Maurizio Crosetti

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Maurizio Crosetti (1962 – vivente), giornalista e scrittore italiano

Citazioni di Maurizio Crosetti[modifica]

  • Ci odiano, noi boomer, perché siamo stati più felici di loro.[1]

Crosetti risponde al Team

Intervista a ju29ro.com, 13 settembre 2012.

  • [...] io rispondo solo di quello che scrivo e mi basta e avanza: è il bello del giornalismo. Uno sport individuale, anche se sembra un gioco di squadra.
  • [...] stuzzicare il fuocherello con la benzina garantisce l'incendio, ma non è questo il giornalismo in cui mi riconosco.
  • Oliviero Beha è molto bravo, ma fa da sempre il bastian contrario: uno schema fisso.
  • [Su Calciopoli] Non ho mai seguito direttamente il processo, nel senso dell'inchiesta giudiziaria. Ho scritto qualche commento, certo. E ho sempre sostenuto, carta canta, che quello scudetto [2005-2006] non dovesse essere assegnato. Non restituito alla Juventus, ma non assegnato.
  • Esiste un solo Crosetti, che [...] da ragazzino era più juventino di Andrea Agnelli. Poi, il mestiere cancella il tifo, altrimenti si resta giornalisti ultrà con la sciarpa, come dite giustamente voi. Purtroppo, il tifoso lettore pensa che il giornalista sia amico quando dice o scrive cose che anche lui pensa, e immediatamente nemico quando critica.

Citazioni tratte da articoli[modifica]

la Repubblica[modifica]

Citazioni in ordine temporale.

