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Hannah Arendt

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Hannah Arendt, 1975

Hannah Arendt (1906 – 1975), filosofa, storica e scrittrice tedesca naturalizzata statunitense.

Citazioni di Hannah Arendt

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  • I diari di guerra di Jünger forniscono forse la migliore e più sicura prova delle enormi difficoltà che incontra l'individuo quando intende conservare le proprie concezioni morali e il proprio concetto di verità in un mondo nel quale verità e morale hanno perso qualsiasi espressione riconoscibile. Nonostante l'innegabile influsso esercitato dai suoi primi lavori su taluni membri dell'intellighenzia nazista, Jünger è stato dal primo all'ultimo giorno del regime un attivo oppositore del nazismo e ha con ciò provato che il senso dell'onore un po' fuori moda, un tempo comune tra i membri del corpo degli ufficiali prussiani, era pienamente sufficiente ai fini della resistenza individuale.[1]
  • Il diritto di sposarsi con chi si vuole è un diritto umano elementare, assai più importante del «diritto di frequentare una scuola integrata», del «diritto a sedersi dovunque si voglia sul pullman», o del «diritto di entrare in qualsiasi albergo, in qualsiasi area ricreativa, in qualsiasi luogo di divertimento, a prescindere dalla propria razza o dal colore della propria pelle».[2]
  • Il mondo in cui gli uomini nascono contiene molte cose, naturali e artificiali, vive e morte, caduche ed eterne, che hanno tutte in comune il fatto di apparire, e sono quindi destinate ad essere viste, udite, toccate, gustate e odorate, a essere concepite da creature senzienti munite degli appropriati organi di senso. Nulla potrebbe apparire, la parola “apparenza” non avrebbe alcun senso, se non esistessero esseri ricettivi. In questo mondo, in cui facciamo ingresso apparendo da nessun luogo e dal quale scompariamo verso nessun luogo, Essere e Apparire coincidono.[3]
  • Il progresso e la catastrofe sono il diritto e il rovescio della stessa medaglia.[4]
  • Io non credo che possa esistere qualche processo di pensiero senza esperienze personali.[5]
  • L'alto concetto di progresso umano è stato privato del suo senso storico e degradato a mero fatto naturale, per cui il figlio è sempre migliore e più saggio del padre e il nipote più libero da pregiudizi del nonno. [...] Alla luce di tali sviluppi, dimenticare è diventato un dovere sacro, la mancanza di esperienza un privilegio e l'ignoranza una garanzia di successo.[6]
  • L'"apocalittica" partita a scacchi fra le superpotenze, cioè fra coloro che si muovono sul piano più elevato della nostra civiltà, si gioca secondo la regola per cui "se uno dei due 'vince' è la fine per entrambi"; è un gioco che non somiglia a nessuno dei giochi di guerra che lo hanno preceduto. Il suo scopo "razionale" è la deterrenza, non la vittoria, e la corsa agli armamenti, che non è più una preparazione alla guerra, può essere giustificata soltanto in base alla tesi che un potenziale deterrente sempre maggiore è la garanzia di pace. Alla domanda se e come saremo mai in grado di districarci dall'ovvia insania di questa posizione, non c'è risposta.[7]
  • Le bugie della propaganda totalitaria si distinguono dalle abituali bugie, a cui ricorrono i regimi non totalitari nei momenti di emergenza, soprattutto perché esse negano continuamente il valore dei fatti in generale: tutti i fatti possono essere cambiati e tutte le falsità essere rese vere. L'impronta data dai nazisti alla coscienza dei tedeschi consiste, innanzitutto, in un condizionamento a causa del quale essi percepiscono la realtà non più come la somma totale di fatti duri e inevitabili, bensì come un agglomerato di eventi e parole in costante mutamento, nel quale oggi può essere vero ciò che domani è già falso.[8]
  • Nessuno ha mai dubitato del fatto che verità e politica siano in rapporti piuttosto cattivi l'una con l'altra e nessuno, che io sappia, ha mai annoverato la sincerità tra le virtù politiche. Le menzogne sono sempre state considerate dei necessari e legittimi strumenti non solo del mestiere del politico o del demagogo, ma anche di quello dello statista.[9]
  • Non ho mai 'amato' alcun popolo, alcuna collettività [..]. Io amo unicamente i miei amici, e la sola specie di amore che conosco, e nella quale credo, è l'amore per le persone.[10]
  • Ora, è più che probabile che se gli uomini dovessero perdere l'appetito di significato che chiamiamo pensare, se cessassero di fare domande senza risposta, perderebbero insieme non solo l'attitudine a produrre quegli enti di pensiero che si chiamano opere d'arte, ma anche la capacità di porre tutte le interrogazioni suscettibili di risposta su cui si fonda ogni civiltà. [11]
  • Quel che ora penso veramente è che il male non è mai «radicale», ma soltanto estremo, e che non possegga né profondità né una dimensione demoniaca. Esso può invadere e devastare il mondo intero, perché si espande sulla sua superficie come un fungo. Esso «sfida», come ho detto, il pensiero, perché il pensiero cerca di raggiungere la profondità, di andare alle radici, e nel momento in cui cerca il male, è frustrato perché non trova nulla. Questa è la sua «banalità». Solo il bene è profondo e può essere radicale.[12]
  • Se la gandhiana strategia della resistenza non violenta, così potente ed efficace, si fosse scontrata con un diverso avversario – la Russia di Stalin, la Germania di Hitler, oppure il Giappone di prima della guerra, anziché l'Inghilterra – il risultato non sarebbe stato la decolonizzazione, ma il massacro e la sottomissione.[13]
  • Tanto c'è voluto per imparare la semplicità e disimparare le semplificazioni del pensiero astratto; per acquistare scioltezza nell'arte e nel linguaggio dei pensieri e dei sentimenti concreti [...]. Le idee astratte, al pari delle emozioni astratte, non portano semplicemente alla falsificazione di ciò che accade nella realtà, ma sono, in un modo perverso, connesse fra loro: il pensiero astratto è esattamente comparabile alla disumanità delle emozioni astratte, per esempio l'amore o l'odio per le collettività.[3]
  • Tutti i termini filosofici sono metafore, analogie, per così dire, congelate, il cui significato autentico si dischiude quando la parola sia riportata al contesto d'origine, certo presente in modo vivido e intenso alla mente del primo filosofo che la impiegò.[14]


