Eduard Shevardnadze

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Shevardnadze nel 1997

Eduard Shevardnadze (1928 – 2014), politico sovietico proveniente dalla Georgia.

Citazioni di Eduard Shevardnadze[modifica]

  • Gorbaciov potrebbe abbandonare il posto di dirigente del partito sovietico. Farebbe bene, ma avrebbe dovuto farlo prima.[1]
  • L'ideologia impone un pesante fardello per i sovietici.[1]
  • [Sul putsch di agosto] Le vittime della notte delle barricate devono essere sepolte nel muro del Cremlino, sulla piazza Rossa, e se non ci fosse posto, si possono togliere altre tombe.[2]
  • [Sul putsch di agosto] Con la sua indecisione, la sua indifferenza rispetto ai veri compagni, la sfiducia rispetto alle forze democratiche, Mikhail Gorbaciov ha nutrito il golpe di Mosca.[3]
  • [Sul putsch di agosto] Ogni cosa che avevo temuto e che avevo denunciato, stava accadendo. Nella mia vita non ho mai avuto una esperienza analoga. Ho vissuto come uomo e come suo ex compagno di battaglia quelle settantadue ore di incubo, mentre Gorbaciov era segregato nel comodo carcere-palazzo di Foros. Era prigioniero della giunta. Ma quando ritornò e parlò alla conferenza stampa, mi accorsi che era ancora prigioniero: prigioniero della sua stessa natura, delle sue idee, del suo modo di pensare e di agire. Speravo che Mikhail Gorbaciov fosse diventato una persona diversa: aveva subito un duro processo, in bilico tra la vita e la morte, tradito dai suoi colleghi e miracolosamente salvato.[3]
  • Un'Unione Sovietica instabile è la più grave minaccia alla pace dell'intero pianeta.[4]
  • Ho un enorme desiderio di prendere parte alla creazione di una Georgia indipendente e credo che il modo e la veste in cui io potrei svolgere questo ruolo debbano essere decisi dagli uomini che guidano oggi il movimento democratico nel mio paese.[5]
  • [Su Zviad Gamsakhurdia] Se non ha compiuto crimini contro la nazione, se non ha sparato o rubato dovrà avere il diritto di tornare in patria e lavorare, come un libero cittadino.[5]
  • Il mio ritorno non è stato pianificato in anticipo. Nonostante il fatto che l'ex presidente Zvjad Gamsakhurdia me ne dicesse di tutti i colori e mi accusasse di molte cose, non mi sono mai permesso di rispondergli. Ho sempre sostenuto che era stato eletto dal popolo e rispettavo questo dato di fatto.[6]
  • Alla mia età, non si può più cambiare. Non mi trasformerò in un dittatore, mi creda![6]
  • [Sulla guerra georgiano-abcasa] È palese il pericolo che l'Abkhazia si trasformi in un altro Libano.[7]
  • La Russia ha il potere di distruggere la Georgia. E c'è almeno una buona parte della classe politica che vuole farlo. Il ministero della Difesa russo, l'esercito, e le forze più estremiste del Parlamento di Mosca vogliono frantumare il nostro paese. E Eltsin rende impossibile un accordo. Ma costoro devono sapere che se davvero ci sarà la guerra, ogni georgiano è pronto a morire per difendersi.[8]
  • [Sul massacro di Sukhumi] Vado a Sukumi per difendere la città a mani nude insieme alla sua popolazione disarmata.[9]
  • [Sul massacro di Sukhumi] Tutte le vie di mediazione sono state tentate. Gli assalitori hanno ucciso diverse centinaia di abitanti. Hanno distrutto e messo a fuoco le case, e ora quelli che restano sono in grave pericolo.[10]
  • [Sul massacro di Sukhumi] Ancora ieri Sukhumi avrebbe potuto essere salvata, ma solo la Russia poteva farlo. Noi abbiamo chiesto aiuto a Mosca. Io stesso ho inviato un telegramma, promettendo che la Georgia sarebbe entrata a far parte della Comunità di Stati Indipendenti, contro cui mi ero battuto fino all'ultimo giorno. Di fatto, la Georgia era in ginocchio. Ma neppure questo è bastato. È terribile dirlo, ma nessuno avrebbe potuto piegarci se non ci fosse stata la discordia all'interno del nostro paese e il tradimento di alcuni concittadini di cui si sono valsi i nemici esterni. Dio è testimone che ho fatto tutto il possibile per impedire che questo giorno sorgesse. Ho fallito. Che i posteri e i contemporanei possano perdonarmi.[11]
  • La situazione del Muro, questa divisione fra due concezioni dell' uomo e della storia, era inaccettabile.[12]
  • Mi sono dimesso per evitare spargimenti di sangue, ma la mia patria è la Georgia e mi sento obbligato a rimanere qui.[13]
  • [Sulle sue dimissioni dopo la Rivoluzione delle rose] Ho capito che era arrivato il momento di dare le dimissioni non quando ho visto le manifestazioni contro di me, ma quando la mia famiglia me l'ha chiesto, quando mi ha detto che era il momento di farlo. Avrei potuto ordinare al ministro della Difesa o degli Interni di fare fuoco sui manifestanti, ma non sarebbe stato da me: che mi amino o no, che mi rispettino o no, questi sono tutti miei figli.[13]
  • [Su Mikheil Saak'ashvili] È giovane, ha molte energie da spendere e un'ottima formazione: se lavorerà, se avrà voglia di lavorare, saprà rimettere tutto a posto. Ma adesso non è più tempo di chiacchiere: è tempo di fatti.[14]

Da Tutti insieme verso un obiettivo comune

Discorso all'assemblea dell'Onu il 26 settembre 1989, riportato in L'ottantanove di Gorbaviov, l'Unità, 1989

  • Non è il caso di nascondere che la sconfitta elettorale dei comunisti polacchi non ci ha entusiasmato. E non intendiamo nascondere nemmeno che auguriamo loro di superare la situazione di crisi. Tuttavia, non ravvisiamo alcuna minaccia nel fatto che, in conformità della volontà del popolo, si sia formato in Polonia un governo di coalizione. Non abbiamo nessun pregiudizio nei suoi confronti.
  • La minaccia per i Paesi è insita non già nell'espressione della volontà dei popoli, bensì nell'intolleranza politica e ideologica, nello sciovinismo, negli eccessi estremistici di segno imperiale e nazionalistico. E solo là dove questi generano violenza e destabilizzano la vita dei Paesi e dei popoli, deve intervenire il meccanismo della legittima difesa.
  • La gente, il popolo non lasceranno morire la perestrojka, poiché essa esprime le loro aspirazioni più recondite.

