Tucidide

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Tucidide, Museo Puškin delle belle arti, Mosca.

Tucidide (460 a.C. circa – 400 a.C.?), storico greco.

Citazioni di Tucidide[modifica]

  • La natura umana è tanto sicuramente spinta all'arroganza dalla considerazione quanto mantenuta nel rispetto della fermezza. (da Storia della guerra peloponnesiaca)
  • Pensiamo che non sia un disonore riconoscersi poveri, ma che sia un'autentica degradazione non tentare di liberarsi dalla povertà. (da Storia della guerra peloponnesiaca)
  • Per gli uomini famosi tutta la terra è un sepolcro. (da Storia della guerra peloponnesiaca Libro II cap. 42)
  • Sicuramente i più coraggiosi sono coloro che hanno la visione più chiara di ciò che li aspetta, così della gloria come del pericolo, e tuttavia l'affrontano. (da Storia della guerra peloponnesiaca)
  • Quanto al nome era una democrazia, ma di fatto era il governo di uno solo. (parlando della democrazia sotto Pericle) (da Storia della guerra peloponnesiaca, libro II, cap. 63)
  • Finché Pericle fu, durante la pace, a capo della repubblica, la guidò con moderazione e la conservò sicura, e sotto di lui essa fu potente come non mai; quando poi scoppiò la guerra, è evidente che anche allora egli ne seppe ben riconoscere la forza. Sopravvisse (allo scoppio della guerra) due anni e sei mesi; e dopoché fu morto, allora anche meglio si poté conoscere la sua antiveggenza nei riguardi della guerra. Egli infatti andava ripetendo che gli Ateniesi ne sarebbero usciti con successo qualora si fossero condotti prudentemente, avendo cura della flotta, e non cercassero di allargare con la guerra il loro impero, e non mettessero in pericolo la città stessa: ma essi fecero tutto il contrario, e giudicando altre imprese estranee alla guerra meglio rispondenti alle ambizioni private e ai privati vantaggi, mal governarono lo Stato per se stessi e per gli alleati... E la causa di tutto ciò era che Pericle, potente per dignità e per senno, manifestamente incorruttibile, dominava liberalmente la moltitudine e conseguito il potere con mezzi non illeciti, egli non era costretto a parlare per compiacerla, ma poteva, per la sua autorità, contraddirla ed affrontarne la collera... Si aveva dunque di nome la democrazia, ma di fatto il governo tenuto dal primo cittadino. (Storie, II, 65[1])
  • [Monologo di Pericle] Qui ad Atene noi facciamo così: qui il nostro governo favorisce i molti, invece dei pochi, e per questo viene chiamato democrazia.
    Qui ad Atene noi facciamo così: le leggi, qui, assicurano una giustizia eguale per tutti nelle loro dispute private, ma noi non ignoriamo mai i meriti dell'eccellenza, quando un cittadino si distingue, allora esso sarà a preferenza di altri chiamato a servire lo stato, ma non come un atto di privilegio, come una ricompensa al merito, e la povertà non costituisce un impedimento.
    Qui ad Atene noi facciamo così: la libertà di cui godiamo si estende anche alla vita quotidiana, noi non siamo sospettosi l'uno dell'altro, e non infastidiamo mai il nostro prossimo, se al nostro prossimo piace vivere a modo suo, noi siamo liberi, liberi di vivere, proprio come ci piace, e tuttavia siamo sempre pronti a fronteggiare qualsiasi pericolo. Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari, quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei pubblici affari per risolvere le sue questioni private.
    Qui ad Atene noi facciamo così: ci è stato insegnato di rispettare i magistrati e ci è stato insegnato anche di rispettare le leggi, e di non dimenticare mai coloro che ricevono offesa, e ci e' stato anche insegnato di rispettare quelle leggi non scritte, che risiedono nell'universale sentimento di ciò che è giusto, e di ciò che è buonsenso
    Qui ad Atene noi facciamo così: un uomo che non si interessa allo stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile, e benché in pochi siano in grado di dar vita a una politica, beh, tutti qui ad Atene siamo in grado di giudicarla. Noi non consideriamo la discussione come un ostacolo sulla via della democrazia. Noi crediamo che la felicità sia il frutto della libertà, ma la libertà sia solo il frutto del valore. Insomma io proclamo Atene scuola dell'Ellade, e che ogni ateniese cresce prostrando in se una felice versatilità la fiducia in se stesso e la prontezza a fronteggiare qualsiasi situazione. Ed è per questo che la nostra città è aperta al mondo e noi non cacciamo mai uno straniero.
    Qui ad Atene noi facciamo così![2]
  • Reggio acroterio d'Italia.[3]

