Vincenzo Cuoco

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Vincenzo Cuoco

Vincenzo Cuoco (1770 – 1823), scrittore, politico, saggista, economista e giurista italiano.

Citazioni di Vincenzo Cuoco[modifica]

  • Il voler tutto riformare è lo stesso che voler tutto distruggere. (da Lettere a Vincenzo Russo)
  • «Il vostro Claudio è fuggito, Messalina trema»... Era obbligato il popolo a saper la storia romana per conoscere la sua felicità? (da Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, cap. XIX)
  • Masaniello, senza i nostri lumi, ma nel tempo stesso senza i nostri vizi e gli errori nostri, suscitò in tempi meno felici una gran rivoluzione in quel regno; la spinse felicemente avanti perché la nazione lo desiderava ed ebbe tutta la nazione con lui perché egli voleva solo ciò che la nazione bramava. Con piccolissime forze, Masaniello ardì opporsi, e non invano, alla immensa vendetta della nazione spagnola; Masaniello morì, ma l'opera sua rimase. (da Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, 1820)
  • Molte massime, di quelle che noi crediamo assiomi delle scienze politiche, mi sembrano inesatte; onde avvien poi che esse non si trovano sempre vere in pratica. (da Frammenti di lettere dirette a Vincenzio Russo, III, in Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di Fausto Nicolini, Laterza, Bari, 1913, p. 248)
  • Tu conosci la mia adolescenza e la mia gioventù; tu sai se io ami la virtù e sappia preferirla anche alla vita. Ma quando, parlando agli uomini, ci scordiamo di tutto ciò che è umano; quando, volendo insegnare la virtù, non sappiamo farla amare; quando, seguendo le nostre idee, vogliamo rovesciare l'ordine della natura, temo che, invece della virtù, insegneremo il fanatismo e invece di ordinar delle nazioni, fonderemo delle sette. (da una lettera a Vincenzo Russo[1])
  • Tutte le volte che in quest'opera si parla di "nome", di "opinione", di "grado", s'intende sempre di quel grado, di quella opinione, di quel nome che influiscono sul popolo, che è il grande, il solo agente delle rivoluzioni e delle controrivoluzioni. (da Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799)

Platone in Italia[modifica]

  • Già oltrepassate le ardue cime del promontorio Iapigio e le basse terre de' salentini, un fresco venticello di levante spingeva la nostra nave verso il fondo di quel seno che prende il nome da Taranto. I marinari tutti dormivano; il pilota vegliava sul timone, io e Platone sedevamo sulla poppa taciturni. Il silenzio universale che regnava intorno a noi, rotto soltanto da quel rumore cupo ed uniforme che ha il mare quando non è agitato da tempesta; l'immensità di un orizzonte che non aveva limiti, ed in cui il contrasto dell'ombra della notte che si ritirava e della luce, ancora incerta, che in taluni punti la fendeva, in altri appena la diradava, e che riflettevasi in mille modi diversi or dalle nuvole, or dall'onda, or dalle cime de' monti: tutto ne allettava a quella dolce estasi, che forma la parte più deliziosa della nostra vita. (Cleobolo: p. 11)
  • Se l'arte dell'eloquenza è l'arte di persuadere, non vi è altra eloquenza che quella di dire sempre il vero, il solo vero, il nudo vero. Le parole, onde è necessità di nostra inferma natura di rivestire il pensiero, saranno tanto più potenti, quanto più atte al fine, cioè quanto più nudo lasceranno il vero, che è nel pensiero. (Clinia: p. 67)
  • Per noi la terra, che abitiamo, era poco più grande della nostra Grecia. Essa diventa, per i calcoli pitagorici, una sfera immensa, che è da per tutto abitata, e vi sono degli uomini i quali hanno i loro piedi opposti diametralmente ai nostri. Sogno, che farebbe ridere i giovani filosofi di Atene, i quali non potrebbero al certo immaginar uomini che avessero la testa all'ingiù; ma che non deve far ridere un filosofo, il quale, iniziato ne' misteri della geometria, comprende che tutti i punti della circonferenza di un cerchio e di una sfera sono eguali fra loto, e che non vi è differenza tra l'occuparne uno o l'occuparne un altro. (Platone: p. 146)

Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799[modifica]

Incipit[modifica]

Io imprendo a scriver la storia di una rivoluzione che dovea formare la felicitá di una nazione, e che intanto ha prodotta la sua ruina[2]. Si vedrá in meno di un anno un gran regno rovesciato, mentre minacciava conquistar tutta l'Italia; un'armata di ottantamila uomini battuta, dissipata, distrutta da un pugno di soldati; un re debole, consigliato da ministri vili, abbandonare i suoi Stati senza verun pericolo; la libertá nascere e stabilirsi quando meno si sperava; il fato istesso combattere per la buona causa, e gli errori degli uomini distruggere l'opera del fato e far risorgere dal seno della libertá un nuovo dispotismo e piú feroce.

