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Carmelo Bene: differenze tra le versioni

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'''Carmelo Bene''' (1937 – 2002), è stato autore, attore e regista di teatro e di cinema, scrittore e poeta.
'''Carmelo Bene''' (1937 – 2002), è stato autore, attore e regista di teatro e di cinema, scrittore e poeta.
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==Citazioni==
==Citazioni==


*Per capire un poeta, un artista -a meno che questo non sia soltanto un attore- ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista. (http://it.youtube.com/watch?v=DSf0G4lUV8I&NR=1)
*Per capire un poeta, un artista -a meno che questo non sia soltanto un attore- ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista.<ref>{{cita web|url=http://it.youtube.com/watch?v=DSf0G4lUV8I&NR=1|titolo=xxxxx}}</ref>

*Il mio [[epitaffio]] potrebbe essere quel passaggio di [[Marchese de Sade|Sade]]: mi ostino a vivere perché «Anche da morto io continui a essere la causa di un disordine qualsiasi». (citata da ''RaiNews 24'', 16 marzo 2002)
*Il mio [[epitaffio]] potrebbe essere quel passaggio di [[Marchese de Sade|Sade]]: mi ostino a vivere perché «Anche da morto io continui a essere la causa di un disordine qualsiasi».<ref>citata da ''RaiNews 24'', 16 marzo 2002</ref>
*È decorazione l'arte, è volontà di esprimersi. (http://it.youtube.com/watch?v=AkcqYUg19Yg&feature=related)

*Il pensiero è un risultato del linguaggio. (http://it.youtube.com/watch?v=AkcqYUg19Yg&feature=related)
*È decorazione l'arte, è volontà di esprimersi.<ref name="arte">{{cita web|url=http://it.youtube.com/watch?v=AkcqYUg19Yg&feature=related|titolo=xxxxx}}</ref>

*Il pensiero è un risultato del linguaggio.<ref name="arte" />


*Io non ho davvero... rapporti con la critica. Sono loro che sono pagati per averne con me. Quindi per loro è un mestiere... Io non sono pagato per avere rapporti con loro. [...] Per capire un poeta, un artista [...] ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista [...] La critica vive dalle 22 alle 24, cioè due ore la sera. Non puoi due ore la sera capire quello che invece io continuo a vivere ora per ora [...]<ref>Tratto da "Bravo! Bene!", trasmissione Rai di Marco Giusti - Carmelo Bene è intervistato per il suo Don Chisciotte, di Miguel de Cervantes, con Leo de Berardinis e [[Perla Peragallo]].</ref>
*Io non ho davvero... rapporti con la critica. Sono loro che sono pagati per averne con me. Quindi per loro è un mestiere... Io non sono pagato per avere rapporti con loro. [...] Per capire un poeta, un artista [...] ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista [...] La critica vive dalle 22 alle 24, cioè due ore la sera. Non puoi due ore la sera capire quello che invece io continuo a vivere ora per ora [...]<ref>Tratto da "Bravo! Bene!", trasmissione Rai di Marco Giusti - Carmelo Bene è intervistato per il suo Don Chisciotte, di Miguel de Cervantes, con Leo de Berardinis e [[Perla Peragallo]].</ref>

Versione delle 14:30, 27 ott 2010

Carmelo Bene (1937 – 2002), è stato autore, attore e regista di teatro e di cinema, scrittore e poeta.

Citazioni

  • Per capire un poeta, un artista -a meno che questo non sia soltanto un attore- ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista.[1]
  • Il mio epitaffio potrebbe essere quel passaggio di Sade: mi ostino a vivere perché «Anche da morto io continui a essere la causa di un disordine qualsiasi».[2]
  • È decorazione l'arte, è volontà di esprimersi.[3]
  • Il pensiero è un risultato del linguaggio.[3]
  • Io non ho davvero... rapporti con la critica. Sono loro che sono pagati per averne con me. Quindi per loro è un mestiere... Io non sono pagato per avere rapporti con loro. [...] Per capire un poeta, un artista [...] ci vuole un altro poeta e ci vuole un altro artista [...] La critica vive dalle 22 alle 24, cioè due ore la sera. Non puoi due ore la sera capire quello che invece io continuo a vivere ora per ora [...][4]
Carmelo Bene definisce cos'è la macchina attoriale[5]
  • Il teatro, il grande teatro è un non-luogo soprattutto, quindi è al riparo da qualsivoglia storia. È intestimoniabile. Cioè, lo spettatore per quanto Martire, testimone, nell'etimo (da marthyr), per quanti sforzi possa compiere lo spettatore, dovrebbe non poter mai raccontare ciò che ha udito, ciò di cui è stato posseduto nel suo abbandono a teatro. Ecco che l'attore non basta più, il grande attore nemmeno. Bisogna essere una macchina, eh..., come io (tra parentesi) l'ho definita, attoriale. Che cos'è una macchina attoriale?... Comunque deve essere amplificata... L'amplificazione è un strana cosa... L'amplificazione non è assolutamente [...] un ingrandimento, ma è come guardare questa pagina... Se io la guardo in questo modo, ecco, così, ecco... io vedo e così sento; ma se io avvicino questo [foglio], più l'avvicino, più i contorni svaniscono. I contorni svaniscono e non vedo più un bel niente.
  • [...] Cos'è la macchina attoriale?... È la lettura, intanto, come nella poesia, nella concertistica,...
  • Il teatro è nell'atto, cioè nell'immediato, in quello che un filosofo chiamò l'immediato svanire, la presenza e al tempo stesso, assenza. Questo è il superamento del grande attore. Cioè della macchina attoriale, di cui, ripeto, questo di Macbeth Orror Suite è soltanto una esemplificazione, tra le altre.
  • Se io leggo, anche in concerto, ho bisogno di leggere, non per ricordare o nella presunzione che lo scritto corrisponda all'orale. No, v'è invece una profonda idiosincrasia tra scritto e orale... Lo faccio per dimenticare. La lettura come oblio. La lettura paradossalmente come non-ricordo.
  • Lo spettatore deve solo abbandonarsi all'ascolto. Ma anche, non solo l'orecchio è ascolto, ma l'occhio è ascolto.
  • Bisogna complicarsi la vita, ... diceva Eduardo. Ecco. Complicarsi la vita vuol significa crearsi una serie di handicap... Questa è la preparazione, al di là, a dispetto del testo. Non ci sono testi. A dispetto dell'umanesimo, del museo, dell'arte, sempre consolatoria, sempre decorativa. A dispetto della cultura... che, ha ragione Derrida, [...] nell'etimo ... deriva da colo, colonizzare... Quindi non c'è niente... a dispetto dell'intelligenza bisogna essere stupidi, infinitamente stupidi, per essere nell'abbandono.
Sulla scrittura di scena, Carmelo Bene a Mixer Cultura, 1987
  • [...] credo di continuare un discorso laddove anche Antonin Artaud fallì. Io ho ripreso il discorso di Artaud, cioè quello della scrittura di scena, contro il testo; un testo, un teatro di testo, diceva Antonin Artaud, è un teatro di invertiti, di droghieri, di imbecilli, di finocchi; in una parola di Occidentali. [...] Dopo secoli, quattro secoli (già però ventilata in Shakespeare ed in tutto il teatro elisabettiano) [...] ecco finalmente la scrittura di scena. Una volta il testo veniva, viene tuttora, ahimè, in Occidente riferito; si impara a memoria; cioè è un teatro del detto, del già detto, ... e non del dire, che sconfessa il detto e si sconfessa anche in quanto dire. Si tende delle trappole il dire al dire stesso. Non è mai un dire del medesimo, comunque. Quindi la scrittura di scena è tutto quanto non è il testo a monte, è il testo sulla scena. Quindi, il testo ha la medesima importanza che può avere il parco lampade, la musica, un pezzo di legno, di cantinella qualunque, un barattolo. Questo è il testo nella scrittura di scena. Chiaramente affidata alla superbia dell'attore, dell'attore in quanto soggetto, non più dell'attore in quanto Io, cioè in quanto immedesimazione in un ruolo.
  • [Il conduttore Bagnasco fa entrare alcuni critici, che dovranno partecipare alla discussione...] ... ahimè, partecipano anche troppo, non a questo incontro, ma soprattutto non partecipano a una mia sollecitazione perenne, laddove io mi sforzo di togliere, come artefice, il logos, cioè di togliere il senso sulla scena allo spettacolo, per recuperare un controsenso, dove da capire non ci deve essere nulla perché il teatro, in nome di Dio, ha da esser gioco e non pensamento, pensosità, quindi... cosa fa la mediazione critica? [...] Io li ho da sempre compresi... i signori critici ... È un mestiere veramente umiliante. [...] Il critico, diceva Léon Bloy, è «colui che ostinatamente cerca un letto in un domicilio altrui». [...] Ecco, c'è questo dissesto. Io sento il loro disagio. [...] [i critici non devono] occuparsi del mio teatro, della situazione di scena, già così difficile, dove da capire non c'è nulla, grazie a Dio, ed è depensata come l'italiano in Algeri. Io sono l'italiano in Algeri. [...] Ecco. Per depensare bisogna aver pensato. Cosa fa la critica? Riconduce tutto a un senso, a una visione di senso assai personale, cioè truccata da oggettività. Mentre, qualunque critica dovrebbe essere dipendenza, cioè, prima si qualifichi il critico. Non si dà critico, diceva Oscar Wilde, fuori dall'artista.
  • [...] Ho detto, quando si parla di teatro del depensamento, cioè della sintesi lirica, [...] ma che presuppone tutta una filosofia a monte, e quindi, uno studio sul linguaggio, non sulla lingua [...] Ecco, allora i miei ventott'anni di scrittura di scena, documentatissimi, non devono poi tanto allarmare ...
  • [...] la scrittura di scena [...] è altra cosa dal teatro di regia, è altra cosa dal teatro ripetitivo del testo a monte, cioè del detto. Quindi il detto e il dire. Una volta messo a monte, si capirà che la critica, qualunque intervento è posticcio, è un'appendice, è un'aggiunta.
  • [...] col teatro non si scherza, in quanto lo scherzo è adulto e il gioco è infantile. Quindi un teatro del soggetto, dell'onnipotenza bambina del soggetto... gioca... I bambini non scherzano, giocano...
  • [...] Io dico che nessuno è più qualificato, nessuno ha più studiato di me, Laforgue, in questo caso, ecco, l'ho studiato da più di vent'anni. Perché un critico non può, vedendo diecimila spettacoli, approfondire vent'anni, un autore per vent'anni. Non è possibile. [...] Non ammetto, quindi, questa spocchia del critico, il letterato che deve saperla più lunga del grandissimo attore. Il grandissimo attore la sa più lunga di lui, se no non sarebbe tale. Un attore incolto oggi non ha senso, non può occuparsi di scrittura di scena, non può fare la strada che io ho percorso, non può batterla. Non può essere il più grande attore d'Europa, come mi si dice, sulla scrittura di scena, se non è più colto dell'ultimo critico in sala.
Uno contro tutti, in Maurizio Costanzo Show, 28 giugno 1994
  • La libertà di stampa mi sta bene se è libertà dalla stampa.
  • Non sono mai nato, non mi vergogno di essere nell'equivoco italiota, non mi interessano gli italiani. Qualunque governo come qualunque arte (o tutta l'arte borghese), tutta l'arte è rappresentazione di Stato, è statale. È uno stato che si assiste fin troppo, se no alla mediocrità chi ci pensa? La mediocrità, par excellence, è proprio lo Stato. Lo Stato dovrebbe smetterla di governare, ecco. Si può dare uno Stato senza governo, mi spiego? Non deve amministrare, deve lasciarlo fare a dei privati.
  • Detesto anche la nazionale azzurra, però lo dico. Non me ne fotte nulla del Rwanda, però lo dico. Voi no, non ve ne fotte, ma non lo dite! Non sono eroico; me ne infischio di me stesso, del governo, della politica, del teatro...
  • C'è troppa puzza di Dio.
  • Parli con Heidegger e vada a fare in culo.
  • Tieniti la tua coerenza, vecchio! Sono incoerente, come l'aere, più dell'aere!