Da Hannah, Israele e il mostro, Colloquio epistolare tra Hannah Arendt e Samuel Grafton

Intervista di Samuel Grafton, settembre 1963; riportata su Il Sole 24 Ore, 27 gennaio 2009.

Samuel Grafton: Sono anch'io, come lei, uno scrittore che cerca la verità. Mi sembra che le reazioni al suo libro [La banalità del male: Eichmann a Gerusalemme] costituiscano un importante fenomeno politico che necessita di essere analizzato. In quest'ottica mi sono segnato le seguenti domande: ritiene che le reazioni al suo testo gettino nuova luce sulle tensioni della vita e della politica ebraiche? Se è così, cosa rivelano?
Hannah Arendt: Non ho una risposta definitiva alla sua domanda. La mia sensazione è di aver inavvertitamente toccato la parte ebraica di quello che i tedeschi chiamano il loro "passato irrisolto" (die unbewältigte Vergangenheit). Ora mi sembra che questo problema fosse comunque destinato a presentarsi e che il mio resoconto l'ha cristallizzato agli occhi di quelli che non leggono grossi libri probabilmente anche accelerandone la sua tematizzazione in un discorso pubblico.
Samuel Grafton: Quali ritiene siano le cause reali della reazione violenta di chi ha attaccato il suo libro?
Hannah Arendt: Una causa importante mi pare sia stata l'impressione che io abbia attaccato l'establishment ebraico, perché non solo ho messo in evidenza il ruolo del consiglio ebraico durante la soluzione finale, ma ho anche mostrato come i membri di questo consiglio non fossero solamente dei "traditori". In altre parole, poiché il processo ha toccato il ruolo della leadership ebraica durante la soluzione finale e io ho riportato questi avvenimenti, tutte le attuali organizzazioni ebraiche e i loro capi hanno pensato di essere sotto attacco. Quanto è accaduto, a mio parere, è stato lo sforzo concordato e organizzato di creare un'"immagine" e di sostituire questa al libro che ho scritto.
Samuel Grafton: Lei pensa che gli ebrei nel complesso abbiano imparato qualcosa dall'esperienza di Hitler?
Hannah Arendt: Non ho dubbi sul fatto che l'esperienza di Hitler abbia lasciato un segno profondo su tutta la popolazione ebraica mondiale. Nel libro ho parlato delle reazioni immediate e talvolta ho pensato che noi siamo testimoni di un cambiamento profondo del "carattere nazionale", per quanto ciò sia possibile. Ma non sono sicura; e mentre penso che sia arrivato il tempo di raccontare i fatti, sento che per un giudizio così ampio non è ancora arrivato il momento giusto. Lasciamo questo alle generazioni future.