  • [...] una squadra di controbalzo. La Juve addomestica i palloni, li blandisce e non li giudica mai perduti. Adora le carambole sghembe e l'impossibile. E chi crede nell'impossibile, qualche volta lo raggiunge.[2]
  • Basta con questo vecchiume, basta con questi nomi ammuffiti e totalmente privi di appeal. Ha ragione Berlusconi: per un futuro più glamour, occorre ribattezzare il mondo. Non solo la Fiat Stilo dovrebbe chiamarsi Young Ferrari o Ferrari Woman, ma tutta Torino avrebbe bisogno di un bel restyling che parta dal vocabolario.[3]
  • "Moggi si rivolge a Cristo con umiltà, con desiderio di ricostruire: è un uomo che nella vita ha dato il suo contributo". E non solo agli arbitri. Finalmente anche la Chiesa, nella persona del vescovo Domenico Sigalini, ha capito quello che in Italia ormai sapevano tutti: cioè che Lucianone è un perseguitato, un martire, uno che dava fastidio e per questo l'hanno incastrato. Altro che buon ladrone o figliol prodigo: la parabola vivente è lui, l'evangelico Moggi, appena tornato da Lourdes dove, al solito, non si è fatto notare. San Giovanni Rotondo, Lourdes, la Madonna del Divino Amore: sono posti miei. Al termine di una simile Champions League della fede, bisognerebbe farlo santo subito.[4]
  • [Nel 2007, sulla mostra Juventus. 110 anni a opera d'arte] Squadra anche fisica, la Juve lo è sempre stata. Non si sospettava che fosse anche metafisica.[5]
  • [Sull'equipaggiamento calcistico] La maglia è una bandiera, e l'hanno sporcata. La divisa della nostra squadra di calcio è una casa dove tornare, uno specchio dove vedere riflessa la passione di tanti anni, un ricordo d'infanzia, un segno di appartenenza tribale, è un colore dell'anima che non può sbiadire. Ma se arriva lo stilista e la pennella di fucsia o verde pisello, se insieme allo stilista c'è l'esperto di marketing che cancella simboli, tinte, riferimenti [...]. Li chiamavano "colori sociali": sono diventati una tavolozza confusa e griffata, un carnevale, un delirio creativo che spesso crea solo imbarazzo.[6]
  • [Sulla Juventus Football Club 2009-2010] ...l'incompetenza, il senso di abbandono e di addio che ormai circonda i bianconeri. Perché la Juve, prima, poteva essere qualcosa da combattere e al limite da odiare, oppure da tifare e amare, ma sempre qualcosa. Adesso è diventata niente.[7]
  • Ora, anche se non si capisce bene cosa c'entrassero con Calciopoli i pranzi e le cene a casa Mou, qui si fa pacatamente notare quanto segue: nella stagione sportiva 2003-2004, il Porto allenato da José Mourinho fu coinvolto nell' inchiesta "apito dourado" (fischietto dorato) per un tentato illecito sportivo e tentata corruzione. Risultato: 6 punti di penalizzazione e due anni di squalifica al presidente. Chi è senza peccato scagli il primo fischietto.[8]
  • [Su Calciopoli] Non erano balordi di provincia, non erano un fruttivendolo, un dentista, un ex centravanti malato di scommesse. Erano l'amministratore delegato e il direttore generale della Juventus, e il vice presidente della Federcalcio. Erano il massimo del potere possibile. Erano un enorme nucleo di pressioni, complicità, clientele. Erano i piloti occulti di arbitri e arbitraggi. Erano un'associazione a delinquere [...]. Erano: e non saranno mai più. [...] Se non eri loro amico, diventavi un nemico. Se non accettavi favori e resistevi alle intimidazioni, eri fuori dal gioco. Perché volevano giocare solo loro, truccando le carte. [...] Eppure la Juve rivuole indietro uno degli scudetti di questa banda: serve del coraggio anche solo per chiederlo.[9]
  • [Sull'equipaggiamento calcistico] Quando il mondo, del calcio e non, era più semplice [...] vigeva una regoletta elementare: la squadra di casa mantiene la prima divisa, e quella che gioca in trasferta la cambia se la prima ha tinte più o meno simili a quelle dell'avversario [...]. Ancora non esisteva la tirannia del marketing, né lo strapotere della grafica che tanti danni ha provocato non solo nello sport: trattasi di forma che si sovrappone al contenuto e lo confonde, lo indebolisce anziché potenziarlo. E quando non si ha nulla da dire, lo si disegna. Poi è arrivata la stagione dello sponsor tecnico che impone prima, seconda e terza casacca, e bisogna – per contratto – indossarle a rotazione, altrimenti non si vendono. E il tifoso, poveretto, è stato preso nella trappola delle nuove collezioni neanche fosse un cliente di Prada, ogni campionato nuovi campionari, disegni, sfumature, colorazioni, e chi non sta al passo è un poveraccio. Mica come quando si comprava una maglia della propria squadra, la si indossava per anni, e più era stinta e infeltrita più testimoniava fedeltà alla causa. Ora, invece, è tutto sintetico come i tessuti di queste casacche da carnevale [...]. Poi, forse, c'è anche un senso nascosto in tutto questo sport di terital: e cioè il calcio si è talmente impoverito di identità, che ripudiare i colori della propria storia è quasi un atto di involontaria coerenza. Insomma, bisognerebbe essere degni di certe tinte, bisognerebbe meritarle [...][10]