La guerra del Peloponneso[modifica]

Incipit[modifica]

Luigi Annibaletto[modifica]

L'ateniese Tucidide ha raccontato la guerra sorta fra le città del Peloponneso e Atene, con le sue varie vicende. Cominciò egli a descriverla subito ai primi indizi di ostilità, prevedendo che tale guerra sarebbe stata importante e, fra tutte le precedenti, certo la più degna di considerazione.
[Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Luigi Annibaletto, Mondadori, 1952]

Francesco Predari Boni[modifica]

Tucidide ateniese ha scritto la storia della guerra fra i Peloponnesi e gli Ateniesi quando gareggiavano tra loro, cominciando subito da poi che fu ordinata; avvisando che grande ella sarebbe e degna di ricordanza più delle passate.
[Tucidide, Delle guerre del Peloponneso, traduzione di F. Boni, Pomba, 1854]

Fruttero & Lucentini[modifica]

Tucidide di Atene ha qui narrato la guerra combattuta da Peloponnesiaci e Ateniesi gli uni contro gli altri, e per narrarla si mise all'opera subito, fin dall'inizio.
[Tucidide, La guerra del Peloponneso, citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]

Claudio Moreschini[modifica]

L'ateniese Tucidide descrisse la guerra tra Ateniesi e Peloponnesi, come combatterono tra di loro cominciando subito al suo sorgere e immaginandosi che sarebbe stata la più grande e la più importante di tutte quelle avvenute fino ad allora.
[Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Claudio Moreschini, RCS Rizzoli Editore, 2008]

Amedeo Peyron[modifica]

Tucidide Ateniese scrisse la guerra dei Peloponnesii e degli Ateniesi, come fu guerreggiata fra loro, avendo incominciato a dettarla tosto che scoppiò, perché augurava che grande sarebbe, ed oltre le precedenti memoranda; argomentandolo dal vedere sì amendue quei popoli essere fiorentissimi per preparativi d'ogni maniera, e sì gli altri Greci quali subito collegarsi con una delle due parti, e quali già farne avviso.

[Tucidide, Della guerra del Peloponneso, traduzione di Amedeo Peyron, Stamperia reale, Torino, 1861]

Citazioni[modifica]

