivace. La casa progettata dall'architetto americano F. L. Wright presso palazzo Balbi all'angolo del Canale non potrà sorgere, sconfitta dall'opposizione. Eppure era meno invadente dei palazzi del Rinascimento nella Venezia gotico-bizantina. Il problema del Canal Grande mi è esposto da Egle Trincanato. Questa donna ancor giovane è una Venezia incarnata; ne conosce e sente ogni casa; ma alla moderna, con il suo sfondo sociale ed economico. Mi parla dei molti progetti, alcuni stravaganti, per riportare il Canal Grande nel mondo. Vi fu chi propose perfino di listarlo di fondamenta per il traffico pedonale, che avrebbero assassinato l'architettura dei palazzi fatti per guardare sull'acqua. Egle Trincanato parte dalla constatazione che oggi la vita si svolge subito dietro il Canale, nelle calli interne. (pp. 28-29)
  • Le case veneziane soffrono un quotidiano e crescente logoramento, dovuto all'umidità, alla salsedine, al flusso delle maree, alle onde provocate dalle imbarcazioni a motore e all'azione chimica delle acque; a cui si aggiunge la miseria di un gran numero di inquilini e padroni di casa. È minacciata l'atmosfera della città. (p. 29)
  • Egle Trincanato insiste sulla necessità di un piano meticoloso, da urbanisti cesellatori, che sappiano valutare Venezia calle per calle, casa per casa, vedendo così nel minuto quello che si può eliminare e quello che invece concorre all'ambiente artistico e storico. Ma il discorso dall'arte scivola nell'economia. (p. 29)
  • Il colore sloveno, se si può chiamare colore il tono spento che riveste vite poco loquaci, chiuse, sorde, e in gran parte povere, si può cogliere solo nel poco che rimane di fascia carsica ai margini della città. Salgo a Villa Opicina, sul confine del Carso. Abitava qui Silvio Benco. Partiva ogni domenica per l'interno del Carso, lui solo, inclinato su un fianco, la barbetta da capra, il passo un po' zoppo e il bastone. Si fermava a mangiare nell'osteria dove lo portava il caso, e dove poteva incontrare l'umanità che gli piaceva, la piccola umanità di osti-contadini e pastori. (p. 76)
  • Ho passato qui la giornata, ospite della mia amica Aurelia Benco Gruber, figlia di Silvio. Non è a Trieste in odor di santità. Intelligente, esuberante, impetuosa, perfino equilibrata quando discorre con gli amici, trascorre subito all'estremo quando incontra un'opposizione. A me riserva la sua intelligenza, il buon senso ed il sentimento italiano ma rischiarato da una mente europea. Intorno alla sua casa sento vivere una congrega d'anime sorde, rispettose e profonde, impenetrabili alla vivacità triestina. (p. 76)

Incipit di alcune opere

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Azzurro tenebra

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C'era una luce viperina nelle chiome degli alberi ritagliati contro il tramonto. E Arp pensava: crepaste tutti, avessi la forza d'accopparvi, pietoso ma anche convinto, potessi cancellarvi dal primo all'ultimo, uomini donne neonati, infame marmaglia che impesti il Pianeta.
– Buono, Arp. Non fare l'energumeno. Non farti tornare la mania omicida, – sogghignò il Vecio. Perché il Vecio possedeva la bizzarra qualità d'indovinare gli umori storti altrui.
– Zitto tu. Non sono un tuo centravanti, – brontolò Arp.

Il fratello italiano

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Non tutti i giorni ci si può svegliare ridendo, come diceva quel tale in coma.[24]
Così seppe darsi la giusta spinta, tossicchiando, Carlo Botero, vedovo, sessantaduenne maestro elementare in pensione, nel suo ridestarsi mattutino.
Una pendola sovraccarica di falsi marmi e dorature indicava le otto in punto. Come sempre.
Botero indagò tra luci e forme della stanza. Un insulto ostile gli si introdusse nei ginocchi, nelle tempie. Un segnale malevolo, apportatore di fastidi. Avanzò comunque un piede oltre il lenzuolo, subito avvertendo il caldo estivo appiccicarglisi addosso in unta pellicola. Cercò di non sgualcire troppo il giaciglio: secondo una delle sue norme di vita bisognava rifar il letto ogni quattro giorni. Cinque anni di vedovanza avevano costituito per lui indispensabile ammonimento.