  • Aveva occhi un po tristi e un'aria da persona sola, chiusa. Come molti introversi, non gli apparteneva la preoccupazione di piacere a tutti. Però ogni suo gesto, dentro e fuori lo sport, è stato di orgogliosa sostanza. Campione inarrivabile, velocista "nero" d'Europa, figlio del profondo sud italiano vissuto sapendo che i luoghi comuni si possono combattere e vincere con la forza interiore, con una spinta anche morale. In questo, anche in questo, Pietro Mennea è stato un esempio.[11]
  • [Su Pietro Mennea] Sembrava in eterna lotta col mondo e in parte lo era. Ha rappresentato molto, non solo nello sport e nell'atletica. La possibilità di riscatto per chi non nasce al centro dell'universo e non ha predestinazione, ne santi in paradiso. Era magnetico, cocciuto, emanava una forza contagiosa e a volte imbarazzante, difficile da reggere e guardare negli occhi. Non sembrava neanche italiano, eppure era il meglio di tante cose che misteriosamente, magicamente il nostro paese ogni tanto sa proporre.[11]
  • Questa è anche una storia araldica, in perfetta sintonia con il gusto tutto italiano per stemmi e scudi, probabile retaggio cavalleresco e medievale. Nessuno al mondo [...] possiede ad esempio lo scudetto: lo inventò nientemeno che Gabriele D'Annunzio nel 1924, perché fosse apposto sulla divisa della selezione del Comando Militare Italiano per una partita amichevole. Il triangolo tricolore piacque, e dalla stagione successiva sarebbe rimasto sul petto dei campioni d'Italia. Siccome la Juventus fu il primo club a vincerne dieci, nel 1958 venne premiata dal Coni con la stella al merito sportivo: l'allora presidente Umberto Agnelli [...] propose alla Lega di poter cucire quella stellina sulla maglia, e il Consiglio federale – con delibera 3 maggio 1958 – diede il permesso e avviò la consuetudine.[12]
  • È stato un gran centravanti, Michele Padovano. Scaltro, brevilineo, cattivo. Cresciuto in una barriera operaia tenuta sempre dentro, nel profondo. I giocatori della Juve al campo d'allenamento potevano parcheggiare solo automobili Fiat? Ok, lui fermava la sua Bmw più distante e arrivava a piedi. Un tipo così.[13]
  • Agricola, 71 anni, rappresenta dunque il più clamoroso dei ritorni in bianconero e forse non il più opportuno. Perché ai giocatori juventini, giovani e sanissimi, venivano somministrati psicofarmaci? Perché il sangue di alcuni di loro era denso come marmellata? Sono alcune tra le molte domande che tre gradi di giudizio non hanno mai del tutto chiarito. Se poi la giustizia ha fatto i conti con i consueti tempi biblici, e se quell’ombra di prescrizione non si è mai davvero dissolta, era proprio il caso di insistere riproponendo il dottor Agricola? Una scelta ai limiti della provocazione o della sfida, non si capisce bene a chi. Oppure, semplicemente, la categoria dei medici sportivi negli ultimi dieci anni non ha prodotto nulla più di questa vecchia gloria. [...] Si ha un bel dire che esiste un accanimento mediatico contro quella lunga stagione bianconera, tra legittimi trionfi sportivi, processi per doping, scudetti cancellati, schede telefoniche e retrocessione in B, ma è la stessa Juventus a non incoraggiare un oblio che in parte le gioverebbe.[14]
  • [...] la Juve è da sempre la più forte anche per come si nutre di antagonismo, per come distilla l'odio e lo trasforma in nettare. Ben più degli arbitri, il segreto della Juve è la Juve con il suo senso estremo di tutto [...]. La Juventus, si dice in piemontese, è una "bestia grama", una creatura solo in apparenza del Male: è invece una macchina mostruosa che si alimenta di cattiveria non soltanto agonistica, ma che sa rinascere da ogni sua piccola morte apparente [...]. Mezza Italia la odia, invece dovrebbe imitarla anche nello sporcarsi le mani, nel saper soffrire. Non è rubare, è ferocia. È una vocazione.[15]
  • Rimbalzano le parole dei comunicati e le frasi sulle condizioni ancora peggiorate, lui che “non potrà riprendere l’attività lavorativa”, i ringraziamenti, il commiato inevitabile ormai: tutti frammenti che dall’Italia precipitano fin quassù [Ospedale Universitario di Zurigo], dove erano partite. Scorrono insieme alle immagini dell’ultima uscita pubblica di Sergio Marchionne, il 26 giugno, lui un po’ gonfio che respira a fatica mentre consegna la nuova Jeep alla sua amata Arma dei Carabinieri. Un altro segno del destino. Così dice addio il figlio del maresciallo maggiore Concezio, in fondo siamo figli per sempre, e insieme dice ciao papà.[16]
