Catherine Belton
Catherine Elizabeth Belton (1973 – vivente), giornalista e scrittrice britannica.
Citazioni di Catherine Belton
[modifica]- Negli ultimi due anni Putin si è isolato sempre di più [...]. Un numero sempre minore di persone può vederlo o frequentarlo. All'inizio gli oligarchi di Eltsin potevano avvicinarsi a lui. Fino al 2014 ascoltava i loro consigli. Ma negli ultimi anni, soprattutto durante il Covid, lui si è molto isolato nel cosiddetto bunker dove possono accedere pochissime persone, soltanto i più oltranzisti del Cremlino. Tra questi Nikolai Patrushev, suo vecchio amico, dei Servizi segreti e che adesso è a capo del Consiglio di sicurezza e che è il membro più oltranzista dei suo circolo. [...] È lui [...] che gli dice che l'Ucraina viene utilizzata dall'America come una forza per mettere fine al suo regime e che l'Ucraina e gli ucraini sono stati portati nel conflitto con la Russia. Questa volta è stato lui il disinformato quando ha deciso di invadere l'Ucraina. Pensava di essere accolto a braccia aperte e pensava di conquistare Kiev nel giro di pochi giorni. In realtà lui si è trovato di fronte a una resistenza molto più aspra sia da parte dell'Ucraina sia da parte dell'Occidente.[1]
Intervista di Michela A.G. Iaccarino, huffingtonpost.it, 23 novembre 2020.
- Negli anni '90 si è formata quella generazione di oligarchi che ha beneficiato delle privatizzazioni e ha cominciato a investire in Occidente, ma in quegli anni i tycoon rimanevano ancora indipendenti e non controllabili dal Cremlino. Anzi, in principio dettavano le regole negli anni di Eltsin. Dopo un paio di processi spettacolo agli uomini più ricchi della Federazione, le cose sono cambiate: adesso i magnati possono rimanere a capo delle loro compagnie solo rimanendo nella lista degli alleati di Mosca.
- [...] non pensavo che lo schema corruttivo russo funzionasse così bene da arrivare oltre confine, o che il regime Putin ottenesse tanto successo ad Ovest. Quando sono andata via da Mosca, ho capito che le operazioni si erano mosse fino a qui, in Europa, con il finanziamento di partiti di estrema sinistra ed estrema destra, Italia compresa, per dividere l'Ue. Gli inquirenti dell'agenzia anti-crimine britannica, per esempio, non sono riusciti ad investigare adeguatamente i fondi russi finiti nella campagna Leave durante il referendum per la Brexit. In generale decine di milioni di dollari in arrivo dalla Russia non vengono tracciati, servono a corrompere ufficiali, finiscono in hedge fund, se non vinceremo la sfida della trasparenza, la nostra democrazia verrà sovvertita da questi capitali.
- [Su Russiagate] L'influenza di Mosca alle elezioni 2016 è stata palese, quasi come se volessero essere scoperti, e non c'è stata un'elezione più importante di questa appena conclusasi negli ultimi anni. Alla luce dei risultati, penso a quello che Putin disse un paio di anni fa ad un mio collega del Financial Times: "la democrazia liberale è finita". Non so con quanta certezza potrebbe affermarlo ora.
ilfoglio.it, 15 luglio 2022.
- Da quando Putin ha ordinato l'invasione del 24 febbraio, prendendo alla sprovvista gran parte dell'élite del paese, Patrushev è diventato un avatar della linea dura per una Russia militarista.
- L'ascesa di Patrushev sottolinea l'influenza della linea dura degli ex uomini del Kgb, che da oltre vent'anni combattono con i tecnocrati di orientamento liberale per arrivare all'orecchio di Putin.
- Da quando Putin è stato nominato capo dell'Fsb nel 1998, l'agenzia successiva al Kgb, e ha iniziato la sua rapida ascesa alla presidenza russa, Patrushev è sempre stato al suo fianco. Secondo Mark Galeotti, professore onorario alla School of Slavonic and East European Studies della University College London, Patrushev è stato a lungo "il diavolo sulla spalla di Putin che gli sussurrava veleno nell'orecchio".
- Quando Putin improvvisamente ha scavalcato Patrushev per diventare capo dell'Fsb, Patrushev fu invidioso, ha detto la persona vicina a entrambi gli uomini. "Putin non era nessuno. Putin era un tenente colonnello, e Patrushev era già un colonnello generale". Un ex alto ufficiale del Kgb che ha lavorato con Putin è d'accordo. "Patrushev era più anziano e più alto nei ranghi. Ma Putin prese il suo posto perché era più vicino al presidente Boris Eltsin", ha detto questa persona. Più tardi, quando Putin venne scelto da Eltsin per diventare primo ministro, Patrushev prese il posto di Putin come capo dell'Fsb. Da quel momento, Patrushev si assicurò sia che Putin rimanesse al potere sia di controllarlo, ha detto la persona vicina a entrambi gli uomini.
ilfoglio.it, 29 ottobre 2022.
- Un politico russo di alto livello ha elogiato Ilan Shor definendolo "un degno partner a lungo termine" e ha offerto alla regione moldava guidata dal partito di Shor un accordo sul gas russo a basso costo. Chiamato "il giovane" dai servizi russi, l'Fsb, il 35enne Shor è una figura di spicco nei tentativi del Cremlino di sovvertire il governo dell'ex repubblica sovietica, come dimostrano documenti di intelligence e interviste a funzionari moldavi, ucraini e occidentali, che fanno parte di materiali sensibili ottenuti dall'intelligence ucraina ed esaminati dal Washington Post. L'Fsb ha incanalato decine di milioni di dollari provenienti da alcune delle più grandi aziende statali russe per coltivare una rete di politici moldavi e riorientare il paese verso Mosca.
- Il controllo della gestione dei due principali canali televisivi filorussi della Moldavia è stato trasferito a uno stretto collaboratore di Shor alla fine di settembre, secondo quanto riferito da Shor e dal capo del consiglio di supervisione dei media della Moldavia, fornendogli un'importante piattaforma per promuovere un'agenda allineata a Mosca in questo piccolo paese incastrato tra Ucraina e Romania. Inoltre l'Fsb ha inviato un gruppo di strateghi russi per consigliare il partito di Shor e posizionarlo come un partito "di azione concreta", populista "nel vero senso della parola", un partito che stava "cambiando la vita della gente in meglio".
- Mosca ha rapidamente intensificato la ricerca di un sostituto di Dodon. Shor, che era entrato in politica da un passato di presidente di un'importante banca moldava e di una catena di negozi duty-free, era visto come un populista showman manipolabile.
ilfoglio.it, 3 gennaio 2024.
- Secondo documenti del Cremlino e interviste con funzionari della sicurezza europea e figure politiche di estrema destra, la Russia ha intensificato i suoi sforzi per minare il sostegno francese a Kyiv attraverso un fronte di propaganda nascosto in Europa occidentale che fa parte della guerra contro l'Ucraina. [...] I documenti del Cremlino, ottenuti da un servizio di sicurezza europeo ed esaminati dal Washington Post, mostrano che Sergei Kiriyenko, il primo vice capo di gabinetto dell'Amministrazione del presidente Vladimir Putin, ha incaricato gli strateghi politici del Cremlino di promuovere la discordia politica in Francia attraverso i social media e le figure politiche, gli opinionisti e gli attivisti francesi. L'obiettivo di Mosca è minare il sostegno all'Ucraina e indebolire la determinazione della Nato. Lo sforzo è parallelo a un'interferenza simile in Germania, dove il Cremlino ha tentato di unire l'estrema destra e l'estrema sinistra in un'alleanza contro la guerra.
- [...] nel 2023, il gruppo del Cremlino di Kiriyenko ordinò agli strateghi di promuovere messaggi per aumentare il numero di francesi riluttanti a "pagare per la guerra di un altro paese", come risulta da uno dei documenti. È stato anche chiesto loro di aumentare "il timore di un confronto diretto con la Russia e dell'inizio della Terza guerra mondiale con la partecipazione dell'Europa" e di incrementare il numero di coloro che vogliono "un dialogo con la Russia sulla costruzione di un'architettura di sicurezza comune europea". Secondo i documenti, gli Stati Uniti avrebbero usato l'Ucraina come strumento per indebolire la posizione della Russia in Europa. I documenti mostrano anche che le fabbriche di troll create dagli strateghi politici del Cremlino hanno prodotto e pubblicato contenuti e articoli sui social media critici nei confronti del sostegno occidentale al governo del presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Una nota scritta da uno degli strateghi nel giugno del 2023 ordinava a un impiegato di una fabbrica di troll di creare un "commento di 200 caratteri da parte di un francese di mezza età" che considera il sostegno dell'Europa all'Ucraina "una stupida avventura". Il personaggio francese immaginario avrebbe dovuto anche sostenere che il sostegno all'Ucraina si sta trasformando in "inflazione ... e un calo del tenore di vita".
- Dopo un'inchiesta pubblicata quest'anno sulle interferenze straniere nel processo politico francese, il Parlamento francese si è concentrato sul Cremlino, dichiarando nel suo rapporto finale: "La Russia sta conducendo una campagna di disinformazione a lungo termine nel nostro paese" che mira a "difendere e promuovere gli interessi russi e a polarizzare la nostra società democratica". Il rapporto ha anche evidenziato il ruolo del Rassemblement National di Le Pen, scoprendo che il partito "mantiene molti legami privilegiati con il Cremlino" e ha effettivamente agito come "canale di comunicazione" per le sue opinioni.
Gli uomini di Putin
[modifica]Incipit
[modifica]Era una tarda sera di maggio del 2015 e Sergej Pugačëv sfogliava un vecchio album di foto di famiglia che risaliva a tredici anni prima o più. In una foto, a una festa di compleanno nella sua dača di Mosca, suo figlio Viktor tiene gli occhi bassi mentre la figlia di Vladimir Putin, Maria, sorride e gli sussurra qualcosa all'orecchio. In un'altra, Viktor e l'altro figlio Aleksandr sono in posa su una scala a chiocciola di legno nella biblioteca presidenziale del Cremlino con le due figlie di Putin. Ai margini della foto, Ljudmila Putina, allora ancora sposata con il presidente russo, sorride.
