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Muriel Barbery

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Muriel Barbery

Muriel Barbery (1969 – vivente), scrittrice francese.

Citazioni di Muriel Barbery

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  • L'opera di Taniguchi è tutta un invito a vivere col cuore puro, ed è per questo che i lettori la amano: perché li mette in contatto con il piccolo principe che è dentro di loro. Le emozioni fortissime trasmesse dalle sue storie restituiscono fiducia in un'umanità tenera, e ci avvolgono il cuore come una coperta calda e rassicurante.[1]

Estasi culinarie

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Quando prendevo possesso della tavola lo facevo da monarca. Eravamo i re, gli astri splendenti in quelle poche ore di banchetto che avrebbero deciso il loro futuro, che avrebbero segnato l'orizzonte tragicamente vicino o deliziosamente lontano e radioso delle loro speranze di chef. Facevo il mio ingresso in sala come il console che entra nell'arena a ricevere le acclamazioni, e ordinavo che la festa avesse inizio. Chi non ha mai assaporato il profumo inebriante del potere non può immaginare l'improvvisa scarica di adrenalina che irradia il corpo da capo a piedi, che scatena l'armonia dei gesti, che cancella ogni fatica e ogni realtà contraria al vostro piacere, l'estasi della sfrenata potenza di chi ormai non deve più lottare, ma soltanto godere di ciò che ha conquistato, gustandosi all'infinito l'ebbrezza di incutere timore.