Da Protesto contro la dittatura

L'ultima accusa di Shevardnadze, la Repubblica, 21 dicembre 1990

  • Consentitemi di dire due parole sulla dignità dell'individuo, sui sentimenti personali, perché molte persone pensano che i ministri, i membri del governo, il presidente sono pagati e che quindi li possono trattare come vogliono. Ritengo che questo sia inammissibile. Ricordo il congresso del partito. Lo scontro più duro fu fra riformatori e reazionari. Proprio reazionari. Quella battaglia, devo dirlo esplicitamente, fu vinta dalle forze progressiste, ed era stata portata avanti con dignità.
  • La dittatura sta arrivando: lo dico con il massimo senso di responsabilità. Nessuno sa che tipo di dittatura sarà e che tipo di dittatore e di sistema avremo.
  • Esprimo la mia grande gratitudine a Mikhail Sergheevic Gorbaciov. Sono suo amico. La penso come lui. Ho sempre sostenuto e continuerò a farlo fino all' ultimo giorno le sue idee sulla perestrojka, sul rinnovamento, sulla democratizzazione. Abbiamo fatto un grande lavoro in campo internazionale. Ma penso che sia mio dovere come persona, come cittadino, come comunista. Non posso accettare quanto sta accadendo nel nostro paese, né i processi che sono in corso. E ritengo ancora che la dittatura non passerà. Il futuro appartiene alla democrazia e alla libertà.

Da A Tbilisi la nuova sfida dell'uomo della perestrojka

Intervista di Sergio Sergi, l'Unità, 8 maggio 1992

  • In sostanza, il paese è sull'orlo della fame. La gente si ammala, è denutrita, per mesi non riceve i salari, non percepisce le pensioni, negli ospedali per i bambini non ci sono le medicine anche se quando cammini per le strade vedi sorridere molti, ti incontrano, ti salutano. Questa è piuttosto la speranza. Ed è opprimente.
  • Erano arrivati al potere dei veri e propri dilettanti. La gente pensava che una volta proclamata l'indipendenza tutto sarebbe andato bene. In verità, quelli hanno distrutto tutto quello che si poteva distruggere, mentre negli altri Stati il passaggio alla realtà repubblicana è stato più graduale. Qui, invece, tutto è crollato. Pensi che manca tuttora il budget.
  • La perestrojka è stata una rivoluzione. Dall'alto, certamente. Si è conclusa, però, nel modo del tutto legittimo.
  • Non si può demolire in ventiquattr'ore e passare in un altro Stato. Ci voleva una fase di transizione: due, tre anni. Sarebbe stato normale, adesso è difficile. Certo, il processo non si poteva arrestare e per noi tutti non è facile abituarsi alla «fine dell'Urss». Io avevo un vantaggio: provenendo da una minoranza etnica capivo l'inevitabilità di questo sbocco.

Da "Il disastro russo minaccia il mondo"

la Repubblica, 25 ottobre 1992

  • La situazione in Russia è allarmante, e sono molto preoccupato perché la sua instabilità rappresenta un grande pericolo per tutti. Se devo dire la verità, mi preoccupano meno i problemi della Georgia - un piccolo paese dove c'è molto da fare - che non quello che sta accadendo oggi in Russia.
  • Non mi posso spiegare le ragioni del conflitto tra Eltsin e Gorbaciov. Anche un bambino sa benissimo che quest' ultimo non rappresenta una minaccia, non potrà mai tornare a fare il presidente, ma allo stesso tempo possiede delle grandi capacità politiche che potrebbero essere utilmente valorizzate e impiegate in una Russia democratica.
  • Non permetteremo mai che in Georgia si possa ripetere un caso simile a quello della Jugoslavia. Si creerebbe una situazione peggiore di quella di una guerra nucleare.
  • [Sugli Abcasi] Una minoranza che con il suo 17% controlla la maggioranza del Parlamento solo perché una legge elettorale impone ai georgiani il triplo dei voti per essere eletti.
  • [Su Boris Nikolaevič El'cin] Pur essendo in buona fede non conosce assolutamente nulla della Georgia e della sua realtà.
  • I russi hanno perso le coste del Baltico e quelle dell'Ucraina. Ora hanno occupato un centinaio di chilometri nella regione abkhaza per assicurarsi uno sbocco sul mare. Ma forse Eltsin non è al corrente di queste cose.

Da «Boris, questo calvario è colpa tua»

Intervista di José-Alain Fralon, La Stampa, 2 ottobre 1993

  • [Sul massacro di Sukhumi] L'offensiva è stata condotta su due fronti. I mercenari russi e ceceni erano in prima linea. Sul mare i cadaveri galleggiavano come pesci avvelenati. Ci sono migliaia di profughi sulle montagne: donne, vecchi, bambini. Molti moriranno.
  • Il regime di Vladislav Ardzinba e gli ambienti reazionari russi si somigliano come gocce d'acqua. Il primo è l'allievo dei secondi, che in cambio lo sostengono politicamente e militarmente.
  • Sono assassini, fascisti! Non me la sentirei di avviare un dialogo con loro.
  • Penso che Dio punirà quelli che hanno gettato il nostro Paese in questo inferno. La Georgia è in ginocchio.
  • Per la mia natura, per la mia fede, per il mio carattere, non accetterò mai di diventare un capo militare.
  • Quando ho accettato di rientrare in Georgia sapevo che andavo verso il suicidio. Ma questa è la mia terra e non la lascerò più.

Da «Occidente, salvami dai killer degli zar»

La Stampa, 9 ottobre 1993

  • I dieci giorni dell'attacco all'indifesa Sukhumi, accompagnato dal selvaggio cannoneggiamento e bombardamento delle sue aree residenziali, col conseguente sterminio di massa della popolazione, sono finiti con la conquista di una città virtualmente morta. I superstiti civili stanno ora condividendo la sorte dei loro concittadini combattenti: vengono abbattuti a vista. Tutte le norme etiche e di diritto internazionale universalmente riconosciute vengono irrise e violate.
  • I leader ribelli non sarebbero riusciti a prevalere senza la complicità di forze esterne. I separatisti abkhazi sono stati riforniti, incoraggiati e diretti dalla Russia imperiale, la Russia del ravanchismo nazional-comunista.
  • Gli istigatori e gli orchestratori di questa guerra non si sono fatti alcuno scrupolo del prezzo da pagare: la distruzione di città e migliaia di morti, feriti e dispersi. In questo momento 120 mila profughi fuggono la morte dalla terra dei loro antenati. Questa gente è stata tradita e venduta. Ci può essere di peggio?
  • Sta suonando l'allarme, la Georgia è solo il test di una macchina programmata per una rivincita imperiale globale.