Citazioni
[modifica]- Agli occhi degli alleati di Putin al KGB, i patti stretti allora erano l'unico modo per ristabilire un certo controllo dopo il caos del collasso sovietico. I gruppi della criminalità organizzata erano la fanteria di cui loro avevano bisogno per controllare le masse, gli uomini della strada – nonché quelli in carcere, secondo uno dei soci di Putin dell'epoca. Questa era una pratica tipica del KGB, forgiata nel passato sovietico, quando Putin per esempio aveva gestito operazioni illegali attraverso la Germania Est. "Lavoravano con le persone. Ecco quello che facevano", disse un ex agente del KGB che aveva collaborato con loro. "Immaginate di dover calmare un branco di maschi alfa. Se non gli potete sparare, è un lavoro molto difficile". Ma l'argomento secondo cui dovevano farlo per riportare ordine era solo una scusa per giustificare l'accaparramento del potere. (pp. 144-145)
- Anche se la perdita dell'impero e la sconfitta nella pluridecennale guerra fredda colpì con forza uomini come Jakunin, egli fu uno di quelli che si affrettarono ad abbracciare il nuovo capitalismo della Russia. E benché dicesse di rimpiangere i tempi delle certezze, e la morale e i valori che riteneva fossero il fondamento del comunismo, questo non gli impedì di gettarsi negli affari ancor prima che l'Unione Sovietica fosse crollata, e di intascare grandi quantità di denaro sia per sé sia soprattutto per contribuire a conservare le reti del KGB. (p. 146)
- Benché Eltsin tentasse di infilare nel suo governo i cosiddetti "giovani riformisti" che tentavano di liberare l'economia russa dal controllo statale e di gestire il paese secondo i criteri di trasparenza dettati dalle istituzioni dell'Occidente, le regole economiche erano ancora distorte a favore di chi si trovava all'interno degli apparati statali e della comunità dell'intelligence internazionale. Fu tramite questi piani che la Famiglia di Eltsin venne compromessa, ed è rivelatore che il colpo di grazia alle libertà che Eltsin aveva tentato di introdurre in Russia venisse da un membro dell'intelligence internazionale del KGB. Eltsin non era riuscito a evitare che il paese o la sua famiglia ricadessero nelle pratiche del passato. (p. 162)
- Quando Pugačëv ci ripensa oggi e ricorda, dice che non tutta la storia gli appare a fuoco: le continue telefonate, le riunioni che si prolungavano fino a tarda notte. Alcune date si confondono, ricorda solo il periodo dell'anno, il tempo che faceva fuori della finestra. Ma gli incontri, quelli importanti, li ricorda bene, sono stampati per sempre nella sua memoria. Altri sono registrati nelle pagine di diario dell'epoca. Erano i giorni in cui si decideva il futuro della Russia, in cui Pugačëv tentava di agire in fretta, nella convinzione di opporsi alla minaccia dell'avvento di Primakov e dei suoi alleati comunisti – nonché di salvare la pelle propria e di Eltsin. Tanto in fretta da non accorgersi che in verità stava favorendo il ritorno del KGB. La storia di Pugačëv era il racconto inaudito, segreto, di come Putin era andato al potere. Era la storia che la Famiglia di Eltsin non aveva mai voluto rendere pubblica. (p. 170)
- Evgenij Primakov era sempre stato un uomo del consenso, un consumato diplomatico a cui non piaceva agitare le acque. [...] Ma se Primakov era stato il Piano A del KGB per riprendersi il potere, un'altra occasione era in arrivo. Non si sa se per caso o no, minacce legali, timori, rivalità e calcolo politico puro si combinarono in modo tale da portare al vertice della Russia una generazione di uomini del KGB molto più spietati. (p. 182)
- [...] Sergej Stepašin era probabilmente il più liberale fra tutti i leader dei servizi di sicurezza russi; era perfino entrato a far parte del partito politico progressista Jabloko. Malgrado in passato avesse prestato servizio al ministero degli interni sovietico, era uno storico di formazione ed era da tempo vicino a Eltsin. Lavoravano insieme fin da quando Eltsin gli aveva affidato la guida dell'inchiesta federale sul ruolo del KGB nel fallito colpo di stato di agosto. Eppure per Jumašev e Pugačëv Stepašin non era mai stato altro che un candidato ad interim. Stepašin, disse Pugačëv, era vjal'ij – debole, in russo. Non credeva che Stepašin fosse abbastanza deciso da fare ciò che era necessario per proteggerli [...]. Intanto, disse Pugačëv, lui da tempo proponeva il proprio candidato, l'uomo che riteneva il più sicuro e leale: Vladimir Putin. Aveva iniziato a pensare a lui come a un potenziale successore dopo averlo visto gestire con tanta freddezza il nastro di Skuratov con le prostitute. (pp. 182-183)
- Al mondo esterno, parve che la Famiglia di Eltsin stesse correndo un rischio grandissimo. Ma erano in corso altri progetti. Un'escalation dell'offensiva militare russa contro la Cecenia era già stata discussa, disse in seguito Stepašin. La cosa più importante, per i burocrati e gli spin doctor del Cremlino, era trasformare il candidato dall'aria goffa, che era stato loro presentato, in una forza riconosciuta. A prima vista, il materiale non sembrava molto promettente. La gente rubava ancora la parola a Putin nelle riunioni. Il piano era di modellarlo sull'immagine degli eroi televisivi più popolari dell'epoca sovietica. Doveva essere un moderno Max Otto von Stirlitz, una spia sotto copertura che penetrava in profondità nelle linee nemiche per infiltrare la rete di comando della Germania nazista. Putin sarebbe stato il kandidat rezident, il candidato spia, un patriota che avrebbe restaurato lo stato russo. Il loro compito principale era distinguerlo dalla Famiglia di Eltsin, in modo che il pubblico lo percepisse come indipendente. La sua giovinezza, in contrasto con il vecchio e malato Eltsin, doveva concedergli un vantaggio immediato, mentre i canali TV legati al Cremlino tentavano di mostrarlo mentre agiva con decisione contro le incursioni separatiste in Daghestan. Sullo sfondo, Berezovskij era perfettamente capace di organizzare una piccola guerra vittoriosa per contribuire all'ascesa al vertice di Putin, dissero due suoi stretti collaboratori. (pp. 194-195)
- La Famiglia di Eltsin non era caduta per quello che consideravano un colpo di stato delle forze legate al passato comunista, ma per un colpo di stato strisciante dei servizi di sicurezza. Sotto assedio da tutte le parti, aveva avuto poche alternative all'accordo con il KGB. (p. 201)
- Per molto tempo Putin è stato descritto come "presidente per caso". Ma né la sua ascesa al Cremlino né il suo balzo alla presidenza sembrano avere molto a che fare col caso. [...] Se Primakov, come Piano A, rappresentava la minaccia di una rivincita in stile comunista e il rischio molto reale che l'accoppiata Primakov-Lužkov portasse Eltsin e i suoi dietro le sbarre per il resto della vita, Putin era il silovik destinato a salvarli, l'incantatore che continuava a rassicurare la Famiglia sulle proprie idee progressiste, sul fatto che era uno di loro. [...] Ma nella fretta di garantirsi la posizione, la Famiglia di Eltsin cedette le redini a una fazione più giovane di uomini del KGB, che dovettero dimostrarsi molto più spietati nella lotta per il potere rispetto alla generazione di Primakov, più istituzionale. Nel caos degli intrighi del Cremlino e delle guerre tra clan – anche all'interno dei servizi di sicurezza – stavano dando il potere a un gruppo di uomini dei servizi che avevano forgiato la loro alleanza nelle violente lotte di San Pietroburgo ed erano molto più avidi di potere e non si sarebbero fermati di fronte a nulla per dimostrare la loro fedeltà. (pp. 201-203)
- [Sulle bombe nei palazzi in Russia] Dapprima gli investigatori dissero che l'esplosione poteva essere stata una fuga di gas. Poche tra le famiglie che vivevano nel palazzo [in Bujnaksk] avevano a che fare con la Repubblica cecena. Com'era possibile che l'esplosione fosse legata a un lontano conflitto militare? Ma a uno a uno, senza presentare alcuna prova, i funzionari cominciarono a denunciare l'esplosione come un attacco dei terroristi ceceni. Le squadre di emergenza avevano appena finito di estrarre gli ultimi cadaveri carbonizzati dalle rovine di quello che era stato il 19 della via Gurjanova quando, quattro notti dopo, un'altra esplosione cancellò completamente un grigio condominio di nove piani su Kaširskoe Šosse, a sud di Mosca. 119 persone morirono. [...] Mentre la sensazione di emergenza nazionale e di paura aumentava, gli scandali finanziari intorno alla Famiglia di Eltsin venivano allontanati dalle prime pagine dei giornali e Vladimir Putin saliva alla ribalta. Questo fu il momento decisivo in cui Putin prese le redini da Eltsin. All'improvviso, era il comandante in capo del paese, alla testa di una rumorosa campagna di attacchi aerei contro la Cecenia per vendicare gli attentati. (p. 206)
- Era possibile che gli uomini della sicurezza di Putin avessero fatto saltare inaria i loro concittadini del cinico tentativo di creare una crisi che gli assicurasse la conquista della presidenza? La domanda è stata posta più volte, ma le risposte sono ancora incerte. Tutti coloro che erano seriamente coinvolti nelle indagini sembrano essere morti o inaspettatamente arrestati. Eppure senza quelle esplosioni e la concertata compagna militare che ne seguì, è impossibile immaginare che Putin avrebbe mai ottenuto il consenso necessario per sfidare seriamente Primakov e Lužkov. La Famiglia di Eltsin sarebbe rimasta impantanata nelle inchieste sulla Mabetex e la Bank of New York e Putin, essendo il successore designato di Eltsin, sarebbe stato schiacciato insieme a loro. Adesso invece, come a un segnale prestabilito, egli emergeva all'improvviso sicuro di sé e preparato. Era l'eroe d'azione che il 23 settembre aveva ordinato l'attacco aereo contro la capitale cecena Groznyj, mentre Eltsin era completamente sparito dalla scena. Putin parlava al popolo russo il linguaggio della strada, promettendo di "far fuori" i terroristi "stronzi", inveendo contro la repubblica separatista, uno stato criminale in cui "banditi" e "terroristi internazionali" si muovevano liberamente, riducendo in schiavitù, violentando e uccidendo i russi innocenti. Per i russi era una boccata d'aria fresca. In confronto al vecchio e malato Eltsin, tutt'a un tratto avevano un leader autorevole. (pp. 206-207)