Citazioni

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  • Tangeri. Forse la città più forte al mondo. Forte del suo porto, del suo statuto di città di confine, di imbarchi e sbarchi, a metà strada tra Madrid e Casablanca, forte di non essere comunque una città portuale, al contrario di Algeciras, dall'altra parte dello stretto. Nonostante le enormi banchine spalancate sull'altrove, Tangeri è salda, è sé stessa senza mediazioni e in sé stessa si racchiude, animata di vita propria, enclave di sensi al crocevia delle rotte [...] (p. 23)
  • Nessuno di noi aveva più fame, ma è proprio questo il bello del momento dei dolci: tutta la loro raffinatezza si coglie solo quando non li mangiamo per placare la fame, solo quando l'orgia di dolcezza zuccherina non soddisfa un bisogno primario, ma ci ricopre il palato di tutta la benevolenza del mondo. (p. 25)
  • [...] I figli cosa sono se non mostruose escrescenze di noi stessi, mediocri succedanei dei nostri desideri inappagati? (p. 35)
  • Nella carne del pesce alla griglia, dallo sgombro più umile al salmone più raffinato, c'è qualcosa che sfugge alla cultura. È così che gli uomini devono aver preso coscienza per la prima volta della loro umanità, imparando a cuocere il pesce, confrontandosi con quella materia che a contatto con il fuoco rivelava al contempo una purezza e una selvatichezza intrinseche. (p. 38)
  • La carne è virile, vigorosa, il pesce è strano e crudele. Viene da un altro mondo, da un mare misterioso che non si svelerà mai; dimostra l'assoluta relatività della nostra esistenza, eppure si concede a noi nell'effimera rivelazione di territori sconosciuti. (p. 39)
  • Il calvario non è lasciare quelli che ti amano, ma staccarsi da quelli che non ti amano. (p. 42)
  • Un cuoco per essere pienamente tale deve mobilitare tutti e cinque i sensi. Una pietanza deve essere una gioia per la vista, per l'olfatto, per il gusto, certo, ma anche per il tatto, che così spesso orienta le scelte dello chef e ha il suo ruolo nella festa gastronomica. (p. 44)
  • Una foglia leggermente acidula, acuta quanto basta nell'insolente sentore di aceto ma non tanto da coprire la delicata nota amarognola del limone candito e il lieve odore aspro delle foglie di pomodoro, con cui condivide la sfrontatezza e l'aroma fruttato: questo sprigionano le foglie di geranio [...] (pp. 45-46)
  • Il profumo intenso del tiglio sul far della sera è un rapimento estatico che si imprime in noi in modo indelebile e, nel cuore della gioia di vivere, traccia un solco di felicità che nemmeno tutta la dolcezza di una sera di luglio potrebbe spiegare. (p. 46)
  • Zucchero, acqua, frutto, polpa, liquido o solido? Il pomodoro crudo, divorato appena colto in giardino, è la cornucopia delle sensazioni semplici, una cascata che sciama in bocca riunendo ogni piacere. La resistenza della buccia tesa quel poco quanto basta, i tessuti che si sciolgono in bocca, il liquore ricco di semi che ci cola agli angoli delle labbra e che asciughiamo senza paura di sporcarci le dita, quella piccola sfera carnosa che riversa in noi fiumi di natura: ecco il pomodoro, ecco l'avventura. (p. 49)
  • Un uomo che scoreggia a letto è un uomo che ama la vita [...] (p. 53)
  • Un bravo marmista conosce la materia. Sente dove cederà al suo assalto perché l'incisione è già presente nel blocco e aspetta solo di essere rivelata; lo scultore, con precisione quasi millimetrica, ha intuito quali sembianze assumerà l'opera che solo gli ignoranti credono sia frutto della sua volontà. E invece lui non fa altro che svelare: il suo talento, infatti, non consiste nell'inventare forme, bensì nel rendere manifeste quelle che erano invisibili. (p. 55)
  • Solo la forsennata volontà di far perdurare un mondo scomparso a dispetto dello scorrere del tempo può spiegare come sia possibile credere nell'esistenza di un "territorio": è tutta una vita scomparsa, un aggregato di sapori, odori e profumi disparati che si sedimenta nei riti ancestrali, nelle pietanze locali, crogioli di una memoria illusoria che vuole trasformare la sabbia in oro e il tempo in eternità. (p. 57)
  • [...] La grande cucina non esiste senza evoluzione, erosione e oblio. La cucina è diventata arte grazie a una continua elaborazione, alla mescolanza di passato e futuro, qui e altrove, crudo e cotto, salato e dolce, e può continuare a vivere solo liberandosi dall'ossessione di chi non vuole morire. (p. 57)
  • Il vero sashimi è croccante, eppure si scioglie sulla lingua. Invita a una masticazione lenta e flessuosa che non ha lo scopo di far cambiare natura all'alimento, ma soltanto quello di assaporarne l'aerea "morbilezza". (p. 59)
  • Il sashimi è questo: un frammento cosmico alla portata del cuore [...] (p. 60)
  • Degustare è un atto di piacere, raccontare questo piacere è un fatto artistico, ma l'unica vera opera d'arte, in definitiva, è il banchetto dell'altro. [...] Proprio come una stanza contemplata nel riflesso di uno specchio magico diventa un quadro perché non è più aperta all'esterno, ma evoca tutto un mondo senza sbocchi, inscritto rigorosamente entro i bordi dello specchio e isolato dalla vita circostante, così il pasto dell'altro è racchiuso nella cornice della nostra contemplazione ed è protetto dalla linea di fuga infinita dei nostri ricordi o dei nostri progetti. (pp. 67-68)
  • Esaltazione dell'infanzia: quanti anni impieghiamo a dimenticare la passione che profondevamo in ogni attività che ci assicurava piacere? Di quale impegno totale non siamo più capaci, di quale gioia, di quali slanci di affascinante lirismo? (p. 73)
  • Sbagliamo a credere che la nobiltà del pane risieda nel fatto che basta a sé stesso e al contempo accompagna qualsiasi pietanza. Se il pane "basta a sé stesso" è perché è molteplice, non nel senso delle sue tante tipologie, ma per la sua essenza stessa giacché il pane è ricco, è vario, il pane è un microcosmo. (pp. 75-76)
  • Provincia, campagna, gioia di vivere ed elasticità intrinseca: nel pane c'è tutto questo, oggi come allora. Ecco perché il pane è il mezzo privilegiato grazie al quale perderci in noi stessi, alla ricerca di noi stessi. (p. 77)
  • Le parole: scrigni che raccolgono una realtà isolata e la trasformano in un momento da antologia; maghi che mutano la faccia della realtà, la impreziosiscono al punto da renderla memorabile e le offrono un posto nella biblioteca dei ricordi. Ogni esistenza è tale grazie al rapporto osmotico fra parola ed evento, in cui la prima riveste il secondo con l'abito di gala. (p. 85)
  • Avevo un cane. O meglio, un muso a quattro zampe. Un piccolo ricettacolo di proiezioni antropomorfiche. Un compagno fedele. Una coda che batteva il tempo al ritmo delle sue emozioni. Un canguro sovreccitato nei momenti piacevoli della giornata. Un cane, insomma. (p. 89)
  • Lui a Irancy era nato, a Irancy viveva e a Irancy sarebbe morto. In quel paesino della Yonne, annidato in una girandola di colline e dedito interamente all'uva che cresce abbondante sul suolo generoso, nessuno è geloso dei "lontani vicini" perché il nettare che si produce con amore da quelle parti rifiuta la competizione. È consapevole della sua forza e ha carattere: tanto gli basta per mantenersi in vita. (pp. 109-110)
  • In un certo senso tutti gli uomini sono padroni a casa propria. Anche il più rozzo dei contadini, il più ignorante dei vignaioli, il più misero degli impiegati, il più pezzente dei commercianti, il più reietto dei reietti che da sempre non godono di nessuna considerazione sociale, il più umile degli uomini, insomma, si porta dentro un talento che prima o poi gli darà il suo momento di gloria. (pp. 111-112)
  • È il primo modo di bere il whisky: assaporarlo con ferocia, per fiutarne il gusto aspro e inoppugnabile. [...] Il secondo modo di bere il whisky consiste proprio nel gesto stereotipato del bevitore di acquaviti forti, che manda giù tutto d'un fiato l'oggetto del desiderio, aspetta un attimo, poi chiude gli occhi scioccato ed esala un sospiro soddisfatto e commosso insieme. (p. 115)
  • Il vino è un raffinato gioiello che solo le donne mature preferiscono unanimemente agli Strass scintillanti ammirati dalle ragazzine. (p. 115)
  • Adoro i gelati: crema gelida satura di latte, grasso, aromi artificiali, pezzi di frutta, chicchi di caffè, rum; gelati italiani di consistenza vellutata che formano monumentali scale di vaniglia, fragola o cioccolato; coppe gelato che crollano sotto il peso della panna, della pesca, delle mandorle e di ogni sorta di sciroppo; semplici stecchi dal rivestimento croccante, delicati e tenaci insieme, che si gustano per strada tra un appuntamento e l'altro, o le sere d'estate, davanti alla televisione, quando siamo sicuri che solo così avremo un po' meno caldo, un po' meno sete; e infine i sorbetti, sintesi riuscita di ghiaccio e frutta, che rinfrescano con vigore e si sciolgono in bocca come una colata gelida. (p. 122)
  • Nella semplice parola "sorbetto" si incarna un mondo intero [...] Proporre dei "sorbetti" quando gli altri pensano solo ai "gelati" (fra i quali il profano molto spesso annovera sia i preparati a base di latte che a base d'acqua) vuol dire scegliere fin da subito la levità, sposare la via della raffinatezza, proporre una dimensione aerea rifiutando la pesante camminata terragna e senza prospettive. Già, aerea: il sorbetto è aereo, quasi immateriale, fa appena un po' di schiuma a contatto con il nostro calore, poi, vinto, schiacciato, liquefatto, evapora in gola, lasciando alla lingua solo l'affascinante reminiscenza del frutto e dell'acqua che sono scivolati via. (pp. 122-123)
  • Niente è così piacevole come vedere l'ordine del mondo che si piega di fronte ai nostri desideri. (p. 127)
  • [...] Anche il più turbolento, il più violento, il più ribelle dei figli è tale solo con l'espressa autorizzazione del padre, ed è il padre che, per una ragione a lui ignota, ha bisogno di quel sobillatore, di quella spina piantata nel cuore della famiglia, e cioè di quel focolaio di opposizione grazie a cui vengono smentite tutte le categorie semplicistiche della volontà e del carattere. (p. 134)
  • Per un'ottima bignolina ricoperta di granella vale lo stesso criterio di ogni pasta da bignè che si rispetti. Non deve essere troppo molle né troppo dura. Il bignè non deve essere elastico né flaccido né friabile o aggressivamente asciutto. Il suo successo risiede proprio nell'essere morbido ma non fiacco, consistente ma non secco. (p. 139)