Da «Com'erano belli quegli anni al Cremlino con Gorbaciov»

Intervista di Giulietto Chiesa, La Stampa, 30 marzo 1994

  • Qualche volta mi viene la tentazione di piantare baracca e burattini e dire loro: arrangiatevi! Poi penso: è la mia gente. Non posso abbandonarli.
  • Eltsin voleva una Costituzione che garantisse l'integrità dello Stato. E c'è riuscito. Forse non è riuscito. Forse non è riuscito a dare garanzie democratiche. Terrò conto degli errori altrui.
  • Il Segretario generale delle Nazioni Unite è un politico rispettabile, ma capisce poco i problemi del Caucaso. Anche il mondo li conosce poco e quando se ne renderà conto sarà tardi. Qui è peggio che nei Balcani.
  • Sono un credente. Lo sono sempre stato in fondo all'anima anche se l'ideologia comunista me lo impediva.
  • [Su Michail Gorbačëv] L'ho sempre rispettato. È un grande uomo, un protagonista di tutti questi cambiamenti. Abbiamo anche avuto momenti di dissenso, ma questo non riduce i suoi meriti.

Da «Soros e l'America dietro la mia caduta»

Intervista di Serghej Briliov, La Stampa, 3 dicembre 2003

  • [Sulla Rivoluzione delle rose] L'evento in sè non è particolarmente nobile. Nella grande politica queste cose non si fanno. Possiamo probabilmente, con prudenza, parlare di tentativo di colpo di Stato.
  • L'America è un grande Paese. Ci sono migliaia di organizzazioni. Una è di George Soros, che voi conoscete. L'avete cacciato dalla Russia e avete fatto bene. Si comporta male. La politica non è affare suo.
  • Tutto quello che ho - auto blindate, piccole, grandi, le Mercedes ecc. - è stato comprato dagli americani e dato a me. Lo Stato non può prenderle.

Da L'accusa di Shevardnadze "Un errore attaccare l'Ossezia"

Intervista di Renato Caprile, la Repubblica, 14 agosto 2008

  • [Sulle sue dimissioni dopo la Rivoluzione delle rose] Non ebbi scelta. Resistere, rimanere attaccato alla poltrona avrebbe scatenato un bagno di sangue. E allora preferii farmi da parte. Nessuno è per sempre.
  • [Su Mikheil Saak'ashvili] Lui è giovane e impulsivo. Certo ha sbagliato ma devo ritenere che avesse buone ragioni per fare questo passo. Anche se i buoni motivi non sempre bastano a giustificare le nostre azioni. Devo dire però che formalmente Saakasvili aveva il diritto di entrare sia in Abkhazia che in Ossezia dal momento che fanno parte del territorio georgiano, ma tengo a sottolineare la parola formalmente. Se mi chiede se doveva o meno farlo, non posso che rispondere che sarà la storia a giudicare.
  • È probabile che siano stati commessi dei crimini contro l'umanità, ma non si deve dimenticare che nel '91 i russi hanno cacciato dall'Abkhazia 300mila persone che avevano la sola "colpa" di essere georgiani.
  • [Sulla Georgia] Non riesco proprio a capire perché i russi ce l'abbiano con quella gente. Forse semplicemente perché lì è nato Stalin.
  • [Su Mikheil Saak'ashvili] Più Mosca lo vuole fuori dai piedi, più la gente si stringerà intorno a lui. I georgiani non li amano i russi, forse perché non dimenticano che per 200 anni la Georgia è stata una loro colonia.

Da La Georgia non è schiava né di Washington né di Mosca

Intervista di Marianna Cappucci, Limesonline.com, 31 dicembre 2009

  • Anni fa, mentre ero a Bruxelles per un incontro diplomatico, bussai alla porta della Ue. Ebbene, stiamo ancora bussando! E questo ovviamente infastidisce la Russia.
  • La politica estera georgiana non è manovrata né dagli Usa né dalla Russia. La Georgia non la gestisce nessuno, ma è ovvio che quando vengono prese delle decisioni importanti in materia di politica estera si prendono in considerazione anche le opinioni degli altri paesi.
  • Ciò che è certo è che l’aver riconosciuto diplomaticamente Abkhazia ed Ossezia del Sud crea un precedente che potrebbe ritorcersi contro la stessa Russia. Se è stata riconosciuta l’indipendenza di regioni tanto piccole e poco popolose come si può negare l’indipendenza di Cecenia o Daghestan?

Il futuro è nella libertà[modifica]

Incipit[modifica]

La storia di ogni impresa umana è sempre la storia di un uomo. Le nostre attività condividono le nostre sorti, e questo libro non costituisce un'eccezione. Ha una sua storia, nella quale si riflettono gli eventi degli anni recenti della mia esistenza. Di per sé, la mia vita non offrirebbe particolari motivi di interesse, se le circostanze non l'avessero inserita in una fase di svolta nella vita del mio Paese e della politica mondiale.

Citazioni[modifica]