 Trascrizione approssimativa, verificare rilevanza ecc., vedi discussione da controllare

  • CB : – Carmelo Rocca è stato il direttore di questo defunto, fantasmatico, allucinatorio Ministero che sopravvive come l'araba [fenice] alla sua demolizione plebiscitaria: è stato abrogato dagli Italiani. Gli Italiani continuano ancora ad andare, sempre, a votare (votano, votano, votano) ma non si capisce perché votino. Per dare un senso a che cosa?
    COSTANZO : – "Ma quello è un fatto democratico".
    CB : – E quello è il guaio: non risolveranno mai niente con la democrazia. "Democrazia" nel senso di Hobbes, che la chiamava "demagogia". Fu il primo a chiamarla col termine giusto. [...] L'unica forma di governo che garantisca qualcosa è la democrazia, paradossalmente è la più accettabile (se ne occupa Cioran molto bene). Ma vi domando: che cosa garantisce una democrazia che una dittatura non possa garantire? Certo, garantisce qualcosa: l'invivibilità della vita. Non risolve la vita. Chi sceglie la libertà, sceglie il deserto. Se la democrazia fosse mai libertà. Ma la democrazia non è niente; è mera demagogia. Qualora noi meritassimo una libertà, dovrebbe essere affrancamento dal lavoro e non occupazione sul lavoro. Anche se non si scappa mai – questo è il discorso di Deleuze sulla letteratura minore, su Kafka – dalla catena di montaggio; non si sfugge mai. L'oppressione della catena di montaggio si fa sentire anche in famiglia, financo nell'amore, nella rivoluzione e soprattutto nell'entusiasmo: non si sfugge alla macchina. Queste non sono ciance (mi rivolgo alla maggior parte, in sala, di imbecilli). [...] Ma non caschiamo nel solito sociale, nel mondano, nei dolori privati, pubblici; parleremo di assistenzialismo, magari... Carmelo Rocca, appunto, è il direttore generale dello spettacolo del Ministero del Turismo mancato, poi soppresso dagli Italiani, smaniosi sempre di dare il loro contributo all'urna elettorale (di pianto). [...] Rocca disse una volta davanti a Franco Ruggeri: - "Ma senti, di Carmelo Bene ce ne sta uno solo, chiaramente; gli altri sono tanti." - "Ma sono mediocri." -" D'altra parte" dice "di te ce n'è uno solo ma se non ci pensiamo noi (noi Ministero, noi spettacolo del governo), se non ci pensiamo noi, alla mediocrità chi ci pensa? Vi direi: "Meditate"; ma siccome appartiene alla bagarre della polemica del sociale, del mondano, allora: "Non ci pensate più. Dimenticate. Non ho detto niente".
  • Io mi occupo (e – purtroppo o per fortuna – si occupano di me) solo dei significanti, i significati li lascio ai significati. [...] Noi siamo nel linguaggio e il linguaggio crea dei guasti; anzi è fatto solo di buchi neri, di guasti. "Codesto solo – dice l'Eusebio nazionale, cioè Eugenio Montale, però traducendo pari pari Nietzsche – oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo." E questo si può dire. Chi dice d'esserci è coglione due volte: primo perché si ritiene Io, secondo perché è convinto di dire; è coglione una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non sian significanti, ma sian significati, e che dipendano da lui, ma Lacan ha insegnato: "il significato è un sasso in bocca al significante". Qualcuno ha da obiettare questa definizione? La obietti con i lacaniani, la obietti con Lacan, la obietti con intelligenza, certamente! Ma per me l'intelligenza è miseria. [...] È ora di cominciare a capire, a prendere confidenza con le parole. Non dico con la Parola, non col Verbo, ma con le parole; invece il linguaggio vi fotte. Vi trafora. Vi trapassa e voi non ve ne accorgete. Voi sputate su Einstein, voi sputate sul miglior Freud, sull'aldilà dei principi di piacere; voi impugnate e applaudite l'ovvio, ne avete fatto una minchia di questo ovvio, in cambio della vostra. Ma io non vi sfido: non vi vedo!
  • Non voglio essere interrotto da chi mi rompe i coglioni con l'essere e con l'esserci, non voglio parlare con l'ontologia; abbasso l'ontologia, me ne strafotto: parli col Professor Heidegger, non con me!

[Su un certo "sentimento anti-italiano" che sarebbe "l'ultimo snobismo di massa", risponde così:]

  • Non mi vergogno d'essere nell'equivoco italiota. Non mi interessano gli Italiani, ecco. Qualunque governo, come qualunque arte, è borghese: tutta l'arte è rappresentazione di Stato, è statale. È uno Stato che si assiste fin troppo. "Se no alla mediocrità chi ci pensa?". La mediocrità, par excellence, è proprio lo Stato. Lo Stato dovrebbe smetterla di governare: si può dare uno Stato senza governo, mi spiego? [...] Me ne infischio del governo, della politica, del teatro soprattutto[...] Me ne frego di Carmelo Bene, io. Voi no, ma io sì. [...] Lo Stato italiano – nelle figure di Franz De Biase, oppure di Carmelo Rocca, oppure della Presidenza del Consiglio dei Ministri – si è sempre abusivamente, incompatibilmente, eccessivamente occupato (si è stra-occupato) del qui presente-assente, di me. Ne ha proprio abusato; non ne posso più di questa haute surveillance. Lo dico da quand'ero ragazzo. Io ho chiesto sempre allo Stato (nei libri, per iscritto, nelle carte da bollo, fuori delle carte da bollo): "Per favore, voglio essere trascurato"; sono "un poeta" da ragazzo, poi sono andato di là dal poeta, ero "un artista", poi l'arte l'ho riconosciuta borghese e ho visto che l'arte era Carmelo Rocca (infatti lui è "il Grande Ufficiale delle Arti e delle Lettere")... Troppa attenzione: con Eduardo [De Filippo] e Dario Fo Stato, alla mediocrità (ero pressoché ventenne) abbiamo cominciato una battaglia invocando la chiusura del Ministero del Turismo e dello Spettacolo, l'abbiamo rimproverato di non trascurarci abbastanza. Oblio dello Stato, oblio di me. L'artista, soprattutto il genio, vuole essere trascurato. Fa di tutto per trascurar se stesso! Già è sfuggito alle apprensioni di sua madre (che non l'ha lasciato suicidare in una pozzanghera, che l'ha sempre trattenuto e fermato), alla fine viene un ministro – proprio poliziotto – che ti si attacca e non smette più. Dico che la mediocrità dei ministri deve campare, deve sopravvivere anche quella (se no, a quella mediocrità dello Stato, alla mediocrità di Stato, "chi ci pensa?"). Lo Stato si occupa della mediocrità della democrazia (cioè a 65 milioni di Italiani), 65 miolioni di Italiani (da imbecilli, cioè Italiani) votano questo Stato, che è il loro stato di cose, quello che è stato è Stato e quindi non è stato mai. E i fatti non sono se non nella stampa (nelle sue falsificazioni e omissioni). [Citando Derrida:] "La stampa informa i fatti non sui fatti." [...] Non sono boutade, è vero. Non fingo di interessarmi ai problemi della patria, all'Europa. A fare, come dice Derrida, questa "rimpatriata" (che poi Mitterand deve ancora spiegare a Jacques Derrida cosa vuol dire "essere a casa", "sentire odore di casa" entrando in Europa). Cos'è l'Europa? Di quale colonizzazione si tratta? Di colonizzare noi stessi? Altri? I popoli? Me ne fotto dei popoli, non mi interessa. Tutto quello che sconfina dal sangue e lo sperma, e sconfina oltre, aldilà degli orizzonti adolescenti tramontati... ma mi interessava una volta, adesso nemmen quello. [...] Io ignoro. Io sono la mia s'ignora. Sono s'ignorante, sono un Signore. Diceva Flaiano, a scuola "Sempre caro mi fu quest'ermo colle" diventa "Questa collina mi è sempre piaciuta"! Istruzione "obbligatoria"? Ma che siamo in Siberia? Ma perché bisogna istruirsi? Su che cosa? E poi chi deve istruirmi? Lo Stato? E chi è lo Stato? Ma chi l'ha votato questo Stato? Chi l'ha eletto? Come dice Deleuze, c'è un potere del teatro che è peggiore del potere dello Stato. [...] Non sono dalla parte del potere, non ho poteri. Io sono incoerente come l'aere, più dell'aere.
  • Bisogna fare di sé dei capolavori. [...] Nietzsche è impazzito, ma se l'è meritato. Qui invece di pazzi ne abbiamo fin troppi che non se lo sono sudato, non se lo sono guadagnato. Questo è il discorso. E sono squallidi, mediocri. Come i nostri governanti, i vostri governanti.
  • In teologia si danno solo domande, non risposte. [...] Lei non può parlare di Dio con Dio.
  • Fare un forno, in teatro, vuol dire che non c'è nessuno. Quando facevo gli esauriti (quando ero esaurito io), dicevo: "Stasera è un bel forno!" Perché c'era la gente anche in piedi. Da soli è una ressa (come diceva Alberto Savino, "Due uomini fanno appena, oggi, una rissa" di questi tempi ormai in-drammatici e non più tragici). Io ho tanto disappreso. Non vi auguro di disapprendere tanto. Io applico quella agape schopenhaueriana – cioè quella compassione che non è cristiana, diciamo è più stoica, anzi è più gnostica, ecco – nei confronti della maggior parte di voi, meschini.
  • [gli viene sottoposta da un giornalista una sua frase in merito a Totò Riina e Poggiolini. Bene risponde con amarezza:] In questa acquiescenza, in questo nullismo, in questo bagno di omologazione di Stato – purché si accetti aldilà del bene e del male, aldilà della coscienza applicata, aldilà della demagogia democratica, aldilà della democrazia in tutti i sensi deprimente e depressa, aldilà di nostalgie imbecilli di tiranni, etc. – io trovo davvero che Poggiolini e Riina abbiano un magnete, un carisma (o càrisma che dir si voglia) che non hanno tanti condomini della nazione italiana. L'Italia è un condominio di piattume, di piattole rompicoglioni, insensate e squallide. Insignificanti. Non mi interessa il simbolico come linguaggio artistico, non mi interessa la poesia, il poetico, non mi interessa l'anima bella, non mi interessa nemmeno il quotidiano come linguaggio; mi interessa quale linguaggio? Il secondo: mi interessa il patologico. Riina e Poggiolini sono due sommi casi patologici. E in un'epoca che non produce più niente di umano, essi sono forse i due soli uomini degni della mia attenzione. Patologica attenzione, del mio studio clinico, del mio tributo. Tutto qui.
  • [In un interessante - tra gli altri - passaggio, assimila profondamente e precisamente l'osceno al porno, dicendo che]nell'etimo, os-schené [è] "fuori scena", il porno come eccesso, l'au-delà del desiderio, nevvero? [...] Il porno si instaura alla morte del desiderio. Morto, sacrificato l'Eros, l'aldilà del desiderio, quando tu fai qualcosa aldilà della voglia, la voglia della voglia: questo è il porno. È una svogliatezza. Il più grande pornomane, pornografo, è Franz Kafka, non è Sade. [...] Io mi considero nel porno. Il porno è il manque, l'altrove, il quanto non è, il quanto ha superato se stesso, è quanto non ha voglia, è quanto non "gli tira" (pur tirando, non tira – è stirato, per sempre).
  • Una volta tanto, in questa trasmissione, si sta parlando davvero di cazzate, finalmente. Era l'ora di riconoscere che si parla sempre di cazzate! Questa sera stiamo dicendo che non stasera son cazzate, ma che sempre si parla soltanto di parole, cioè di cazzate. Senza che si offenda il fallo.
Fatemi il funerale da vivo, L'espresso, 13 gennaio 2000
  • Ci sono cose che devono restare inedite per le masse anche se editate. Pound o Kafka diffusi su Internet non diventano più accessibili, al contrario. Quando l'arte era ancora un fenomeno estetico, la sua destinazione era per i privati. Un Velazquez, solo un principe poteva ammirarlo. Da quando è per le plebi, l'arte è diventata decorativa, consolatoria. L'abuso d'informazione dilata l'ignoranza con l'illusione di azzerarla. Del resto anche il facile accesso alla carne ha degradato il sesso.
  • Con Benigni siamo amici da anni. Lui è grande nel "buffo", ma lasciamo stare il "comico". I buffi sono concilianti, rallegrano la corte e le masse. Il comico che interessa a me è un'altra cosa. Cattiveria pura. Il ghigno del cadavere. Il comico è spesso involontario. Specialmente quando si sposa con il sublime.
  • È tutta la vita che tolgo di scena il burattino, l'incubo di un pezzo di legno che ci si ostina a voler farcire con carne marcia. Precipitare nell'umano – che parola schifosa – questa è la disavventura. Gli anatomisti gridano al miracolo quando parlano del corpo umano. Ma quale miracolo?! Un'accozzaglia orrenda, inutilmente complicata, piena di imperfezioni e di cose che si guastano.
  • Il corpo implora il ritorno all'inorganico. Nel frattempo non si nega nulla.
  • In quanto al mio amico Vittorio Gassman, gli dissi una volta scherzando: "Non puoi accontentarti di essere il meglio del peggio, cioè il pessimo".
  • Io sono già dimenticato, meglio ancora ignorato, in vita. Mi hanno promesso a Otranto i funerali da vivo. Non c'è bisogno di consegnare un cadavere in pubblico per meritare la dimenticanza.
  • La voce dell'opera si è fermata con la Callas, una perfezionista, nel senso che perfezionava i suoi difetti, come tutti i geni. Trovare e cestinare. Di questo si tratta.
  • Me ne fotto di quel che mi riguarda. Malati gravi si è per definizione.
  • Nelle aristocrazie il principe non si fa eleggere, è lui che elegge il suo popolo. In democrazia il popolo è bastonato su mandato del popolo. È la pratica certosina dell'autoinganno. Si dice che il trenta per cento sia astensionismo. Nego, tutto è astensionismo. Sono comunque voti sprecati.