[Vincenzo Cuoco, Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, a cura di Pasquale Villani, Laterza, 1980.]

Citazioni[modifica]

  • I nomi nella storia servon più alla vanità di chi è nominato, che all'istruzione di chi legge. (dalla Prefazione alla seconda edizione, p. V, 1820)
  • Io sono fermamente convinto che se la maggior parte delle storie si scrivesse in modo di sostituire ai nomi propri alle lettere dell'alfabeto, l'istruzione che se ne ritrarrebbe sarebbe la medesima. (dalla Prefazione alla seconda edizione, p. V, 1820)
  • È forse indispensabile che un libro, perché sia utile, sia una storia ? (dalla Prefazione alla seconda edizione, p. VI, 1820)
  • Mille volte si ripete che in Napoli eran repubblicani tutti coloro che avevano beni e fortuna, che niuna nazione conta tanti che bramassero una riforma per solo amor della patria; che in Napoli la repubblica é caduta quasi per soverchia virtù de' repubblicani. (dalla Prefazione alla seconda edizione, p. VII, 1820)
  • La ricchezza è relativa all'oggetto a cui taluno tende: un uomo che abbia trecentomila scudi di rendita, è un ricchissimo privato, ma sarebbe un miserabile sovrano. (dalla Prefazione alla seconda edizione, p. VIII, 1820)
  • I giudizj del popolo non sono i miei, ma è necessario ricordare che in un'Opera destinata alla verità, ed all'istruzione, è necessario riferire tanto i giudizj miei, quanto quelli del popolo. Ciascuno sarà al suo luogo: è necessario saperli distinguere e riconoscere, e perciò è necessario aver la pazienza di leggere l'Opera intera, e non giudicarne da tratti separati. (dalla Prefazione alla seconda edizione, p. IX, 1820)
  • In verità io dichiaro che valuto pochissimo i talenti militari del generale Mack. Quando io scriveva il mio Saggio avea presenti al mio pensiero la campagna di Napoli, e la seconda campagna delle Fiandre, ambedue dirette da Mack: vedeva nell'una e nell'altra gli stessi rovesci e le stesse cagioni di rovesci, e credei poter ragionevolmente conchiudere che la colpa fosse del Generale; Ciò che è effetto di sola fortuna non si ripete con tanta simiglianza due volle. (dalla Prefazione alla seconda edizione, p. X-XI, 1820)
  • Mentre quasi tutta l'Europa teneva Mack in conto di gran generale, io solo, io il primo, ho vendicato l'onor della mia nazione, ed ho asserito che le disgrazie da lui sofferte nelle sue campagne non eran stato effetto di fortuna quanto d'ignoranza. Fin dal 1800 io ho indicato il vizio fondamentale che vi era in tutte le leghe che si concertavano contro la Francia, e pel quale tutt'i tentativi de' collegati dovean sempre avere un esito infelice ad onta di tutte le vittorie che avessero potuto ottenere: e tutto ciò perché le vittorie consumano le forze al pari o poco meno delle disfatte, e le forze si perdono inutilmente se non prive di consiglio, o lo scopo è tale che non possa ottenersi. (dalla Prefazione alla seconda edizione, p. XI, 1820)
  • La Francia non ha incominciato ad aver ordine, l'Italia non ha incominciato ad aver vita, se non dopo NAPOLEONE; e tra li tanti beneficj che Egli all'Italia ha fatti non è l'ultimo certamente quello di aver donato a Milano Eugenio ed alla mia patria Giuseppe. (dalla Prefazione alla seconda edizione, p. XV, 1820)
  • È dolce cosa rammentar nel porto le tempeste passate. (p. 7)
  • Tutto è concatenato nel mondo, diceva Pangloss [precettore tedesco di Candido di Voltaire]: possa tutto esserlo per lo meglio! (da Lettera dell'autore, p. 17)
  • Un nuovo ordine di cose ci promette maggiori e più durevoli beni. Ma credi tu che l'oscuro autore di un libro possa produrre la felicità umana? In qualunque ordine di cose le idee del vero rimangono sempre sterili, o generan solo qualche inutile desiderio negli animi degli uomini dabbene, se accolte e protette non vengano da coloro ai quali è affidato il freno delle cose mortali. (da Lettera dell'autore, p. 18)