  • Se si inizia a democratizzare il proprio Paese, non si ha il diritto di intralciare un processo analogo in altri Paesi. (pp. 12-13)
  • È semplicemente sciocco, sterile e irrazionale vedere negli oppositori dei nemici, moltiplicandone il numero per effetto della propria repulsione. E nella grande politica questo è un lusso inconcepibile. (p. 14)
  • È più facile tagliare la testa dell'oppositore che non confutare l'idea che essa ha partorito. Ed è questa una cosa talmente radicata tra noi, che abbiamo disimparato a conversare normalmente. (p. 14)
  • Neppure le idee più progressiste e più fertili sono eterne. Tempi, circostanze e situazioni concrete fissano una scadenza a tutto. E non c'è nulla di più triste di un'idea sopravvissuta al proprio tempo. (p. 20)
  • La dislocazione della Georgia ai confini di Europa e Asia - all'antichissimo crocevia dei principali movimenti di popoli e civiltà, dove s'incontravano e scontravano culture, fedi religiose e interessi strategici dei potenti di questo mondo - le assicurò un destino invidiabile, glorioso, ma, sotto molti aspetti, doloroso. (p. 26)
  • Non è un caso che, nella lingua georgiana, tutti i concetti fondamentali sono rapportati al principio generatore della vita, alla parola e al concetto di «madre»: la terra, la lingua, la città, la patria. Inalberando lo spirito della libertà e resistendo alle forze nemiche, i georgiani reclamavano per sé un rapporto filiale, un rapporto di amore per la madre e di rigetto di ogni lesione della sua dignità e tranquillità. (p. 27)
  • Togliere agli altri tutto quello che non ti piace, e imporre quello che ti piace: più o meno questo è lo schema secondo cui si è sviluppata la storia nei secoli. (p. 28)
  • La vita in campagna è affascinante perché tutto - uomini e attività - è alla luce del sole. È affascinante perché coinvolge la gente sin dall'infanzia nelle cure quotidiane e, senza coercizioni, addestra ad attività razionali e ponderate. Il risultato è sempre davanti agli occhi, sempre tangibile. (p. 34)
  • Quando si ricorre a mezzi blindati e mitragliatrici, lo si fa immancabilmente con una copertura ideologica. Ma non si può giustificare l'impiego di tonnellate di acciaio contro l'inerme carne umana, senza averla preventivamente accusata della divulgazione di idee perniciose per il popolo e per la società. A tal punto perniciose, che le corazze dei carri armati e le pallottole esplosive non sempre bastano a contrastarle. In altri termini, il boia è stato sempre preceduto dall'inquisitore, la mannaia e il patibolo sono stati sempre puntellati dai dogmi della fede. E in questo senso gli autodafé medievali non si distinguono granché dai processi degli anni Trenta. (p. 48)
  • [Su Michail Gorbačëv] Aveva le mie stesse radici contadine, la stessa consuetudine di lavoro in campagna, una buona conoscenza della vita del popolo. Un livello d'istruzione e una cultura indiscutibili. E infine la prossimità geografica e le cure comuni, che predeterminavano un'altra «prossimità», informale e di lavoro.
    Ma c'era ancora qualcosa che, ai miei occhi, lo distingueva nettamente da quella sorta di artificiosa rozzezza komsomoliana che tanto mi aveva sempre infastidito, e, soprattutto, gli si leggeva sul volto un modo di pensare inequivocabilmente fuori di ogni schema precostituito. (pp. 50-51)
  • Quando il regista Tengiz Abuladze realizzò, sempre a titolo «sperimentale», il famoso film Pokajanie [Pentimento], e la cosa si riseppe a Mosca, un personaggio molto altolocato mi disse:
    «Si dice che abbiate girato un film antisovietico».
    Non era una domanda, era un'asserzione, in cui risuonavano note minacciose.
    «Perché antisovietico» ribattei. «È un film che illustra le conseguenze degli arbìtri e dell'illegalità. Non è forse un problema d'attualità per noi?» (pp. 61-62)
  • Si accusa la perestrojka di aver acceso le passioni nazionalistiche e interetniche. Non è vero. La gente ha sempre reagito con indignazione alle deviazioni nella politica delle nazionalità, alla tesi semplicistica dell'avvicinamento e della fusione delle nazioni, rozzamente applicata alla realtà concreta. Le scintille hanno continuato a bruciare sotto la cenere degli antichi soprusi. Lo stivale delle accuse di nazionalismo avrebbe potuto schiacciarle tutte le volte che avesse voluto. Ma ora la perestrojka ha buttato via lo stivale, e le scintille riprendono ad ardere, anche se demonizzate dalle etichette del separatismo e dell'estremismo. Ma cosa dovremmo fare: rimpiangere lo stivale e rimetterlo in funzione? Se c'è qualcosa da rimpiangere è che la perestrojka non abbia messo a punto sin dai suoi albori una visione della politica nazionale conforme ai suoi compiti e ai suoi obiettivi. (p. 65)
  • Nate nelle grandi menti, le grandi idee attendono a lungo il loro momento. A volte l'attesa si trascina per secoli. Ma prima o poi risuona la loro ora. (p. 76)
  • Siamo diventati una superpotenza grazie soprattutto al potenziale bellico. Ma proprio l'ipertrofia di questo potenziale e la sua incontrollata espansione hanno ridotto il Paese a una condizione di potenza di terzo rango e hanno generato processi che l'hanno sospinto sull'orlo della catastrofe. Mentre superiamo gli Usa per aliquota delle spese militari sul reddito nazionale lordo di qualcosa come il 150-200 per cento, per investimenti nella sanità restiamo sotto del 250 per cento. Orgogliosi di aver raggiunto la parità bellica con gli Usa, non osiamo neppure pensare al raggiungimento della parità nella produzione di siringhe «usa e getta», di generi alimentari, di articoli di primissima necessità, la cui catastrofica carenza non rafforza di sicuro la nostra sicurezza, né garantisce gli interessi nazionali. Conquistato il primo posto sul mercato degli armamenti - 28 per cento sul totale delle vendite - e collocato il Kalašnikov all'avanguardia della nostra tecnologia, ci siamo trovati oltre il sessantesimo posto al mondo per tenore di vita della popolazione, al trentaduesimo per durata media della vita e al cinquantesimo per mortalità infantile. (p. 87)
  • Se si cerca di risalire al come e al quando l'Unione Sovietica si vide costretta ad accumulare un armamentario nucleare, si giunge alla conclusione che abbiamo sempre inseguito gli americani. Certo, la costruzione da parte dell'Urss di un potenziale atomico proprio, tra la fine degli anni Quaranta e i primi anni Cinquanta, rispose a un'esigenza obiettiva. Ma è altrettanto vero che, una volta coinvolti nella corsa agli armamenti, sia nucleari, sia convenzionali, ci siamo fatti incantare dal «volume», dall'aspetto quantitativo, e abbiamo reagito con eccessivo accanimento ai nostri potenziali avversari per simmetricità e quantità, là dove sarebbe stato possibile dare «risposte» asimmetriche, quantitativamente meno ingenti, ma di più elevato livello qualitativo. (p. 88)
  • Non c'è dubbio, negli scorsi decenni l'Urss ha accumulato un enorme potenziale tecnico-scientifico, intellettuale ed economico. Ma come lo si è sfruttato? Ma come funzionano - se funzionano - fattori della «potenza nazionale» quali le dimensioni territoriali, le risorse naturali, le capacità intellettuali, gli enti di Stato?
    Territori immensi subirono tali violenze da una centralizzazione assurda che si trasformarono in terre ecologicamente desolate. Le risorse naturali? Lo sfruttamento selvaggio - «il piano a qualsiasi costo!» - esaurì le risorse naturali, senza compensarle con una crescita qualitativa dell'economia. Avendo guadagnato sul petrolio, «facile e veloce da estrarre», circa 180 miliardi di dollari, il Paese non ne trasse alcun vantaggio per la condizione materiale dei propri cittadini. Il morale della società e la stabilità delle istituzioni nazionalstatuali? Ma si reggevano solo sulla menzognera «propaganda del successo», sulla prassi della repressione del dissenso, sull'imposizione della paura del nemico «interno» ed «esterno», sulla minaccia della pena per ogni comportamento «non accettabile». (p. 89)