- [Sulla seconda guerra cecena] La campagna era un asso nella manica per l'umiliato sentimento nazionale russo. Fece subito apparire il nuovo regime di Putin come una svolta rispetto al caos e dal collasso degli anni di Eltsin. Gli attacchi aerei diedero fiato a dieci anni di frustrazione nazionalistica, esacerbata all'inizio di quello stesso anno, quando le forze della NATO avevano lanciato un'incursione nella tradizionale sfera di influenza russa in Europa Orientale, bombardando il Kosovo nella ex Jugoslavia. Mentre gli attacchi aerei si prolungarono fino all'autunno, distruggendo sempre di più la Cecenia e uccidendo indiscriminatamente migliaia di civili, l'indice dipopolarità di Putin schizzò dal 31 per cento di agosto al 75 di fine novembre. Se era stata pianificata, l'Operazione Successore, come fu chiamata in seguito, stava funzionando: si era formata un'enorme maggioranza pro Putin. (pp. 207-208)
- L'FSB e la polizia di Rjazan' misero in piedi un'enorme operazione per rintracciare i presunti terroristi, isolando l'intera città. Il giorno dopo, il 24 settembre, il ministro degli interni russo Vladimir Rušajlo dichiarò ai capi delle forze dell'ordine di Mosca che era stato sventato un altro attentato a un condominio. Ma appena mezz'ora più tardi Nicolaj Patrušev, il deciso, sboccato direttore dell'FSB che aveva lavorato a stretto contatto con Putin al KGB di San Pietroburgo, raccontò a un giornalista della TV che i sacchi contenevano solo zucchero e che l'intera faccenda non era stata altro che un'esercitazione per testare la vigilanza pubblica. Patrušev era spietato quanto implacabile nelle sue manovre dietro le quinte e le sue nuove spiegazioni non solo contraddicevano Rušajlo, ma parvero sorprendere l'FSB di Rjazan', che sembrava stesse per catturare gli uomini che avevano portato i sacchi. Il residente che aveva contattato la polizia disse in seguito che la sostanza che aveva visto nei sacchi era gialla, con un aspetto più simile al riso che allo zucchero, una descrizione che, secondo gli esperti, si attigliava all'esogeno. (p. 209)
- Se questo era davvero il segreto mortale dietro l'ascesa di Putin, fu il primo agghiacciante indizio di ciò che gli uomini del KGB erano disposti a fare. Per anni si sono susseguite domande sugli attentati, mentre i giornalisti investigativi hanno scritto reportage esaustivi di tutto quanto accadde allora, scontrandosi con i dinieghi del Cremlino di Putin. Recentemente, però, è comparsa una delle prime crepe nella versione del Cremlino. Un ex funzionario ha dichiarato di aver sentito Patrušev parlare direttamente di quello che era successo a Rjazan'. Patrušev un giorno si era infuriato perché il ministro degli interni Vladimir Rušajlo, un sopravvissuto dell'era Eltsin con stretti legami con Berezovskij, aveva quasi mandato a monte l'intera operazione, cercando informazioni compromettenti contro l'FSB e Patrušev. L'FSB era stato costretto a recuperare e a dire che i sacchi non contenevano altro che zucchero per evitare ulteriori indagini. (p. 210)
- Se gli attentati erano un piano dell'FSB, potevano essere attuati senza che la Famiglia di Eltsin lo sapesse o fosse coinvolta. I putiniani del KGB potevano aver preso la spietata iniziativa autonomamente. [...] Ma se c'era un piano dell'FSB, andava ben al di là perfino dei metodi del KGB, che fin dagli anni sessanta aveva sostenuto i gruppi terroristici in Medio Oriente e in Germania per diffondere il caos e dividere l'Occidente. I gruppi terroristici tedeschi gestiti dalla Stasi e dal KGB avevano fatto saltare in aria dei soldati americani nei night di Berlino e dei banchieri tedeschi che si recavano al lavoro, con Vladimir Putin – se il racconto di un ex membro della RAF tedesca è credibile – che gestiva i membri di questi gruppi durante la sua missione a Dresda. Ma era tutta un'altra storia, evidentemente, utilizzare simili tattiche contro i propri concittadini russi. "Non potevo credere, all'epoca, che un cittadino russo fosse pronto a uccidere un simile numero di civili per i propri fini politici", disse un magnate russo che era stato vicino a Berezovskij. "Adesso però, anche se non so se abbiano partecipato o meno, ho una sola certezza: che sono capaci di questo e altro". (p. 212)
- [...] né la storia dell'apparente riluttanza di Putin, né la decisione di Eltsin di dimettersi all'ultimo momento combaciavano con quanto era già accaduto. Né combaciavano con il racconto di Pugačëv o degli altri due funzionari del Cremlino, secondo i quali quella decisione era stata presa molto più tempo prima. Nei mesi precedenti le elezioni parlamentari, Putin si era già sostanzialmente impadronito dell'esercito e dell'intero sistema di forze dell'ordine, compresi i servizi di sicurezza, mentre Eltsin svaniva dalla scena. Putin non poteva agire con tanta decisione, né comportarsi da presidente nella campagna militare contro la Cecenia, se non avesse già ricevuto assicurazioni sul suo futuro. (pp. 215-216)
- Eltsin stava cedendo un paese che era stato rovinato da una crisi economica dopo l'altra. Ma lo stava consegnando a un individuo che era stato aiutato a raggiungere il potere da un gruppo di uomini della sicurezza convinti che il più grande successo dell'era Eltsin – l'instaurazione di valori democratici fondamentali – avesse condotto il paese sull'orlo del collasso. Quando Eltsin cedette la presidenza a Putin, i valori della democrazia apparivano solidi: i governatori venivano eletti, i media erano in gran parte liberi dall'interferenza statale, le Camere alta e bassa del parlamento erano luoghi dove si discuteva criticamente la politica del governo. Ma chi aveva sostenuto l'ascesa di Putin era convinto che Eltsin avesse portato troppo avanti le libertà faticosamente conquistate dal paese e che sotto l'influenza dell'Occidente avesse dato vita a un regime di anarchia portando al potere un'oligarchia corrotta e svenendo il paese. Invece di tentare di rafforzare le istituzioni democratiche per domare gli eccessi e la confusione dell'era Eltsin, intendeva smantellare la democrazia, semplicemente per consolidare il proprio potere al servizio dei propri interessi. [...] Il programma di Putin per uno stato più forte suonava bene per una popolazione profondamente disillusa dagli eccessi di liberalismo dell'era Eltsin. La gente era esausta dopo un decennio in cui era passata da una crisi finanziaria all'altra mentre un pugno di affaristi vicini al potere guadagnavana ricchezze inimmaginabili. Con la giusta coreografia, avevano via libera. (pp. 218-219)
- Non sapremo mai cosa sarebbe successo se Primakov fosse diventato presidente. Ma possiamo affermare che la sua versione della rivincita del KGB non sarebbe durata quanto quella di Putin, e che non si sarebbe comportato in maniera così spietata sul piano internazionale. Il suo attaccamento all'era comunista lo avrebbero reso un bersaglio della reazione. Sarebbe sembrato un dinosauro del passato, mentre una presidenza Stepašin sarebbe stata molto più morbida e probabilmente non avrebbe visto la riduzione delle libertà a cui condusse il regime di Putin. (p. 221)
- [Su Nikolaj Patrušev] Forte bevitore e uomo del KGB, univa una forte etica capitalistica dell'accumulo di ricchezze a una costosa visione della restaurazione dell'impero russo. "È un tipo molto semplice, un sovietico della vecchia scuola. Vuole l'Unione Sovietica, ma con il capitalismo. Considera il capitalismo un'arma" per restaurare la potenza imperiale russa, ha detto una persona a lui vicina che ho avuto modo di intervistare. Un altro stretto alleato di Putin concorda: "Ha sempre avuto forti idee di indipendenza". Patrušev era sempre stato un visionario, un ideologo della ricostruzione dell'impero russo. "Ha una personalità forte. È lui quello che crede davvero nella ricostruzione dell'impero. Ha messo lui queste idee in testa a Vladimir Vladimirovič", racconta ancora l'intervistato. Ma pur essendo un lettore indefesso dei testi su cui l'ambizione geopolitica russa si fondava, Patrušev era anche un lavoratore infaticabile e privo di scrupoli, che non si fermava di fronte a nulla pur di raggiungere il suo obiettivo. Non sapeva parlare senza imprecare e se non gli si rispondeva imprecando non si otteneva il suo rispetto. "Non concepisce altri modi" questa persona a lui vicina. "Non sa parlare o comportarsi altrimenti. Arriva a una riunione e dice: 'Allora, bastardi, cosa cazzo mi avete combinato oggi?'" L'altro alleato di Putin disse solo che Patrušev era sempre stato un duro, mentre Putin all'inizio era più liberale di lui. L'intervistato disse che Patrušev si era sempre considerato più intelligente e più astuto di Putin: "Non ha mai pensato a lui come al suo capo". (pp. 236-237)
- [Su Sergej Borisovič Ivanov] I suoi modi urbani e l'inglese fluente nascondevano una lingua biforcuta e un comportamento a tratti perfido. (p. 237)
- Nascosto fra la massa grigia degli uomini in abiti formali c'era anche Viktor Ivanov, un baffuto agente del KGB che vedeva il mondo rigorosamente attraverso le lenti della guerra fredda. [...] Il suo compito era tenere d'occhio tutti, e secondo una persona a lui vicina aveva "una memoria fenomenale" e conosceva le idiosincrasie di tutti. (pp. 238-239)
- Chi avesse bisogno della firma di Putin per aprire un'azienda doveva prima trattare con Sečin. Quando un imprenditore di San Pietroburgo ebbe bisogno della firma di Putin per una joint venture con una compagnia olandese che commerciava derivati del carbone e del petrolio, i suoi amici gli organizzarono un incontro. Dopo aver parlato, Putin disse all'imprenditore di andare dal suo segretario Igor' Sečin con queste parole: "Lui le dirà quali documenti portare e io li firmerò". "Lasciai l'ufficio e andai da Sečin senza sapere chi fosse", rammentò l'imprenditore, Andrej Korčagin. "Mi stavo chiedendo perché fosse un uomo e non una donna, com'erano di solito le segretarie. Guardavamo i funzionari dall'alto in basso, allora. Cominciammo a parlare dei documenti che mi servivano e poi Sečin all'improvviso si mise a scrivere su un pezzo di carta. Disse: 'E porti anche...' mostrandomi quello che aveva scritto: '10.000 dollari'. Mi arrabbiai moltissimo. 'È impazzito?!' Ma lui rispose: 'Così facciamo gli affari qui'. Gli dissi dove poteva andare – ma fu la fine: non registrammo mai l'impresa. Allora erano tempi tutti diversi. Non avevo idea di chi fosse Sečin. Era così che raccoglievano le tangenti". (p. 239)
