Ethica
Ethica more geometrico demonstrata (Etica dimostrata con ordine geometrico), semplicemente nota come Ethica, opera filosofica di Baruch Spinoza.
Originale
[modifica]E T H I C A
Ordine Geometrico demonstrata et In quinque Partes distincta, in quibus agitur
I. De Deo
II. De Naturã et Origine Mentis
III. De Origine et Naturã Affectuum
IV. De Servitute Humanã, seu de Affectuum Viribus
V. De Potentiã Intellectūs, seu de Libertate Humanã
Traduzione I
[modifica]VIVERE DA UMANI ossia ETICA
Parte I. Dio, o il Fondamento
Parte II. La Mente Umana
Parte III. Sentire e Sapere
Parte IV. Sottrarsi al Servaggio
Parte V. Vivere Liberi
[Spinoza, Etica, traduzione di Renato Peri[1]]
Traduzione II
[modifica]Etica dimostrata secondo l'ordine geometrico e divisa in cinque parti, in cui si tratta di:
I. Dio
II. Natura e origine della mente
III. Origine e natura degli affetti
IV. La schiavitù umana, ossia le forze degli affetti
V. La potenza dell'intelletto, ossia la libertà umana
[Spinoza, Etica, traduzione di Sossio Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992]
Originale
[modifica]Pars prima – De Deo
Definitiones
1. Per causam sui intelligo id, cujus essentia involvit existentiam, sive id, cujus natura non potest concipi, nisi existens.
2. Ea res dicitur in suo genere finita, quae aliâ ejusdem naturae terminari potest. Ex. gr. corpus dicitur finitum, quia aliud semper majus concipimus. Sic cogitatio aliâ cogitatione terminatur. At corpus non terminatur cogitatione, nec cogitatio corpore.
3. Per substantiam intelligo id, quod in se est, et per se concipitur ; hoc est id, cujus conceptus non indiget conceptu alterius rei, à quo formari debeat.
4. Per attributum intelligo id, quod intellectus de substantiâ percipit, tanquam ejusdem essentiam constituens.
5. Per modum intelligo substantiae affectiones, sive id, quod in alio est, per quod etiam concipitur.
6. Per Deum intelligo ens absolutè infinitum, hoc est, substantiam constantem infinitis attributis, quorum unumquodque aeternam, et infinitam essentiam exprimit.
Explicatio: Dico absolutè infinitum, non autem in suo genere ; quicquid enim in suo genere tantùm infinitum est, infinita de eo attributa negare possumus ; quod autem absolutè infinitum est, ad ejus essentiam pertinet, quicquid essentiam exprimit, et negationem nullam involvit.
7. Ea res libera dicitur, quae ex solâ suae naturae necessitate existit, et à se solâ ad agendum determinatur : necessaria autem, vel potiùs coacta, quae ab alio determinatur ad existendum, et operandum certâ, ac determinatâ ratione.
8. Per aeternitatem intelligo ipsam existentiam, quatenus ex solâ rei aeternae definitione necessariò sequi concipitur.
Explicatio: Talis enim existentia, ut aeterna veritas, sicut rei essentia, concipitur, proptereaque per durationem, aut tempus explicari non potest, tametsi duratio principio, et fine carere concipiatur.
Traduzione
[modifica]Parte I – Dio, o il fondamento
Definizioni
1. Per Causa di sé non intendo una realtà che produca attivamente se stessa, cosa che per la ragione
sarebbe inconcepibile; intendo una realtà la cui essenza implica l'esistenza: ossia una realtà di tale
natura che non possa essere pensata se non come esistente.
2. Si dice finita nel suo genere una cosa che può essere limitata da un'altra cosa della stessa natura.
P. es., noi diciamo che un corpo qualsiasi è finito perché possiamo sempre pensarne uno più grande
che lo limita o lo delimita. Così, anche, un pensiero può essere limitato da un altro pensiero. Ma un
corpo non viene delimitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo.
3. Per Sostanza intendo una realtà che sussiste per sé ("causa di sé": vedi sopra) e che può essere
pensata assolutamente, cioè senza bisogno di derivarne il concetto da quello di un'altra realtà.
4. Per Attributo intendo un'entità che l'intelletto percepisce tanto come manifestazione o aspetto
della Sostanza quanto come costituente o struttura dell'essenza della Sostanza stessa.
5. Per Modo intendo una manifestazione circoscritta e individuabile (anche se infinita; vedi oltre)
della Sostanza, ovvero una realtà che esiste grazie a (o sulla base di) un'altra realtà, senza la quale la
realtà considerata è inconcepibile.
6. Per Dio intendo un Ente assolutamente infinito: cioè una Sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un'essenza eterna ed infinita.
Spiegazione: Dico infinita assolutamente, e non nel suo genere: infatti a un ente qualsiasi, infinito soltanto nel suo genere, non possiamo sostenere che manchino infiniti attributi; ma all'ente che è infinito assolutamente compete un'essenza alla quale, invece, è proprio tutto ciò che esprime un essere e che non implica alcuna negazione.
7. Si dice libera quella cosa che esiste per la sola necessità della sua natura e che solo da se stessa è determinata ad agire; si dice invece necessaria, o piuttosto coatta, la cosa che è determinata da un'altra cosa, e con criteri certi e definiti, ad esistere e ad agire. (Quando sia impiegato in contrapposizione a "contingente" [= che può esserci o no] il termine "necessario" vale invece che non può non esserci: come si vedrà più avanti).
8. Per Eternità intendo l'esistenza stessa, in quanto essa è pensata discendere necessariamente dalla sola definizione di cosa eterna.