La banalità del male

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  • Hitler, disse, "avrà anche sbagliato su tutta la linea; ma una cosa è certa: fu un uomo capace di farsi strada e salire dal grado di caporale dell'esercito tedesco al rango di Führer di una nazione di quasi ottanta milioni di persone... Il suo successo bastò da solo a dimostrarmi che dovevo sottostargli". E in effetti la sua coscienza si tranquillizzò al vedere lo zelo con cui la "buona società" reagiva dappertutto allo stesso suo modo. Egli non ebbe bisogno di "chiudere gli orecchi", come si espresse il verdetto, "per non ascoltare la voce della coscienza": non perché non avesse una coscienza, ma perché la sua coscienza gli parlava con una "voce rispettabile", la voce della rispettabile società che lo circondava. (cap. VII)
  • L'Italia era uno dei pochi paesi d'Europa dove ogni misura antisemita era decisamente impopolare. (cap. X)
  • I vuoti di oblio non esistono. Nessuna cosa umana può essere cancellata completamente e al mondo c'è troppa gente perché certi fatti non si risappiano: qualcuno resterà sempre in vita per raccontare. E perciò nulla può mai essere "praticamente inutile," almeno non a lunga scadenza. (cap. XIV)

Le origini del totalitarismo

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  • [Fino all'affare Dreyfuss in Francia] le sinistre avevano mostrato chiaramente la loro antipatia per gli ebrei. Esse avevano semplicemente seguito la tradizione dell'illuminismo del XVIII secolo, considerando l'atteggiamento antiebraico come una parte integrante dell'anticlericalismo. (p. 66)
  • La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana. [...] Se un individuo perde il suo status politico, dovrebbe trovarsi, stando alle implicazioni degli innati e inalienabili diritti umani, nella situazione contemplata dalle dichiarazioni che li proclamano. Avviene esattamente l'opposto: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile. (pp. 415-416)
  • I movimenti totalitari trovano un terreno fertile per il loro sviluppo dovunque ci sono delle masse che per una ragione o per l'altra si sentono spinte all'organizzazione politica, pur non essendo tenute unite da un interesse comune e mancando di una specifica coscienza classista, incline a proporsi obiettivi ben definiti, limitati e conseguibili. (p. 431)
  • La rivoluzione d'ottobre ottenne la vittoria con stupefacente facilità in un paese dove una burocrazia dispotica e accentrata governava una massa amorfa, che né i residui del feudalesimo rurale né il debole, nascente capitalismo urbano avevano saputo organizzare. Quando Lenin affermava che in nessun altro paese del mondo sarebbe stato così facile conquistare il potere e così difficile conservarlo, si rendeva conto non solo della debolezza della classe operaia russa, ma altresì delle anarchiche condizioni sociali che favorivano i cambiamenti improvvisi. Privo com'era degli istinti del capo della massa (non era un oratore e aveva una spiccata tendenza ad ammettere pubblicamente i propri errori e ad analizzarli, cosa che urtava contro l'infallibilità dei capi totalitari, oltre che contro le regole di ogni demagogia), Lenin puntò subito su tutte le possibili differenziazioni, sociali, nazionali, professionali, capaci di introdurre delle strutture nella popolazione, nella palese convinzione che tale processo stratificatore avrebbe costituito la salvezza del potere rivoluzionario. (p. 441)