L'ombra delle colline

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Sapevo di sognare.
La salita era ripida, il sentiero appena tracciato tra le erbe andava su con brusche curve, ogni tanto rabbuiandosi tra le acacie che si sporgevano a grappoli, a ombrello. Tutto pareva felice intorno, in un ordine e silenzio assoluti.
Sul sentiero, isolate o a mucchi, secche nel fango, erano le forme biforcute e larghe dei buoi, e altre, appena accennate, minuscole, forse di cani, di volpi. E ogni tanto, tra i fili d'erba asciutta, apparivano i coni leggeri, granulosi, dei formicai. La luce era ancora alta, morbida come il pelo di un coniglio, ben tesa nella sua celeste uniformità di dopo il tramonto.

La sposa segreta

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Nessuno si ricorderà di me.
Quante volte se l'era detto, durante gli ultimi mesi? Accadeva nell'attesa del primo sonno, tra una vaga punta di ansia e un sorriso: il tremolio di quel pensiero barcollava come una candela nel buio: nessuno si ricorderà di me, Paola B., forse non sono niente, un perfettissimo rotondissimo zero, l'ombra d'un'ombra sul muro, un'inutile idea incarnata in inutile persona.
Poi il sonno prevaleva con la sua lenta, animale dolcezza, e così quell'invisibile sorriso interiore.

La suora giovane

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10 dicembre 1950, domenica.
Non ho coraggio.
Se riesco a stare chiuso in casa è perché non so più dove sbattere la testa. Ho passeggiato, grazie a questo smorto sole di dicembre, sono stato al cinema, ho letto il giornale. Non è ancora sera ed eccomi di nuovo qui, incerto se telefonare o no a qualcuno, se sdraiarmi sul letto o aprire la radio. Appena smetto di fare, sprofondo.
Mi vergogno. E non so se riuscirò a venir fuori da questa vergogna. Per un uomo di quarant'anni, che ha sempre cercato di stare nell'ordine, è una brutta storia. I pensieri mi ballano nella testa e appena cerco un appiglio eccomi risbattuto ancor più violentemente contro questa vergogna, e contro la vergogna di vergognarmi.

La trappola amorosa

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"Egregio Signore Iddio,
mi perdoni quest'ultima lettera. So di non doverLe scrivere più. Ho finalmente capito la lezione: la Sua risposta è il silenzio. Ma non essendo un pensatore sono arrivato con molto ritardo a questa grave scoperta, che rende ancor più difficili le nostre preghiere. Mi ritengo un uomo come tanti, un piccolo eroe negativo e se oso rivolgermi a Lei è per dirle che il mondo d'oggi...".
Giacomo Berzia scrutò l'orologio: erano esattamente le 11, 58. dopo cinquanta secondi terminò la lettura di quella pagina. Liberando dalla cuffia il cranio e gli orecchi, percepì il crepitio dei piccoli applausi, trattenute risatine, rumori sommessi che il nastro registrato mandava in onda a chiusura della trasmissione.

Le mille e una Italia

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Riccio Tumarrano si svegliò, il sole era alto, intorno apparivano solo rocce. Rocce puntute come unghie, rocce come sculture in bilico su altre piattaforme rocciose, rocce lisce come arance. E tutte erano di un colore che andava dal nero al viola.
Era lava pietrificata, figlia dell'Etna, il vulcano che Riccio vedeva perdersi altissimo nel Sole. Dove è l'Etna, lì finisce la Sicilia, avevano detto a Riccio. E lui adesso guardava il vulcano, si sentiva contento, si sentiva in capo al mondo.
Aveva dormito sul duro, ma a dodici anni le ossa sono come elastici, corde d'elastico che non patiscono niente. Un pesce si sentiva Riccio, un pesce guizzante di salute sopra e dentro la pelle.

Passo d'addio

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«La vita o è stile o è errore».
Tracciate da un'incerta grafia queste parole spiccavano sulla lavagna tra ghirigori matematici, formule e calcoli resi ormai indecifrabili da successive cancellature. Due linee sfrecciavano però, ancora nitide, da quell'«errore» per suggerire altre possibili conclusioni: «sciagura» e «idiozia».

