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Antonio Ghirelli

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Antonio Ghirelli (2008)

Antonio Ghirelli (1922 – 2012), giornalista e scrittore italiano.

Citazioni di Antonio Ghirelli

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  • [Su Adolfo Baloncieri] [Aveva] il senso della manovra, la percezione del movimento, l'intuito della posizione, la rapidità del tiro.[1]
  • [Sulla Juventus del Quinquennio d'oro] [...] dal 1930 al 1935 i bianconeri realizzarono per primi l'impresa [...]: la conquista di cinque titoli consecutivi. Conoscevamo a memoria quella formazione, noi bambini delle elementari, noi ragazzi del ginnasio di tutta la Penisola: CombiRosettaCaligaris, VarglienMontiBertolini, MuneratiCesariniVecchinaFerrariOrsi. Poi vennero gli altri: Varglien II, Sernagiotto, Borel II, Depetrini, Serantoni e tanti di quei nomi li ritrovammo nella formazione azzurra che vinse per la prima volta il Campionato del Mondo 1934, a Roma; e qualcun altro – Foni e Rava – in quella che riconquistò il titolo quattro anni dopo, a Parigi. La leggenda nacque così, sulle ali di una serie impressionante di vittorie, della definizione di uno stile sbalorditivo che apparteneva ad un tempo alla squadra nel suo completto e alla società, dietro la quale, dentro la quale (come nelle vene del nostro corpo scorre sangue), correva un'altra leggenda, quella della famiglia Agnelli [...].[2]
  • [Su Giovanni Ferrari] Giuocatore d'una tecnica sobria, poco portato ad osare, costruiva la partita un'azione sull'altra [...], le imbeccate pronte per tutti, gli occhi attenti a mirare l'ostacolo e a valutare una situazione tattica, un metodico che sembrava avesse un misterioso senso del ritmo.[3]
  • Il segno più originale della presenza di Salvatore Di Giacomo nella «belle époque» partenopea, sta nella sua sdegnosa estraneità alle mode letterarie che imperversavano in quell'epoca: il classicismo professorale di Carducci, il patetico decadentismo di Pascoli e di Corazzini, l'immaginifico barocchismo di D'Annunzio, che pure a Napoli era di casa. Chino sul foglio bianco come un grande artigiano, don Salvatore si isola dal frastuono delle gazzette e dei salotti, dedicandosi piuttosto a portare ad estrema perfezione uno strumento personale che non somiglia a nessun altro, il vernacolo, mediato sì dalla realtà popolare ma filtrato attraverso esperienze altamente sofisticate, che vanno dai lirici greci dell'epoca di Saffo all'opera buffa dell'epoca di Paisiello, passando per la narrativa del Cortese e del Basile. La fusione che egli realizza tra la struttura colta del suo dialetto e la tradizione parlata attinge la perfezione nei versi delle ariette e delle canzoni nuove, dove la parola si libera «in un aere musicale» e appare «disposta a vivere per ritmi e metri in una trepidantissima aura di suggerimenti».[4]

Aspettando la rivoluzione

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La storia della sinistra moderna, una storia nobile e tempestosa, ricca di contrasti, di scissioni e anche di personaggi ed episodi poco edificanti, comincia in Europa e quindi in Italia dopo il fallimento delle rivoluzioni esplose nel 1848. Quell'esito improvviso e deludente diffonde tra non pochi oppositori dell'ordine costituito l'amara sensazione che il riformismo, la speranza di guadagnare spazi di indipendenza e di libertà nell'ambito di una revisione costituzionale delle strutture sociopolitiche, siano del tutto illusori.