  • Il livellamento delle condizioni dei sudditi è sempre stato una delle principali preoccupazioni dei despoti e dei tiranni fin dai tempi più antichi; ma un simile livellamento non è sufficiente per il regime totalitario, perché lascia più o meno intatti certi legami non politici, come i vincoli familiari e gli interessi culturali comuni. Se tale regime vuole sul serio raggiungere il suo scopo, deve far sì che «finisca una volta per tutte la neutralità del gioco degli scacchi», vale a dire l'esistenza autonoma di qualsiasi attività. (p. 446)
  • Himmler definì le SS come il nuovo tipo umano che in nessuna circostanza avrebbe fatto «una cosa per se stessa». (pp. 446-447)
  • L'atomizzazione della società sovietica venne ottenuta con l'abile uso di ripetute epurazioni, che invariabilmente precedevano l'effettiva liquidazione di un gruppo. Per distruggere tutti i legami sociali e familiari, le epurazioni venivano condotte in modo da minacciare della stessa sorte l'accusato e tutta la sua cerchia, dai semplici conoscenti agli amici e ai parenti più stretti. La conseguenza dell'ingegnoso criterio della «colpa per associazione» era che, appena un uomo veniva accusato, i suoi vecchi amici si trasformavano di colpo nei suoi nemici più accaniti [...]. In ultima analisi, fu con l'impiego radicale di questi metodi polizieschi che il regime staliniano riuscì a instaurare una società atomizzata quale non si era mai vista prima, e a creare intorno a ciascun individuo un'impotente solitudine quale neppure una catastrofe da sola avrebbe potuto causare. (p. 447)
  • Se la legalità è l'essenza del governo non tirannico e l'illegalità quella della tirannide, il terrore è l'essenza del potere totalitario. (p. 636)
  • Le ideologie ritengono che una sola idea basti a spiegare ogni cosa nello svolgimento dalla premessa, e che nessuna esperienza possa insegnare alcunché dato che tutto è compreso in questo processo coerente di deduzione logica. (pp. 643-644)
  • Nella loro pretesa di spiegazione totale, le ideologie hanno la tendenza a spiegare non quel che è, ma quel che diviene, quel che nasce e muore. (p. 644)
  • È nella natura della politica ideologica – e non un semplice tradimento commesso per interesse personale o smania di potere – che il vero contenuto dell'ideologia (la classe operaia o i popoli germanici), originariamente alla base dell'«idea» (la lotta di classe come legge della storia o la lotta delle razze come legge della natura), venga distrutto dalla logica con cui tale «idea» è attuata. (p. 647)
  • Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l'individuo per il quale la distinzione fra realtà e finzione, fra vero e falso non esiste più. (p. 649)
  • Per la conferma della mia identità io dipendo interamente dagli altri; ed è la grande grazia della compagnia che rifà del solitario un «tutto intero», salvandolo dal dialogo della riflessione in cui si rimane sempre equivoci, e ridandogli l'identità che gli consente di parlare con l'unica voce di una persona non scambiabile. (p. 653)
  • Quel che prepara così bene gli uomini moderni al dominio totalitario è l'estraniazione che da esperienza limite, usualmente subìta in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, è diventata un'esperienza quotidiana delle masse crescenti del nostro secolo. (pp. 654-655)
  • Il dominio totalitario, al pari della tirannide, racchiude in sé i germi della propria distruzione. (p. 655)