Sei stato felice, Giovanni

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Erano lì, nell'angolo. Olga me l'aveva detto. – Ci sono tutti e tre. Fa' attenzione. Sono senza giacca ma fa' attenzione –
Era importante che non avessero la giacca, nelle tasche dei calzoni si porta raramente il coltello, mai quando lo credi necessario.
Già due volte erano venuti a cercarmi, da quella sera. Olga era riuscita a tenermeli lontani, aveva pianto e pregato, la padrona dell'albergo non s'era accorta di nulla. Sdraiato sul letto li avevo sentiti scendere le scale bestemmiando sottovoce. Ogni tanto si facevano vedere sotto la finestra. La finestra aveva un muro e un fumaiolo di fronte; quando pioveva forte la grondaia dell'altra casa mi ributtava l'acqua sui vetri.

Un'anima persa

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(Lunedì, 2 luglio, 196...)
Ho sempre avuto paura ma oggi è ancora diverso, oggi appena sveglio sento già fra le costole un trasalimento angoscioso, che batte, fa male, che non riesco a soffocare con le sole forze della ragione. Devo aprire gli occhi, guardare, guardarmi, e finalmente rendermi conto che questa paura è assurda, che la stanza dove ho dormito, benché estranea, non nasconde pericoli, e così la casa, la strada fuori, la città.
Poco fa il debole scricchiolio di un passo nella camera sopra la mia mi si è rivoltato in cuore e in gola come una misteriosa minaccia. Ecco: sollevo a due mani il lenzuolo e mi guardo, con la cautela che ormai so mettere in questi gesti di aiuto premeditato.

Un delitto d'onore

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Grida di donne li sorpresero dietro l'albero.
Che è stato? Domandò Sabina mettendosi in ginocchio.
Le grida continuavano, tremende. Sabina scrutava, una mano sulla bocca per la paura.
Finalmente videro: prima le figure nere di tre donne che correvano disperatamente lungo il ciglio della collina, poi due uomini che in fretta, piegando sulle gambe, trasportavano una cosa scura e lunga, una bara. Per un attimo apparvero, dondolando, contro il bianco del cielo, poi furono inghiottiti dal verde polveroso dei noccioli, dov'era il cimitero.
Un suicida, fece Gaetano Castiglia ritornato a sedere: e lo vanno a seppellire in terra sconsacrata.

Una nuvola d'ira

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Una suora avanzò rapida frusciando lungo la corsia. Si fermò ai piedi del letto di ferro. – Tra cinque minuti ripasso col campanello – disse: – L'ora di visita è finita –
Era alta, con un volto largo e bianchissimo come di gesso, gonfio dietro gli occhiali non cerchiati. Schiuse un sorriso sui denti perfetti. – Sgridatelo – aggiunse indicando Matteo a letto: – È un ribelle, sapete? Ditegli di stare buono. Lei è la moglie? Beh, ieri sera voleva mangiare la peperonata, pensi! Lo faccia star bravo... –
– Suora – brontolò Matteo: – Mi lasci perdere. L'avete data la peperonata a quello laggiù, con tutti i suoi quarantadue di febbre? E allora mi lasci perdere, è meglio –

Citazioni su Giovanni Arpino

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  • Un'ora con lui era un bagno d'osservazioni, ricordi, aneddoti, confessioni, sembrava che ti avesse spiattellato su un tavolo tutto se stesso. (Indro Montanelli)