- I segnali che Putin stava cercando di creare un tipo di potere differente erano presenti fin dall'inizio. Gli ottimisti sperarono in un primo momento che egli stesse compiendo un atto di funambolismo, cercando di tenere in equilibrio la parte eltsiniana del suo regime, relativamente liberale e relativamente filoatlantico, con gli uomini della sicurezza di San Pietroburgo. Ma l'influenza degli uomini del KGB cominciò a superare di gran lunga tutto il resto. La loro visione del mondo era intrisa della logica della guerra fredda, e a poco a poco finì per caratterizzare anche Putin. Nel tentativo di ristabilire il potere della Russia, consideravano gli Stati Uniti una potenza eternamente votata a dividere il loro paese per indebolirne il potere. Per loro, l'economia doveva essere sfruttata come un'arma prima per ristabilire il potere dello stato russo – e anche il loro potere, di leader del KGB – e poi contro l'Occidente. [...] Il direttore dell'FSB Patrušev, in particolare, aveva cercato di legare Putin al clan della sicurezza del KGB e alle sue idee da guerra fredda. Operava all'interno dell'FSB da più tempo di Putin, con posizioni di vertice nei servizi di sicurezza di Mosca per la maggior parte degli anni novanta, e quando Putin diventò prima direttore dell'FSB e poi presidente, era scettico e pensò di poterlo manipolare. "È sempre stato il più deciso. Putin non era nulla in confronto a lui", disse un dipendente del Cremlino. Patrušev voleva legare Putin alla presidenza in modo che non potesse più lasciarla. Aveva cominciato a farlo fin dall'inizio della corsa alla presidenza di Putin, con gli attentati nei condomini che hanno portato alla guerra cecena. Ma per il primo anno, la Famiglia di Eltsin parve ignorare questa parte della storia; oppure, credendo di aver assicurato la propria posizione, non ne volle sapere. (pp. 246-247)
- Putin era ossessionato dal potere dei media, sapendo fin troppo bene come, con l'aiuto della TV di Berezovskij, era stato trasformato da signor nessuno a leader più popolare del paese. Era consapevole del fatto che senza il controllo delle reti televisive federali del paese, la situazione poteva cambiare da un momento all'altro. (p. 263)
- Più di ogni altro, Boris Berezovskij era l'oligarca simbolo dell'era Eltsin per gli uomini di Putin, da cui veniva insultato, detestato e temuto in egual misura. Era l'incarnazione degli intrighi di quegli anni, quando una ristretta cricca di affaristi contrattava dietro le quinte per ottenere risorse di prim'ordine e posti di governo. I legami che aveva coltivato con i leader separatisti ceceni lo rendevano inviso agli occhi degli uomini del KGB, in particolare Patrušev, che odiava chiunque fosse legato ai ceceni. (p. 263)
- L'appropriazione forse non si sarebbe mai verificata se Chodorkovskij si fosse comportato diversamente. Invece di cedere ai voleri del Cremlino, come avevano fatto in passato Lukoil e Sibneft, Chodorkovskij continuò ad alzare la posta finché la battaglia riguardò effettivamente chi avrebbe governato la Russia e che direzione avrebbe preso il paese. Chodorkovskij era pronto a scommettere qualsiasi cosa che gli uomini di Putin non avrebbero osato arrestarlo: credeva che non fossero abbastanza forti e non avrebbero messo a rischio la precaria transizione della Russia al mercato. Per molti aspetti, era tipico di lui: "Si dedicava alla costruzione del suo impero come un pazzo", rammentò il suo consigliere Christian Michel. "Solo una pallottola poteva fermarlo". (pp. 287-288)
- Fu quello il momento in cui la Russia prese irrimediabilmente le distanze dall'integrazione globale e guida occidentale e intraprese una propria strada destinata a scontrarsi con l'Occidente. Fu il punto di non ritorno per il gruppo di uomini della sicurezza che avevano fatto pressioni e complottato e alla fine erano riusciti a convincere Putin che non c'era altro modo per assicurare la ripresa dello stato russo – e il proprio vantaggio economico. [...] L'arresto di Chodorkovskij fu uno shock per tutto il mondo degli affari. Era l'uomo più ricco del paese, il più importante sostenitore del mercato, l'uomo che era stato sul punto di realizzare l'affare del secolo: vendere la sua azienda a 25 miliardi di dollari solo sette anni dopo averla acquistata per 300 milioni. Se lo si poteva abbattere, poteva accadere lo stesso a chiunque. [...] Ciò che accadde a Chodorkovskij era la vendetta per gli anni novanta, quando il KGB era stato costretto ad aspettare, messo ai margini dal crescente potere dei magnati moscoviti filoccidentali. "Quello che sta accadendo adesso con Putin è la rivincita del KGB", disse un ex ufficiale dell'intelligence militare. "Il KGB aveva creato gli oligarchi e loro avrebbero dovuto essere al suo servizio. Adesso il KGB si stava prendendo la sua rivincita". (305-307)
- [Sulla crisi del teatro Dubrovka] Ciò che accadde al Cremlino la notte in cui il teatro fu preso d'assalto è stato sepolto da allora dietro a un muro di segretezza. Ma di recente pare essersi aperta una breccia. Una fonte dice di essere stata coinvolta nelle discussioni che si svolsero al Cremlino in quel momento: quanto accadde fu l'esito disastroso di un piano che non era andato come doveva. Secondo il suo racconto, l'attacco al teatro fu pianificato da Nikolaj Patrušev, il perverso direttore dell'FSB, per cementare la presidenza di Putin. Non doveva essere altro che una messa in scena; l'idea era, una volta conclusa con successo l'operazione, di rafforzare l'autorevolezza del presidente e dare nuova linfa alla propaganda anticecena, che cominciava a languire. [...] Ma tutto andò a rotoli il primo giorno dell'assedio, quando uno dei combattenti uccise un civile che tentava di entrare nel teatro. Putin sprofondò nel panico, dice la fonte: "Tutto uscì fuori controllo. Nessuno sapeva su chi o cosa fare affidamento". (pp. 313-314)
- [Sulla crisi del teatro Dubrovka] [...] al termine delle indagini, i procuratori scoprirono che le due bombe principali collocate all'interno dell'auditorium erano sostanzialmente un inganno. Almeno una parte di quanto diceva la fonte suonava vera. "Le bombe non erano state preparate per essere usate: i detonatori non avevano alcun innesco", diceva il rapporto. "Non c'erano batterie... Le bombe si rivelarono a salve". Lo stesso dicasi per le cinture esplosive, nonché per altri esplosivi. Molte delle donne con le cinture erano con gli ostaggi nell'auditorium, ma anziché azionare l'esplosivo come avevano minacciato, persero i sensi per il gas. Invece di prenderle per interrogarle e arrivare al fondo della trama terroristica, i servizi di sicurezza russi le uccisero tutte. (p. 315)
- [Sulla crisi del teatro Dubrovka] Subito dopo l'assedio, molte delle questioni irrisolte vennero accantonate e la maggior parte della popolazione si limitò a tirare un sospiro, sollevata per il fatto che le vittime non fossero state di più. Putin venne lodato sia dai leader internazionali che dai politici locali per come aveva gestito la situazione. Il suo indice di popolarità non era mai stato così alto da quando era stato eletto. Invece di un rimpasto, per aver consentito a un gruppo di terroristi armati di arrivare al centro di Mosca, i servizi di sicurezza russi ottennero una ricompensa con l'aumento dei fondi. E l'attacco permise agli uomini di Putin di intensificare la loro azione militare in Cecenia, stracciando i piani di riduzione delle truppe. Innumerevoli ceceni cominciarono a sparire dalle loro case in seguito a irruzioni notturne e l'urgenza che aveva il Cremlino d'intavolare le trattative di pace con il leader ceceno Alan Maškadov, da un giorno all'altro, svanì. La guerra era tornata a godere del sostegno popolare. Maškadov era stato completamente screditato; le autorità russe lo accusarono di essere il mandante dell'attacco, ma senza mai presentare alcuna prova, a parte un vecchio video con minacce di un'offensiva, e Maškadov stesso negò qualsiasi coinvolgimento. (p. 316)
- Quando Chodorkovskij fu arrestato [...] Kas'janov fu uno dei due funzionari russi che osarono protestare. Ma a una riunione del gabinetto, davanti a tutti, Putin gli disse seccamente di "smetterla con le isterie". (p. 324)
- Era stato difficile per Ljudmila abituarsi alle continue assenze del marito. Per tutta la sua carriera, aveva lavorato molto, ma adesso le ore di lavoro sembravano non finire mai. Come se si vergognasse di lei, Putin teneva le distanze e la portava sempre meno con sé nelle visite ufficiali e nei viaggi. Quando tornava a casa, spesso in piena notte, preferiva mettersi seduto in patofole a guardare superficiali serie TV piuttosto che trascorrere del tempo con la moglie. (p. 327)
- [...] Pugačëv aveva visto crescere il potere degli uomini del KGB con un vago disagio. Negli anni ottanta aveva combattuto il KGB nella sua città natale di Leningrado. Allora faceva il cambiavalute illegale e il KGB era il suo nemico giurato, quello che tentava di ostacolarlo minacciando di mandarlo in prigione. Ma aveva anche imparato a corrompere gli agenti del KGB. E adesso si inginocchiava di fronte ai nuovi potenti, li invitava spesso a casa sua, rideva familiarmente con Vitja [Viktor Ivanov] e Igor' [Sečin]. Era diventato senatore del Consiglio Federale. Ma era ancora considerato un faccendiere che lavorava dietro le quinte. Per qualche tempo aveva avuto un ufficio al Cremlino, di fronte a quello del capo del gabinetto. E per qualche tempo Putin l'aveva frequentato spessissimo.