  • ...se la città degli Spartani restasse deserta e rimanessero i templi e le fondamenta degli edifici, penso che dopo molto tempo sorgerebbe nei posteri un'incredulità forte che la potenza spartana fosse adeguata alla sua fama; (eppure occupano i due quinti del Peloponneso, detengono l'egemonia su di esso e su numerosi alleati esterni: tuttavia raccogliendosi la città intorno ad un unico nucleo privo di templi e costruzioni sontuose, con la sua caratteristica struttura in villaggi sparsi, secondo l'antico costume greco, parrebbe una mediocre potenza). Se gli Ateniesi invece subissero la stessa sorte, la loro importanza, a dedurla dai resti visibili della città, si supporrebbe, credo, doppia di quella reale. (Libro I, 10)[4]
  • [...] la guerra presente lungamente durò, e con tante vicende afflisse la Grecia, quante in eguale spazio di tempo non avvennero mai. Non mai cotante città prese furono disertate le une dai barbari, e le altre dai Greci medesimi fra loro belligeranti; alcune eziandio espugnate mutarono abitatori. Non mai cotanti esilii d'uomini si videro, né tanto sangue sparso sì nella guerra medesima, e sì nelle sedizioni. E certi casi uditi prima per tradizione, ma raramente confermati dal fatto, ottennero credenza; così i terremoti, che gran parte della terra violentissimamente scossero; gli eclissi solari che più frequenti comparvero, che non per l'addietro; le pertinaci siccità in alcuni paesi stati quindi dalla carestia affamati; e quella, che arrecò non poco danno e mortalità, la pestilenza. Tutti questi mali si arrovesciarono sui Greci in un colla guerra. (I, 23; 1861, p. 68)
  • La cagione in realtà verissima, ma sempre taciuta, che rese inevitabile la guerra, fu a parer mio Atene cresciuta a grandezza, che impauriva i Lacedemoni. (I, 23; 1861, p. 69)
  • Considerate che la felicità è essere liberi, che la libertà è l'impavido coraggio. Non volgete atterriti lo sguardo ai sacrifici della guerra. (II, 43; 2012)
  • [Parlando della peste[5]] Correva quell'anno, a confessione universale, immune sovra tutti da malattie; o se qualcuno era di prima da qualche morbo afflitto, tutti si risolvevano in questo. Gli altri poi senza alcuna precedente cagione, ma interamente sani, erano all'improvviso compresi da veementi caldure al capo, da rossezza e infiammazione d'occhi, e nell'interno la gola e la lingua diventavano tostamente sanguigne, e mandavano alito puzzolente fuor dall'usato. Dopo di che sopravveniva starnutazione e raucedine, ed in breve il male calava al petto con tosse gagliarda: e qualora si fosse fitto sulla bocca dello stomaco lo sovvertiva, e conseguitavano tutte quelle secrezioni di bile, che dai medici hanno il loro nome; con grandissimo travaglio. (Libro II, 49; Pomba, 1854, pp. 115-116)
  • [Parlando della peste[5]] L'esterno del corpo non era a toccare molto caldo, né pallido; ma rossastro, livido e gremito di pustulette ed ulceri; mentre le parti interne erano in tal bruciore che i malati non potevano sopportare d'avere indosso né i vestiti né le biancherie più fini; ma solo di star nudi. (Libro II, 49; Pomba, 1854, p. 116)
  • [Parlando della peste[5]] Ciò nonostante finché la malattia era nel suo colmo, il corpo non languiva, ma contro ogni credere durava l'incomodi, talché i più, o erano da interno calor consumati nel nono o settimo giorno, avendo qualche residuo di forza, o se pur scampavano, scendendo il morbo nel ventre, si faceva grande esulcerazione con sopravvenimento di diarrea immoderata, intantochè la maggior parte morivano di debolezza. (Libro II, 49; Pomba, 1854, p. 116)
  • Noi saremo sicuri dei nostri amici non accettando i favori da questi ma facendoli.
  • L'uomo è portato per natura a disprezzare chi lo blandisce e ad ammirare chi non si dimostra condiscendente.
  • Amiamo il bello, ma con semplicità, e ci dedichiamo al sapere senza debolezza. Adoperiamo la ricchezza più per la possibilità d' agire che essa offre che per sciocco vanto di discorsi, e la povertà non è vergonosa ad ammettersi per nessuno, mentre lo è assai di più il non darsi da fare per liberarsene.