L'eleganza del riccio

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«Marx cambia completamente la mia visione del mondo» mi ha dichiarato questa mattina il giovane Pallières che di solito non mi rivolge nemmeno la parola.
Antoine Pallières, prospero erede di un'antica dinastia industriale, è il figlio di uno dei miei otto datori di lavoro. Ultimo ruttino dell'alta borghesia degli affari – la quale si riproduce unicamente per singulti decorosi e senza vizi –, era tuttavia raggiante per la sua scoperta e me la narrava di riflesso, senza sognarsi neppure che io potessi capirci qualche cosa. Che cosa possono capirci le masse lavoratrici dell'opera di Marx? La lettura è ardua, la lingua forbita, la prosa raffinata, la tesi complessa.
A questo punto, per poco non mi tradisco stupidamente. «Dovrebbe leggere L'ideologia tedesca» gli dico a quel cretino in montgomery verde bottiglia. Per capire Marx, e per capire perché ha torto, bisogna leggere L'ideologia tedesca. È lo zoccolo antropologico sul quale si erigeranno tutte le esortazioni per un mondo migliore e sul quale è imperniata una certezza capitale: gli uomini, che si dannano dietro ai desideri, dovrebbero attenersi invece ai proprio bisogni. In un mondo in cui la hybris del desiderio verrà imbavagliata potrà nascere un'organizzazione sociale nuova, purificata dalle lotte, dalle oppressioni e dalle gerarchie deleterie.
"Chi semina desiderio raccoglie oppressione" sono sul punto di mormorare, come se mi ascoltasse solo il mio gatto. Ma Antoine Pallières, a cui un ripugnante aborto di baffi non conferisce invece niente di felino, mi guarda, confuso dalle mie strane parole. Come sempre, mi salva l'incapacità del genere umano di credere ciò che manda in frantumi gli schemi di abitudini mentali meschine. Una portinaia non legge L'ideologia tedesca e di conseguenza non sarebbe affatto in grado di citare l'undicesima tesi su Feuerbach. Per giunta, una portinaia che legge Marx ha necessariamente mire sovversive ed è venduta a un diavolo chiamato sindacato. Che possa leggerlo per elevare il proprio spirito, poi, è un'assurdità che nessun borghese può concepire.
«Mi saluti tanto la sua mamma» borbotto chiudendogli la porta in faccia e sperando che la disfonia delle due frasi venga coperta dalla forza di pregiudizi millenari.