Tra passato e futuro

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  • A differenza della natura, la storia è piena di eventi: il miracolo del caso e dell'infinitamente improbabile vi ricorre con tale frequenza da far sì che parlare di miracoli sembri assurdo. (p. 226)
  • I processi storici sono creati e interrotti di continuo dall'iniziativa dell'uomo, da quell'"initium" che l'uomo è in quanto agisce. Di conseguenza, non è per nulla superstizioso, anzi è realistico cercare quel che non si può né prevedere né predire, esser pronti ad accogliere, aspettarsi, dei «miracoli» in campo politico. (p. 226)
  • L'insegnante si qualifica per conoscere il mondo e per essere in grado di istruire altri in proposito, mentre è autorevole in quanto, di quel mondo, si assume la responsabilità. Di fronte al fanciullo è una sorta di rappresentante di tutti i cittadini adulti della terra, che indica i particolari dicendo: ecco il nostro mondo. (p. 247)
  • L'educazione è il momento che decide se noi amiamo abbastanza il mondo da assumercene la responsabilità e salvarlo così dalla rovina, che è inevitabile senza il rinnovamento, senza l'arrivo di esseri nuovi, di giovani. Nell'educazione si decide anche se noi amiamo tanto i nostri figli da non estrometterli dal nostro mondo lasciandoli in balìa di se stessi, tanto da non strappargli di mano la loro occasione d'intraprendere qualcosa di nuovo, qualcosa d'imprevedibile per noi; e prepararli invece al compito di rinnovare un mondo che sarà comune a tutti. (p. 355)

Vita activa

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  • Vivere insieme nel mondo significa essenzialmente che esiste un mondo di cose tra coloro che lo hanno in comune, come un tavolo è posto tra quelli che vi siedono intorno. (II, 7, p. 47)
  • La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell'azione, ha il duplice carattere dell'eguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né comprendersi fra loro, né comprendere i propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro successori. Se gli uomini non fossero diversi, e ogni essere umano distinto da ogni altro che è, fu o mai sarà, non avrebbero bisogno né del discorso né dell'azione per comprendersi a vicenda. Sarebbero soltanto sufficienti segni e suoni per comunicare desideri e necessità immediati e identici. (V, 24, p. 135)
  • Con la parola e con l'agire ci inseriamo nel mondo umano, e questo inserimento è come una seconda nascita, in cui confermiamo e ci sobbarchiamo la nuda realtà della nostra apparenza fisica originale. (V, 24, p. 136)
  • Il fatto che l'uomo sia capace d'azione significa che da lui ci si può attendere l'inatteso, che è in grado di compiere ciò che è infinitamente improbabile. E ciò è possibile solo perché ogni uomo è unico e con la nascita di ciascuno viene al mondo qualcosa di nuovo nella sua unicità. (V, 24, p. 137)
  • La nostra è forse la prima generazione divenuta pienamente consapevole delle conseguenze atroci che discendono da una linea di pensiero che costringe ad ammettere che tutti i mezzi, purché siano efficaci, sono leciti e giustificati per conseguire qualcosa definito come un fine. (V, 31, p. 176)
  • Il miracolo che preserva il mondo, la sfera delle faccende umane, dalla sua normale, "naturale" rovina è in definitiva il fatto della natalità, in cui è ontologicamente radicata la facoltà di agire. È, in altre parole, la nascita di nuovi uomini e il nuovo inizio, l'azione di cui essi sono capaci in virtù dell'esser nati. Solo la piena esperienza di questa facoltà può conferire alle cose umane fede e speranza, le due essenziali caratteristiche dell'esperienza umana che l'antichità greca ignorò completamente. È questa fede e speranza nel mondo che trova forse la sua più gloriosa e efficace espressione nelle poche parole con cui il vangelo annunciò la "lieta novella" dell'avvento: "Un bambino è nato fra noi". (V, 34, p. 191)
  • Proprio come da Platone e Aristotele fino all'età moderna la filosofia, nei suoi maggiori e più autentici rappresentanti, è stata l'articolazione dello stupore di fronte a ciò che è, così la filosofia moderna, da Descartes in poi, è consistita nelle articolazioni e ramificazioni del dubbio. (VI, 38, p. 212)