  • In omaggio agli idoli di una pseudoideologia, abbiamo succhiato il sangue del nostro popolo, di tutto il Paese. Troppo alto è il prezzo che abbiamo pagato per una sostanzialmente irrealistica dottrina del confronto e per un sistema burocratico e autoritario di assunzione delle principali discussioni di politica estera. (p. 93)
  • La predicazione del settarismo ideologico e dell'intolleranza non ha mai apportato, né mai apporterà, nulla di buono. (p. 98)
  • Nel nostro Paese si ama ripetere che il popolo sovietico fece la propria scelta nell'ottobre del 1917. Sì, i nostri nonni fecero la rivoluzione. Ma ciò significa che scelsero tutto quanto ne seguì, compresi travisamenti, deformazioni, abusi, atti decisamente criminali? E la loro, o la nostra scelta, dev'essere vincolante anche per i nostri figli e nipoti? (pp. 98-99)
  • Finché esisteranno le armi nucleari, la sicurezza nazionale sarà sempre una finzione, a prescindere dal livello degli armamenti. (p. 101)
  • Nell'Afghanistan ho guardato negli occhi gonfi di dolore e di lacrime di madri di ragazzi morti o dispersi in Afghanistan. E probabilmente fu proprio questo, proprio l'espressione degli occhi, piuttosto che le ricorrenti mozioni dell'Onu contro la nostra presenza in quel Paese, a rafforzare la mia determinazione di fare tutto il possibile per bloccare la macchina da guerra che stritolava vite e destini dei nostri ragazzi e dei loro genitori, come degli afghani stessi. (p. 104)
  • A mio avviso, i politici che dimenticano che gli uomini sono prima di tutto uomini, e poi portatori di determinate idee, non hanno il diritto di occuparsi di politica. (p. 105)
  • Il nostro coinvolgimento nella guerra fratricida in Afghanistan era stato recepito dalla maggioranza dei Paesi del mondo come un tentativo di sfruttare un conflitto regionale per ampliare la nostra sfera di influenza. La permanenza in Afghanistan delle nostre truppe non solo frenava lo sviluppo dei rapporti con moltissimi Paesi del mondo, ma poneva in dubbio la nostra stessa intenzione di trasferire su basi nuove gli affari internazionali. (p. 105)
  • Se di qualcosa è «colpevole» la perestrojka, lo è di aver liquidato l'isolamento del Paese dal resto del mondo, di aver dato la possibilità ai nostri concittadini di vedere che il mondo è migliore, è più umano e tollerante di come lo descrivevano i cavalieri del messianesimo ideologico. Ha liberato la nostra gente da una xenofobia connaturata e instillata, come ha liberato la società dall'immagine del nemico esterno, trasformando il «nemico» in «partner» e mostrando che là dove «homo homini lupus», come si asseriva, la gente vuole vivere e vive secondo le normali leggi umane. Che il benessere materiale e gli agi della vita - ottenuti grazie a un intelligente spirito imprenditoriale e alla capacità di lavorare produttivamente - non priva la gente di umanità e di solidarietà con il prossimo in disgrazia. (pp. 112-113)
  • Tra le molte qualità di Reagan, apprezzavo soprattutto il suo sense of humor. Conosceva un mucchio di storielle e sapeva raccontarle con brio. (p. 131)
  • Vincere non è saper proclamare un'idea eclatante, ma saper farla propria e tradurla in atto. (p. 132)
  • Il passato ha la capacità di irrompere nel presente, e nei momenti meno opportuni. (p. 135)
  • La funzione di deterrenza dell'arma atomica ha funzionato in un solo senso: ha conferito alle potenze nuclearei un superpotere nei confronti dei Paesi che non dispongono di armi atomiche. In altre parole, ha incoraggiato le sopraffazioni da parte dei membri del «club atomico», incoraggiando di riflesso gli arbìtri e le violazioni di alcuni Paesi non nucleari, desiderosi di assicurarsi contro il ricatto dell'arma atomica e quindi intenzionati a procurarsela. (p. 137)
  • La corsa agli armamenti proseguita in questi 45 anni rappresenta la conferma che le armi atomiche non hanno svolto e non svolgono alcuna funzione di deterrenza. E peraltro questa «deterrenza» s'è dilatata a tal punto, raggiungendo dimensioni così mostruose, che non c'è oggi un solo carro armato, un solo plotone di fanteria, cui non corrisponda almeno una carica atomica. No, c'è qualcosa che chiaramente non funziona in questa «deterrenza»! (pp. 137-138)
  • Una cosa va sottolineata: la bomba atomica non è solo pericolosa per la sua apocalittica potenza di distruzione materiale. Essa è inammissibile perché approfondisce il baratro tra il momento nazionale e il momento universale. È impossibile parlare di parità dei diritti dei popoli, di unitarietà del mondo, quando qualche egoismo nazionale può lasciarsi sopraffare dall'idea di conquistare il potere mondiale ricorrendo alle armi nucleari, camuffando questo ricorso dietro gli interessi della sicurezza nazionale. (p. 138)
  • Sapevo che tra Iraq e Kuwait erano in corso trattative che procedevano con difficoltà, ma non riuscivo a pensare che Saddam Hussein potesse ordinare l'invasione. E poi, non c'era stato nessun segnale, nessuna indicazione di un fatto simile. Nel passato truppe irachene avevano più volte attraversato il confine ma poi sempre, dopo un po', s'erano ritirate sul loro territorio. E infine l'aggressione dell'Iraq appariva un passo illogico, irrazionale, privo di buon senso. Assolutamente irrazionale nella situazione concreta. (p. 144)
  • Gli incontri da me avuti con Saddam Hussein me ne davano un quadro abbastanza preciso. Volitivo, spregiudicato, autoritario, ma indubbiamente intelligente. E poi era riuscito a «raddrizzare» l'andamento a lui sfavorevole della guerra con l'Iran grazie a un'intesa politica. Certo, nel Kurdistan iracheno aveva impiegato le armi chimiche. Certo, soffocava spietatamente ogni accenno di insubordinazione. Ma tutto quello di cui gli si faceva carico avveniva in condizioni che escludevamo drasticamente qualsiasi reazione organizzata, qualsivoglia sanzione da parte della comunità mondiale, spaccata dal confronto e dalla contrapposizione. Oggi invece, mentre emerge al mondo un nuovo ordine fondato sulla collaborazione e sull'interazione, compiere un atto di aggressione equivale a compiere un suicidio. Non è possibile, mi dicevo, che Saddam Hussein non se ne renda conto. (p. 145)
  • [Sulla guerra del Golfo] No, ai miei occhi gli eventi del Golfo Persico non si presentano come un «conflitto». Se qualcuno s'impossessa della vostra casa, non potete dire d'essere in conflitto con questo qualcuno. Siete solo la vittima di un crimine. Quanto alla situazione in esame, respingo anche il termine di «guerra». Le forze della coalizione hanno messo in atto un'operazione bellica, sanzionata dal tribunale mondiale: il Consiglio di sicurezza dell'Onu. Si sono limitate a restaurare la legalità. (pp. 149-150)
  • Gli atti dell'Iraq - devastazione del Kuwait, scarico del petrolio nel Golfo, incendio dei pozzi, repressioni contro il proprio e gli altri popoli, genocidio dei curdi - hanno mostrato al mondo di cosa fosse capace questo dittatore. (p. 152)