Quattro momenti su tutto il nulla[6]

Il linguaggio

  • [...] negli spettacoli s-concerti ho di-scritto la voce dell'inorganico, dell'inanimato, dell'amorfo, del non resuscitato alla smorfia dell'arte. Lasciandomi possedere dal linguaggio e non disponendone siccome dato in quasi tutta l'espressiva cartolina del novecento poetico nostrano. Da dove ho cominciato a farla finita una volta per tutte con il discorso. Nessun problema finalmente, un incipit e di per se la fine.
  • Siamo, quel che ci manca. Da per sempre.
  • È strarisaputo che il discorso non appartiene all'essere parlante.
  • Quando crediamo d'esser noi a dire, siamo detti. Nel discorso, l'arroganza volitiva d'ogni mia intenzione è irrimediabilmente frustrata e, dal momento che non siamo noi dicenti ad argomentare in voce ciò che ci frulla in mente, così come non sei puoi dire nulla. Questa mia voce è me attraverso medium equivoco di un discorso "altro" dal presupposto virgolettato "mio discorso". Il dire è la messa in voce, altra da questo o quel pensiero argomentato. Voce che perciò dice nulla.
  • Si può solo dire nulla: destinazione e destino d'ogni discorso. Ma solo questo nulla è proprio quel che si dice. La verità del discorso intesa come esperienza stessa del suo errore. Altro non resta che, in tutto abbandono, lasciarsi comprendere dal discorso senza appunto la nostra volontà di intenzione. "Codesto solo oggi possiamo dirti: ciò che non siamo, ciò che non vogliamo". E Nietzsche mutuato non distinguo da Montale. *Mi sono ripetuto dimostrandolo mille e più volte che il termine attore ha il suo etimo nell'"àgere retorico" e nemmeno per sogno nel verbo agire. E nonostante la solarità della mia lezione questi frenetici spazzini del proscenio seguitano a naufragare. Dove?... nell'identità, scorreggiona del teatrino occidentale. Patronale. Del testo a monte, prosternati davanti alla morale del senso, alla strisciante, servilissima, venerazione dei ruoli; all'insensatezza psicologica, alla verità verbale coniugata alla più insulsa, stucchevole frenesia del "moto a luogo". Alla rappresentazione insomma dei codici di stato. Come se a tanta indecenza non provvedesse la virtualità della vita tout court.
  • La mia frequentazione cinematografica è ossessionata dalla necessità continua di frantumare, maltrattare il visivo, fino talvolta a bruciare e calpestare la pellicola. M'è riuscito filmare una musicalità delle immagini che non si vedono, per di più seviziate da un montaggio frenetico

Coscienza e Conoscenza

  • Sgombriamo il campo da qualsivoglia impossibile comunicativa destinazione. Abortita ogni smania insulsa del proferire ad essere compreso.

L'Eros

  • Grodreck precisa essere la copula un surrogato della masturbazione e non viceversa.

L'Arte

  • Accidenti ai quattrini!... Accidenti alla cartaccia moneta!... Questa orrenda matrigna dell'arte, di tutte le arti. Mestiere infame questo dell'artista. Da sempre nell'eterno quotidiano della vita invivibile, indissolubilmente coniugato alla piccolo borghese fatalità del miserabile. Coniugato a tal punto che quest'ultimo poveraccio spregevole termine potrebbe benissimo sostituire l'altro, cioè quello dell'artista, in un più intransigente rigoroso dizionario. A un individuo abbiente è rispettabile, non verrebbe mai in testa di vivacchiare con ciò che è detto: arte. Arte: il più astruso e stupido tra gli espedienti.
  • L'autorialità è un doppio falso, nell'idea che la origina e nell'artificio che quell'idea stravolge realizandola.
  • Un altro impulso alla minacciosa professione estetica è senza dubbio costituito dall'ansia individuale d'esprimersi, cioè manifestarsi attraverso la produzione di materiali eterogenei, infiocchettati... quando si crede basti a suscitare l'emozione spettatoriale, simultanea al configurarsi dell'oggetto bello e all'attenzione della stima critica.

Citazioni tratte dalle opere di Carmelo Bene

Vita di Carmelo Bene

  • Andiamoci piano con questa storia che un bel giorno si nasce. Non è così scontato. In quegli anni [Anni '30] venire al mondo e farla franca era come scampare ad Auschwitz. La gestante era una signora a rischio, destinata quasi sempre a perire. Lei o il bambino. Qualche volta entrambi. (pag. 7)
  • [La poesia è] Distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e soprattutto, urgenza, vita, sofferenza. È l'abisso che scinde orale e scritto.
  • È la folla come fallo, è l'errore di massa. Non l'erranza. È finita quell'erranza, il nomadismo, il pensiero. Dove c'è qualità si muore. Si tocca il filo rosso. Crepi. È cortocircuito.
  • Gli impiegati andrebbero murati in casa. La domenica. Murare le finestre. Magari non in cemento, con dei mattoni forati. Quando vanno al lavoro possono sbizzarrirsi. Inalare qualche boccata di smog. Altro che verdi. Ecologicamente, la presa d'aria deve essere letale.
  • I giornalisti sono impermeabili a tutto. Arrivano sul cadavere caldo, sulla partita, a teatro, sul villaggio terremotato e hanno già il pezzo incorporato. Il mondo frana sotto i loro piedi, s'inabissa davanti ai loro taccuini e tutto quanto per loro è intercambiale letame da tradurre in un preconfezionato compulsare di cazzate sulla tastiera. Cinici? No frigidi. (pag. 76)
  • Il fatto di essere nati [Negli anni '30] costituiva di per sé un'impresa. Sopravvivere ai tumulti dell'utero, a questo natale bellico, allora funesto nel novanta per cento dei casi. Più che nato, sono stato abortito. Ecco, io mi considero a tutti gli effetti un aborto vivente. (pag. 7)
  • L'intrattenimento ormai è demandato alle casalinghe, traslocate dal bordello domestico a quello televisivo.
  • [La letteratura] Maggiore o minore è, comunque, non soltanto menzogna, è chirurgia scongiurata, devitalizzata, guazzabuglio di vita simulata.
  • [Le donne] Le trovi puttane e le lasci un secondo dopo madri e, negli intervalli dell' "accanimento matrigno",

irreversibilmente depresse, toccate dall' "angoscia inconoscibile".