Citazioni

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  • Al di là delle pesanti, decisive responsabilità della sinistra nell'avvento del fascismo non si possono ignorare gli altri fattori che hanno contribuito a trasformare la marcia su Roma in una gita turistica [...] anche i politici di parte liberale, da Orlando a Facta, non hanno avuto la statura, l'energia, i programmi indispensabili per salvare le istituzioni democratiche [...] Al dunque, liberali e cattolici (liquidata dal Vaticano la segreteria di Sturzo nel Partito popolare) preferiranno fiancheggiare o tollerare Mussolini anziché far causa comune con i socialisti contro la minaccia della dittatura. (da La farneticazione rivoluzionaria, cap. XIV, p. 134)
  • [...] l'incapacità [del Partito comunista italiano] di fare i conti con le ragioni di fondo che hanno determinato il fallimento dell'esperienza russa e che indurranno i comunisti cinesi alla più drastica revisione ideologica, produrrà due conseguenze fatali per il destino della nostra sinistra: l'isolamento dei socialisti nel faticoso negoziato dal 1955 al 1990 che caratterizzerà l'alleanza con la Democrazia cristiana e il graduale declino dello stesso Pci, fino all'inglorioso alibi del Partito democratico di sinistra e al successivo malcerto approdo nel cosiddetto Partito democratico, con una miriade di micropartiti comunisti a fargli concorrenza. (Da Una svolta epocale, cap. XXIII pp. 225-26)
  • La fondazione del Partito comunista d'Italia arriva al culmine di un drammatico dopoguerra nel quale il sistema Italia è andato in pezzi. Le istituzioni del regno sabaudo, le forze politiche parlamentari, i gruppi sociali dominanti in campo industriale e finanziario non riescono ad assorbire le grandi trasformazioni sociali determinate dal consolidamento del capitalismo interno, dal crollo degli imperi centrali e dal trionfo della Rivoluzione d'ottobre. (da Livorno, funesta scissione, cap. XV, p. 143)
  • Lo stato pietoso degli alloggi nelle grandi città italiane provocò nel solo periodo tra il 1884 e il 1887 epidemie di colera che sterminarono 55 mila sventurati. Pochi anni prima, su 3600 minatori delle zolfare siciliane soltanto 203 erano stati riconosciuti abili al servizio militare. E, come si diceva, la situazione nelle campagne era addirittura catastrofica. Purtroppo il solo rimedio che i governi di allora opposero alla desolazione dei poveri fu l'emigrazione. (da Il modello tedesco, cap. V, p. 37)

[...] in una prospettiva più ampia, ad annientare la sinistra italiana è stata prima la smarrita diaspora dei compagni di Craxi dopo l'inchiesta di Mani pulite, poi il cieco, sprezzante rifiuto dei compagni di Occhetto, di D'Alema e dello stesso Veltroni di riconoscersi, dopo la catastrofe del modello sovietico, nel socialismo democratico.