Ma adesso Pugačëv dice di essere sempre stato preoccupato dalla direzione che stavano prendendo le cose, dalla stretta sulle libertà, dai fatti che avevano cementato la presa del potere di Putin. Per quanto dica di aver spesso sollevato questi argomenti, scelse di non fare nulla, ritenendo di poter essere più influente dall'interno che facendo opposizione e prendendo le distanze. Pensava di poter agire meglio da freno sulle tendenze autoritarie di Putin e dei suoi uomini se restava loro vicino. Ma di fatto amava il suo potere e il suo status quanto loro. E in ogni caso era convinto di non avere molta scelta [...]. (pp. 327-328) - Sembrava strano per un agente del KGB che aveva lavorato al servizio di uno stato che impediva per legge alla Chiesa ortodossa di professare la sua fede. Ma a uno a uno gli uomini del KGB giunti al potere con Putin, che erano gli artefici della sua ascesa, seguirono l'esempio. Fin dall'inizio erano alla ricerca di una nuova identità nazionale. I principi della Chiesa ortodossa fornivano un potente credo unificante che risaliva a prima dell'era sovietica, ai giorni del passato imperiale della Russia, e parlava dei grandi sacrifici, delle sofferenze e della capacità di resistenza del popolo russo, e della convinzione mistica che le Russia fosse la Terza Roma, destinata a governare sul mondo intero. Era un materiale ideale con cui ricostruire una nazione dopo le difficoltà e le privazioni. Secondo un oligarca che guardava con scetticismo a quell'impennata di fede religiosa, fu un valido strumento per fare dei russi dei nuovi servi della gleba e mantenerli nel Medioevo, in modo che lo zar Putin potesse governare con un potere assoluto: "In Russia il XX secolo – e adesso il XXI – è stato una continuazione del XVI: lo zar sopra tutto il resto, il suo governo come sacro e voluto dal cielo... Questo potere sacro crea intorno a sé un cordone di immunità impenetrabile. Le autorità non possono essere colpevoli di nulla. Sono sempre assolutamente nel giusto". (p. 329)
- Secondo Pugačëv, che era un praticante devoto fin dall'adolescenza, Putin capiva ben poco della vera fede ortodossa. Pugačëv spesso si accusava per la piega che avevano preso le cose, perché era stato lui a presentare Putin a padre Tichon Ševkunov, il prete diventato famoso come "confessore" di Putin. Ma l'alleanza, disse Pugačëv, tornò utile a entrambe le parti: a Ševkunov, permise di mettere in rilievo la Chiesa ortodossa e i suoi insegnamenti, e portò ricchezze e finanziamenti al suo monastero Sretenskij; per Putin, era parte del suo appello alle masse, e nient'altro. (pp. 329-330)
- [Sulla strage di Beslan] Putin acconsentì a malincuore a un'inchiesta parlamentare, ma presieduta da un alleato fedele, Aleksandr Toršin, un senatore con legami di lunga data con l'FSB. Difficilmente la si poteva considerare un'inchiesta indipendente, e quando il lavoro fu concluso, più di due anni dopo, il risultato fu che uno dei terroristi aveva causato la distruzione della scuola facendo esplodere intenzionalmente una delle bombe. [...] Questo è del tutto incoerente con i racconti dei testimoni oculari, e pure la conclusione che la prima esplosione fosse stata causata da un terrorista non trovava riscontro coi risultati di altre inchieste. Una di queste inchieste è stata condotta dal presidente del parlamento dell'Ossezia del Nord, Stanislav Kesaev, che era presente all'assedio. Essa riportava la testimonianza di un sequestratore catturato, secondo cui la prima esplosione era stata innescata quando un cecchino aveva ucciso uno dei terroristi che aveva i piedi appoggiati sui detonatori.
È stato relativamente facile per la commissione di Toršin mettere in dubbio questa affermazione, perché le finestre della scuola erano opache, il che rendeva quasi impossibile per un cecchino vedere all'interno. Ma è stato molto più difficile respingere le conclusioni di una terza inchiesta condotta da un esperto di armi ed esplosivi, Jurij Savelev, deputato indipendente alla Duma, che scoprì che le esplosioni iniziali potevano essere state causate solo da razzi provenienti dall'esterno della scuola. Il suo rapporto concludeva che le forze speciali avevano sparato razzi con granate senza preavviso, mentre le trattative erano ancora in corso. In sostanza, scoprì che era stato l'intervento delle forze russe a provocare la serie di esplosioni all'origine di tante morti inutili. (pp. 335-336) - [Sulla strage di Beslan] L'entità della carneficina verificatasi quel giorno rendeva difficile presentare prove assolutamente conclusive. Ma l'affermazione secondo cui i primi colpi sarebbero stati sparati dall'esterno della scuola è stata ripetuta dagli ostaggi sopravvissuti intervistati dal Los Angeles Times. Uno di loro ha raccontato dello shock sui volti dei sequestratori quando iniziarono le esplosioni: "Non si aspettavano lo scoppio. E quella frase, non la dimenticherò mai: 'Sono stati i vostri a farvi saltare in aria'. Uno dei sequestratori la ripeté più volte, con una voce molto profonda. Non lo dimenticherò mai". È possibile, come ha suggerito un ex dipendente del Cremlino, che le autorità russe abbiano ordinato la sparatoria che scatenò l'attacco alla scuola perché non volevano rischiare l'arrivo di Maschadov, l'ex capo dei ribelli e loro nemico giurato, per le trattative? Le prime esplosioni si verificarono appena un'ora dopo che il suo aiutante aveva comunicato che sarebbe venuto a negoziare. Era una voce troppo terribile anche solo da prendere in considerazione. (p. 337)
- [Sulla strage di Beslan] Nonostante le inchieste sembrassero dimostrare che la maggior parte delle vitime a Beslan erano state provocate dall'intervento delle forze russe, quello che si verificò in seguito fu l'inizio di un mare di cambiamenti, nella Russia di Putin, mentre i suoi uomini del KGB cercavano di rafforzare ulteriormente la loro presa. La risposta, dichiarò Putin, sarebbe stata il più importante cambiamento costituzionale della storia postsovietica del paese. La Russia, annunciò dieci giorni dopo l'attacco di Beslan, aboliva le elezioni dei governatori regionali. Questo era ben altro rispetto ai tentativi di controllare i poteri dei governatori regionali già attuati dal Cremlino. Adesso, invece di essere eletti, i governatori sarebbero stati nominati direttamente dal Cremlino, e confermati dai parlamenti regionali. La mossa avrebbe rafforzato il sistema contro le minacce esterne, disse Putin: "Gli organizzatori e gli autori dell'attacco terroristico mirano alla disintegrazione dello stato, alla disgregazione della Russia... Il sistema del potere statale deve non solo reagire alla tragedia di Beslan, ma prevenire il ripetersi di una crisi simile". (p. 339)
- I commentatori politici indipendenti come Nikolaj Petrov, e i membri indipendenti della Duma, avvertirono che si trattava di un ritorno alle pratiche sovietiche, il che equivaleva a sua volta a un ritorno a un sistema a partito unico in cui il Cremlino governava supremo. Era il totale annullamento di una delle libertà più importanti conquistate negli anni Eltsin, l'eliminazione di un sistema che aveva dato agli elettori e alle élite regionali una delle più importanti lezioni di democrazia locale. Ma il Cremlino sosteneva che stava eliminando un sistema ormai corrotto, che aveva permesso che le elezioni dei governatori regionali fossero comprate da coloro che potevano investirvi più soldi. La giovane democrazia russa era troppo debole per rischiare elezioni dirette. La minaccia esterna alla sua unità era troppo grande. Gli uomini di Putin stavano costruendo una Russia fortezza, dipingendo un paese sotto assedio da parte di una minaccia esterna. Ma in realtà erano intenti solo a preservare il proprio potere. L'establishment di Putin in politica estera si era a lungo scagliato contro l'Occidente per aver dato rifugio ad alcuni presunti sostenitori dei terroristi ceceni, Achmed Zakaev in Gran Bretagna e Il'jas Achmadov negli Stati Uniti. Si era chiesto se i ribelli ceceni avessero usato la Gola di Pankisi, una stretta valle che corre tra la Georgia e il Caucaso settentrionale, come via per lanciare attacchi terroristici sul suolo russo. Ma fino a quel momento gli uomini di Putin avevano raramente accennato in pubblico all'idea che l'Occidente fosse intenzionato a spaccare la Russia. (p. 340)
- [Sulla rivoluzione arancione] Per Putin e i suoi sostenitori fu una sconfitta devastante, che molti non hanno ancora dimenticato. Le ricadute di quella che è diventata nota come "Rivoluzione arancione" furono così grandi, il colpo ai piani del Cremlino così micidiale, che, secondo due persone che gli erano vicine, Putin pensò di dimettersi. Ma il fatto è che nessuno nella sua cerchia ristretta voleva prendere il suo posto, nessuno era disposto ad assumersi l'immensa responsabilità. (p. 345)
- [Sulle rivoluzioni colorate] A Putin e ai suoi alleati, le forze dell'Occidente sembravano attivarsi tutt'intorno a loro, invadendo la sfera di influenza della Russia e minacciando di raggiungere il paese stesso. Il peggiore incubo dei putiniani del KGB era che, ispirati dagli eventi nei paesi vicini, gli oppositori russi finanziati dall'Occidente tentassero di rovesciare anche il regime di Putin. Questa era la cupa paranoia che colorava e guidava molte delle azioni che dovevano intraprendere da quel momento in poi. [...] Quello che era successo in Ucraina e in Georgia avrebbe influenzato per molti anni le azioni del Cremlino di Putin. Sentendosi impegnati a combattere per l'impero e per la loro sopravvivenza, essi non potevano permettere l'emergere di alcuna influenza esterna – un fattore che senza dubbio influì sulla loro decisione di abolire le elezioni dei governatori regionali. (p. 345)
- Il caso che emerse da un dibattimento durante undici mesi, centinaia di ore di controinterrogatori e testimonianze in aula, fu quello che gettò le fondamenta del capitalismo di stato di Putin. Esso aprì la strada ai suoi uomini del KGB per prendere il controllo dei "vertici" strategici dell'economia del paese, e costituì un precedente per trasformare la magistratura russa nella longa manus dei siloviki di Putin. Il processo contribuì a modificare l'intero sistema delle forze dell'ordine – la polizia, i procuratori e i tribunali – facendone una macchina rapace che assunse il controllo delle imprese ed eliminò i rivali politici dell'élite putiniana al potere. Al termine del processo, ogni anno migliaia di uomini d'affari venivano tenuti in custodia cautelare, e molti venivano rilasciati solo quando accettavano di cedere le loro imprese. Era l'arma più rozza a disposizione dei siloviki in un arsenale legale che venne infine sistematizzato per l'FSB e le forze dell'ordine di tutto il paese, su scala grande e piccola. L'eliminazione di Chodorkovskij diede carta bianca agli uomini della sicurezza di Putin in misura tale che nel 2012 oltre il 50 per cento del PIL russo era sotto il controllo diretto dello stato e degli operatori economici strettamente legati a Putin, una gigantesca e rapida inversione di tendenza dai tempi del processo Chodorkovskij, quando oltre il 70 per cento dell'economia era in mano ai privati. Ciò alimentò anche una vasta economia sommersa di fondi neri per i rinascenti servizi di sicurezza, in parte frutto di tangenti che fornivano a una legione di agenti dell'FSB, e di altre forze dell'ordine, fuoristrada e appartamenti di lusso ben al di sopra del potere d'acquisto dei loro stipendi. Questo diede agli uomini della sicurezza libero accesso a patti segreti che fecero guadagnare loro migliaia di miliardi di rubli in contanti, messi da parte e poi riciclati in conti correnti occidentali. (p. 349)