  • Si nasce e si muore soli, che è già un eccesso di compagnia.
  • Un grande artista, se davvero se ne sbatte dell'arte lasciandola a quello che è, ingloriosa defecazione, si pone per quello che è, un pericolo pubblico, un criminale. In questo senso, sono stato, sono un criminale. Ho sempre cercato il mio patibolo. Il cemento delle teste vuote contro cui andarmi a disintegrarmi. Mai cercando il sociale.
  • Disprezzo i giovani di questi ultimi trent'anni. Tutto il lager schiamazzante delle rivolte studentesche. Questa sciagurata età (tutt'altro che oisive) pericolosamente volitiva. Mummie foruncolose e imbellettate che, con la scusa di rivendicare e accattonare un mutamento, una riforma o altro, nidificano nell'autoconservazione. Questa perpetua assemblea è il confort della bestialità del branco. Di giovinazzi e giovinazze che, invece di sequestrare se stessi, "desiderando" (è l'etimo di "studio") e progettando in tutto privato, s'illudono di "okkupare" una scuola pubblica allo scopo cretinissimo di conferirle "dignità" ed "efficacia" innovativa. (pag. 26)
  • Il comico è cianuro. Si libera nel corpo del tragico, lo cadaverizza e lo sfinisce in ghigno sospeso. (pag. 31)
  • Era un metodo [metodo Sharoff] fondato sul risveglio dei sentimenti. Per commuoverti dovevi fare cose turpi, come pensare che tua madre era morta. Stanislavskj beato. Io a mia madre volevo molto bene, m'aveva pure concesso di iscrivermi all'accademia, ma pensarla cadavere mi ripugnava, e comunque non mi risvegliava un bel niente. Non mi faceva piangere. La morte, in generale, non mi ha mai fatto piangere. È così incipiente. È un incipit. (pag. 44)
  • Non ero (e non sono) ancora mai stato a teatro. Per me il teatro era solo quello d'opera, il "Margherita" a Bari, l'Arena a Verona, a Roma "Caracalla", il "Politeama" di Lecce. Mi ci portavano i genitori, appassionati di lirica, quando andavamo in villeggiatura. Il teatro era cantato. Lo vedevo e soprattutto lo ascoltavo in radio. Ignoravo il teatro di prosa. E non ho mai più smesso di ignorarlo. (pag. 41)
  • Il culto della donna gravida, della puerpera e della mamma, è la più manicomiale abiezione della razza umanoide. Questa efferata "matrice" preferirei ammetterla come madre di Dio, purché fosse disposta a dimettersi come matrice dell'uomo. (pag. 91)
  • La sera della prima successe un parapiglia infernale. Questo Greco, poco assuefatto al bere, si briaca di brutto [...] L'apostolo Giovanni (il Greco) cominciò a dare in escandescenze [...] In ribalta si alza la veste, mette il lembo fra i denti e comincia a orinare nella bocca dell'ambasciatore d'Argentina, della consorte in visone e dell'addetto culturale.
    Nel frattempo, si faceva passare le torte destinate al dessert e le spappolava in faccia a quel diplomatico e signora [...] Fui condannato in contumacia [... e poi] assolto per essere estraneo ai fatti. (pagg. 131-133)
  • Nessun’azione può realizzare il suo scopo, se non si smarrisce nell’atto. L’atto, a sua volta, per compiersi in quanto evento immediato, deve dimenticare la finalità dell’azione. Non solo. Nell’oblio del gesto (in questo caso tirannicida) l’atto sgambetta l’azione, restando orfano del proprio artefice. ( pag. 237)
  • Dalla fessura del cancello filtra la sagoma alticcia di Ruggiero Orlando, la bottiglia di scotch in pugno. Barcollando, poggiandosi precario a provvidenziali fusti indovinati al buio, accostandosi al tavolo da gioco: "Caro Carmelo... ho saputo che sei apparso alla Madonna!", e giù, piegato in due, in uno sgangherato sghignazzo dei suoi. C.B. folgorato; "ecco il titolo del mio libro". (pag. 239)
  • Insieme a Eduardo, progettammo all'epoca un film da La serata a Colono, il capolavoro della Morante, vertice della poesia italiana del Novecento. Sorbendo il tè nel suo attico al centro, Elsa ci sollecitava a realizzarlo, ritenendoci gli unici in grado di farlo. Testimone allora Carlo Cecchi, che fu vicino alla Morante nei giorni estremi del coma. Ricoverata in questa clinica da quattro soldi, senza più l'uso delle gambe, in miseria, dimenticata da tutti. Aveva rifiutato anche il televisore. Voleva restare lucida sino in fondo. Non so bene se e cosa Moravia abbia fatto per Elsa. L'unica cosa che ho sempre rinfacciato ad Alberto è di non aver saputo impedire quello scempio vano delle collette pubbliche e degli appelli umanitari nei giornali. (1998, p. 298)
  • Io non sono marxista perché non sono romantico fino a questo punto. (1998, p. 359)

[Carmelo Bene, Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani 2005]
[Carmelo Bene - Giancarlo Dotto, Vita di Carmelo Bene, Bompiani, Milano, 1998. ISBN]

Opere, con l'Autografia d'un ritratto

Autografia d'un ritratto

  • Si è costretti all'esserci trafelato: questo piegarsi alla rappresentanza, ai libri, a questa nourriture della quale avrei fatto assolutamente a meno. Non si scampa alla volgarità dell'azione, alla scorreggia drammatica di Stato. Si è obbligati allo scandalo, quasi fosse la "prima comunione" con l'indifferente prossimo tuo, con l'odiato condominio che non detesterai mai quanto te stesso. (tav. VI)
  • Un'azione fermata nell'atto è quanto m'è piaciuta definire sospensione del tragico. È così che, grazie all'interferenza d'un accidentaccio, la surgelata lama del comico si torce lancinante nella piaga inventata tra le pieghe risibili-velate della rappresentazione nel teatro senza spettacolo. (tav. X)
  • Il talento fa quello che vuole, il genio fa quello che può. Del genio ho sempre avuto la mancanza di talento. (tav. VI)

Lorenzaccio

  • Lorenzaccio è quel gesto che nel suo compiersi di disapprova. Disapprova l'agire. E la storia medicea, dispensata, non sa di fatto stipare questo suo (–) enigma eroico; ha subìto e glorificato di peggio, questa Storia. Ma le cose son due: o la Storia, e il suo culto imbecille, è una immaginaria redazione esemplare delle infinite possibilità estromesse dalla arbitraria arroganza dei 'fatti' accaduti (infinità degli eventi abortiti); o è, comunque, un inventario di fatti senza artefici, generati, cioè, dall'incoscienza dei rispettivi attori (perché si dia un'azione è necessario un vuoto della memoria) che nella esecuzione del progetto, sospesi al vuoto del loro sogno, così a lungo perseguito e sfinito, dementi, quel progetto stesso smarrirono, (de)realizzandolo in pieno. (pag. 9)
Lorenzaccio (versione italiana e riduzione da A. Musset)
  • FILIPPO – Avresti deificato gli uomini, se non li disprezzassi.
    LORENZO – Ma io non li disprezzo, li conosco. Ve ne sono pochi pessimi, molti vigliacchi e tanti indifferenti.
    FILIPPO – Sono contento. Sì, mio malgrado, mi batte il cuore.
    LORENZO – Meglio così.
    FILIPPO – ... Neghi forse la storia del mondo intero?
    LORENZO – No, non nego la storia, ma io non c'ero. (pag. 1306)

Nostra signora dei Turchi

  • "Ci sono cretini che hanno visto la Madonna e ci sono cretini che non hanno vista la Madonna"
    Io sono un cretino che la Madonna non l'ha vista mai" ...
    [...] Ma i cretini che vedono la Madonna, non la vedono, come due occhi che fissano due occhi attraverso un muro: miracolo è la trasparenza
    [...] I cretini che non hanno visto la Madonna, hanno orrore di sé, cercano altrove, nel prossimo, nelle donne – in convenevoli del quotidiano fatti preghiere, – e questo porta a miriadi di altari
    [...] I nostri contemporanei sono stupidi, ma prostrarsi ai piedi dei più stupidi di essi significa pregare. Si prega così oggi. Come sempre. Frequentare i più dotati non vuol dire accostarsi all'assoluto comunque. Essere più gentili dei gentili. Essere finalmente il più cretino. Religione è una parola antica. Al momento chiamiamola educazione. (pag. 76-79)
  • Non pensare alla parola santo quattro volte e nemmeno sentirsi investito, equivaleva ad esserlo per quattro secondi. [7]

Credito Italiano V.E.R.D.I.

  • Se il mondo fosse la visione che ne abbiamo e non quella che il mondo ha di noi saremo forse più riservati. (pag. 179)
  • Non era un anno, ormai, ma molto più, che gli era entrato in testa un chiodo fisso: che la fortuna lo perseguitasse, invereconda in una morsa di ferro... Voglio vivere zoppo se tu mi vuoi, ma di tutte e due le gambe, perché con una gamba sola si può volare... (pag. 224)
  • Se ne stavano entrambi ora, seduti, completamente nudi, [...] Nemmeno l'avessero fatto apposta, gettarono, all'unisono di una pausa obbligata, lo sguardo nel baule scoperchiato: banconote a mazzetti da diecimila lire traboccavano, sfidando i limiti della capienza, nuove di zecca. La fiamma crepitava minacciando di estinguersi. Si guardarono negli occhi, senza volerlo o vedersi. Ne prelevarono, meccanici, un pacco per uno, come accingendosi a una partita di ramino [...] Giacobbe pescava con la sinistra e con la destra bruciava... (pag. 186)
  • [...] "a che pensi?" si senti domandare. "È atroce!" le sorrise. "Non riesco a scacciare il pensiero che da un momento all'altro potrei rifarmi". (pag. 186)
  • Che intendeva fare Giacobbe? Dopo aver bruciato cinque miliardi di lire italiane, ridotto sé e Rachele all'indigenza, gli sarebbe mancato altro che un vecchio padre da sostentare, sicuramente invalido. Appunto, era questo che gli mancava. (pag. 227)

L'orecchio mancante

  • ...un pamphlet [... sui] diversi modi in cui, attraverso lo script cinematografico, si possa deturpare la poesia[3]. Forse, la cosa più disgustosa che abbia mai abortito. Contro l'orrore dell'immagine e della scaletta a monte, quella che si chiama soggetto. (pag. 229)
  • Tanto per cominciare deve costare poco ne siamo fatte un'altra l'anno venture come si chiamò... Pallida... la mia signora? Vi presenta la mia signora pallida... La manina, come cazz' si chiamava... - Centoventimilioni centosessanta se non vi vado errando quell'era provvisoria come il titolo quella era un altro per l'arreda è fatte sempre cose di litterature sono comunguo... Porca... non me ricorde che fa così poooortoooil mantearrighe e fa l'avvocato che poi al secondo tempo pure lui fa il notaio che poi lei muore... perché era malata ahhaaa era pallide aaaahaaa; pallida, pallide! pallide!!! [...] (pag. 231)
  • E la speranza è tanta
    che non mi basta più
    ma tale che m'avanza musicale
    la vita. (pag. 265)

S.A.D.E.