Storia di Napoli

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  • Ma da qual di questi padroni [succedutisi dall'XI al XVI secolo], in verità, sarebbero stati essi [ i napoletani] temprati a più alti sensi civici? Non certo dai monarchi stranieri degli ultimi cinque secoli, né tanto meno dai nobili furfanti con lo stemma baronale, non dai nugoli di frati e di preti che si dividono le loro spoglie mortali e terrorizzano la loro anima immortale, non infine da una borghesia comunale e mercantile che non ha fatto in tempo a conquistare nemmeno un simulacro di potere. Mantenuti deliberatamente in uno stato di superstizione, di ignoranza e di totale miseria, condannati a vegetare in condizioni igieniche degne di tribù trogloditiche e sterminati periodicamente da micidiali epidemie, quando a sgomentarli non siano le eruzioni del Vesuvio, i napoletani finiscono per ridursi alla funzione marginale del coro – un coro vociante, pittoresco, ma normalmente inoffensivo – nel dramma che si recita a loro spese tra «sedili», castelli e palazzi viceregnali.
    La mitezza del clima e l'incanto dell'ambiente naturale stanno, probabilmente, alla radice di questa rassegnazione. [...] Senza esagerare l'influenza di questi fattori, è ragionevole concludere che essi, riducendo al minimo le esigenze vitali, abbiano contribuito a sviluppare negli abitanti un'indole serena ed abitudini frugali che al momento opportuno, e non senza ripugnante cinismo, la classe dominante addurrà a pretesto per respingere ogni sollecitazione al progresso. (da La città antica, pp. 19-20)
  • [Su Francesco II delle Due Sicilie] Il Montezuma di Gaeta. (da Il Montezuma di Gaeta, p. 241)
  • [Sull'Assedio di Gaeta] Battuti ancora a Capua e a Nola, gli ultimi reparti fedeli al povero «Lasa» si riducono nel campo trincerato di Gaeta, dove resisteranno per tre mesi ai bombardamenti, alla fame e alle epidemie, esaltati dall'esempio intrepido di Maria Sofia e dalla dignitosa calma di suo marito. [...] Quando le navi francesi lasciano le acque del golfo, il 18 gennaio 1861, il destino della fortezza è irrimediabilmente segnato. Il 30 del mese, mentre la guarnigione è tormentata dalle bombe di Cialdini e della febbre tifoidea, un gruppo di marinai festeggia il Carnevale alla vecchia maniera napoletana: indossano il costume tradizionale, tirano fuori il tamburo e si mettono a ballare la danza nazionale, inneggiando a Franceschiello nel frastuono dei cannoni.
    È l'ultima tarantella della storia borbonica. L'11 febbraio il ragazzo triste decide di negoziare la non più differibile resa. La sera del 13, la capitolazione è firmata da Cialdini e dai suoi plenipotenziari. L'indomani, Francesco parte per l'esilio con Maria Sofia a bordo di una corvetta francese che lo porta verso Roma, mentre echeggiano per l'ultima volta le note dell'inno che Giovanni Paisiello, tanto tempo fa, ha musicato. Finisce il Regno indipendente delle Due Sicile e comincia la questione meridionale. (da Il Montezuma di Gaeta, p. 256)
  • Anche nell'abbandonarsi alle passioni più stravaganti, un napoletano si concede in genere un margine di ironia, di scetticismo, di scherzo giocoso: questa è una caratteristica che rimane inalterata nel tempo e che, anzi, viene accentuandosi. Il «sale attico» è versato a piene mani nella conversazione di ogni giorno, nei caffè come nei salotti, durante la passeggiata sulla Riviera o nel ridotto del San Carlo, alla stregua di una sorta di arte minore, che viene coltivata anche dai ceti meno accessibili alle curiosità erudite, fino ad entrare nella leggenda cittadina. È un costume che impronta di sé, anche all'estero, un secolo nel quale perfino la scienza, come osserva Francesco De Sanctis, assume un tono conversativo, e spiriti eminenti come Montesquieu e Buffon non disdegnano di mescolarsi ai brillanti convegni mondani e di divulgare in ogni forma, dall'epistolario agli articoli di giornale, un pensiero che non può restare più appannaggio di pochi eletti, nella misura in cui si propone di trasformare radicalmente la società. Enciclopedia e rivoluzione nascono dalla stessa incubatrice, come il più brillante e violento paradosso della storia. (da Un lazzarone sul trono, pp. 132-133)
  • Il processo di unificazione, ancorché legittimo ed irreversibile, si risolve in un fallimento senza uguali nella storia del nazionalismo europeo, eccezion fatta forse per il rapporto tra Irlanda del Nord e Regno Unito. A spiegarlo, bisogna individuare tutta una serie di debolezze, di errori, di delitti le cui responsabilità andranno ripartite equamente tra i conquistatori piemontesi, l'opposizione radicale e – almeno per quanto riguarda la città – la classe dirigente napoletana. [...] In pratica, si può anticipare un giudizio molto severo: dal 1860 sino ai nostri giorni, si è ripetuta a Napoli la storia di servilismo e di cupidigia caratteristica di ogni élite indigena nei paesi coloniali, con tutte le contraddizioni e le aggravanti inerenti ad un'operazione del genere quando venga realizzata all'interno di una comunità nazionale ed a spese di un gruppo etnico di forte personalità e di cospicue tradizioni civili.
    Ovviamente, in tema di colonizzazione del Mezzogiorno la responsabilità primaria va assegnata ai conquistatori. I ceti conservatori e quelli moderati, non solo piemontesi, la cui alleanza Cavour ha saldato nel «connubio», si accostano alle Due Sicile con la diffidenza, l'incomprensione, il pregiudizio razziale che sono funzione, al tempo stesso, di un'ignoranza pressoché totale di quella realtà e di un'ottusa difesa della propria egemonia. [...] [Per almeno mezzo secolo] Esercito ed amministrazione del Regno d'Italia realizzano una strategia di rapina che solleva inizialmente la reazione sanguinosa del brigantaggio e quella strisciante della camorra, per accamparsi quindi pressoché indisturbata sul deserto delle risorse e delle iniziative. (da La piemontesizzazione, pp. 259-60)