  • La gioventù scavalca i muri, non si cura delle pietre lungo la strada e vola. Così un ragazzo toscano, Alberto Bettiol, va a vincere quella che i malati di ciclismo conoscono come la più grande corsa al mondo, più della Roubaix, più del Lombardia e della Sanremo: il Giro delle Fiandre che nell’epoca dei patriarchi venne conquistato per tre volte di fila da Fiorenzo Magni, diventato per questo “il leone delle Fiandre”. Ieri [7 aprile 2019], sulla stessa via abbiamo finalmente trovato un leoncino.[17]
  • Il signor Sonaglia era un uomo grosso, ed era il proto. Il proto, lo dice il nome, è il primo, è il re della tipografia. Papà era linotipista. Si stimavano. [...] Un giorno, non saprei dire come, il signor Sonaglia riuscì a procurarsi tre biglietti per Juventus-Atletico Bilbao, finale d'andata della Coppa Uefa 1977: uno per sé, uno per papà e uno per me. Erano i primi di maggio, il giorno 4. [...] Avevo quindici anni. [...] Il bello delle partite è aspettarle. Si andò [...] allo stadio [...] con il tram numero 10. Quei corpi stretti, quella gente che già cantava. Noi, tutti maschi e tutti insieme. Noi, tutti adulti, anche i ragazzini. Noi, in qualche modo, la Juve. I biglietti erano di un settore inaudito: i Distinti. Vale a dire la tribuna di fronte a quella centrale, luogo che forse nella realtà neppure esisteva, ma anche i Distinti segnavano una lontananza assoluta. Ben che andasse, a quei tempi, la partita si guardava in curva Filadelfia, naturalmente tutti in piedi. Chissà quanto avrà speso, papà, per portarmi lì. La partita non arrivava mai [...]. Ecco le squadre in campo. Gli altri, vestiti di blu. Io quella formazione la ricordo a memoria: Zoff Gentile Cuccureddu (pausa), Furino Morini Scirea (pausa), Causio Tardelli Boninsegna Benetti Bettega (fine). La Juve segna presto, nella porta di destra rispetto a noi che guardiamo. C'è un cross di Scirea, e Tardelli colpisce la palla di testa ma di più con la spalla, si torce in un modo strano e ne vien fuori una parabola bizzarra, imparabile. Uno a zero. Sarà anche il risultato finale. La Juve attacca ma non segna più, dunque in Spagna sarà dura. Come poi sarebbe andata, alla Juventus e a me, conta poco. La Juventus vincerà la Coppa Uefa con un gol di Bettega in tuffo di testa al San Mamés, i baschi segneranno due volte ma non abbastanza. [...] Juve-Atletico Bilbao fu un sogno, un regalo enorme. Papà mi dava la mano per non perdermi tra la folla. Dopo una quarantina d'anni, la pelle d'oca allo stadio quando stanno per entrare le squadre la sento ancora, e mi piace quando la gente grida. Poi mi volto a cercare papà.[18]
  • Erano piene di nebbia, a quel tempo, le mattine d'inverno a Torino, ed era dura rimettersi a battere la lastra nel reparto presse della Fiat. Ma c'erano giorni diversi, c'erano i magici lunedì in cui l'operaio "terùn", naturalmente juventino, poteva dimenticare ogni gelo nella strada e nel cuore, ogni amarezza, ogni sporca fatica della vita grama. Perché la domenica la Goeba aveva vinto. E al centro dell'attacco di quella squadra c'era lui, Pietro Anastasi da Catania, Pietruzzu, Pietro 'u turco.[19]
  • [Sul campionato di Serie A 2001-2002] Cinque maggio: prima era solo Manzoni, poi sarebbe stato Ronaldo il fenomeno. Il brasiliano, non Cristiano. Il dentone, che in quel 5 maggio 2002 pianse tutte le lacrime che gli erano rimaste, dentro uno stadio che già lo aveva fatto gridare di dolore due anni prima, e per un motivo ancora più serio: quel tremendo infortunio al ginocchio, quell'urlo straziante in Lazio-Inter di Coppa Italia. [...] Sarebbe ritornato il più forte al mondo, dopo quel ginocchio saltato? Certo che sarebbe tornato, anche se in quel 5 maggio 2002 non riuscì e non fu in grado di aiutare l'Inter in alcun modo. Eppure lo scudetto, solo un mese prima, sembrava ormai nerazzurro dopo tredici anni. L'Inter volava, la Juventus no. E la Roma teneva il passo a fatica. Insomma, la storia pareva già segnata. Ma il mese di aprile non fu propizio per l'Inter [...] mentre la Juve quasi inabissata riemerse a Piacenza grazie a Pavel Nedved [...]. Sarebbe bastato, ai torinesi? In pochi ci credevano, quasi nessuno. E quando Inter e Juve, con la Roma appena alle spalle, andarono a giocarsi lo scudetto in quel pomeriggio fatale, la classifica diceva: Inter 69, Juventus 68, Roma 67. Il paradosso fu che i tifosi della Lazio avrebbero preferito che l'Inter battesse la squadra del cuore davanti ai loro stessi occhi, pur di evitare il rischio che lo scudetto finisse alla Roma. Non accadde né l'una né l'altra cosa. La Juve di Lippi, squadra mai doma e mai morta, vinse 2-0 a Udine in un sole scintillante, gol di Trezeguet e Del Piero: poi, certo, sarebbe servita anche una vittoria della Lazio. E così andò. Fu un'ecatombe nerazzurra: 4-2 per i laziali, con un crudelissimo gol del "cholo" Simeone, quello del 3-2: un vecchio cuore nerazzurro condannava la sua ex squadra.[20]