Citazioni

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  • La gente crede di inseguire le stelle e finisce come un pesce rosso nella boccia. Mi chiedo se non sarebbe più semplice insegnare fin da subito ai bambini che la vita è assurda. Questo toglierebbe all'infanzia alcuni momenti felici, ma farebbe guadagnare un bel po' di tempo all'adulto – senza contare che si eviterebbe almeno un trauma, quello della boccia. (Paloma, p. 15)
  • [...] a quanto pare nessuno ha pensato che, se l'esistenza è assurda, una brillante riuscita non vale più di un fallimento. È solo più piacevole. Anzi, nemmeno: credo che essere coscienti renda il successo amaro, mentre la mediocrità spera sempre in qualche cosa. (Paloma, p. 16)
  • L'importante non è morire, né a che età si muore, l'importante è quello che si fa al momento di morire. (Paloma, p. 18)
  • Che cos'è un'aristocratica? È una donna che, sebbene circondata dalla volgarità, non ne viene sfiorata. (Renée, p. 24)
  • Alcune persone sono incapaci di cogliere l'essenza della vita e il soffio intrinseco in ciò che contemplano, e passano la loro esistenza a discutere sugli uomini come si trattasse di automi, e sulle cose come se fossero prive di anima e si esaurissero in ciò che di esse si può dire, sulla base di ispirazioni soggettive. (Renée, p. 26)
  • Non so bene come spiegare, ma durante lo spostamento il movimento verso in qualche modo ci disgrega: siamo qui e allo stesso tempo non siamo qui perché stiamo già andando altrove, non so se rendo l'idea. Per smettere di disgregarsi bisogna stare fermi. O ti muovi e non sei più intero, o sei intero e non ti puoi muovere. (Paloma, p. 32)
  • Per chi ignora l'appetito il primo morso della fame è al contempo una sofferenza e un'illuminazione. (Renée, p. 34)
  • A torto crediamo che il risveglio della coscienza coincida con l'ora della nostra prima nascita, forse perché è l'unica condizione vitale che sappiamo immaginare. Ci sembra di aver sempre visto e sentito e, forti di questa convinzione, identifichiamo con la venuta al mondo l'istante decisivo in cui nasce la coscienza. Il fatto che per cinque anni una bambinetta di nome Renée, meccanismo percettivo in azione dotato di vista, udito, olfatto, gusto e tatto, abbia potuto vivere nella totale inconsapevolezza di sé stessa e dell'universo smentisce questa teoria sbrigativa. Perché la coscienza per manifestarsi ha bisogno di un nome. (Renée, p. 36)
  • Come tutti sanno, i barboncini sono quella razza di cani riccioluti che appartengono a pensionati qualunquisti, signore molto sole che vi riversano il loro affetto, o portinai barricati nelle loro guardiole buie. Possono essere neri o color albicocca. Quelli albicocca sono più bisbetici di quelli neri, che invece puzzano di più. Tutti i barboncini abbaiano astiosi per un nonnulla, ma in particolare quando non succede niente. Seguono il loro padrone trotterellando su tutte e quattro le zampe rigide senza muovere il resto di quel piccolo tronco a salsiccia che si ritrovano. E soprattutto hanno occhietti neri e collerici, conficcati in orbite insignificanti. I barboncini sono brutti e stupidi, sottomessi e sbruffoni. Sono barboncini. (Renée, p. 38)
  • Nella nostra società essere povera, brutta e per giunta intelligente condanna a percorsi cupi e disillusi a cui è meglio abituarsi quanto prima. Alla bellezza si perdona tutto, persino la volgarità. E l'intelligenza non sembra più una giusta compensazione delle cose, una sorta di riequilibrio che la natura offre ai figli meno privilegiati, ma solo un superfluo gingillo che aumenta il valore del gioiello. La bruttezza, invece, di per sé è sempre colpevole, e io ero già votata a quel tragico destino, reso ancora più doloroso se si pensa che non ero affatto stupida. (Renée, p. 39)
  • [...] la funzione del gatto è di essere un totem moderno, una specie di incarnazione emblematica e protettrice del focolare, un riflesso benevolo di quello che sono gli inquilini della casa. (Paloma, p. 44)
  • Pare che questa compresenza di talento e cecità sia il tratto distintivo dell'autodidatta. (Renée, p. 45)
  • Giacché nutro per Kant un'incrollabile ammirazione, e questo per il duplice motivo che il suo pensiero è una mirabile fusione di genio, rigore e follia e che, per quanto la sua prosa sia spartana, non ho incontrato grosse difficoltà a coglierne il senso. (Renée, p. 46)
  • Quelli più forti | tra tutti gli uomini | non fanno nulla | parlano solamente | parlano di continuo. (Paloma, p. 48) [poesia]
  • [...] non c'è nessuno più puerile del cinico, perché il cinico crede ancora con tutte le sue forze che il mondo abbia un senso e non riesce a rinunciare alle sciocchezze dell'infanzia tanto che assume l'atteggiamento opposto. (Paloma, p. 48)
  • Esiste l'idealismo di Edmund Husserl, nome che ormai mi fa pensare a una marca di tonache per preti irretiti da un oscuro scisma della chiesa battista. (Renée, p. 53)