  • [...] è fuori dubbio che il trapianto delle norme e degli orientamenti [del Regno di Sardegna] dovrebbe accompagnarsi quanto meno ad un attento lavoro di adattamento, di integrazione, di trasformazione: rinunciarvi è segno vistoso di miopia politica, se non debba addirittura addebitarsi ad un disegno premeditato. [Oltre all'adozione del sistema fiscale sabaudo] L'impoverimento delle risorse meridionali è aggravato in maniera irreparabile da altre due misure che le autorità unitarie emanano tra l'ottobre del '60 e l'agosto dell'anno successivo: la prima unifica il debito pubblico delle Due Sicilie con quello del Regno di Sardegna, che è due volte più pesante; la seconda estende, ancora automaticamente, alle terre liberate la tariffa doganale piemontese, abbassando dell'80 per cento i dazi protettivi e scardinando di conseguenza le strutture dell'industria locale, mentre finisce al Nord l'oro del Banco di Napoli: una consistenza monetaria di 443 milioni di lire oro contro i 148 del resto d'Italia. (da La piemontesizzazione, p. 264)
  • Il colpo di grazia viene dalla politica tributaria: l'esosa imposizione fiscale impedisce l'accumulazione di risparmio e di capitale, bloccando così per altro verso il potenziale sviluppo della industria, mentre espropria una larga parte del reddito disponibile nel Sud per coprire il disavanzo statale nonché le altre spese amministrative, infrastrutturali e militari di cui si giovano soprattutto le regioni e i gruppi industriali del Nord.
    È una grandinata di tasse che si abbatte sui ceti produttivi e sulla popolazione: prima la ricchezza mobile, poi la famigerata imposta sul macinato, l'imposta sui pesi e le misure, quella sulle vetture e i domestici: una serie di fendenti vibrati all'impazzata contro tutte le classi sociali, con l'effetto di stroncare contemporaneamente offerta e domanda. Il governo unitario non trova energie e risorse per altri obiettivi che non siano la preparazione della guerra contro l'Austria per liberare il Veneto e, più tardi, l'ultimo assalto agli Stati della Chiesa. (da L'economia strozzata, p. 276)
  • [La relazione dell'inchiesta Saredo, pur evidenziando le responsabilità della classe dirigente napoletana e del governo] Anziché partire da un'approfondita analisi dei rapporti fra le classi e da una corretta identificazione dei centri di potere, [...] muove da una tesi astratta, venata di incredibili pregiudizi, secondo cui la popolazione napoletana sarebbe inadatta per definizione alla vita sociale, a cagione di un pronunciato individualismo che deriverebbe da inclinazioni estetiche, improntate dalla natura ovvero ereditate direttamente dai progenitori ellenici. [...] Sono idee aberranti che si collegano non solo al clima culturale del momento dominato dal positivismo lombrosiano, ma anche e forse soprattutto al sentimento di frustrazione da cui è posseduta la classe dirigente nazionale di fronte al fallimento del processo unitario. Incapace, per angustia di prospettive ed inconfessati interessi materiali, di individuare i gravi errori commessi nei quattro decenni seguiti alla liberazione del Mezzogiorno, la borghesia settentrionale – non meno che il personale politico romano – ne trasferisce la responsabilità sulla presunta inferiorità etnica degli ex regnicoli. [...] Ci sono del resto studiosi come Alfredo Niceforo che elevano queste vergognose teorie a livello di dimostrazione pseudoscientifica, utilizzando concetti di morfologia umana e di anatomia comparata: il suo Italiani del Nord e italiani del Sud non dispiacerebbe ad Alfred Rosenberg, come farebbe la felicità Adolf di Hitler l'altro libro L'italia barbara contemporanea, in cui l'eminente razzista definisce i napoletani come un popolo femminile, mentre i settentrionali naturalmente sarebbero un popolo maschile, in altre parole una specie di Herrenfolk. (da L'inchiesta Saredo, pp. 336-337)
  • Il periodo a cavallo del nuovo secolo coincide con l'ultima testimonianza che Napoli dà in forma globale della propria autonomia culturale ed etnica prima che la bufera della guerra mondiale la investa, trascinandola come un fiume di detriti nella marea dell'unità finalmente raggiunta, anche se a carissimo prezzo. Cantati da poeti e musicisti, narrati da giornalisti e romanzieri, rievocati da pittori e sospirati da intere generazioni di emigranti, i «tiempe belle 'e na vota» si trasfigurano nella memoria collettiva della città fino a confondersi con una mitica età dell'oro [...]. Paradossalmente, questa «età dell'oro» di Napoli, del suo dialetto e della sua arte cade nei decenni successivi alla perdita dell'indipendenza. Il brusco impatto con la «piemontesizzazione», poi quello meno violento con la comunità nazionale e la sua cultura (che del resto è sempre stata quella degli intellettuali napoletani) hanno l'effetto imprevedibile di rianimare il genio locale. È come se, nella luce del tramonto, gli abitanti della vecchia capitale rivedessero di colpo tutto il loro passato; come se un'ultima illusione trasformasse la misera plebe dei quartieri più fatiscenti nei popolani felici di Basile e Cortese, e i borghesi in landau alla Riviera di Chiaia nei grandi signori del Vicereame, nelle dame galanti e nei gentiluomini illuminati del secolo XVIII. L'esplosione è retrospettiva: non apre un discorso nuovo, chiude i conti con la vecchia capitale delle Due Sicile. A partire non sono soltanto gli emigranti: è tutta Napoli che indugia ancora per un istante sul molo della sua storia, prima di intraprendere la navigazione verso una terra che, nonostante tutto, è straniera per i quattro quinti della sua popolazione quasi quanto Buenos Aires o New York. (da I tempi belli, pp. 342-343)
  • Toccato il fondo della disperazione, constatata per diretta esperienza la disintegrazione dei poteri costituiti, bruciata ogni fiducia nei valori tradizionali della società borghese, la popolazione più scettica e paziente d'Europa diventa paradossalmente la protagonista della prima rivolta europea contro la dominazione hitleriana. Tutti i ceti sociali, le donne, i giovanissimi partecipano alla rivolta. Vistosa è la sproporzione tra i miseri mezzi di cui dispongono i ribelli e lo strapotente armamento di un nemico che si ispira ad una concezione di guerra totale senza precedenti nella storia. La crescente vicinanza del corpo di spedizione angloamericano agevola, anche sotto il profilo psicologico, il compito dei patrioti; ma l'andamento delle quattro giornate di Napoli, dopo le prime trentasei ore di resistenza seguite all'annuncio dell'armistizio, documenta eloquentemente le qualità morali e il coraggio del popolo napoletano. (da Partigiani e sciuscià, pp. 512-513)