Ruspe in azione al Delle Alpi, demolito lo stadio di Italia '90

Da torino.repubblica.it, 2 dicembre 2008.

[Sullo stadio delle Alpi]

  • C'è tutta la terribilità di una demolizione, nella morte dello stadio Delle Alpi [...]. La sera dell'inaugurazione, nella primavera del 1990 c'era tanto di quel traffico da diventare matti. Mista di Juve/Toro contro il Porto. I mondiali a un passo, e la città orgogliosa di un catino per il calcio finalmente grandioso. E ne sarebbero successe di cose, qui dentro, fino alle ruspe di ieri: chiamate ad abbattere cemento, ma anche errori. Perché se una città si disfa di un ciclope del genere dopo neppure vent'anni, vuol dire che qualcuno ha sbagliato. E che sono stati demoliti anche tanti, tanti soldi. [...] L'astronave viene fatta a pezzi: via i seggiolini della tribuna, anche se gli ultrà seppero a suo tempo fare di meglio, cioè di peggio. Via l'erba di Del Piero e Zidane, ma anche quella di ToroAjax, antica finale di Coppa Uefa. [...] Oppure quell'altra volta: una festa scudetto per la Juve di Vialli e Ravanelli, quando i tifosi smontarono il campo quasi come ieri. Resterà indelebile, per chi c'era, la scena del tifoso bianconero che uscì con una traversa sottobraccio.
  • [...] l'astronave aveva un sacco di spazio vuoto: quando le si camminava nella pancia, i passi rimbombavano forte e non si finiva mai di passeggiare. Stanzoni, corridoi, scale: un labirinto, un posto perfetto per quei sogni terribili dove si scappa e non si esce.
  • Si ritorna con la memoria alle "notti magiche" di Italia 90, a tutti i ruderi che sono stati poi abbandonati [...]. Quella colossale occasione sciupata, la cascata di denaro pubblico e privato ingoiata dall'Evento: eppure, dopo neanche vent'anni abbiamo gli stadi più vecchi d'Europa, scomodi, pericolosi.
  • [...] qui la Juve vinse un bel po' di cose, ma sempre sentendosi ospite in casa d'altri, dentro lo stadio troppo grande, troppo freddo (in ogni senso: ambientale e climatico, perché d'inverno si moriva di freddo, c'erano correnti dappertutto) e troppo vuoto. Perché il Delle Alpi è stato affossato anche dalla crisi del calcio, da un modello televisivo sempre più invadente (ma anche più comodo, economico e sicuro) e dalla grandiosità diventata inutile. Torino non è Milano, e il pienone si è verificato ben poche volte: l'ultimo ad esserci riuscito, non è Del Piero ma Vasco Rossi.
  • Povero e neanche vecchio Delle Alpi: meglio sarebbe stato non averti mai costruito, con quella pista d'atletica che servì una volta sola, per il Grand Prix. Una volta sola, dal 1990 a ieri. Insieme al tuo corpo, al tuo scheletro e alle tue carni di cemento, cade anche quel ridicolo nome più adatto a una pensione in Val di Lanzo. Delle Alpi.