  • L'adulazione rammenta ai potenti quelle virtù de' loro maggiori che essi non sanno più imitare; la filosofia rammenta ai grandi uomini le virtù proprie perché proseguano sempre più costanti nella magnanima loro impresa. . . (da Lettera dell'autore, p. 18)
  • I mali di opinione si guariscono col disprezzo e coll’obblio: il popolo non intenderá, non seguirá mai i filosofi. Ma, se voi perseguitate le opinioni, allora esse diventano sentimenti; il sentimento produce l’entusiasmo; l’entusiasmo si comunica; vi inimicate chi soffre la persecuzione, vi inimicate chi la teme, vi inimicate anche l’uomo indifferente che la condanna; e finalmente l’opinione perseguitata diventa generale e trionfa. (p. 30)
  • Guai a chi ha ascoltato una volta le voci del timore! Quanto più ha temuto, più dovrà temere. (p. 36)
  • Il male, che producono le idee troppo astratte di libertá, è quello di toglierla mentre la vogliono stabilire. La libertá è un bene, perché produce molti altri beni, quali sono la sicurezza, l'agiata sussistenza, la popolazione, la moderazione dei tributi, l'accrescimento dell'industria e tanti altri beni sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertá. (p. 56)
  • Il corso delle idee è quello che deve dirigere il corso delle operazioni e determinare il grado di forza negli effetti. Le prime idee che si debbono far valere sono le idee di tutti; quindi le idee di molti; in ultimo luogo le idee di pochi. E, siccome coloro che dirigono una rivoluzione sono sempre pochi di numero ed hanno piú idee degli altri, perché veggono piú mali e comprendono piú beni, cosí molte volte è necessario che i repubblicani per istabilir la repubblica si scordino di loro stessi. (p. 57)
  • La religione cristiana ridotta a poco a poco alla semplicità del Vangelo; riformate nel clero le soverchie ricchezze di pochi e la quasi indecente miseria di molti; diminuito il numero dei vescovati e dei benefici oziosi; tolte quelle cause che oggi separan troppo gli ecclesiastici dal governo e li rendono quasi indipendenti, sempre indifferenti e spesso anche nemici, ecc. ecc.: è la religione che meglio di ogni altra si adatta ad una forma di governo moderato e liberale. Nessun'altra religione tra le conosciute fomenta tanto lo spirito di libertà. La pagana avea per suo dogma fondamentale la forza: produceva degli schiavi indocili e dei padroni tirannici. La religion cristiana ha per base la giustizia universale: impone dei doveri ai popoli egualmente che ai re, e rende quelli più docili, questi meno oppressori. La religione cristiana è stata la prima che abbia detto agli uomini che Iddio non approva la schiavitù: per effetto della religione cristiana, abbiamo nell'Europa moderna una specie di libertà diversa dall'antica; ed è probabile che i primi cristiani, nella loro origine, altro non fossero che persone le quali volevano, in tempi corrottissimi, ridurre la più superstiziosa idolatria alla semplicità della pura ed eterna ragione, ed il più orribile dispotismo che mai abbia oppresso la cervice del genere umano (tale era quello di Roma) alle norme della giustizia. (pp. 71-72)
  • Noi abbiamo sofferti gravissimi mali, ma abbiam dati anche grandissimi esempj di virtù. La giusta posterità obblierà gli errori che come, uomini han potuto commettere coloro a cui la repubblica era affidata; tra essi però ricercherà invano un vile, un traditore. Ecco ciò che si deve aspettare dall'uomo, ed ecco ciò che forma la loro gloria. (p. 116)
  • Carlomagno montato già sulla scala del patibolo, si rivolse al popolo e gli disse: popolo stupido tu godi adesso della mia morte. Verrà un giorno, e tu mi piangerai; il mìo sangue già si rovescia sul vostro capo, e (se voi avrete la fortuna di non esser vivi) sul capo de' vostri figli. (p. 116)
  • Caracciolo Francesco. Era senza contraddizione uno de' primi genj che avesse l'Europa. La nazione lo stimava; il re lo amava; ma che poteva il re? Egli fu invidiato da Acton, odiato dalla regina e perciò sempre perseguitato. Non vi fu alcuna specie di mortificazione a cui alcun non lo volesse assoggettato; si vide ogni giorno posposto. (p. 118)