  • Ecco quindi la fenomenologia: un solitario e infinito monologo della coscienza con sé stessa, un autismo duro e puro che nessun vero gatto andrà mai ad importunare. (Renée, p. 54)
  • La cosa particolarmente buffa nei cocker è la loro andatura ondeggiante quando sono di umore faceto; è come se delle piccole molle, attivate sotto le zampe, li proiettassero verso l'alto – ma dolcemente, senza sbalzi. Questo movimento agita anche le zampe e le orecchie come il rollio con una barca, e il cocker, piccola nave simpatica che solca la terraferma, porta in questi luoghi urbani un tocco marittimo di cui sono ghiotta. (Renée, pp. 56-57)
  • Quando la malattia entra in una casa non si impossessa soltanto di un corpo, ma tesse tra i cuori un'oscura rete che seppellisce la speranza. (Renée, p. 65)
  • Fuori il mondo ruggisce o si addormenta, scoppiano le guerre, gli uomini vivono e muoiono, alcune nazioni periscono, altre, che verranno presto inghiottite, sorgono, e in tutto questo rumore e questo furore, in queste esplosioni e risacche, mentre il mondo avanza, si infiamma, si strazia e rinasce, si agita la vita umana. (Renée, p. 83)
  • Dove si trova la bellezza? Nelle grandi cose che, come le altre, sono destinate a morire oppure nelle piccole che, senza nessuna pretesa, sanno incastonare nell'attimo una gemma di infinito? (Renée, p. 83)
  • Il rituale del , quel puntuale rinnovarsi degli stessi gesti e della stessa degustazione, quell'accesso a sensazioni semplici, autentiche e raffinate, quella libertà concessa a tutti, a poco prezzo, di diventare aristocratici del gusto, perché il tè è la bevanda dei ricchi così come dei poveri, il rituale del tè, quindi, ha la straordinaria virtù di aprire una breccia di serena armonia nell'assurdità delle nostre vite. (Renée, pp. 83-84)
  • Nel nostro universo la vita umana è vissuta così: occorre ricostruire continuamente la propria identità di adulti, un fragilissimo assemblaggio sbilenco ed effimero che maschera la disperazione e racconta a sé stesso, davanti allo specchio, la menzogna alla quale abbiamo bisogno di credere. (Paloma, p. 85)
  • Voi non lo percepite quando qualcuno odia sé stesso? Diventa un morto pur essendo vivo, anestetizza i cattivi sentimenti ma anche quelli buoni, per non provare il disgusto di sé. (Paloma, p. 86)
  • Lo zabaione è l'emblema della cucina francese: una cosa che vuole essere leggera ma che ammazza qualunque cristiano. (Paloma, p. 87)
  • Come scorre la vita dunque? Giorno dopo giorno ci sforziamo con risolutezza di fare la nostra parte in questa commedia fantasma. (Renée, p. 90)
  • L'eternità ci sfugge. (Renée, p. 91)
  • E se la letteratura fosse una televisione in cui guardiamo per attivare i neuroni specchio e concederci a buon mercato i brividi dell'azione? E se, peggio ancora, la letteratura fosse una televisione che ci mostra tutte le occasioni perdute? (Paloma, p. 97)
  • La lingua, ricchezza dell'uomo, e i suoi usi, elaborazione della comunità sociale, sono opere sacre. Che con il tempo evolvano, si traformino, si dimentichino e rinascano, che talora la loro trasgressione divenga fonte di maggiore fecondità, non esclude affatto che prima di prendersi la libertà del gioco e del cambiamento occorra aver dichiarato loro piena sudditanza. (Renée, p. 104)
  • Costruisci | la tua vita | la tua morte | queste sono solo | banali conseguenze (Paloma, p. 105) [poesia]
  • Negli scacchi, per vincere bisogna uccidere. Nel go, bisogna costruire per vivere. (Paloma, p. 106)
  • Se penso al go... Un gioco che ha come scopo la costruzione di un territorio è per forza un bel gioco. Ci possono essere delle fasi di combattimento, ma sono solo in funzione della meta finale, far vivere i propri territori. È dimostrato che nel go per vincere bisogna vivere, ma anche lasciare vivere l'avversario, e questo è uno degli aspetti più riusciti. Chi è troppo avido perde la partita: è un sottile gioco di equilibri in cui bisogna essere in vantaggio senza schiacciare l'altro. (Paloma, p. 108)
  • È per questo stesso motivo che mi piace leggere i bugiardini delle medicine, per il sollievo generato dalla precisione del termine tecnico che dà l'illusione del rigore, il brivido della semplicità, e richiama una dimensione spaziotemporale da cui sono assenti la tensione al bello, la sofferenza creatrice e l'aspirazione incondizionata e senza speranza verso orizzonti sublimi. (Renée, p. 111)
  • Quando sono angosciata, mi ritiro nel mio rifugio. Non c'è nessun bisogno di viaggiare; mi basta raggiungere le sfere della mia memoria letteraria e il gioco è fatto. Quale distrazione più nobile, quale compagnia più amena, quale trance più deliziosa di quella letteraria? (Renée, p. 117)