- [Sui siloviki] Si consideravano i guardiani della restaurazione della Russia; si dicevano che erano i salvaori della Russia e meritavano di costruire la propria fortuna. Come i leader sovietici prima di loro, erano la personificazione dello stato, i loro interessi erano pienamente allineati. Ma se in precedenza lo stato era sinonimo di Partito, loro stavano ora dando vita all'epoca del capitalismo di stato, in cui le linee di demarcazione tra gli interessi strategici dello stato e i loro interessi individuali dovevano essere quasi indistinguibili. (p. 350)
- Una volta un addetto del Cremlino si lamentò con me che Sečin aveva deliberatamente perso una direttiva concordata con Putin: "Tutti si chiedevano dove fosse. Non era stata pubblicata. Putin disse di averla firmata e di averla data a Igor'... Andai da Sečin e lui disse: 'Ops, dev'essere caduta dietro l'armadio. Ho così tante carte qui'. E così è andata avanti. Lo faceva per dimostrare che era lui che prendeva le decisioni, e che decideva se le cose si facevano o no, e che per decidere dovevo andare da lui". (pp. 357-358)
- Il progetto era stato originariamente concepito come una casa relativamente modesta, da mille metri quadrati. Ma si è ingigantito fino a diventare un opulento palazzo all'italiana di quattromila metri quadrati con tre eliporti, un anfiteatro estivo, un porto turistico e una casa da tè con piscine, del costo di un miliardo di dollari. Quando, dopo la crisi finanziaria del 2008, Putin aveva dato istruzioni perché tutto ciò che era rimasto dei fondi neri della Petromed fosse speso per il suo palazzo invece che per i cantieri navali e altri progetti nell'economia reale, Kolesnikov iniziò a pensare di mollare il colpo. "Si è scoperto che per quindici anni avevo lavorato per dieci ore al giorno, tutti i giorni, per costruire un palazzo allo zar", disse. "Non mi stava bene, ovviamente. Ma quando ho obiettato mi hanno detto: 'Di chi stai parlando? Tu ti stai opponendo allo zar'". (p. 401)
- Gli uomini di Putin replicavano i sistemi gestiti dal KGB in passato, in cui le esportazioni di petrolio erano state una fonte chiave di fondi neri. La Russia si era liberata delle regole dell'economia pianificata ed era diventata un partecipante a pieno titolo all'economia di mercato globale. Ma ora che Putin e i suoi uomini del KGB avevano preso il potere, stavano trasformando il modo in cui la Russia interagiva con esso, esercitando una forma di capitalismo di stato in base a cui, proprio come i documenti del KGB in vista della transizione al mercato avevano raccomandato tanto tempo prima, custodi fidati come Timčenko agivano per conto del regime. Erano estensioni del Cremlino, non compagnie indipendenti che seguivano solo la legge del massimo interesse insita nelle normali economie occidentali. (p. 410)
- Dopo il processo di Chodorkovskij, gli uomini d'affari russi erano fin troppo consapevoli del fatto che in qualsiasi momento poteva essere aperto contro di loro un procedimento penale, in cui, colpevoli o meno, avrebbero avuto comunque poche probabilità di successo. Stava risorgendo un sistema feudale in cui i proprietari delle più grandi aziende del paese, soprattutto quelle nel settore delle risorse strategiche, cominciavano a operare come manager dipendenti, lavorando per conto dello stato. Non erano altro che guardiani, e conservavano le loro imprese solo per grazia del Cremlino. (pp. 345-436)
- Ciò faceva parte di un patto non scritto che il popolo russo sembrava aver stretto con il suo presidente. Sceglievano di non notare la corruzione dilagante nello stato, l'arbitrio sempre maggiore dell'FSB e di tutti i rami delle forze dell'ordine sulle imprese grandi e piccole. Della stretta sulla libertà di informazione se ne fregavano: bastava che i loro redditi aumentassero, bastava che ci fosse finalmente stabilità. Incominciavano a vivere come i loro vicini europei. Putin e i suoi uomini del KGB, pareva, potevano incarcerare chi volevano, a patto che la classe media emergente potesse organizzare tutti gli anni una vacanza in Turchia o in qualche posto simile. [...] Gli uomini d'affari legati al KGB con cui ho parlato si riferivano spesso a questa mentalità per giustificare le loro azioni e il loro dominio. Era la tragedia della Russia, dicevano, che il suo popolo non volesse partecipare alla politica – anzi, non sapeva come farlo. Questo era profondamente radicato nella mentalità nazionale fin dall'inizio della storia russa, dicevano, scuotendo tristemente la testa. Ma in realtà stavano solo trovando una comoda scusa per convincersi che facevano bene a non permettere al popolo di partecipare alla democrazia. Il KGB aveva imparato bene la lezione del passato sovietico. Invece di uno stato opprimente, il capitalismo era diventato lo strumento che permetteva loro di agire come volevano. (pp. 438-439)
- [Sul denaro russo in Londra] Una delle ragioni per cui le compagnie russe si stavano dirigendo lì in massa era che gli standard richiesti per la quotazione in borsa erano molto meno rigorosi di quelli di New York. Negli Stati Uniti, i regolamenti esigevano che gli amministratori delegati e i direttori finanziari delle società che volevano quotarsi in borsa si impegnassero a garantire l'accuratezza dei bilanci. Se qualcosa si rivelava non vero o fuorviante, veniva trattato come un reato penale. [...] A Londra, tuttavia, le società che quotano le ricevute di deposito globali venivano accolte con favore da un sistema che permetteva un livello di due diligence molto basso, e dava agli investitori la responsabilità di verificare se le informazioni fornite dalla società erano corrette o meno. (pp. 441-442)
- La città era sommersa dal denaro russo. Ma la Russia, invece di cambiare con la sua integrazione nei mercati occidentali, era lei che stava cambiando l'Occidente. I magnati che arrivavano a Londra, e che l'Occidente sperava diventassero le forze indipendenti capaci di guidare il cambiamento, stavano diventando invece sempre più dipendenti dal Cremlino. Erano vassalli dello stato sempre più autoritario e cleptocratico di Putin. Invece di allineare la Russia al sistema fondato sulle regole, l'Occidente si stava corrompendo a poco a poco. Era come se gli si stesse iniettando un virus. (pp. 442-443)
- 150 milioni di sterline (240 milioni di dollari) furono un colpo, sul piano delle pubbliche relazioni. I giornali londinesi rimasero a bocca aperta di fronte al Boeing 767 privato con cui Abramovič si precipitò a Londra per conoscere la sua nuova squadra. [...] L'oligarca misterioso, con la faccia mal rasata e vestito semplicemente in jeans, fu lodato mentre spendeva cifre enormi per comprare giocatori di fama mondiale per il Chelsea e per migliorare il suo stadio di Stamford Bridge. Pochi gli chiesero da dove venissero i suoi soldi. (p. 443)
- Il Cremlino di Putin aveva calcolato accuratamente che il modo per essere accettato dalla società britannica passava attraverso il più grande amore del paese, il suo sport nazionale. Secondo Sergej Pugačëv, fin dall'inizio l'acquisizione aveva lo scopo di creare una testa di ponte per l'influenza russa nel Regno Unito. (pp. 443-444)
- Le fortune fatte sotto Putin erano ben superiori a quelle dell'epoca Eltsin, e il modo in cui i magnati costruivano le loro ricchezze era molto diverso. Tutto era dettato dal Cremlino. Le opportunità negli affari dipendevano da Putin, di cui i magnati e i loro subalterni parlavano sottovoce, chiamandolo "il papà" o "il numero uno" con un dito puntato verso il soffitto per indicarlo. (Molti erano gli incontri a cui andavo dove mi veniva detto di lasciare il telefono su una scrivania fuori dall'ufficio della persona che stavo intervistando, tale era la paura che ci fossero cimici nascoste.) Timorosi e riverenti al tempo stesso, dipendevano dal favore di Putin per avere accesso a prestiti da banche statali o a contratti con il regime, che erano ormai i principali strumenti di lucro in Russia. Era un sistema mafioso in cui gli affari si basavano su "intese" informali come quelle che governavano i gruppi mafiosi. Quando l'intero sistema era costruito sulla corruzione, sulle tangenti e sui contatti, ogni partecipante poteva essere controllato. Putin e i suoi uomini avevano kompromat su tutti, dagli uomini d'affari ai funzionari statali che ricevevano tangenti. Era un modo per tenere tutti all'amo, consapevoli che in qualsiasi momento, se avessero sgarrato, sarebbero potuti finire in prigione. L'autorità statale si era trasformata in un grande business, e ci si aspettava che ogni funzionario del governo usasse la sua posizione per trarne profitto, hanno detto due ex membri del Cremlino. (p. 455)
- Ai banchieri occidentali che avevano lavorato tanto per integrare i miliardari russi nell'economia globale, la dipendenza dal Cremlino è sempre sembrata una questione secondaria. Erano accecati dalla marea di denaro contante che inondava la City di Londra dall'ex Unione Sovietica, e sempre più spesso ne erano diventati dipendenti, soprattutto perché il sistema bancario occidentale sfrecciava avanti, ormai pronto a schiantarsi con la crisi finanziaria del 2008. In quei giorni, un importante banchiere occidentale mi disse che lui e i suoi colleghi avrebbero ordinato dei rapporti di due diligence sui nuovi clienti, che una volta letti si sarebbero autodistrutti sui loro computer, cancellando tutto ciò che avrebbe potuto far suonare un campanello d'allarme. Per buona misura, è cresciuta un'intera industria specializzata in investigazioni aziendali, e si sono moltiplicati i rapporti in cui le colorite storie dei magnati russi erano opportunamente candeggiate. (p. 457)
- [Sui siloviki] Il loro era un mondo in cui, fin dall'inizio della transizione della Russia al mercato, parti del KGB avevano ritenuto il capitalismo uno strumento per pareggiare un giorno i conti con l'Occidente, un mondo in cui Putin credeva di poter comprare chiunque. Per gli uomini di Putin, l'espansione degli Stati Uniti, attraverso la NATO, verso i confini della Russia era una minaccia alla sua esistenza, mentre i movimenti democratici che rovesciavano i governi filorussi in Ucraina e Georgia erano visti come rivoluzioni finanziate dagli Stati Uniti, non come espressione della libera volontà popolare. (p. 460)