Note[modifica]

  1. Da un post sul profilo ufficiale twitter.com, 11 novembre 2023.
  2. Da Sono arrivati fino a meno 5 poi magia Nedved, la Repubblica, 22 aprile 2002.
  3. Da Berlusconi ha ragione. Quanti nomi da cambiare, la Repubblica, 5 dicembre 2002.
  4. Da Santo subito, la Repubblica, 4 settembre 2007, p. 51.
  5. Da La Juventus? È un'opera d'arte. Compleanno con Pinturicchio, torino.repubblica.it, 23 ottobre 2007, p. 60.
  6. Da Se il calcio cambia colori. Le maglie nel pallone, repubblica.it, 11 luglio 2009.
  7. Da la Repubblica, 11 gennaio 2010; citato in Maurizio Crosetti: "La Juve è niente", ju29ro.com, 12 gennaio 2010.
  8. Da Calciopoli in portoghese, la Repubblica, 26 febbraio 2010, p. 65.
  9. Da Ci vuole coraggio a chiedere indietro quello scudetto, la Repubblica, 16 giugno 2011.
  10. Da La Juventus "pantera rosa", quando il marketing fa danni, repubblica.it, 26 ottobre 2011.
  11. a b Da Mennea, un fenomeno magnetico e cocciuto, repubblica.it, 21 marzo 2013.
  12. Da La stella d'argento, la Repubblica, 20 gennaio 2014.
  13. Da "Ho alzato la Coppa ma adesso nessuno mi risponde al telefono", la Repubblica, 29 maggio 2017.
  14. Da Il ritorno inopportuno di Agricola, la Repubblica, 18 giugno 2017.
  15. Da repubblica.it; citato in Crosetti (Repubblica): "La Juve sa reagire dalle sue morti, i bianconeri non rubano, sono feroci. Mezza Italia dovrebbe imitarli", tuttojuve.com, 29 aprile 2018.
  16. Da Marchionne prima dell'operazione diceva: “Starò via poco?”, poi le speranze sono svanite, rep.repubblica.it, 21 luglio 2018.
  17. Da Alberto e Marta una doppietta nella corsa più grande, la Repubblica, 8 aprile 2019, p. 35.
  18. Da "Indimenticabile Juve-Atletico Bilbao, allo stadio per mano con mio padre", repubblica.it, 10 settembre 2019.
  19. Da Pietruzzu, la Fiat e la Juve. Con i gol fece saltare le divisioni sociali, repubblica.it, 18 gennaio 2020.
  20. Da Le lacrime di Ronaldo e quel 5 maggio 2002 che l'Inter non dimentica, repubblica.it, 5 maggio 2020.

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