  • Ah, la campagna russa... Ha quel fascino particolare delle regioni rimaste selvagge eppure unite all'uomo dalla solidarietà con la terra di cui tutti noi siamo fatti... (Renée, p. 117)
  • È ciò che succede in tanti momenti felici della nostra esistenza. Sollevati dal fardello della decisione e dell'intenzione, navigando sui nostri mari interiori, assistiamo ai nostri movimenti come se fossero le azioni di un altro e tuttavia ne ammiriamo l'involontaria eccellenza. (Renée, p. 118)
  • [...] temiamo il domani solo perché non sappiamo costruire il presente, e quando non sappiamo costruire il presente ci illudiamo che saremo capaci di farlo domani, e rimaniamo fregati perché domani finisce sempre per diventare oggi, non so se ho reso l'idea. (Paloma, p. 123)
  • Ecco a cosa serve il futuro: a costruire il presente con veri progetti di vita. (Paloma, p. 124)
  • Dobbiamo concedere agli altri quello che permettiamo a noi stessi; [...]. (Renée, p. 128) [etica della reciprocità]
  • Sapete cos'è l'insaputo? Per gli psicanalisti è frutto delle insidiose manovre di un inconscio nascosto. Che teoria aleatoria, in verità. L'insaputo è il segno più dirompente della forza della nostra volontà cosciente, la quale, quando la nostra emozione vi si oppone, usa tutte le astuzie per raggiungere i propri scopi. (Renée, p. 130)
  • Madame Michel ha l'eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma ho il sospetto che dentro sia semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti. (Paloma, p. 137)
  • Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancora più grave, abbiamo rinunciato all'incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell'altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire. (Paloma, p. 139)
  • Giacché, quando noi apriamo una porta, trasformiamo gli ambienti in modo davvero meschino. Offendiamo la loro piena estensione e a forza di proporzioni sbagliate vi introduciamo un'incauta breccia. A pensarci bene, non c'è niente di più brutto di una porta aperta. Nella stanza dove si trova, introduce una sorta di rottura, un parassitismo provinciale che spezza l'unità dello spazio. Nella stanza contigua provoca una depressione, una ferita aperta e tuttavia stupida, sperduta su un pezzo di muro che avrebbe preferito essere integro. In entrambi i casi turba i volumi, offrendo in cambio soltanto la libertà di circolare, la quale peraltro si può garantire in molti altri modi. (Renée, p. 146)
  • Da noi, il modello è il ghepardo in azione; tutti i suoi movimenti si fondono armoniosamente, non riusciamo a distinguerli l'uno dall'altro, e la corsa della grossa fiera ci appare come un unico e lungo movimento che simboleggia la profonda perfezione della vita. (Renée, p. 147)
  • A me piace tanto il rosa, ma trovo che sia un colore bistrattato, lo considerano una roba da bebè o da donna troppo truccata, invece il rosa è un colore fine e delicato che s'incontra spesso nella poesia giapponese. (Paloma, p. 150)
  • Io credo che la grammatica sia una via d'accesso alla bellezza. Quando parliamo, quando leggiamo o quando scriviamo, ci rendiamo conto se abbiamo scritto o stiamo leggendo una bella frase. Siamo capaci di riconoscere una bella espressione o uno stile elegante. Ma quando si fa grammatica, si accede a un'altra dimensione della bellezza della lingua. Fare grammatica serve a sezionarla, guardare come è fatta, vederla nuda, in un certo senso. (Paloma, p. 152)
  • E molte persone hanno una specie di bug: credono che l'intelligenza sia un fine. Hanno un'unica idea in testa: essere intelligenti, e questa è una cosa stupidissima. E quando l'intelligenza crede di essere uno scopo, funziona in modo strano: non dimostra la sua esistenza con l'ingegno e la semplicità dei suoi frutti, bensì con l'oscurità della sua espressione. (Paloma, pp. 160-161)
  • [...] l'evocazione degli alberi, della loro maestosità indifferente e dell'amore che proviamo per loro da un lato ci insegna quanto siamo insignificanti, cattivi parassiti brulicanti sulla superficie terrestre, dall'altro invece quanto siamo degni di vivere, perché siamo capaci di riconoscere una bellezza che non ci è debitrice. (Paloma, p. 163)
  • C'è sempre la via della semplicità, anche se mi ripugna intraprenderla. Non ho figli, non guardo la televisione e non credo in Dio, tutti sentieri che gli uomini calpestano per rendere la loro vita più semplice. I figli aiutano a rimandare l'angoscioso dovere di affrontare sé stessi, compito a cui in seguito provvedono i nipoti. La televisione distrae dalla massacrante necessità di fare progetti a partire dal nulla delle nostre frivole esistenze e, ingannando gli occhi, solleva la mente dalla grande opera del senso. E infine Dio mitiga i nostri timori di mammiferi e l'insopportabile prospettiva che i nostri piaceri un giorno abbiano fine. (Renée, pp. 170-171)