Citazioni su Antonio Ghirelli

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  • Il Ghirelli è stato il rigeneratore del giornalismo sportivo, propugnatore di un mestiere oggi scaduto a robetta da cicisbei, medriocri servitori dell'asso di turno, ripetitori di frasi fatte, incolti seminatori di zizzania, svirgolettatori avulsi della riga. Ghirelli creò il più bel Tuttosport, a misura di lettore per quei tempi [...], aprendolo alla vista del mondo, cioè alla cultura. Perché prima di Ghirelli, il giornalismo sportivo faceva i vocalizzi con la penna [...]. Ghirelli ha lasciato qualcosa di se stesso in tutti quelli che lo hanno capito. È stato un valido maestro [...], non soltanto un grande giornalista o uno scrittore dalla pagina attanagliante. (Vladimiro Caminiti)
  • Il giornalismo sportivo, io penso, deve molto a Ghirelli nel senso di una partecipazione emotiva e pur razionale che ne allargò i confini popolari [...]. Il giornalismo sportivo con Ghirelli fu cultura. (Vladimiro Caminiti)

Note

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  1. Citato in Marco Sappino (a cura di), Dizionario del calcio italiano vol. 2, Milano, Baldini, Castoldi & Dalai, 2000, p. 54.
  2. Da È sempre lei la Fidanzata d'Italia, Guerin Sportivo nº 21 (1047), 24-30 maggio 1995, p. 13.
  3. Da Storia del calcio in Italia; citato in Mimma Caligaris, Grig100. Un secolo di Alessandria in cento partite, Alessandria, Il Piccolo, 2012, p. 11.
  4. Da Introduzione a Salvatore Di Giacomo, Tutte le poesie, Newton ẟ Compton, 1997, p. 9. ISBN 88-8183-643-2

Bibliografia

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  • Antonio Ghirelli, Aspettando la rivoluzione. Cento anni di sinistra italiana, Oscar storia, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 2008. ISBN 978-88-04-57994-6
  • Antonio Ghirelli, Storia di Napoli, Einaudi, Torino, 1992. ISBN 88-06-12974-0

Altri progetti

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