Citazioni su Hannah Arendt

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  • Che all'origine della esclusione del fascismo dalla categoria del totalitarismo, vi sia sostanzialmente una carenza di conoscenza della realtà storica, lo dimostra il caso di Hannah Arendt. Nel suo libro sulle origini del totalitarismo, pubblicato nel 1951, essa affermava perentoriamente che fino al 1938, il fascismo non fu totalitario ma fu soltanto una ordinaria dittatura nazionalista sorta dalla crisi di una democrazia di partiti. [...] In realtà, il giudizio di Arendt si basava su una scarsa conoscenza di quello che il fascismo era stato, come dimostra la mancanza di dati storici concreti nella sua riflessione sul fascismo e la totale assenza di riferimenti bibliografici alle opere storiche sul fascismo e sul totalitarismo fascista, allora disponibili, anche in lingua inglese, come per esempio gli scritti di Luigi Sturzo. (Emilio Gentile)
  • Formulando la sua tesi sull'apatia politica delle masse fasciste Arendt a sua volta sembrerebbe aver dimenticato di dar conto delle masse prone al totalitarismo di tipo staliniano.
    Ma anche a voler respingere questa parte del discorso di Arendt, non mi pare che l'ossatura della sua teoria ne venga inficiata. Piuttosto, va sottolineato come ella teorizzi la rottura o l'assenza di legami sociali come pre-condizione per l'esistenza della massa. (Massimo Corsale)

Note

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  1. Da Ritorno in Germania, introduzione di Angelo Bolaffi, traduzione di Pierpaolo Ciccarelli, Donzelli Editore, 1996, p. 46. ISBN 88-7989-281-9
  2. Da Riflessioni su Little Rock, in Responsabilità e giudizio, a cura di Jerome Kohn, traduzione di Davide Tarizzo, Einaudi, 2004, p. 174-175.
  3. a b Da Il pensiero secondo Hannah Arendt. Pagine scelte, a cura di Paolo Terenzi, Biblioteca Universale Rizzoli, 2007.
  4. Citato in Gli incidenti ai tempi della globalizzazione, Internazionale, n. 767, 24 ottobre 2008, p. 23.
  5. Da La lingua materna, a cura di Alessandro Dal Lago, Mimesis, Milano, 1996.
  6. Da La morale della storia, in Ebraismo e modernità, p. 119.
  7. Da Sulla violenza, traduzione di Savino D'Amico, Ugo Guanda, 1996, pp. 5-6.
  8. Da Ritorno in Germania, Introduzione di Angelo Bolaffi, traduzione di Pierpaolo Ciccarelli, Donzelli Editore, 1996, p. 30. ISBN 88-7989-281-9
  9. Da Verità e politica, traduzione di Vincenzo Sorrentino, Bollati Boringhieri, Torino, 2004.
  10. Citato in Sandra Petrignani, La filosofia contro i despoti. Così Hannah Arendt ha dato corpo al pensiero puro, Il Foglio Quotidiano, 5 novembre 2022.
  11. Da La vita della mente, a cura di Alessandro Dal Lago, traduzione di Giorgio Zanetti, Ed. Il Mulino, Bologna, 1987, p. 146.
  12. Da una lettera a Gershom Scholem, New York City, 24 luglio 1963, in Eichmann a Gerusalemme. Uno scambio di lettere tra Gershom Scholem e Hannah Arendt, in Ebraismo e modernità, p. 119.
  13. Da Sulla violenza, traduzione di Aldo Chiaruttini, Mondadori, 1971, p. 66.
  14. Da La vita della mente, a cura di Alessandro Dal Lago, traduzione di Giorgio Zanetti, Ed. Il Mulino, Bologna, 1987, p. 190. ISBN 88-15-01510-8

Bibliografia

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  • Hannah Arendt, Ebraismo e modernità, a cura di Giovanna Bettini, Feltrinelli, Milano, 2003. ISBN 9788807812422
  • Hannah Arendt, La banalità del male, traduzione di Piero Bernardini, Giangiacomo Feltrinelli Editore, 2013. ISBN 9788858823750
  • Hannah Arendt, Le origini del totalitarismo, traduzione di Amerigo Guadagnin, Einaudi, 2004. ISBN 978-88-06-16935-0
  • Hannah Arendt, Tra passato e futuro, traduzione di Tania Gargiulo, Garzanti, Milano, 1991. ISBN 88-11-67403-4
  • Hannah Arendt, Vita activa. La condizione umana, traduzione di Sergio Finzi, RCS Libri, Milano, 2011.

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