  • Il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce.
  • [Sulla spedizione in Sicilia] Correva ancora l'inverno, quando si risvegliava in Atene l'impulso d'imbarcarsi con armamenti più massicci di quelli disposti per Lachete ed Eurimedonte, con cui puntare sulla Sicilia e conquistarla, se possibile. Per la folla d'Atene era mistero la grandezza di quest'isola e il numero preciso delle sue genti, Greci o barbari: e s'ignorava d'addossarsi uno sforzo bellico non troppo più lieve di quello spiegato contro il Peloponneso. Ad una nave mercantile occorrono otto giorni, o poco meno, per effettuare il giro completo dell'isola, la quale, benché di perimetro così ampio, è divisa dal continente da un braccio di mare che non si estende per più di venti stadi. (Libro VI-I)
  • Per la folla d'Atene era un mistero la grandezza di quest'isola [la Sicilia] e il numero preciso delle sue genti, Greci o barbari: e s'ignorava d'addossarsi uno sforzo bellico non troppo più lieve di quello spiegato contro il Peloponneso.» (Libro VI, 1,1[4])
  • [Sui popoli della Sicilia] Già in tempi lontani fu sede di popoli, ed ecco il complessivo registro delle genti che ospitò. L'insediamento umano più antico che la tradizione ricordi fu quello dei Ciclopi e dei Lestrigoni, che occuparono una fascia limitata del paese. Ma sul loro ceppo non posso pronunciarmi, né sulla loro terra d'origine o su quale zona del mondo abbiano poi scelto per emigrarvi. Si stia contenti delle memorie poetiche e dell'opinione che ciascuno, chi da una fonte, chi da un'altra, ha concepito su quelle genti. Subito dopo quelli devono essersi stabiliti sull'isola i Sicani. Costoro anzi, a quanto affermano, avrebbero preceduto i Ciclopi e i Lestrigoni in quanto originari della Sicilia. Ma la verità storica fa giustizia di queste fantasie: erano Iberi, e in Iberia avevano dimora, lungo il corso del Sicano, donde i Liguri li costrinsero ad allontanarsi. Per opera loro l'isola finì col mutare il primitivo nome di Trinacria in quello di Sicania. Nel nostro tempo i Sicani sono ancora stanziati nella zona occidentale della Sicilia. Quando Ilio crollò, un drappello di Troiani fuggitivi, sgusciati dalla rete della flotta Achea, approdarono alle spiagge della Sicilia e fissarono il proprio domicilio a fianco dei Sicani. Le due genti furono designate con il nome comune di Elimi, e i loro centri urbani furono noti come Erice e Segesta. S'aggiunse più tardi e prese sede in quei luoghi anche un nucleo di Focesi che rientrando da Troia fu travolto in quell'epoca da una tempesta e, dopo aver toccato le coste della Libia, di là concluse finalmente la sua corsa in terra di Sicilia. (Libro VI-II)
  • [Sui popoli della Sicilia] I Siculi, dall'Italia (poiché in quel paese vivevano) compirono la traversata verso la Sicilia, per sottrarsi agli Opici. È probabile (e in questo caso la tradizione ci soccorre) che si tenessero pronti a passare con alcune zattere, quando si levasse da terra la brezza, propizia al tragitto: ma non si esclude che si siano giovati anche di altri espedienti per sbarcare. Nei tempi moderni esiste ancora in Italia una piccola società di Siculi: il nome di questa regione, anzi, si deve proprio ricollegare a Italo, uno dei re Siculi, che così si chiamava. Costoro passarono in Sicilia con un'armata poderosa e piegando al primo urto i Sicani li confinarono a viva forza nella parte a mezzogiorno e ad occidente dell'isola, imponendo al paese un nome nuovo: da Sicania, Sicilia. Effettuato il passaggio, si scelsero i territori migliori e li mantennero per circa i trecento anni che precedettero l'avvento dei Greci in Sicilia: attualmente occupano ancora le fasce centrali e a settentrione dell'isola. (Libro VI-II)