  • Io non sono più me stessa, sono parte di un tutto sublime al quale appartengono anche gli altri, e in quei momenti mi chiedo sempre perché questa non possa essere la regola quotidiana, invece di un momento eccezionale del coro. Quando il coro s'interrompe tutti quanti, con i volti illuminati, applaudono i coristi raggianti. È così bello. In fondo mi chiedo se il vero movimento del mondo non sia proprio il canto. (Paloma, p. 179)
  • In fin dei conti, gli adolescenti credono di diventare adulti scimmiottando adulti rimasti bambini che fuggono davanti alla vita. (Paloma, p. 186)
  • Su una cosa però siamo d'accordo: l'amore non deve essere un mezzo, l'amore deve essere un fine. (Paloma, p. 188)
  • È un enigma che sempre si rinnova: le grandi opere [d'arte] sono forme visive che raggiungono in noi l'evidenza di un'adeguatezza senza tempo. (Renée, p. 195)
  • A che cosa serve l'Arte? A darci la breve ma folgorante illusione della camelia, aprendo nel tempo una breccia emotiva che non si può ridurre alla logica animalesca. Come nasce l'Arte? È generata dalla capacità propria dello spirito di scolpire la sfera sensoriale. Che cosa fa l'Arte per noi? Dà forma e rende visibili le nostre emozioni e, così facendo, conferisce loro quell'impronta di eternità che recano tutte le opere le quali, attraverso una forma particolare, sanno incarnare l'universalità degli affetti umani. (Renée, p. 197)
  • Il desiderio! Ci sostiene e ci crocifigge, portandoci ogni giorno sul campo di battaglia dove ieri abbiamo perso ma che, nel sole di un'altra giornata, ci sembra nuovamente un terreno di conquista; e anche se domani moriremo, il desiderio ci fa erigere imperi destinati a diventare polvere, come se la consapevolezza che presto cadranno non riguardasse la sete di edificarli ora; ci infonde l'energia di volere sempre quello che non possiamo possedere e ci getta all'alba sull'erba disseminata di cadaveri, affidandoci fino alla morte progetti che appena compiuti subito rinascono. Ma è così estenuante desiderare incessantemente... (Renée, pp. 197-198)
  • Giacché l'Arte è l'emozione senza il desiderio. (Renée, p. 198)
  • [...] io ho dedicato la vita alla ricerca dell'atemporale. Ma chi persegue eternità raccoglie solitudine. (Renée, p. 205)
  • La carta igienica, anche quella, aspira alla canonizzazione. Ritengo molto più eloquente questo segno distintivo di ricchezza piuttosto che possedere una Maserati, per esempio, o una Jaguar coupé. Il servizio che la carta igienica rende al posteriore della gente scava l'abisso tra le classi più a fondo di tanti segni esteriori. (Renée, pp. 213-214)
  • [...] cosa c'è di buono nella cioccolata? La sostanza in sé o il modo in cui viene frantumata coi denti? (Paloma, p. 229)
  • Vivere, nutrirsi, riprodursi, portare a termine il compito per il quale siamo nati e morire: non ha alcun senso, è vero, ma è così che stanno le cose. (Paloma, p. 232)
  • Mi affascina sempre molto l'abnegazione con cui noi esseri umani siamo capaci di consacrare una grande energia alla ricerca del nulla e alla formazione di pensieri inutili. (Renée, p. 241)
  • L'eternità, questo invisibile che noi vediamo. (Renée, p. 244)
  • Fatevi una sola amica, ma sceglietela con cura. (Renée, p. 257)
  • Il bello è ciò che cogliamo mentre sta passando. È l'effimera configurazione delle cose nel momento in cui ne vedi insieme la bellezza e la morte. (Paloma, p. 266)
  • Forse essere vivi è proprio questo: andare alla ricerca degli istanti che muoiono. (Paloma, p. 267)
  • L'Arte è la vita, ma su un altro ritmo. (Renée, p. 270)
  • La miseria è una falce: miete in ogni nostra propensione ad avvicinarci all'altro e ci lascia vuoti, spogli di sentimenti, per darci la forza di tollerare tutto l'orrore presente. (Renée, p. 281)
  • Perché una camelia può cambiare il destino. (Renée, p. 288)
  • È possibile che condividiamo la stessa frenesia, pur non avendo in comune né lo stesso suolo né lo stesso sangue né la stessa ambizione? (Renée, p. 293)
  • [...] lo sguardo è come una mano che tenta inutilmente di afferrare l'acqua che scorre. Sì, l'occhio percepisce ma non scruta, crede ma non interroga, recepisce ma non indaga, è privo di desiderio e non persegue nessuna crociata. (Renée, p. 297)
  • Adesso so quello che dobbiamo vivere prima di morire: posso dirvelo. Prima di morire quello che dobbiamo vivere è una pioggia battente che si trasforma in luce. (Renée, p. 306)
  • [...] solo ora apprezzo quanto questi gatti ridicoli e superflui che attraversano la nostra esistenza con la flemma e l'indifferenza degli imbecilli siano depositari dei bei momenti di gioia e della loro trama felice, anche sotto il cielo dell'infelicità. (Renée, p. 310)
  • Aveva un'aria stanchissima, più stanca che triste; ho pensato: è così che si esprime la sofferenza sui visi buoni. Non si manifesta, appare solo una grande stanchezza. (Paloma, p. 318)