  • Sono il servo dell'insolito, | condannato all'erezione | complicata d'un padrone | libertino, si vedrà ... | ino ino ino ino ...||Complicato è il mio padrone | nell'orgasmo (nell'orgasmo) si vedrà! ... (pag. 293)

Ritratto di Signora

  • [...]
    SEMPRELEI – Non credo un niente! Tu non vuoi morire. Hai paura. Hai paura della moda! Son così indaffarata che non ho saputo odiarti come tu volevi. Poveraccio! Ed è tutto, poveraccio! Provane un'altra! Cosa non vuoi da me!...
    LUISOLO – Lo sai, Maria, non scrivo più da tanto ...
    SEMPRELEI – Poveraccio, non basta ... per non pensare a niente! Non basta: Guarda me. M'hai scritta tu. Se ti sono sfuggita dalla penna, perché non credermi? Perché ostinarti a rileggere questo errore più grande di te? Straccia il tuo compito da sufficienza in mille pezzi, in mille compitini senza senso ... Credimi e sarò un'altra che non c'è. Mi penserai tra gli angeli, tra gli infiniti azzurri modi di dire che non pensiamo a niente! [...] (pagg. 391-392)

Giuseppe Desa da Copertino (A boccaperta)

  • Giuseppe ha male, ha male verramente. Ha male al male. Ma dentro il cerchio della sua testa ormai si è spalancato quell'altro cerchio aperto della sua bocca, che non premia con l'estasi o il sogno il suo eroe ancora... (pag. 456)

La voce di Narciso

  • Non esisto dunque sono. Altrove. Qui.
    Dove? m'apparve il sogno ad occhi aperti
    di Lei che non fu mai
    Colei ch'è mai vissuta e mai morì. (pag. 995)
  • Il Vampiro-Attore è paradossalmente il Femminile elevato a Coscienza [...] Il teatrino dell'Io frantuma [...] (pag. 997)
  • È l'impunita, recidiva immaturità dei morti. Questo soltanto può produrre poesia toccante. Tutto il resto è teatro [...] Nel teatro del non rappresentabile, l'Attore è infinito. È l'infinito della disattenzione para-statale. È l'infinito della mancanza di sé. (pagg. 998-999)
  • Nel grande oblio dei palcoscenici d'oro, la parola fu musica, finché l'avvento del'epos-euripideo-socratico rovinò la poesia tragica in dialettica [...] defraudando il teatro della sua consolazione metafisica, per degradarlo a istituto per la formazione morale del popolo. (pag. 1005)
  • Se il socratismo dialettico caccia il miracolo dalla scena, per instaurarvi il testo razionale disastrosamente affidato alla lettura di attori 'intellettuali', il teatro è morto. È inutile l'inutile della grande estate tragica [...] Il teatro è sfinita e insensata rappresentazione, cerimonia funebre officiata da un prete cialtrone (il nus di Anassagora), reggitore e 'coordinatore del tutto': il regista e un suo chierico; cercano entrambi 'un letto in un domicilio altrui'. Figurarsi gli astanti: senza fede alcuna e nessuna parentela col defunto, convenuti un po' a svagarsi a questo funerale a pagamento. (pag. 1008)
  • [Riferendosi agli attori del "teatro della rappresentazione"] Essi esibiscono, quasi un virtuosismo, la stupidità della propria facoltà mnemonica (anche leggendo) nient'affatto sfiorati dalla necessità urgente della memoria in quanto scrittura vocale. Essi dicono e ricordano altro. Dicono e non son detti. Non son parlati. Parlano [...] riferiscono il testo [...] (pagg. 1014-1015)
  • Non può il concorso simultaneo o no di più 'mezzi espressivi' meritare la 'totalità' artistica (e dovunque così la si ricerchi ne risulta un pasticcio insensato)'. [...Si deve scongiurare] l'equivoco mimetico visivo, sollecitato sempre dalla peregrina illusione che l'assemblaggio in scena di differenti "mezzi espressivi" realizzi il "totale" a teatro [...] (pagg. 1018-1019)
  • [Tamerlano] ... non è un eroe omerico favorito dal dio. È piuttosto la somma delle (sue) parti avverse in campo, ivi soprattutto comprese il dio [...] Dominatore incontrastato, è quanto si sostituisce allo spettacolo. (pagg. 1022-1223)
  • [...] la perfetta fusione del grande attore critico e l'istrione cabotin che, in continuum, si assume il compito di complicare la vita del grande attore" [...] L'istrione ha il compito di sgambettare il disegno che il grande attore critico sta allora tracciando sulla scena [...] Il non-attore è l'artefice per eccellenza: carisma a parte, la sua presenza in scena è poesia. Tutto il resto è teatro. (pag. 1026)
  • Il governo italiano non intende detassare i teatranti al botteghino e chiudere una buona volta per tutte il ministero dello spettacolo.

Lo stato democratico, finanziando chiunque a tutti i costi, difende la platea dalla eventualità poetica dei mostri. Lo stato paga tutti, corrompe tutti indiscriminatamente a un solo prezzo: derubare, paralizzare uno solo (forse due?) altro; e questo altro può giuocare, se vuole e finché vuole, l'aristocrazia che gli è propria; può, se vince il disgusto, seguitare il suo sogno "vittimistico", fatto incubo. Può seguitare a esprimere quella irritante irrappresentabilità che gli è propria, sul palcoscenico patibolare della (in)tolleranza sociale. (pag. 1028)

  • Sento in tutta coscienza di non meritare comprensione alcuna. Il poeta vuol essere trascurato, perché rimanga tale. (pag. 1032)
  • L'avvento della donna sulle scene segna una volta per tutte la scissione tra maschio e femmina, condannati a caratteri sessuali, differenti nel senso diversi l'uno dall'altra, cancellando da una parte l'erotismo ... e dall'altra l'osceno ..., la perversione che è il teatro nel suo farsi: il fantasma. (pag. 1039)
  • [...] si tratta di vedere in che misura la revoca di quel divieto alla donna d'essere attrice abbia contribuito al definitivo smarrimento del riso sulle scene. A mio avviso, non vi ha soltanto contribuito: ha addirittura rovinato la festa, o almeno quel che ne sarebbe potuto avanzare". (pagg. 1037-1038)
  • [... ]la donna sarebbe stata riammessa sulle scene, al solo scopo ingrato - in quanto simulacro di donna - di scongiurare la femminilità e il degenere così precipitati [...] Estratta dalla sua realtà sociale, solo apparentemente libera in arte, è doppiamente svergognata in palcoscenico [...] (pag. 1040)
  • Il mio disprezzo per l’attore contemporaneo è qui: nella sua tanto ricercata incapacità di mentire, nel suo elemosinare una sciagurata attendibilità; nella sua ormai troppo provata incapacità di rimettere in gioco ogni sera il modo stesso di far teatro; nel suo terrore imbecille d’autoemarginazione; nel suo noioso cicalare di "crisi del teatro" e perciò mai tentato abbastanza dal valzer d’un teatro della crisi; nella sua tecnica (se mai così può definirsi un limite penoso) esclusivamente maschia ». (pag. 1036)
  • Importante nella bambina è l'assenza della donna. Che cos'è la bambina? Cosa non è, intanto? Non è donna. È deliziosa perché non è. Donna è. Ed è tutt'altro che 'bello'. Fare delle bambine delle donne in minore è volgare [...] La bambina, provvidenza incosciente dell'onnipotenza, è un miracolo, perché, mancandoci come donna, è tuttavia reale e viva. È opera d'arte. (pagg. 1042-1043) [...] La bambina è giuoco innocente e perverso. (pag. 1044)
  • [Beatrice è...] un nome e al tempo stesso un nome convenuto, quasi la cifra dell'innominabile. È quel che manca in un nome [...] È l'afasia della nominazione". (pag. 1046).

Sono apparso alla Madonna

  • V’è una nostalgia delle cose che non ebbero mai un cominciamento. Affondare la propria origine - non necessariamente connessa alla nascita - in terra d’Otranto è destinarsi un reale-immaginario. E lì, appunto, nel primo dì di un settembre io fui nato. Otranto. Da sempre magnifico, religiosissimo bordello, casa di cultura tollerante confluenze islamiche, ebraiche, arabe, turche, cattoliche. Ne è testimone la stupenda cattedrale. Il suo favoloso mosaico figurante l’"albero della vita", dell’anno 1100. (pag. 1052)
  • "sospensione del tragico", al rifiuto di essere nella storia, anche e soprattutto in scena. L’essermi come Pinocchio rifiutato alla crescita è se si vuole la chiave del mio smarrimento gettata in mare una volta per tutte. L’essermi alla fine liberato anche di me. (pag. 1052)
  • Fu proprio a Genova che iniziò il mio calvario di Don Giovanni. D'allora in poi l'assenza della Madonna che era in me, e in che ormai consistevo, meritò tutta la prassi fin troppo ossessiva della presenza della donna nella vita e sulla scena. (pagg. 1062-1063)
  • Don Giovanni non è certo l'impotenza - secondo certa stoltezza di certo femminismo. È il femminile stesso che va a verificare i propri vuoti nella mortificazione del corpo donnesco. (pag. 1063)
  • [...] tutto questo [ovvero la mancanza del femminile nella donna] non comporta un astio nei confronti della donna o delle donne, ma semmai un'infinita agape schopenhaueriana, semmai lo stupore infinito che la donna non sia l'abbandono. (pag. 1065)
  • [...] non si trattava di una metodologia interdisciplinare [allorché Bene inizia a dedicarsi alla scrittura], ma, nella mia prassi letteraria, di una musicalità anche nella scrittura. Covava l'esigenza antiumanistica per eccellenza. Covava "domina", l'indisciplina. (pag. 1070)
  • Per dirla tutta, il mio teatro cominciò là dove già l'avevo scontato, là dove non c'era più nulla da dire, ma da esser detti. (pag. 1071)
  • Giovanissimo capocomico, senza un soldo, circondato finalmente da guitti straordinari reperiti nel Borgo Santo Spirito dalla signora D'Origlia e dal cavalier Palmi, miei ottimi amici. (pag. 1071)
  • [Riferendosi alla Compagnia D'Origlia-Palmi] Erano formidabili derisioni ai danni dell'identità [...] Scacco giurato al ruolo... (pag. 1073-1074)
  • E dio sa quanto sia tempo vano iniettare una sola stilla femminile in donnesca creatura. Il mascolino la possiede inclemente, queste femmine, inimiche giurate dell'abbandono una volta per tutte. (pag. 1088)
  • [La donna ha] tanti miracoli a sorpresa, che soltanto l'arroganza politica omaccia interdice loro di compiere, sissignori: "d'esprimersi". (pag. 1088)
  • [...] il sempre a sproposito auspicato riscatto della donna è soprattutto il misconoscimento della sfera estetica. (pag. 1088)
  • La "cosa"-donna esige un suo recupero, ahimè legalizzato, del maschile che, santo iddio, le è proprio da per sempre. (pag. 1089)
  • Da quei balconi arcati, leggi nei giorni chiari Albania rosa. Senti ognora la vita scelta a forza. Tristo, tristo indovinello sbiadisce sul fondale a flutti neri dipinti ripetutamente in basso dell'azzurro infinito. Azzurro d'Africa. Sotto, immediato è il brontolio sulfureo - cassa a lutto tra le rocce ciclopiche, orrendo corpo che vi si dilacera. (pag. 1090)
  • Leggevo a mezza voce, proprio per niente mortificato di non capirci niente. (pag. 1107)
  • L'erotismo è linguaggio d'accatto prenatale. Eccederlo è inoltrarsi nella quiete che somiglia quella della gente morta. (pag. 1116)
  • V'era (v'è) dunque, un apparire della voce che sempre si verifica se conferisci c o n, se parli a.