  • [Sui popoli della Sicilia] L'intera costa della Sicilia, inoltre, era punteggiata di stazioni fenicie che si attestavano di preferenza sui promontori lambiti dal mare e sugli isolotti prossimi alla riva, punti utili per la rete commerciale fenicia in Sicilia. Ma più tardi, quando a fitte ondate presero a sbarcarvi i Greci da oltre mare, sgomberate quasi tutte le proprie sedi, i Fenici si riservarono Motia, Solunte e Panormo raggruppandosi spalla a spalla con gli Elimi, sulla cui alleanza giuravano completa fiducia. Non solo, ma da quelle località il tragitto dalla Sicilia a Cartagine è il più spedito. Sicché era questa la potenza numerica dei barbari in Sicilia e tale la loro posizione in quella terra. (Libro VI-II)
  • [Discorso di Nicia] L'assemblea si raccoglie oggi a dibattere l'entità e le forme degli armamenti da assegnarci in dotazione, per la nostra campagna laggiù in Sicilia. Ebbene a mio parere è indispensabile riepilogare i termini della questione e riesaminarne il nocciolo: impegnare la nostra flotta in quei mari è in realtà la scelta più proficua? O non ci conviene piuttosto respingere gli appelli di stati lontani per stirpe da noi, ed esimerci dal suscitare così alla leggera, con un decreto troppo precipitoso rispetto all'immensità dell'impresa, una guerra tanto remota dai nostri interessi? (VI, 9[4])
  • [Orazione di Ermocrate in vista della spedizione ateniese in Sicilia] Badate che spunteranno in un lampo: disponete di mezzi, si provveda al loro migliore impiego, per respingerli con efficacia più energica. Non fate che per il vostro disprezzo il nemico vi sorprenda indifesi, o che l'incredulità v'induca a lasciar troppo correre. Se poi la verità si fa strada, non ispiri sgomento il loro passo temerario, con quella grandiosa macchina da guerra. […] Il loro assalto si fonda su una presunzione. (VI, 33-34[4])
  • [Discorso di Atenagora di Siracusa] Non oggi per la prima volta, ma da sempre li conosco, costoro che con simili discorsi o altri ancora più dannosi e con i fatti vogliono spaventare voi, il popolo, per aver loro il comando della città. E certo temo che dopo molti tentativi possano riuscirci. (VI, 38, 2[4])
  • Al sorgere del sole gli Ateniesi sbarcarono nei pressi del santuario di Zeus Olimpio, con l'intento di scegliere la posizione adatta al campo, mentre la cavalleria siracusana spintasi in avanscoperta a Catania e resasi conto che l'armata nemica, fino all'ultimo reparto, aveva tolto le tende, tornata sulle proprie tracce ne diede notizia alle fanterie, e l'esercito con tutte le sue forze si precipitò indietro per soccorrere la città. (VI, 65)[6]
  • I Siracusani schierarono per intero le divisioni di opliti su uno spessore di sedici file: erano sul terreno le forze siracusane al completo e gli alleati presenti (innanzitutto i Selinuntini, con il nerbo più consistente, poi i cavalieri di Gela, duecento uomini in tutto, e la cavalleria di Camarina, circa venti uomini con il rinforzo di una cinquantina d'arcieri). La cavalleria siracusana fu spostata all'appoggio del fianco destro: agivano non meno di milleduecento armati a cavallo. Al loro fianco i lanciatori di giavellotto. Nel campo ateniese dove ci si accingeva per primi alla fase d'attacco, Nicia passando in rivista i contingenti dei diversi paesi, poi rivolto all'intero esercito arringò gli uomini con esortazioni. (Libro VI, 67[4])
  • La città è fatta d'uomini: non di mura, né di navi, se manca l'elemento umano. (VII, 77; 2012)
  • Allorché Atene fu colta dalla notizia [della sconfitta a seguito della seconda spedizione in Sicilia], la città stette per lungo tempo incredula, perfino contro i lucidi rapporti di alcuni reduci, uomini di garantito stampo militare che rimpatriavano fuggiaschi dal teatro stesso delle operazioni: l'annientamento dell'armata non poteva davvero esser stato così totale. (Libro VIII, 1[4])
  • Questa [l'epoca della costituzione di Teramene] fu la prima volta in cui ai miei tempi gli Ateniesi abbiano mostrato di governarsi bene: avvenne infatti una moderata mescolanza di oligarchia e di democrazia e, da quando la situazione era divenuta brutta, questi furono i primi provvedimenti che risollevarono la città. (VIII, 97, 2; trad. Ferrari)