- [Sulla seconda guerra in Ossezia del Sud] Il presidente georgiano, Mixeil Saak'ashvili, sostenne di aver ordinato l'attacco a Tskhinvali solo dopo aver saputo che le forze russe avevano iniziato l'invasione da nord attraverso il tunnel Roki, mentre la Russia, al contrario, diceva che lo sconfinamento era avvenuto solo dopo l'inizio dell'attacco georgiano. La verità sembrava offuscata dalla nebbia della guerra. Ma diversi esperti militari indipendenti credevano che la Russia avesse da tempo teso una trappola a Saak'ashvili, intensificando deliberatamente l'azione militare dei separatisti e pianificando l'incursione con largo anticipo. (pp. 463-464)
- Medvedev cercava di proporsi come un modernista, un presidente russo di tipo nuovo, che twittava e usava l'iPad. Volle visitare la Silicon Valley, dicendosi fiducioso nella collaborazione che avrebbe contribuito allo sviluppo high-tech della Russia. [...] Ma dopo aver ceduto la presidenza, Putin aveva preso il posto di Medvedev come primo ministro e dietro le quinte continuava a condurre le danze. Medvedev prendeva poche decisioni in maniera indipendente, e le sue riforme per tentare di limitare il ruole dello stato nell'economia erano poco più che una facciata. Per molti versi, non era altro che un numero. Putin lo aveva scelto come suo successore proprio perché, di tutta la sua cerchia, era quello che più difficilmente poteva assumere la statura necessaria per sfidarlo. Fin dall'inizio, il suo piano era stato di tornare alla presidenza dopo un mandato di Medvedev. [...] Una delle prime azioni di Medvedev presidente fu quella di estendere il mandato di chi sarebbe venuto dopo di lui da quattro a sei anni, come a preparare il ritorno di Putin. (pp. 465-466)
- [Sulle proteste in Russia del 2011-2013] La contestazione di quel giorno è stata la più partecipata dai tempi del crollo sovietico. Mentre la neve cadeva sulla piazza Bolotnaja, a separare i manifestanti che urlavano slogan come "Putin è un ladro!" e "Il ladro dovrebbe stare in prigione!" dalle rosse mura del Cremlino c'era solo il fiume. La manifestazione fu organizzata subito dopo la scoperta di brogli diffusi nelle elezioni parlamentari della settimana precedente. Membri sempre più attivi della società civile di Mosca avevano colto il Cremlino con le mani nel sacco, mentre nascondeva schede elettorali e falsificava i risultati in favore del partito Russia Unita, che era ormai ampiamente disprezzato come una massa di grigi burocrati la cui lealtà allo stato di Putin era motivata solo dalla corruzione e dal desiderio di carriera. Ma dietro le grida di protesta per il voto c'era un'insoddisfazione molto più profonda [...]. La gente si sentiva ingannata dal ritorno al potere di Putin. Anche se era risaputo che Medvedev faceva parte dello stesso clan, quattro anni della sua retorica più liberale avevano davvero suscitato nuove speranze per un disgelo politico, in particolare tra l'élite urbana di Mosca. Ora si sentivano presi in giro. (p. 467)
- [Sulle proteste in Russia del 2011-2013] [...] benché per un certo periodo l'atmosfera frenetica di quell'inverno avesse rianimato le timide speranze di una primavera politica, in realtà i manifestanti non avevano mai avuto alcuna possibilità. Erano una piccola minoranza urbana, mentre i putiniani del KGB controllavano tutte le forze dell'ordine. Putin si era appellato al cuore della Russia, alla cosiddetta "maggioranza silenziosa" del paese, gli operai, che apprezzavano la stabilità sopra ogni altra cosa e che ancora lodavano Putin per aver posto fine al caos che aveva segnato gli anni di Eltsin. E Putin, soprattutto, non riusciva a credere che l'ondata di proteste fosse una genuina manifestazione di frustrazione e delusione di fronte al fatto che tutte le promesse di Medvedev per una maggiore apertura si erano rivelate solo una farsa. Vide invece la mano del dipartimento di stato americano. Come si poteva spiegare altrimenti, pensava, che una folla di quasi 100.000 persone avesse manifesato per protestare? Per Putin, se prima gli Stati Uniti avevano cercato di fomentare le rivolte in Ucraina e Georgia, ora si erano insinuati nel cuore della Russia. (pp. 468-469)
- [...] invece della vantata liberalizzazione di Medvedev, quello che è emerso dai quattro anni del suo governo è stato in realtà un sistema in cui la presa dello stato sull'economia era più forte di prima. Questo non solo per i salvataggi statali che hanno salvato i magnati dai creditori occidentali dopo la crisi finanziaria del 2008, ma anche perché sotto la presidenza di Medvedev miliardi di dollari del governo sono stati versati in progetti statali in nome della modernizzazione dell'economia. Prima c'è stata la Rosnano, una corporazione creata come incubatore per lo sviluppo delle nanotecnologie, campo che gli uomini di Putin avevano individuato come cruciale per competere con i progressi occidentali nella tecnologia militare e nell'intelligenza artificiale. C'è stata la Skolkovo, un hub high-tech creato da Medvedev nel 2010 con l'obiettivo di stimolare lo sviluppo di startup tecnologiche. Entrambe le iniziative si sono trasformate in enormi buchi neri per i soldi del governo, con poca supervisione o trasparenza su come sono stati spesi. Quando la Rosnano ha investito più di un miliardo di dollari in aziende tecnologiche statunitensi e la Skolkovo ha approfondito i suoi rapporti di collaborazione nella Silicon Valley e con il Massachusetts Institute of Technology, le forze dell'ordine statunitensi si sono preoccupate che la Russia stesse torando alle vecchie abitudini della guerra fredda. L'FBI ha avvertito i leader delle società high-tech di Boston che in realtà i progetti statali russi erano sofisticate finzioni per accedere alla tecnologia americana a uso civile e militare. (pp. 470-471)
- Il sistema feudale sotto il quale la ricchezza dipendeva dai favori del Cremlino si era solo radicalizzato. Nonostante tutti i discorsi di Medvedev sulla repressione della corruzione, due importanti banchieri occidentali hanno sostenuto che diversi miliardari gli facessero da prestanome, e almeno un magnate ha escogitato un accordo che richiedeva l'approvazione del Cremlino e ha fatto in modo di assicurarsi che Medvedev ottenesse una tangente. Medvedev ha messo le mani avanti contro le accuse di corruzione. Anche quando predicava la riduzione del ruolo dello stato nell'economia, in realtà la cerchia ristretta di Putin ha continuato ad arricchirsi. (p. 472)
- Pugačëv era diventato un anacronismo, un simbolo di un'epoca diversa, degli anni di Eltsin e della transizione a Putin, quando gli affari erano molto più liberi. Dopo l'attacco a Chodorkovskij, era stato gradualmente messo da parte. [...] Pugačëv non era riuscito a inchinarsi a Putin come gli yes-men che lo circondavano. Sempre irriverente, non gli aveva mai nascosto quello che pensava. C'era sempre stata tensione fra loro, come se Putin covasse del risentimento sapendo di essere in debito con la persona che l'aveva aiutato a portarlo al potere. E gradualmente la tensione è cresciuta. (pp. 472-473)
- A Londra, i banchieri occidentali che avevano supportato quella che ritenevano fosse l'integrazione globale della Russia si sforzavano di capire come mai tutto fosse andato storto. Gli eventi sembravano essere sfuggiti di mano. Ma l'azione militare sembrava svolgersi almeno in parte con precisione. Pochi avevano dubbi sul fatto che la Russia e l'Occidente fossero da tempo rotta di collisione sul futuro dell'Ucraina, che o i sarebbe avvicinata all'Unione Europea o sarebbe caduta nella sfera degli interessi economici eurasiatici della Russia. Ma Putin, come suggerito da un importante banchiere occidentale, aveva "rispolverato un piano"? "Doveva fare qualcosa per mettersi in prima linea. L'unico modo per rilanciare l'economia sarebbe stato quello di decentralizzare il potere. Ma quando si è arrivati al punto, la necessità di rimanere al potere per continuare a esercitare un controllo ha avuto la meglio su di lui... Quello che stiamo vedendo ora sembra far parte di una strategia secolare per distogliere l'attenzione dai problemi e mobilitare il consenso". È possibile che le stesse difficoltà economiche della Russia avessero reso gli uomini di Putin ancora più decisi a dominare l'Ucraina, mettendo in moto la crisi che ha portato all'annessione della Crimea? (pp. 481-482)
- [Sulla rivoluzione ucraina del 2014] Il passo indietro di Janukovič innescò una polveriera. Le speranze a lungo coltivate che l'Ucraina volgesse finalmente lo sguardo a occidente andarono di nuovo in frantumi, dando vita a proteste a favore della UE che portarono centinaia di migliaia di persone a scendere in strada. Gli studenti, appoggiati dagli oligarchi ucraini stufi della spaventosa corruzione del regime di Janukovič, allestirono di nuovo una tendopoli sulla simbolica piazza Maidan di Kiev, luogo della rivolta filoccidentale del 2004 che aveva portato alla Rivoluzione arancione. Per quasi tre mesi un nocciolo duro di manifestanti resistette al ghiaccio e alla neve, scontrandosi anche con la polizia antisommossa quando l'amministrazione cercava di sombrare la piazza. La violenza si intensificò quando Janukovič impose una legislazione draconiana che vietava le manifestazioni e minacciava i contestatori con pesanti sanzioni e pene detentive. In segno di sfida questi sequestrarono gli autobus, incendiandone uno e lanciando gli altri contro le colonne dei poliziotti. [...] La mattina presto del 20 febbraio 2014 si sentì il fuoco dei cecchini. A tutt'oggi, nessuno sa con precisione come sia iniziato, o da dove venissero i primi colpi. Nel giro di due ore, quarantasei manifestanti erano morti. Alla fine della giornata il bilancio dei morti aveva raggiunto i settanta [...]. (pp. 483-484)
- Senza mai offrire alcuna prova, i funzionari russi e i media statali hanno lanciato una campagna di propaganda senza precedenti, sostenendo che gli Stati Uniti erano dietro alle sommosse che avevano colpito il regime di Janukovič. I "neonazisti" avevano guidato le proteste, dissero, nonostante la stragrande maggioranza dei manifestanti fossero gli stessi ucraini filoccidentali che avevano guidato la Rivoluzione arancione nel 2004, mentre la maggior parte dell'élite ucraina era stufa della corruzione che aveva contraddistinto il regime di Janukovič. Secondo i russi, erano stati i "combattenti armati" neonazisti a sparare nel fatidico giorno di febbraio che aveva lasciato più di settanta morti in piazza Maidan. Non fu menzionato il fatto che i membri del Berkut, un'unità delle forze di sicurezza ucraine che quel giorno aveva presidiato le barricate di protesta, erano poi fuggiti in gran parte in Russia o in zone dell'Ucraina controllate dai russi, e che le loro armi erano state poi ritrovate in fondo a un lago. Il Berkut era notoriamente infiltrato da agenti russi, soprattutto durante il governo di Janukovič; in seguito, i procuratori ucraini avrebbero sostenuto che i servizi di sicurezza russi erano coinvolti negli omicidi. A seguito di un'indagine forense sulle riprese video, i procuratori accusarono una squadra d'élite del Berkut, vestita di nero, di aver ucciso trentanove persone fra i manifestanti. Un funzionario della procura e una fonte del servizio di sicurezza ucraino rivelarono al Financial Times che una forza non identificata aveva dato il via alla sparatoria sparando sia contro i contestatori sia contro la polizia dai tetti intorno a piazza Maidan. (pp. 486-487)