            Quand'io incominciai a render vano l'udire...

    mi diceva la voce, il mio interno cantar l'ascolto, e, ventilata da un'ala d'emicrania, la mia mente d'altrove profondava nel sud del Sud dei santi; ma depensata lieve in mongolfiera in celeste balìa sull'infinito del mare stanco. (pag. 1126)
  • Nostra Signora dei Turchi fu un grido al nuovo cinema che era nato. Ma in Italia basta voltarsi un attimo e non si è più. (pag. 1138)
  • Certo, Eduardo scrive "a monte" qualcosa che poi potrà minare in scena da quel grande attore che è. Non so quanto scientemente, ma lui si predispone la sua trappola, il famigerato copione cui crede tanto, tanto da restare ai posteri. In questo è donchisciottesco, e lo amo molto. Come si fa a non amare Don Chisciotte. (pag. 1146)
  • Poesia è distacco, lontananza, assenza, separatezza, malattia, delirio, suono, e, soprattutto, urgenza, vita, sofferenza [...Poesia] è risuonar del dire oltre il concetto. È intervallo musicale d'altezza [...] È l'abisso che scinde orale e scritto. (pag. 1155-1156)
  • [riferendosi al "discorso silenzioso", senza parole, tra Bene e Jacques Lacan] Si evitava il laicume del più e del meno, il convenevole? Ma sì, d'altro non c'era [...] La sovrintelligenza di lacan meritò alla mia lucida stanchezza questo indimenticato incontro a vuoto, concedendo un bel niente all'occasione frastica convenevole di che gli umani si derubano quotidie in malintesi truccati da "rapporti. (pag. 1163-1164)

Hamlet Suite

  • Povero pallido individuccio
    che non crede che al suo io che a tempo perso
    Vidi svanire la mia fidanzata
    portata via dal corso delle cose
    Così lo spino vede sfogliarsi
    col pretesto che è sera

le sue più belle rose. ... (pag. 1363)

  • Esser celebri lontano da qui!
    Oh, cara aurea mediocritas!
    Ma l'arte è tanto grande,
    ...e la vita così breve! (pag. 1373)

Pentesilea

  • Madre era meglio che tu restassi
    tra le immortali nel profondo giù
    del mare
    che una mortale Pelèo sposasse
    Anche a te sarà strazio
    infinito nel cuore
    ché morto il figlio non potrai abbracciare
    ché l cuore Questo non mi spinge questo
    a vivere tra gli uomini
    ché il cuore Questo non mi spinge a stare

    Tè vicina la morte come dici
    Ma qui non v ha ritorno ha da coprirmi
    la terra
    Madre Un Dio m ha forgiato le armi
    immortali Le armi immortali
    ma terribile sento
    penetrare le mosche
    ne le piaghe del ferro brulicare
    vermi sfigura il corpo
    Questa La Vita è morta
    Questa la carne tutta ne marcisce (pag. 1335)

[Carmelo Bene, Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Bompiani 1995]

'L mal de' Fiori

  • Dans la poesielavie
    le toût que s'offresouffre
    éclate jamais de rire
    - ah le bleu charme du gouffre! -
    n'importequoiismetriste
    de cette vielapoesie
    au bain-marie artiste (pag. 5)
  • Se tesa duole
    questa mano se vuole
    afferrare per l'oro de' capelli
    la gloria se mi sfiora
    nera una forza ne disvuole il gesto (pag. 28)
  • Voce mia tua chissà chiamare questo
    Mia tua chissà la voce che chiamare
    ventilato è suonar che ne discorre
    in che pensar diciamo e siamo detti
    vani smarriti soffi rauchi versi
    prescritti da un voler che non si sa
    disvoluto e alla mano intima incisi
    segni qui divertiti disattesi
    sensi descritti testi
    d'altri che morti fiati
    dimentichi 'n mia tua chissà la voce

    Noi non ci apparteniamo È il mal de' fiori
    Tutto sfiorisce in questo andar ch'è star
    inavvenir
    Nel sogno che non sai che ti sognare
    tutto è passato senza incominciare
    'me in quest'andar ch'è stato (pag. 37)
  • Tie jentu miu percè cchiu nu rrefiati
    intra sta capu a fiuri? Ieri ssira
    nu sciardinu ccantatu era sta capu
    te sciumei te carrofali arvereddi
    erdi de parme ccetratina e 'rose
    gersumini gerani nu ndurare
    ddacquatu te pensieri (pag. 78)
  • ... siccome è gira gira ferma qui a noi d'accanto
    su 'l perno 'l suo 'na giostra
    di ciuchi 'cartapesta che si dondolano
    immoti e vanno vanno
    in chissadove infanzia... (pag. 143)
  • Tu 'un lo senti che noialtridue siccome l'altri
    s'è digià fradiciata porannoi morta gente
    come tu la mi mà che son 'nterrati
    raggirati nun so da che issoletico [...] (pag. 145)

[Carmelo Bene, 'l mal de' fiori poema, presentazione di Sergio Fava, ed. Bompiani, marzo 2000]

  • [...] Non si può che confermarsi 'stranieri nella propria lingua'. Il plurilinguismo (crogiuolo di idioletti, arcaismi, neologismi di che trabocca il poema) è il contrario d'una accademia di scuola interpreti. È 'Nomadismo': divagazione, digressione, chiosa, plurivalenza, ecc. Il testo intentato è (deve essere) smentito, travolto dall'atto, cioè de-pensato.[8]
  • Nel 'mal di questi fiori' si fa sempre più solare il fatto che laddove il tutto possa sembrare una eruzione vulcanica, è invece somma-sottrattiva che, mediante le più svariate soluzioni chimico-linguistiche, via via si svuota.[8]

Opere cinematografiche

Hermitage

  • Cara, è un divino errare. Ma destino ti accompagnò alla mia casa. Il passato tuo e mio non conta più. Quindi devi tornare. Credimi. Tuo.
  • [...] Troppo tardi apprezzava il suo cristianesimo, tardi, se non sapeva più peccare. Non era in grado nemmeno di godere quella negazione ormai a lui congeniale. Non era più felice di soffrirla dinanzi all'incomprensione levantina del suo imperatore...
  • [...] Ma stanotte, tu stai per apparire agli occhi della folla, nelle vie bagnate di zafferano punico, tra il clamore delle coorti, nel mezzo delle torce numerose, come i bei desideri, sopra un carro trainato da elefanti bianchi, così alto che abbatteranno gli archi al tuo passaggio...
  • Questo voler dir tutto in un racconto – che ridere! – la vita breve.
  • Ieri come oggi. Prendere dieci in storia per far contenta sua madre, o uccidere sua madre per far contenta la storia...
  • Cara mamma, io sto bene, lavoro molto. Ti abbra... ...Basta! è finita con chi mi vuole bene.

Nostra Signora dei Turchi

  • Attiguo a casa sua stava un palazzo moresco, denunciato dal salmastro, orientale, come un riflesso sbiadito. Scrostato sotto le volte degli archi e sulle cupole. Abitato l'inverno da Cristiani comodi che nell'estate pagana cedevano le due ali sul mare per non morire di fame. Proclamato la fine lo stato d'assedio, quel palazzo sarebbe diventato il quartier generale dei Turchi che di tra le viole del cielo assolato avevano ammainato le mezzelune.
  • Quella costruzione era un sunto di storia, oppure no. Era il suo carnefice convertito proprio quando toccava a lui, cinquecento anni fa. Le esecuzioni di 800 e più martiri ebbero luogo in un campo di grano di quei coloni inturbantati che mietevano spighe d'oro ingemmate in cinabro, impazziti all'incanto di quella miniera di Fede.
  • In quell'occasione egli pensò che sarebbe stato facile incontrarsi un'ultima volta. Era un santo a pregarla. Perciò le aveva scritto: "Vieni, stavolta è grave". E la risposta di Lei fu "stai tranquillo, ora non posso davvero. Vedrai che tutto andrà bene". Posa il capo su un sasso e la sognò. Si ribellò che ancora non l'avevano decapitato. Guardò in alto cercando il suo carnefice e lo trovò crocifisso. Poi gli dissero di levarsi e andarsene. Lui non aveva osato insistere; lo avevano umiliato, non c'è dubbio. Ma l'avrebbe rivista.
  • Se fosse stato loro il palazzo moresco, sarebbe anche vero oggi che le sue ossa figurerebbero sui velluti rossi, nella cripta della Cattedrale di Otranto. Incastrate, nel prodigio che le vuole ancora rivestite di carne, dopo tanto; come in quell'altro tutto suo miracolo che dopotutto la pensava ancora.