  • Oggi il mondo non dispone di nulla di più efficace e razionale dell'Organizzazione delle Nazioni Unite. Anche in prospettiva, questa è pur sempre l'unico possibile garante concreto della stabilità internazionale. E occorre che lo sia nei fatti. Nessun Paese accetterebbe di affidare a un solo Stato il mantenimento dell'ordine. Il nuovo ordine mondiale si può costruire solo grazie alla cooperazione. Forse sono già venuto a noia con le mie proposte di attribuire al Comitato militare del Consiglio di sicurezza le sue funzioni originarie. Ma quando ciò avverrà, allora il Consiglio di sicurezza, accordandosi con gli Stati membri dell'Onu, potrà intervenire a pieno titolo quale garante della pace in qualsiasi regione, come sancito dallo Statuto dell'Onu. Proprio il Consiglio di sicurezza, e nessun altro. (p. 153)
  • Il muro di Berlino sembrava sfidare i secoli. Le alleanze politico-militari proteggevano saldamente i confini della contrapposizione. I varchi alle frontiere tra Est e Ovest si socchiudevano appena. La divisione era a tal punto una realtà del paesaggio europeo, che senza di essa la vita appariva inconcepibile. Essa ormai condizionava la coscienza di milioni di persone, e la stessa politica, cui compete di guardare avanti, veniva pianificata sulla base di questa incrollabile realtà, fondata sul dogma dell'impossibilità di qualsivoglia cambiamento radicale. (p. 160)
  • I più intimi e delicati sentimenti umani - l'amore tra una donna e un uomo, l'affetto filiale, la famiglia, il bisogno di vivere coi propri cari, di unirsi ai parenti - sono più forti della ferrea follia dei dogmi ideologici. E una politica che non sappia tener conto dei moti dell'anima e non sappia recepirli è condannata al fallimento. (p. 165)
  • Fino al 1979 le azioni di forza attuate dall'Unione Sovietica nei Paesi vicini avevano contribuito a normalizzare la situazione a un costo politico, militare ed economico relativamente non elevato, o almeno giudicato tale a suo tempo. In Afghanistan la «soluzione» rapida fallì. L'invasione suscitò una forte e crescente reazione negativa in seno alla nostra società e all'estero. Se nel 1968 nell'Unione Sovietica solo pochissime persone osarono esprimere apertamente la loro protesta per l'invio delle truppe a Praga, nel 1979 l'avventura afghana fu, più o meno apertamente, condannata dalla maggioranza della popolazione. (p. 169)
  • [Su Wojciech Jaruzelski] Contribuì a salvare il Paese, convincendo la leadership sovietica che i polacchi potevano sbrogliarsela da soli. Rivestendo lo stato di guerra dell'uniforme polacca, egli stornò dalla Polonia il pericolo di un intervento. (p. 170)
  • In me, come in molti altri, è profondamente radicata la convinzione che siamo un grande Paese, e che per questo andiamo rispettati. Ma in cosa, grande? Per territorio? Per popolazione? Per quantità di armamenti? O per le sofferenze del popolo? Per l'assenza dei diritti del cittadino? Per le difficoltà della vita? Di cosa possiamo andar fieri noi, quando, e l'ho già detto, abbiamo un tasso di mortalità infantile tra i più alti al mondo? Non è facile rispondere alla domanda: cosa siamo, e che cosa vogliamo essere? Un Paese temuto, o rispettato? Il Paese della forza, o quello del bene? (p. 174)
  • In cosa consiste il vero patriottismo: appagare l'alterigia statale, mandando i figli altrui a morire in Paesi altrui, o nel coraggio di riconoscere gli errori e prevenire di nuovi, nel salvaguardare le giovani vite e nel ripristinare il buon nome del Paese? (p. 174)
  • I recenti fatti del Golfo Persico, dove la tecnologia elettronica militare del XXI secolo ha rivelato la totale inconsistenza dei vecchi armamenti «volumetrici», dovrebbero farci capire cosa significhi oggi sicurezza nel vero senso della parola. Non quantità di armi e numero di soldati, ma qualità e risorse intellettuali, e capacità di materializzare tutto questo in tecnologie e strumenti di avanguardia e capacità di servirsene al meglio. (pp. 207-208)
  • Il mondo ha un solo corpo, e un solo punto dolente si riflette sull'intera struttura e suscita comuni timori. (p. 214)
  • La politica è fondamentalmente drammatica anche nelle sue manifestazioni concrete, ma non è questa una buona ragione per trasformarla in ancella del sensazionalismo. (p. 214)
  • So bene quanto sia costato, a noi e alla Cina, il confronto apertosi decenni addietro: miliardi bruciati nel camino della contrapposizione. E sangue è scorso alle frontiere. Il brusco peggioramento dei rapporti tra i nostri due grandi Paesi fece nascere, tra i potenti del mondo, la tentazione di giocare la «carta cinese» a proprio vantaggio. I rapporti sovietico-cinesi, da possente fattore di influsso positivo sulle vicende mondiali, scaderono a elemento criticamente negativo. Nel grande gioco della politica mondiale, condotto secondo le regole della guerra fredda, l'Occidente cominciò a guadagnar punti proprio là dove in passato non trovava nulla. S'era rotto il rapporto di forze tra Occidente e Oriente. Sotto il profilo politico, l'Occidente era diventato «più esteso» dell'Oriente. (p. 218)
  • Molti di noi hanno personalmente partecipato alla fondazione della Repubblica popolare cinese, ai suoi grandiosi cantieri, hanno contribuito a montare i macchinari sovietici nelle fabbriche cinesi, hanno lavorato nelle aziende agricole di Stato... Molti hanno studiato sui banchi di scuola con cinesi, e non dimenticheranno mai le amicizie che vi hanno allacciato. Per tutti, probabilmente, rappresentò uno shock personale il raffreddamento dei rapporti e la loro degenerazione in inimicizia.
    Sentii la loro normalizzazione come un dovere personale e intimo, politico e morale. (p. 219)
  • Oltre al muro di Berlino, c'è il muro che taglia in due la Corea. (p. 225)
  • [Su Pentimento] Conoscendo la bravura del regista, non dubitavo del suo grande valore artistico. Ma in misura non inferiore mi interessavano i suoi risvolti sociali e politici. Il film si proponeva di rompere la congiura del silenzio e delle censure sul tema della tirannia e dell'illegalità, delle repressioni e persecuzioni subìte nel nostro Paese da milioni di persone. Il mio intuito mi faceva prevedere un tempo in cui si sarebbe andati ben oltre e scavato ben più in profondità di quanto non avesse fatto Chruščev circa trent'anni addietro. [...] Per giunta non ho mai ritenuto ammissibile, e continuo a non ritenerlo, imporre la briglia mortifera dell'ideologia alla creazione artistica. Per me, la questione del film era una questione di principio, sotto ogni riguardo. Quando Abuladze mi mise a parte delle sue intenzioni, dubitavo delle possibilità di immettere il film nella grande distribuzione. E glielo dissi, aggiungendo che comunque andava girato. Era un rischio, ma calcolato fin nei minimi dettagli: dal finanziamento allo studio dove girarlo, nel timore che venisse chiuso da un momento all'altro su ordine di Mosca. (p. 236)
  • Gorbačev vide il film e decretò che poteva essere proiettato. Per la verità occorre dire che a favore dell'opera intervennero molte persone, e della più varia estrazione. A parte i cineasti colleghi di Abuladze, intervennero Aleksandr Jakovlev e, a quanto mi si disse, anche Egor Ligačev. Insomma, Pokajanie godé di forti appoggi. Ma altrettanto forti erano gli avversari. In seno al politbjuro prevaleva l'opinione che, a occuparsi del passato, c'era il rischio di restarvi invischiati e di non riuscire più a venir fuori dalla palude. L'accoglimento delle innumeri istanze di riabilitazione politica di una folta schiera di illustri esponenti del passato avrebbe comportato una reazione a catena di revisione della storia. Lo stesso titolo del film suscitava i timori di molta gente. A parte tutto, il pentimento presuppone l'ammissione delle responsabilità personali. La pubblica condanna del passato faceva paura per l'inevitabile conseguenza di una rottura definitiva con le «regole» allora vigenti. (p. 237)