Citazioni su La guerra del Peloponneso[modifica]

Un libro affascinante e decisivo per farci capire la nostra stessa storia, ciò che succede tra i grandi Stati che si contendono il dominio del mondo. Battaglie vinte e perdute, congiure, tradimenti, dispute diplomatiche, folli ambizioni, errori e congetture assurde. Tutto emerge dalla prosa asciutta di Tucidide.
Chi non l'ha letto non può capire niente di ciò che legge ogni mattina sul suo giornale. (Carlo Fruttero)

Citazioni su Tucidide[modifica]

  • È Tucidide, a parer mio, il vero modello degli storici. Riferisce i fatti senza giudicarli, ma insieme non omette alcuna circostanza che ci consenta di giudicarli noi stessi. Tutto ciò che racconta lo mette dinanzi agli occhi del lettore: invece d'interporsi tra il lettore e gli avvenimenti, si tiene in disparte e quasi non ci sembra più di leggere, ma di vedere. Purtroppo egli parla sempre di guerra e nelle sue narrazioni troviamo quasi esclusivamente quel che vi è di meno istruttivo al mondo: le battaglie. (Jean-Jacques Rousseau)
  • La Storia di Tucidide adunque, mentre ha, come quella di Erodoto, un contenuto contemporaneo, se ne differenzia per lo sviluppo della riflessione. E questa differenza si appalesa fin dal cominciamento del suo libro, quando egli dice che non è suo scopo salire sul teatro per allettare l'immaginazione e per favoleggiare, ma scrivere per gli amici della verità e per lasciare un patrimonio all'eternità. (Nicola Marselli)
  • Uno che capì le cose fu l'ateniese Tucidide. Egli vide dove Erodoto voleva realmente arrivare: a scoprire i motivi fondamentali della condotta umana mediante un'esposizione delle cause e dell'andamento di una grande guerra[7], non come facevano i poeti con la loro libertà d'immaginazione, né astrattamente come facevano i filosofi nei loro discorsi sull'uomo e la società, ma concretamente, con esattezza e con la dovuta attenzione per i nessi e le concatenazioni. (Moses Israel Finley)

Note[modifica]

  1. Citato in Giulio Giannelli, Trattato di storia greca. Patron editore, p. 240.
  2. Da La guerra del Peloponneso, Mondadori, Milano, 1971, vol. I, pp. 121-128. ISBN 978880432320
  3. Da Storie, I 30, citato in Rivista geografica italiana e Bollettino della Società di studi geografici e coloniali in Firenze, Società Editrice Dante Alighieri, 1927, p. 24.
  4. a b c d e f g Da La guerra del Peloponneso, PortaleFilosofia.com, a cura di Patrizia Sanasi.
  5. a b c La pestilenza descritta da Tucidide sembra tifo più che peste. Cfr. Biblioteca italiana: o sia giornale di letteratura, scienze et arti, Volume 5, Presso Antonio Fortunato Stella, 1817, p. 328.
  6. La guerra del Peloponneso (Testo integrale)
  7. La guerra del Peloponneso.

Bibliografia[modifica]

  • Tucidide, Delle guerre del Peloponneso, traduzione di F. P. Boni, con note illustrative di Francesco Predari, Pomba, 1854.
  • Tucidide, Della guerra del Peloponneso, 2 voll., traduzione di Amedeo Peyron, Stamperia reale, Torino, 1861, vol. I.
  • Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Luigi Annibaletto, Mondadori, 1952.
  • Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Franco Ferrari, Rizzoli, 2011.
  • Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Claudio Moreschini, Rizzoli, 2008.
  • Tucidide, La guerra del Peloponneso, traduzione di Ezio Savino, Garzanti, Milano, 2012. ISBN 978-88-11-13735-1

Voci correlate[modifica]

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