Opere teatrali

Amleto (da Shakesperae a Laforgue)

  • Avevo cominciato con il dovere di rammentarmi l’orrido, orrido, orrido evento. Per esaltare in me la pietà filiale, per far gridare l’ultimo grido al sangue di mio padre, per riscaldarmi il piatto della vendetta. Ed ecco invece ho preso gusto all’opera. Poco a poco mi scordai che si trattava di mio padre assassinato, di mia madre prostituita, del mio trono. Andavo avanti a braccetto con le finzioni di un bell’argomento... e l’argomento è bello.
  • E questo non è niente, Kate, non è niente. Ti leggerò tutto, andremo a vivere a Parigi. Io ti amo, ti amo, ti amo: vèstiti, vèstiti, tu sei un angelo in scena, un mostro sacro. Vèstiti. Faremo colpo. Vèstiti. Me ne fotto del mio trono. I morti son morti. Vedremo il mondo! Parigi, vita mia: a noi due!

Citazioni su Carmelo Bene

  • Io ho visto il debutto di Carmelo Bene in palcoscenico, a Roma, il famoso Caligola, che era quasi uno spettacolo tradizionale. Non era lui il regista, però abbiamo capito subito che era un attore straordinario e che avrebbe fatto bene al teatro. [...] E io ho scritto subito un articolo sul Times di Londra, dicendo questo era un nuovo uomo di teatro eccezionale. La cosa ha fatto un po' scandalo a Roma perché dicevano: "... ma come il Times parla di questo cialtrone?..." Poi questo cialtrone sarebbe diventato una icona della cultura italiana. (John Francis Lane)
  • [...] e cercavo un lavoro. e mi dicevano "... ma lei cosa ha fatto?..." "Carmelo Bene". "Beh, allora non se ne parla nemmeno...". (Carla Tatò)
  • Noi facevamo tanti spettacoli ogni stagione, almeno tre o quattro, con i nostri mezzi [...] per avere sempre critica, per avere una risonanza. Questo dal 64 al 68. [...] E la mattina all'uscita dei giornali, era sempre un'attesa perché si sperava che qualche critico si accorgesse e ne parlasse bene. [...] La lotta di Carmelo Bene è stata una lotta contro i critici. Io gli dicevo "... ma lascia stare, fregatene..." ma non poteva perché diceva "...no, mi danneggiano [...] almeno si limitassero a spiegare la storia, aiutassero il pubblico" ..., invece erano solo stroncature. (Lydia Mancinelli)
  • I nostri spettacoli erano sempre molto osteggiati, dalla critica, dal pubblico, da tutti, [...] (Lydia Mancinelli)
  • Più sociale nonostante tutto il teatro, più asociale il cinema e con una straordinaria e singolarissima autonomia di linguaggio la televisione. Riconquista della parola e del volto nell'era della più degradata spettacolarità, che ha strappato alla parola il suo potere abusandone e ridicolizzandola, e al volto la sua anima omologando le facce nella faccia unica d'una massa che crede di essere in quanto grida. (Goffredo Fofi)
  • Questa impossibilità di essere eroi è anche una delle basi del suo teatro, le basi della sua nostalgia di Verdi del "bel canto", della sua imposibilità a sapere che tutto questo, comunque, oggi non ha più senso. (Goffredo Fofi)
  • Io credo nella necessità di una certa follia [...] Carmelo Bene mette nel suo amore per il teatro una notevole mancanza di raziocinio, ed è per questo che i suoi spettacoli, persino al limite dell'indignazione, hanno qualcosa di impensabile e di affascinante. [...] C'è insomma in Carmelo Bene, una volta avviato il giuoco, quasi il proposito di soffocare le sue felici intuizioni nella routine del bizzarro [...] Detesto chi fa i baffi alla Gioconda, ma non ho niente da dire a chi la prende a pugnalate. (Ennio Flaiano)
  • [Patroni Griffi ...] se la prende col pubblico di "malpensanti" che va a vedere gli spettacoli di Carmelo Bene nella speranza di assistere ad uno scandalo, come se per assistere ad uno scandalo, in questo paese, sia indispensabile andare a teatro. (Ennio Flaiano)
  • È probabile che un giorno il successo convincerà Carmelo Bene di aver sbagliato tutto, il successo può arrivare fatalmente in una "civiltà di consumi" che adotta e riconosce con furia come proprie le novità che appena ieri riteneva aliene e sovvertitrici. (Ennio Flaiano)
  • Un teatro nuovo come "scandalo", per gli anni sessanta: con Carmelo Bene che, misteriosamente, chissà per quali vie, parte da zone contestative del linguaggio drammaturgico tradizionale, e che sul piano interpretativo si muove su filoni non immedesimativi; il linguaggio drammaturgico sradicandolo egli dal testo letterario o da un materiale di prestito, senza alcun rispetto della qualità e della quantità, con una dolce irriducibile violenza e con una persuasiva radicale manipolazione, per un segreto efficace istinto di rinnovata teatralità, in modo da non farne un pretesto di restauro o di modernizzazione, e cioè soltanto allo scopo di stenderlo come materiale di scena in vista di una scrittura scenica diversa [...] (Giuseppe Bartolucci)
  • Le opere di Bene sono brevi, nessuno sa finire meglio di lui. Egli detesta ogni principio di costanza o di eternità. di permanenza del testo: "lo spettacolo comincia e finisce nel momento in cui lo si fa". E così, esse finiscono con la costituzione di un personaggio, non hanno altro oggetto che il processo di tale costituzione, e non vanno oltre. Finiscono con la nascita mentre in genere si finisce con la morte. (Gilles Deleuze)
  • Carmelo Bene ha una profonda avversione per le formule dette d'avanguardia. Si tratta invece di un'operazione più precisa: si comincia col sottrarre, col detrarre tutto quanto costituisce elemento di potere, nella lingua nei gesti, nella rappresentazione e nel rappresentato. [...] Si detrae dunque o si amputa la Storia e il marchio temporale del potere. Si toglie la struttura perché è il marchio sincronico, l'insieme dei rapporti tra invarianti. Si tolgono le costanti, gli elementi stabili o stabilizzati perché appartengono all'uso maggiore. Si amputa il testo, perché il testo è come il dominio della lingua sulla parola, e testimonia ancora un'invarianza o un'omogeneità. Si sopprime il dialogo, perché il dialogo trasmette alla parola gli elementi del potere, e li fa circolare [...] (Gilles Deleuze)
  • Essere uno straniero, ma nella propria lingua... Balbettare, ma essendo balbuziente nel linguaggio stesso, e non soltanto nella parola... Bene aggiunge. parlare a se stesso, e non soltanto nella parola, ma in pieno mercato, sulla piazza pubblica... [...] Balbettare, in genere, è un disturbo della parola. Ma far balbettare il linguaggio è un'altra cosa. Significa imporre alla lingua, a tutti gli elementi interni della lingua, fonologici sintattici, semantici, il lavorio della variazione continua [...] ... essere straniero nella propria lingua... Ciò non vuol dire parlare come un irlandese o un rumeno parlano francese. [...] È imporre alla lingua, in quanto la si parla perfettamente e sobriamente, quella linea di variazione che farà di ognuno di noi uno straniero nella sua propria lingua, o della lingua straniera, la nostra, o della nostra lingua, un bilinguismo immanente per la nostra estraneità. (Gilles Deleuze)
  • È curioso che si dica di Bene: è un grande attore, complimento misto a rimprovero, accusa di narcisismo. L'orgoglio di Bene sta più nel far scattare un processo di cui egli è il controllore, il meccanico o l'operatore (egli stesso dice: il protagonista) piuttosto che l'attore. Partorire un mostro o un gigante... (Gilles Deleuze)
  • Non si tratta di un anti-teatro, di un teatro nel teatro, o che neghi il teatro... ecc.: Carmelo Bene ha una profonda avversione per le formule dette d'avanguardia. Si tratta invece di un'operazione più precisa: si comincia col sottrarre, col detrarre tutto quanto costituisce elemento di potere, nella lingua e nei gesti, nella rappresentazione e nel rappresentato. E non si può nemmeno dire che sia un'operazione negativa in quanto dà inizio e mette già in moto tanti processi positivi. Si detrae dunque o si amputa la storia, perché la Storia è il marchio temporale del Potere. Si toglie la struttura perché è il marchio sincronico, l'insieme dei rapporti tra invartianti. Si tolgono le costanti, gli elementi stabili o stabilzzanti perché appartengono all'uso maggiore. Si amputa il testo. Si amputa il testo, perché il testo è come il dominio della lingua sulla parola, e testimonia ancora un'invarianza o un'omogeneità. Si sopprime il dialogo, perché il dialogo trasmette alla parola gli elementi del potere, e li fa circolare [...] Ma cosa resta? Resta tutto, ma in una nuova luce, con nuovi suoni, con nuovi gesti. (Gilles Deleuze)
  • Tutte le dichiarazioni d'orgoglio di Carmelo Bene sono fatte per esprimere qualcosa di molto umile. E anzitutto che il teatro, anche quello che sogna, è poca cosa. Che evidentemente il teatro non cambia il mondo e non fa la rivoluzione. Carmelo bene non crede all'"avanguardia". E tanto meno crede a un teatro popolare, a un teatro per tutti, a una comunicazione dell'uomo di teatro e del popolo [...] (Gilles Deleuze)
  • [Parlando del S.A.D.E. di C.B.] Il Servo masochista si cerca, si sviluppa, si tramuta, si esperimenta, si costituisce sulla scena in funzione delle insufficienze del padrone. Il servo non è per nulla l'immagine rovesciata del padrone, né tanto meno la sua replica o la sua identità contradditoria: si costituisce per pezzi, a brandelli, partendo dalla neutralizzazione del padrone; acquisisce autonomia propria dall'amputazione del padrone. (Gilles Deleuze)
  • L'attore è un vivo che si rivolge a dei vivi, ma, in particolare nel repertorio classico, deve cessare di essere tale per apparire come contemporaneo del personaggio, simile a un morto tra i vivi [...] (Pierre Klossowski)
  • E devo dire che quando si è vista una volta una rappresentazione di Bene, nella almeno triplice partizione di attore-autore-regista, non si ha più voglia di vedere gli altri, quale che sia il loro nome o la loro prestazione, tanto incolmabile diventa la differenza tra una personalità drammatica quale è la sua, e un interprete qualsiasi. (Jean-Paul Manganaro)
  • Il grande attore – il suo teatro – non può avere ascendenze o discendenze; è diseredato di se stesso, perché è unico come fenomeno, è anzi il fenomeno dell'unico.
    Il testo di Carmelo Bene non significa nulla perché non significa là, dove lo si aspetta (è contro ogni aspettativa), ma significa altrove (è sempre e smisuratamente de-portato), sconvolto da passaggi erranti e peregrinazioni [...] (Jean-Paul Manganaro)
  • Era umile, sembra strano dire questo, ma era uno umile. Era un’umiltà straziata e vera, storica, come la si potrebbe pensare oggi di un santo antico, un’umiltà armata di spada, armata di dolore. Era uno umile e indifeso, di cui si sentiva che andava protetto, e bisognava proteggerlo, proteggerlo dalla propria umiltà. Era antico, di un’antichità ormai difficile da reperire nei volti e nei gesti degli altri, contraffatti nella smorfia di questo tempo smorfioso, in cui bisogna somigliare a qualcuno, era uno antico, di un’antichità da repubblica romana, un’antichità antica, in cui era trascritta la forza e la violenza della sua umiltà umana. (Jean-Paul Manganaro)
  • Il teatro di Bene è grande in quanto mostra l'indicibile attraverso il detto. Non potendolo proferire, il che equivarrebbe a tradurlo nei modi troppo umani dell'espressione, ne fa brillare l'epifania silenziosa dis-dicendo il flusso dell'oralità. (Umberto Artioli)
  • Non abitare in nessun luogo, fabbricare il deserto, sparire come creatura; la vertigine dissociatoria che caratterizza la scena di Bene è l'equivalente della notte oscura dei mistici, la notte in cui ci si affida inermi al fascinans e al tremendum dell'esperienza interiore. (Umberto Artioli)
  • Carmelo Bene sa perfettamente che udire non è andare dal suono al senso, e che non basta articolare la parola al rumore per sbarazzarla del senso. Sa che l'udire ci situa immediatamente nella regione del senso, e che per perdere il senso occorre anche perdere il suono del senso. (André Scala)
  • Teatro: "luogo" dell' entre-deux che non dà luogo ad alcun senso, ad alcuna rappresentazione, ad alcun linguaggio.
    Questa dimensione barbara e originaria del teatro, per sottrarsi alla rappresentazione, trova il proprio tempo nell'acronia, e per eccedere lo spettacolo si fa spazio dello straripamento, è quella aperta dal teatro di Carmelo Bene. Dal momento che il suo tempo [...] eccede la realtà, lo spazio e i corpi, questa dimensione non ha luogo in uno spazio dato [...] ma in quello straripamento del tempo e quello smarginamento dello spazio che è l'attorialità.
    L'attorialità: evento del non-luogo, ritrarsi attivo della presenza, espropriazione del soggetto: antispettacolo. (Camille Dumoulié)
  • Toccati per Bene, poesia, letteratura, musica, cinema, radio e televisione, non importa se strumenti o forme, hanno resuscitato ogni volta e in ogni modo una teatralità altrimenti impossibile. (Piergiorgio Giacchè)
  • Non c'è un dopo Carmelo Bene. E non perché alla morte di un personaggio grande e di una persona cara si voglia assurdamente fermare il tempo, ma perché non c'entrava per nulla con il "nostro" tempo. (Piergiorgio Giacchè)
  • Sono apparso alla Madonna è l'esperienza e la frase che Carmelo ha scelto come titolo e come vertice della sua prima autobiografia. Una frase che non ha mai amato ripetere – lui che amava repertoriare e ribadire le sue battute migliori — ma che tutti invece ripetono quando pensano a Carmelo. La ripetono avversari o complici — è lo stesso — come fosse il massimo della provocazione o della dissacrazione, spesso dimenticandosi (gli uni e gli altri) che Carmelo è sì il campione teatrale della libertà ma anche il maestro della verità del teatro. E in verità e in teatro non ha senso ripetere una frase come quella, poiché 'sono apparso alla Madonna' non è mai stato un dire ma un fare di Carmelo Bene, un evento che ha segnato il corpo del suo attore e il corpus delle sue opere; apparire alla Madonna è diventato complemento della sua grazia e compimento del suo genio. (Piergiorgio Giacchè)[9]
  • La macchina C.B. ha eliminato una volta per tutte una canonizzata distorsione secolare: nella dismemoria, nella lettura per potere dimenticare, nel dimenticare per esibire platealmente i precipizi della decisione e dell'azione, C.B. concorda ancora una volta con l'antica poiein della tragedia attica. (Edoardo Fadini)
  • [...] una specie di fine; di fine anticipata del cinema di Carmelo Bene, anche se poi sono venuti altri film, che è questo "non voglio più vedere nulla", questo "Basta", questa fine della luce, questa fine della visione. (Enrico Ghezzi)
  • Io credo che il pubblico principale di Carmelo Bene sia Carmelo Bene. E questo è molto evidente soprattutto nella televisione. È grazie alla televisione che Carmelo Bene manifesta la sua distanza, la sua assenza, perché, intanto è uno che ha capito benissimo il senso televisivo, cioè il sesto senso televisivo. Nella diretta televisiva, reale o virtuale, diciamo, o semi-diretta, si esperimenta appunto il "non essere in diretta" che è il senso più forte di tutto il lavoro di Bene. Cioè il non essere mai spiaccicato su sé stesso, non essere mai la pura performance d'attore, la pura performance di regista... (Enrico Ghezzi)
  • Con Carmelo si tendeva sempre a creare l'immagine, non ci si poteva accontentare di fotografare soltanto, di riprendere senza intervenire con colori rinforzati dai filtri, senza usare la cinepresa come un organo prensile. (Mario Masini)
  • Carmelo Bene era un impresa di demolizione, uno splendido terrorista culturale che ha esercitato il terrore soprattutto su sè stesso. (Giancarlo Dotto)
  • Mi ha chiesto in fin di voce di aggiustargli la coperta di lana sulle gambe. "Le gambe non le sento più". Di piegare i quattro orli, tutti allo stesso modo, simmetrici. L'ho fatto senza chiedermi perché, era tempo perso con lui chiedersi perché. Solo dopo aver controllato che tutto fosse al suo posto, si è abbandonato con le mani intrecciate sul petto. "Adesso voglio dormire", le sue ultime parole rivolte a Luisa, la compagna insostituibile degli ultimi anni. E si è preparato a morire. Somigliando impeccabilmente ai comatosi che aveva tante volte spiato nelle foto di guerra di David Harali, nelle poesie di Gozzano, nei Cristi di Mantegna, nei racconti di Poe e nei manuali di psichiatria di Krafft-Ebing. La morte migliore possibile, vegliato dal brusio delle donne che lo amano e che lo hanno amato, la femminile disattenzione che da sempre scortava i suoi eroi morenti di scena. (Giancarlo Dotto)
  • La vera funzione politica del teatro di Carmelo era quella, presumo, di dividere la città e di mettere a repentaglio il luogo comune che tiene insieme la comunità umana: il linguaggio. (Romeo Castellucci)
  • Carmelo Bene è un grande uomo di teatro che, come tutti gli uomini di teatro che contano, ha rotto con le tradizioni. È uno che ha sorpreso, che ha messo a disagio gli schemi, soprattutto, e la gente schematica riguardo al teatro. È uno che capovolgeva le regole, che ha tenuto veramente in grande considerazione che [la] prima regola nel teatro [è che] non ci sono regole... E questo naturalmente gli ha portato all'inizio, così, una specie di opposizione da parte dei tradizionalisti, ma poi ha vinto, ha vinto, ha avuto successo in tutta l'Europa. (Dario Fo)
  • Quello che colpisce è proprio questo svuotamento totale, questo procedere per sottrazione, che in realtà, togliendo struttura, così come ha fatto con il teatro, togliendo il linguaggio e abbandonandosi al suono della parola, scarnifica a tal punto [da lasciare] in scena e quindi anche sulla pagina, come avrebbe detto Deleuze, il "tutto". (Elisabetta Sgarbi)
  • [A Mixer Cultura del 1987] Qui si sta parlando di Carmelo Bene come di uno scrittore di scena, si sta parlando di Carmelo Bene come un attore, ma mi pare che l'unica cosa di cui si possa parlare è la sua vera professione, cioè: l'antipatico. Come antipatico Carmelo Bene è assolutamente inarrivabile. [...] Questo è la cosa di te che io amo di più, perché davvero tu qui hai una vera creatività... Ma come scrittore scenico sei di una modestia sconfortante; le tue partiture, i tuoi collage sono una pacchianeria veramente giovanilistica [...] Laforgue scrive molto meglio della spazzatura che tu tiri fuori dalla porta... Poi mi permetto di dire anche [...] che come attore sei molto modesto. Hai la voce del Buce, quella che Gadda nel Pasticciaccio chiamava la voce del Buce, hai un fisico che non sai assolutamente portare... Lo spettacolo da Laforgue lo faceva vedere molto chiaramente. Sei anche truccato con una frangetta da parrucchiere di borgata, e insomma sant'Iddio, vuoi che ancora ci occupiamo di te seriamente... (Guido Davico Bonino)
  • [Dalí rivolgendosi a Carmelo Bene] No, tu non puoi essere ancora un genio, l'ho visto nel tuo film... C'è ancora molta sofferenza... tu sei ancora un artista, io sono un genio. (Salvador Dalí)
  • [Il Borghese, in riferimento alla Salomè del '64 di C.B.] Dinanzi a personaggi come Carmelo Bene e come Franco Citti nulla può la critica teatrale. Debbono intervenire i carabinieri. E non bisogna aspettare che vilipendano la Religione o prendano a calci i lavoratori, per procedere al loro arresto; bisogna soltanto accertarsi della loro identità e metterli in galera, perché oltraggiano il buon gusto, nuocciono all'igiene pubblica, deturpano il paesaggio". (Il Borghese)