Note

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  1. Da Madama Juve, poema dedicato alla Juventus Football Club; citato in dialetto piemontese in Giovanni Arpino, Giorgio Bàrberi Squarotti, Massimo Romano. Opere. Rusconi, 1992, p. 630. ISBN 88-1806-084-8; e in lingua italiana in Bruno Quaranta. Stile e stiletto. La Juventus di Arpino, Limina, 1997. ISBN 88-8671-330-4
  2. Citato in Bruno Quaranta. Stile e stiletto. La Juventus di Arpino, Limina, 1997, p. 25. ISBN 88-8671-330-4
  3. a b c Citato in Il fuorigioco di Arpino: "La vita è stile..." , lastampa.it, 9 dicembre 2007.
  4. Citato in Mario Grasso, Punti di vista, FrancoAngeli, Milano, 2001, p. 103. ISBN 88-464-3200-2
  5. Giovanni Arpino, Serghej A. Esenin, l'estremo cantore dell'antica Russia di fronte alla rivoluzione, Marsilio, 1997.
  6. Da Roberto Buttafarro, Giovanni De Luna, Marco Revelli; consulenza di Leone Piccione; Un fenomeno in bianco e nero, episodio 2, andato in onda su RAI 3, 23 settembre 1986, a 21 min 08 sec et seq.
  7. Dall'introduzione a Il Torino: una fede, G.E.F.; citato in Franco Ossola, Il Torino dalla A alla Z, Newton Compton Editori, 2017.
  8. In Giovanni Arpino, Rolando Damiani, Opere scelte, Mondadori, 2005, p. 1683. ISBN 88-0452-643-2
  9. Citato in Darwin Pastorin, La Juventus di Umberto, la Gazzetta dello Sport, 12 maggio 2003.
  10. Da Gol e rabbia per Anastasi, La Stampa, 4 giugno 1971, p. 16.
  11. a b Dall'intervista Heriberto dalla Juventus all'Inter, sempre con le squadre più amate, La Stampa, 26 agosto 1969, p. 13.
  12. Da La suora giovane, Mondadori.
  13. Da Racconti di vent'anni, Mondadori, 1974, p. 33.
  14. Citato in Filippo Grassia, Juventus, la Signora del Secolo, con l'assistenza di Andrea Vallauri e testi di Alessandro Rosa; Euphon International, 1990 (VHS), a 10 min 44 sec et seq.
  15. Da L'ombra delle colline, VI. Citato in Dizionario delle citazioni, a cura di Italo Sordi, BUR, 1992. ISBN 88-17-14603-X
  16. In Giovanni Arpino, Giorgio Bàrberi Squarotti, Massimo Romano, Opere, Rusconi, 1992, p. 1490. ISBN 88-1806-084-8
  17. Queste parole sono state incise poi su un cippo nella vecchia sede bianconera in piazza Crimea.
  18. Citato in Paolo Forcolin, L'Heysel è una ferita che si riapre, La Gazzetta dello Sport, 5 aprile 2005.
  19. Da Me Grand Turin; citato in Franco Ossola, Grande Torino per sempre!, Editrice il Punto, Torino.
  20. Da Azzurro tenebra.
  21. Da Pensiamo ai gol, non agli «sponsor», La Stampa, 15 ottobre 1978, p. 18.
  22. Da Roberto Buttafarro, Giovanni De Luna, Marco Revelli; consulenza di Leone Piccione; Un fenomeno in bianco e nero, episodio 2, andato in onda su RAI 3, 23 settembre 1986, a 42 min 18 sec et seq.
  23. Dalla prefazione a Immagini & messaggi dalla Valtellina.
  24. Wellerismo.

Bibliografia

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  • Giovanni Arpino, Azzurro tenebra, Einaudi.
  • Giovanni Arpino, Il buio e il miele, Rizzoli.
  • Giovanni Arpino, Il fratello italiano, Rizzoli.
  • Giovanni Arpino, L'ombra delle colline, Mondadori.
  • Giovanni Arpino, La trappola amorosa, Rusconi.
  • Giovanni Arpino, La suora giovane, Einaudi
  • Giovanni Arpino, Le mille e una Italia, Einaudi.
  • Giovanni Arpino, Passo d'addio, Einaudi.
  • Giovanni Arpino, Sei stato felice, Giovanni, Einaudi.
  • Giovanni Arpino, Un'anima persa, Mondadori.
  • Giovanni Arpino, Un delitto d'onore, Mondadori.
  • Giovanni Arpino, Una nuvola d'ira, Mondadori.
  • Giovanni Arpino, Viaggio in Italia, Baldini & Castoldi, Milano, 1993. ISBN 88-859-8875-X
  • Giovanni Arpino e Glauco Licata, Immagini & messaggi dalla Valtellina, Banca Popolare di Sondrio, Sondrio, 1995.

Voci correlate

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Altri progetti

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Opere

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