Stasera, ripensandoci, con il cuore e lo stomaco in subbuglio, mi dico che forse in fondo la vita umana è così: molta disperazione, ma con qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso. È come se le note musicali creassero una specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai.
Sì, è proprio così, un sempre nel mai.
Non preoccuparti, Renée, non mi suiciderò e non darò fuoco proprio a un bel niente.
Perché d'ora in poi, per te, andrò alla ricerca del sempre nel mai.
La bellezza, qui, in questo modo.

Incipit di Vita degli elfi

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La piccola passava la maggior parte del suo tempo libero fra i rami. Quando non si sapeva dove trovarla bastava passare in rassegna gli alberi, prima il grande faggio che sovrastava la tettoia nord, sul quale a lei piaceva fantasticare osservando il movimento della fattoria, poi il vecchio tiglio dell'orto, dopo il muretto di pietre fresche, e infine, cosa che accadeva più spesso d'inverno, le querce della comba a ovest del campo attiguo, un riflusso di terreno su cui sorgevano tre esemplari come non ce n'erano di più belli in tutto il paese.

Note

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  1. Citato in Jirō Taniguchi, La montagna magica, Rizzoli Lizard, Milano, 2009, quarta di copertina. ISBN 978-88-17-03131-8

Bibliografia

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  • Muriel Barbery, Estasi culinarie, traduzione di Emanuelle Caillat e Cinzia Poli, Edizioni e/o, 2008. ISBN 9788876418396
  • Muriel Barbery, L'eleganza del riccio, traduzione di Emanuelle Caillat (Paloma) e Cinzia Poli (Renée), Edizioni e/o, 2009. ISBN 978-88-7641-796-2
  • Muriel Barbery, Vita degli elfi, traduzione di Alberto Bracci Testasecca, Edizioni e/o, 2016. ISBN 9788866326984

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