  • [Sul disastro di Černobyl'] Dal punto di vista del buon senso, era una pura assurdità: come tener celate cose che non si possono nascondere? Come si può proclamare non di voler «pulire i propri panni sporchi in pubblico» quando si tratta di sporcizia radioattiva, che è volata via senza che nessuno potesse farci niente?
    Dal punto di vista morale, era semplicemente un comportamento infame: come nascondere a milioni di persone la verità sulla minaccia alla loro salute, quando un silenzio criminale privava interi popoli di ogni possibilità di adottare misure di difesa?
    Dal punto di vista politico, era un siluro diretto contro i princìpi, proclamati ai massimi livelli, del nuovo pensiero, un siluro contro la fiducia nella nuova linea della dirigenza sovietica, fiducia strappata con tanta fatica all'opinione pubblica mondiale. (p. 238)
  • Oggi, a distanza di cinque anni dal fatto, quando il conteggio delle vittime ha superato le decine di migliaia, quando il cesio e lo stronzio hanno contaminato non i trenta chilometri dei «cerchi infernali», ma intere regioni e repubbliche, ci raffiguriamo, molto meglio che nell'aprile del 1986, la portata di quella battaglia per la verità. L'avessimo perduta in quei giorni, non potremmo più aver alcuna fiducia in noi stessi, perché avremmo calpestato la cosa più sacra al mondo: la vita umana. (p. 239)
  • Le nubi di fumo che salgono dai pozzi di petrolio in fiamme del Kuwait possono chiudere l'orizzonte all'intera umanità. Questa guerra contro un popolo è stata deliberatamente trasformata in aggressione contro la natura, patrimonio dell'intera umanità. (p. 239)
  • «La giornata di Černobyl'» ha tolto definitivamente ogni velo dagli occhi e ha dimostrato in modo incontrovertibile l'inseparabilità di morale e politica: la necessità di una costante verifica della politica sui criteri della morale. (p. 240)
  • La gerontocrazia statualpartitica aveva impedito lo sviluppo di almeno due generazioni della parte più attiva della popolazione. Le persone intelligenti e geniali entravano tardi in azione, e quando vi entravano scoprivano quanti limiti ci fossero all'estrinsecazione delle loro capacità. L'epoca dei «Matusalemme del Cremlino» sembrava non dovesse mai aver fine, come la loro impotenza, che comportava l'immobilità del Paese. (p. 246)
  • Mi esasperano i gemiti per la demolizione del muro di Berlino e l'unificazione della Germania. È impressionante la cecità di menti e spiriti che volgono le spalle alle vere cause della divisione e del suo superamento. Il muro di Berlino non venne infatti costruito come barriera davanti al nemico, ma come impedimento a cittadini che non intendevano vivere sotto le leggi imposte loro. E chi tentava di superare lo sbarramento, veniva ucciso. Cosa hanno qui da obiettare gli accusatori della perestrojka, che vedono in essa «un tradimento dei valori classisti»? Suppongo che metteranno in circolazione un argomento fortissimo: l'unificazione tedesca ha comportato disagi sociali per gli ex cittadini della Ddr. Nelle cronache delle dimostrazioni e dei meeting di protesta affiora chiaramente una nota compiaciuta: «Guardate un po' a cosa ha portato la vostra politica!». Come se non ci fossero state le migliaia di fughe oltre il muro, e le centinaia di corpi rimasti impagliati mentre tentavano di attraversare il confine tra le due Germanie. Avrebbero dovuto essere contenti di restare nella prigione, piuttosto che cercare la felicità in una patria loro negata? (p. 249)
  • Nella storia delle rivoluzioni, c'è un elemento che mi ha sempre turbato: realizzate in nome della felicità dei popoli, hanno sempre minacciato la sovranità della persona. L'idea s'è trasformata nella lama della ghigliottina, incombente sulle teste che osano coltivare idee diverse. Il terrore di massa morale e fisico contro il dissenso ha sempre azzerato il nucleo elitario, colpendo di conseguenza le prospettive storiche e le opportunità dei popoli. (p. 254)
  • Gli attacchi contro la perestrojka o i tentativi di far dirottare la politica del nuovo pensiero si spiegano col fatto che la sua teoria e la sua prassi distruggevano il monolito dall'interno. La rinuncia alla politica del confronto globale e del primato della lotte di classe, la preminenza conferita ai valori umani, il pluralismo delle idee e le libertà politiche sono giustamenti considerati dal sistema alla stregua di ordigni esplosivi. Disinnescarli era il suo compito principale. (p. 257)
  • La dittatura è generata dal vuoto di potere, dall'anarchia, dal caos, dalla volontà di minare dall'interno il potere legittimo, per costringerlo ad agire secondo i propri intendimenti, se non addirittura per subentrargli. (p. 266)
  • Il film Pokajanie si chiude con una splendida metafora. Una donna anziana chiede all'eroina della pellicola se la strada che sta percorrendo conduce al tempio. No, risponde l'eroina, questa strada porta il nome del tiranno, e perciò non conduce al tempio. Strano, ribatte la vecchietta, a cosa serve una strada, se non porta al tempio?
    In un'intervista, Tengiz Abuladze mi definì suo coautore. Una nobile e generosa esagerazione, è ovvio, che però in questo momento accetto per non essere accusato di plagio riprendendo questa sua bellissima immagine. (pp. 269-270)
  • [Sul putsch di agosto] Le persone che apparentemente il sistema era riuscito a schiacciare divennero eroi. Il coraggio e il dovere di dire la verità divennero la norma. Anche le telecomunicazioni erano al servizio della verità. I golpisti avevano avuto troppa fretta e non avevano pensato a interrompere i nostri collegamenti con il mondo esterno. (p. 278)
  • La notizia del suicidio del maresciallo Achromejev mi ha sconvolto. Era un uomo con il senso del dovere, e per questo lo stimavo. Non eravamo amici, lo aveva detto lui stesso. Eravamo colleghi, ma non potevamo essere amici. Però non mi lasciava indifferente. Era un uomo che lottava a viso aperto. (pp. 284-285)
  • [Su Sergej Fëdorovič Achromeev]Un soldato del dovere: questo in lui lo si notava facilmente. A volte tuttavia sorprendeva il fatto che, in nome del dovere, potesse permettersi di deviare dalle norme dell'onore. (p. 285)
  • Come uomo, padre e marito, e infine come suo ex compagno di lotta, ho potuto condividere con lui l'incubo di quelle 72 ore di prigionia nel comodo carcere di Foros. Era prigioniero della giunta. Ma quando tornò e arrivò alla conferenza stampa vidi subito che restava un prigioniero: prigioniero del suo carattere, della sua immagine, del suo modo di pensare e di agire. Adesso posso affermarlo con assoluta certezza: lui solo, e nessun altro, ha allevato con molte cure quella giunta, con la sua negligenza, la sua indecisione e la sua inclinazione a barcamenarsi, con la sua scarsa conoscenza degli uomini, la sua indifferenza nei confronti dei suoi veri compagni di lotta, la sua sfiducia nelle forze democratiche e in quella fortezza che si chiama popolo. Quel popolo che si è trasformato grazie alla perestrojka inaugurata da lui.
    E qui c'è la grande tragedia personale di Michail Gorbačev, e purtroppo dobbiamo dire - anche se la nostra compassione per lui è ancora grande - che questa tragedia avrebbe potuto condurre alla catastrofe nazionale. (p. 293)
  • I golpisti hanno tenuto conto di molte cose, ma si sono dimenticati del fattore più importante. Gli anni della perestrojka ci hanno liberati dalla paura. Siamo diventati diversi. E mentre noi siamo cambiati, loro sono rimasti gli stessi, e non sono riusciti a vincerci. (p. 294)