  • Caracciolo era uno di quei pochi che al più gran genio riuniva la più pura virtù. Chi più di lui amava la patria? Che non avrebbe fatto per lei? Diceva che la Nazione Napolitana era fatta dalla natura per avere una gran marina, e che questa si avrebbe potuto far sorgere in pochissimo tempo: avea in grandissima stima i nostri marinari. Egli morì vittima dell'antica gelosia di Thura, e della viltà di Nelson. . . (p. 118)
  • Si vide Caracciolo]] sospeso come un infame all'antenna della fregata Minerva; il suo cadavere fu gittato in mare. Il re era ad Ischia, e venne nel giorno susseguente, stabilendo la sua dimora nel vascello dell'ammiraglio Nelson. Dopo due giorni il cadavere di Caracciolo apparve sotto il vascello, sotto gli occhi del re, .... fu raccolto dai marinari che fatilo l'amavano, e gli furono resi gli ultimi officj nella chiesa di s. Lucia che era prossima alla sua abitazione, offici tanto più pomposi quanto che senza fasto veruno ; e quasi a dispetto di chi ora poteva tutto, furono accompagnati dalle lagrime sincere di tutt'i poveri abitanti di quel quartiere che lo riguardavano come il loro amico ed il loro padre. (pp. 118-119)
  • Cirillo è uno di quei pochi, pochi sempre, pochi in ogni luogo, che in mezzo ad una rivoluzione non amano che il bene pubblico. Non è questo il più sublime elogio che si possa formare di un cittadino e di un uomo? Io era secolui nelle carceri Hamilton e lo stesso Nelson, a' quali avea più volte prestato i soccorsi della sua scienza voleano salvarlo. Egli ricusò una grazia che gli sarebbe costato una viltà. (p. 119)
  • Pagano Francesco Mario. Il suo nome vale un elogio il suo processo criminale è tradotto in tutte le lingue, ed è ancora uno delli migliori libri che si abbia su tale oggetto. Nella carriera sublime della storia eterna del genere umano voi non rinvenite che l'orme di Pagano che vi possano servir di guida per raggiungere i voli di Vico. (p. 120)
  • Pimentel Eleonora Fonseca. Audet viris concurrere virgo. Ma essa si spinse nella rivoluzione come Camilla nella guerra, per solo amor della patria. Giovinetta ancora, questa donna avea meritata l'approvazione di Metastasio per i suoi versi. Ma la poesia formava una piccola parte delle tante cognizioni che l'adornavano. Nell'epoca della repubblica scrisse il Monitore Napolitano, da cui spira il più puro ed il più ardente amor di patria. Questo foglio le costò la vita, ed essa affrontò la morte con un'indifferenza eguale al suo coraggio. Prima di avviarsi al patibolo volle bevere il caffè, e le sue parole furono: Forsan haec olim meminisse juvabit. (p. 120)
  • Dopo la caduta di Altamura, Sciarpa soggiogò i bravi abitanti di Avigliano, Potenza, Muro, Picerno, Santo Fele, Tito ec. ec. i quali si erano uniti per la difesa comune [...] Ma anche cedendo al vincitore conservarono tanto di quell'ascendente che il valore dà sul numero, che fecero una capitolazione onorevole [...] Ben poche nazioni possono gloriarsi di simili esempj di valore. (p. 208, 1806)

Citazioni su Vincenzo Cuoco[modifica]

  • Vincenzo Coco, qualora si legga con vero criterio di storia il suo Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli, non merita credenza. Infatti egli era massone e cospiratore: scrivendo dunque di cospiratori e di massoni è necessariamente pregiudicato, salvo se arrechi prove o dimostrazioni, il che egli non fa punto. Ha inoltre la sua storia il pessimo vizio e noioso delle considerazioni sentenziose, a uso pedantesco, mentre è povera di fatti: il che è denominare una storia, che non è storia. Infine la verità storica non era nella sua mente, e pertanto non si può trovare nelle sue pagine. (Ilario Rinieri)

Note[modifica]

  1. Citato in Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, Einaudi, Torino, 1992, p. 156. ISBN 88-06-12974-0
  2. Questo libro fu scritto nell'anno 1800, e quindi si comprende facilmente di quale ruina si vuol parlare.

Bibliografia[modifica]

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