- [Sull'annessione della Crimea alla Russia] La retorica, e la propaganda di stato che accompagnava l'azione militare, sembravano riflettere la profonda paranoia che aveva perseguitato Putin e i suoi uomini fin dai giorni della Rivoluzione arancione del 2004, e da molto prima, quando Putin aveva assistito al crollo dell'impero sovietico dal suo osservatorio nella villa del KGB affacciata sull'Elba a Dresda: la convinzione di essere circondati da un complotto occidentale per minare il potere della Russia. Ma sembrava anche una semplice montatura per giustificare le azioni del Cremlino. Era come se tutti i discorsi sull'integrazione globale della Russia, sulla necessità di richiamare investimenti dall'estero, di modernizzare l'economia e di raggiungere un accordo con gli Stati Uniti, fossero stati messi da parte, e il regime di Putin avesse improvvisamente mostrato il suo vero volto. Un ex aiutante dell'ultimo leader sovietico, Michail Gorbačëv, disse che in quei giorni si respirava un'aria come se qualcuno avesse aperto le cantine del Cremlino e i fantasmi e il fetore del passato sovietico fossero volati fuori. (pp. 487-488)
- [Sull'annessione della Crimea alla Russia] Adesso che per la prima volta faceva dei passi per ripristinare l'impero russo, la popolarità di Putin superò l'80 per cento. Non aveva mai dovuto mostrare alcuna prova del coinvolgimento degli Stati Uniti nella rivolta popolare contro Janukovič; la propaganda era fin troppo in sintonia con una popolazione ancora convinta dell'umiliazione della Russia dopo il collasso sovietico. Bastava mostrare le foto dell'assistente del segretario di stato americano Victoria Nuland che distribuiva biscotti ai dimostranti filoeuropei nel freddo gelido di piazza Maidan a Kiev. In seguito, la propaganda è diventata sempre più sofisticata. Le unità informatiche che lavoravano per l'agenzia di intelligence militare russa, il GRU, inondarono Facebook e un social network russo con storie false che giustificavano l'invasione russa e condannavano la rivoluzione definendola opera dei neonazisti, mentre l'Ucraina era diventata un focolaio di terroristi ceceni. Quando il conflitto si estese all'Ucraina orientale, la TV russa trasmise le accuse che l'esercito ucraino aveva iniziato un "genocidio", riportando addirittura che i soldati avevano crocifisso un bambino di tre anni. A poco a poco, questo fuoco di fila costante fece breccia nell'opinione pubblica. (pp. 489-490)
- [Sul conflitto russo-ucraino] Mentre la Russia continuava ad alimentare la guerra dei proxy che stava devastando l'Ucraina orientale, pian piano i governi occidentali cominciarono a capire che la politica che avevano messo in atto sin dal collasso sovietico, con la speranza che la Russia si sarebbe inevitabilmente integrata con il mondo occidentale, non era altro che un'illusione. Si trovarono a dover lottare con un regime che sembrava perseguire aggressivamente i suoi interessi a prescindere dalle conseguenze per la sua posizione con l'Occidente. Quello di Putin era un regime per il quale il ripristino della posizione globale del paese era l'unica priorità. La Russia non voleva far parte dell'ordine dominato dall'Occidente. Voleva solo imporre le proprie regole. (pp. 492-493)
- Malofeev doveva diventare parte integrante di una rete di uomini del KGB e di imperialisti che cercavano di ripristinare il potere della Russia dopo che Putin aveva assunto la presidenza. Ai suoi sostenitori piaceva dire che era la versione russa di George Soros, il finanziere miliardario che aveva dedicato gran parte della sua fortuna a incoraggiare il liberalismo nei paesi dell'ex blocco sovietico. Ma naturalmente Malofeev era anche la sua antitesi. [...] A differenza di Soros, figura pubblica, Malofeev operava nell'ombra. Non ha mai rivelato il suo budget o quello che stava facendo. E invece dell'apertura liberale che la Open Society di Soros cercava di promuovere, gli uomini di Putin intendevano propagandare un'ideologia, basata sui comuni valori slavi della religione ortodossa, quasi agli antipodi rispetto ai principi di tolleranza dell'Occidente liberale. L'ortodossia russa era considerata l'unica vera fede, mentre tutto il resto era visto come un'eresia. I diritti individuali, predicava, devono essere subordinati alla tradizione e allo stato, e l'omosessualità era un peccato. Per ripristinare l'impero russo i putiniani del KGB avevano scelto un'impostazione ideologica che ben si accordava con il risentimento di chi si sentiva lasciato ai margini nel tumulto della globalizzazione, oltre che con un pregiudizio innato. Si erano aggrappati a un'ideologia che avrebbe unito i loro alleati contro l'Occidente liberale, e Putin aveva a lungo discusso queste idee, e quelle di altri imperialisti russi bianchi in esilio [...] Il KGB si era dedicato a coltivare i gruppi nazionalisti e imperialisti dell'estrema destra russa sin dal collasso sovietico. Ma dopo la Rivoluzione arancione dell'Ucraina alla fine del 2004, gradualmente, quasi impercettibilmente all'inizio, sono stati coinvolti dagli estremisti, che a poco a poco hanno avuto accesso a un flusso costante di finanziamenti. (pp. 526-528)
- Nel 2008, in una strada tranquilla del Settimo Arrondissement aprì la sua sede l'Istituto russo per la democrazia e la cooperazione. Doveva essere la risposta della Russia al Carnegie Endowment for International Peace degli Stati Uniti, per contrastare l'immagine negativa che l'Occidente aveva della Russia e porre fine a quello che, secondo uno dei suoi fondatori, era il "monopolio occidentale" sui diritti umani e sul loro rispetto da parte della Russia. L'istituto era parte di una strategia d'attacco nell'ambito delle pubbliche relazioni cominciata quando il governo di Putin aveva dato vita a Russia Today, la rete TV globale in lingua inglese che ambiva a sfidare l'egemonia di canali occidentali come la CNN e la BBC. Ma sull'imponente edificio di pietra che l'istituto avrebbe dovuto occupare non c'era nulla a segnalare la presenza, mentre la direttrice era un'agente dei servizi segreti russi che difficilmente poteva passare inosservata [...]. Se da un lato il suo istituto faceva la sua parte per diffondere la visione del mondo dei putiniani del KGB, dall'altro aveva anche l'obiettivo di individuare e reclutare futuri agenti della propaganda. Non si conoscono le sue fonti di finanziamento: uno dei suoi fondatori poté dire all'ambasciatore americano a Mosca solo che era sostenuto, tra gli altri, da "dieci uomini d'affari". (pp. 541-542)
- In tutta Europa, Malofeev stava promuovendo un programma populista di destra, una ribellione contro l'establishment liberale. Nel giugno 2014 ha ospitato a Vienna una conferenza per le forze sovraniste in cui la nipote di Marine le Pen, Marion, si è trovata insieme ai leader del Partito della libertà austriaco e del partito di estrema destra bulgaro Ataka, nonché con Serge de Pahlen. Malofeev ha sempre ripetuto che, in quanto sostenitore e protettore di cristiani, il suo appoggio andava a una causa religiosa, non politica. Ma le tracce dei suoi alleati erano ovunque anche nell'ascesa di Syriza, il partito di sinistra radicale salito al potere in Grecia nel gennaio 2015: alcune e-mail trapelate hanno rivelato che l'eurasianista Aleksandr Dugin, che lavorava con Malofeev, lo aveva assistito nell'elaborazione di una strategia e nelle pubbliche relazioni. Malofeev ha anche coltivato rapporti con il partito di destra dei Greci Indipendenti, guidato da Panos Kammenos, un infiammato nazionalista diventato ministro della difesa. Kammenos era stato un assiduo frequentatore di Mosca ed era diventato amico con Malofeev, mentre il suo Istituto di studi geopolitici di Atene aveva firmato un "memorandum d'intesa" per la cooperazione con l'Istituto russo di studi strategici, che lavorava anche a stretto contatto con Natal'ja Naročnickaja a Parigi ed era essenzialmente un braccio dell'intelligence internazionale russa. (pp. 544-545)
- [Su Aleksandr Temerko] Presentandosi come un dissidente critico del regime di Putin, in privato continuava a elogiare i membri più importanti dell'establishment di sicurezza russo, tra cui il potente capo del Consiglio di sicurezza Nikolaj Patrušev. Invitava a cena i grandi del Partito conservatore, e instaurò una stretta relazione con Boris Johnson, che ha poi guidato la campagna per l'uscita dall'Unione Europea. In pubblico sosteneva di essere contro la Brexit, ma capitava in privato che la lodasse come "una rivoluzione contro la burocrazia", e in ogni caso tutti i suoi alleati d'affari sostengono avesse rapporti di lunga data con i servizi di sicurezza russi. Leonid Nevzlin, l'ex azionista di punta della Jukos, ha detto che Temerko era stato originariamente introdotto nell'azienda per i suoi legami con il Servizio di sicurezza federale russo e il ministero della difesa, aggiungendo che Temerko conosceva "bene" Patrušev. (pp. 549-550)
- Le volte che ci siamo incontrati – a San Pietroburgo e a Mosca, e poi a Londra, dove suo figlio aveva acquisito la cittadinanza britannica –, Vladimir Jakunin amava parlare di sé e di Putin con il suo regime come dei paladini dei valori tradizionali che l'Occidente aveva abbandonato nella sua rincorsa alla globalizzazione. Lui era il patriottico zio di Russia, che si dava il caso non fosse d'accordo con gran parte di quel che combinava l'Occidente. [...] Jakunin fu uno dei primi uomini del KGB a convertirsi pubblicamente alla religione ortodossa dopo aver trascorso la maggior parte della sua carriera a difendere l'ateismo di stato sovietico. (pp. 552-553)
Explicit
[modifica]La rivoluzione russa aveva fatto il giro completo. I riformatori che quasi trent'anni fa, con grande entusiasmo, dichiararono al mondo che il paese era sulla via del mercato e dell'integrazione globale, o erano stati presto compromessi, o avevano sempre lavorato con il KGB per la transizione della Russia. Quelli che credevano di lavorare per introdurre un libero mercato avevano sottovalutato il persistente potere degli uomini della sicurezza. "Questa è la tragedia della Russia del ventesimo secolo," disse Pugačëv. "La rivoluzione non è mai stata completa". Fin dall'inizio, gli uomini della sicurezza avevano messo radici per la rivincita. Ma fin dall'inizio, a quanto pare, erano stati condannati a ripetere gli errori del passato.
Note
[modifica]- ↑ Citato in Mezz'ora in più, Catherine Belton: "Putin? No, Patrushev. Chi è l'uomo che ha voluto la guerra", il re del Cremlino, liberoquotidiano.it, 4 aprile 2022.
Bibliografia
[modifica]- Catherine Belton, Gli uomini di Putin. Come il KGB si è ripreso la Russia e sta conquistando l'Occidente, traduzione di Alberto Cristofori, La nave di Teseo editore, Milano, 2020. ISBN 978-88-346-0411-3
Altri progetti
[modifica]- Wikipedia contiene una voce riguardante Catherine Belton