Note

  1. xxxxx, su it.youtube.com.
  2. citata da RaiNews 24, 16 marzo 2002
  3. a b xxxxx, su it.youtube.com.
  4. Tratto da "Bravo! Bene!", trasmissione Rai di Marco Giusti - Carmelo Bene è intervistato per il suo Don Chisciotte, di Miguel de Cervantes, con Leo de Berardinis e Perla Peragallo.
  5. video su You Tube - a cura di Pietro Ruspoli & Tonino del Colle
  6. Programma televisivo su Rai Due, 2001
  7. Nostra Signora de' Turchi, romanzo, pag. 22
  8. a b Autointervista di Carmelo Bene fatta a Caffè Letterario, su wuz.it.
  9. Postfazione di Piergiorgio Giacché all'autobiografia Sono apparso alla Madonna nell'edizione Bompiani del 2005.

Fonti

La voce che si spense, Questa Italia, programma RAI di Daniela Battaglini, commemorante la scomparsa di Carmelo Bene.

Bibliografia

  • Carmelo Bene e Giancarlo Dotto. Vita di Carmelo Bene. Milano, Bompiani, 2005 (1ª ed. 1998). ISBN 88-452-3828-8
  • Carmelo Bene, Opere, con l'Autografia d'un ritratto, Milano, Bompiani, aprile 2002 (1° ed. Classici in brossura aprile 2002). ISBN 88-452-5166-7
  • Carmelo Bene. l mal de' fiori poema, presentazione di Sergio Fava, Milano, Bompiani, marzo 2000. ISBN 88-452-4447-4
  • Deleuze-Bene, Superpositions, Paris 1979; tr.it. J. Paul Manganaro, Sovrapposizioni, Milano 1978.

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