Explicit[modifica]

Questo libro è stato scritto in difesa della democrazia e della libertà. Non so se assolverà il suo compito. Non so quale valutazione ne daranno i lettori di oggi o di domani, non so quale giudizio toccherà a questo libro e al suo autore, ma posso dire una cosa fin da ora: se non avessi detto tutto questo non avrei potuto continuare a vivere.

Citazioni su Eduard Shevardnadze[modifica]

  • È la solita storia di Shevardnadze: fare sempre manovre che non portano da nessuna parte. (Mikheil Saak'ashvili)
  • Eduard Ševardnadze rimase l'unico componente non slavo dell'organismo dirigente. Il Politburo in pratica era un club di slavi. (Robert Service)
  • Era un uomo molto capace, talentuoso, molto aperto per lavorare con la gente, con tutti gli strati della società. Con lui si poteva parlare direttamente, si lavorava bene. (Michail Gorbačëv)

Note[modifica]

  1. a b Citato in Shevardnadze a Gorbaciov: "Devi lasciare il parito, la Repubblica, 13 agosto 1991
  2. Citato in Eltsin rivendica la rivolta, La Stampa, 23 agosto 1991.
  3. a b Citato in Shevardnadzea racconta la "sua Urss", la Repubblica, 1 settembre 1991
  4. Citato in Shevardnadze: pace tra le repubbliche, La repubbliche, 21 novembre 1991
  5. a b Citato in Shevardnadze pronto a ricostruire la Georgia, la Repubblica, 8 gennaio 1992
  6. a b Citato in "Non sarò dittatore, la Repubblica, 21 marzo 1992
  7. Citato in Per l'Abkhazia polveriera del Caucaso siglato un incerto cessate il fuoco, l'Unità, 4 settembre 1992
  8. Citato in "Vogliono distruggere la Georgia, la Repubblica, 17 aprile 1993
  9. Citato in Abkhazia, missili su Shevardnadze, la Repubblica, 17 settembre 1993
  10. Citato in "Dio mi è testimone ho fatto il possibile", la Repubblica, 28 settembre 1993
  11. Citato in Georgia, l'odissea di Shevardnadze, la Repubblica, 28 settembre 1993
  12. Citato in Il grido del papa a Tbilisi No al terrore nel Caucaso, la Repubblica, 10 novembre 1999
  13. a b Citato in Shevardnadze: Resto in Georgia, la Repubblica, 25 novembre 2003
  14. Citato in Georgia, Saakashvili presidente. "È una vittoria del mio popolo", la Repubblica, 4 gennaio 2004

Bibliografia[modifica]

  • Eduard Shevardnadze, Il futuro è nella libertà, traduzione di Dario Staffa, Rizzoli, 1992, ISBN 88-17-84080-7

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