Spiegazione: Una tale esistenza si concepisce infatti – allo stesso modo dell'essenza della cosa eterna predetta – come una verità eterna (= affermazione il cui contrario non è logicamente concepibile): per la qual cosa essa non può spiegarsi per mezzo della durata o dei tempo; anche se la durata sia pensata senza principio e senza fine.
[Spinoza, Etica, traduzione di Renato Peri[1]]
Originale
[modifica]Pars secunda – De Naturâ et Origine Mentis
Transeo jam ad ea explicanda, quae ex Dei, sive Entis aeterni, et infiniti essentiâ necessariò debuerunt sequi. Non quidem omnia ; infinita enim infinitis modis ex ipsâ debere sequi Prop. 16 Part. 1 demonstravimus : sed ea solummodo, quae nos ad Mentis humanae, ejusque summae beatitudinis cognitionem, quasi manu, ducere possunt.
Definitiones
1. Per corpus intelligo modum, qui Dei essentiam, quatenus, ut res extensa, consideratur, certo, et determinoto modo exprimit ; vid. Coroll. Prop. 25 Part. I.
2. Ad essentiam alicujus rei id pertinere dico, quo dato res necessariò ponitur, et quo sublato res necessariò tollitur ; vel id, sine quo res, et vice versa quod sine re nec esse, nec concipi potest.
3. Per ideam intelligo Mentis conceptum, quem Mens format, propterea quòd res est cogitans.
Explicatio: Dico potiùs conceptum, quam perceptionem, quia perceptionis nomen indicare videtur, Mentem ab objecto pati. At conceptus actionem Mentis exprimere videtur.
4. Per ideam adaequatam intelligo ideam, quae, quatenus in se sine relatione ad objectum consideratur, omnes verae idae proprietates, sive denominationes intrinsecas habet.
Explicatio: Dico intrinsecas, ut illam secludam, quae extrinseca est, nempe convenientam ideae cum suo ideato.
5. Duratio est indefinita existendi continuatio.
Explicatio: Dico indefinitam, quia per se ipsam rei existentis naturam determinari nequaquam potest, neque etiam à causâ efficiente, quae scilicet rei existentiam necessariò ponit, non autem tollit.
6. Per realitatem, et perfectionem idem intelligo.
7. Per res singulares intelligo res, quae finitae sunt, et determinatam habent existentiam. Quòd si plura Individua in unâ actione ità concurrant, ut omnia simul unius effectûs sint causa, eadem omnia eatenus, ut unam rem singularem, considero.
Traduzione
[modifica]Parte II – La Mente Umana
Passo ora a spiegare le cose che hanno dovuto derivare necessariamente dall'essenza di Dio, cioè dell'Essere eterno e infinito. Naturalmente non le spiegherò tutte – sono infinite (come ho dimostrato: P. 1, Prop. 16) le cose che in infiniti modi debbono derivare da quell'essenza; mi limiterò a spiegare quelle che possono condurci, come per mano, alla conoscenza della Mente umana e della sua suprema beatitudine.
Definizioni
1. Per Corpo intendo un modo, cioè una manifestazione (o forma) circoscritta e individuabile, che esprime in maniera certa e determinata l'essenza di Dio, in quanto egli è considerato come cosa estesa (P. 1, Conseg. d. Prop. 25).
2. Dico che appartiene all'essenza di una cosa ciò che, essendoci, fa sì che la cosa sia necessariamente, e che, venendo a mancare, fa sì che la cosa venga meno necessariamente; ovvero ciò senza di cui la cosa considerata non può essere né esser pensata, e, viceversa, ciò che senza quella cosa non può essere né esser pensato.
3. Per Idea intendo un concetto della Mente, che la Mente forma perché è una cosa pensante.
Spiegazione: Dico concetto piuttosto che percezione, perché il termine "percezione" sembra indicare che la Mente, passiva, riceva una qualche impressione dall'oggetto: mentre il termine "concetto" sembra esprimere un'azione della Mente.
4. Per Idea adeguata intendo un'idea che, in quanto è considerata in sé, senza relazione a un oggetto, possiede tutte le proprietà o le caratteristiche intrinseche di un'idea vera; ossia che corrisponde a una concezione razionale e logica nell'ambito di ciò che è nelle possibilità della Sostanza.
Spiegazione: Dico infatti proprietà intrinseche per escludere quella proprietà che è estrinseca: e che è la convenienza dell'idea vera col suo ideato, ossia col suo oggetto quale-esso-è-in-sé (v. P. 1, Ass. 6).
5. Per Durata intendo la continuazione indefinita dell'esistenza.
Spiegazione: Dico continuazione indefinita perché essa non può mai esser definita, o determinata, dalla natura stessa della cosa esistente, e neanche dalla sua causa efficiente: la quale pone sì necessariamente l'esistenza della cosa, ma non può toglierla.
6. Per Realtà e per Perfezione intendo la medesima cosa.
7. Per Cose singolari o singole intendo le cose che hanno un'estensione finita e un'esistenza determinata. Se molte Cose singolari (o Individui, se hanno tali caratteristiche di semplicità e di riconoscibilità) cooperino a una medesima azione in modo di essere, tutte insieme, la causa di un unico effetto, io le considero, per questa circostanza, come una sola Cosa singolare.
[Spinoza, Etica, traduzione di Renato Peri[1]]
Originale
[modifica]Pars tertia – De Origine et Naturâ Affectuum
Praefatio
Plerique, qui de Affectibus, et hominum vivendi ratione scripserunt, videntur, non de rebus naturalibus, quae communes naturae leges sequuntur, sed de rebus, quae extra naturam sunt, agere. Imò hominem in naturâ, veluti imperium in imperio, concipere videntur. Nam hominem naturae ordinem magis pertubare, quàm sequi, ipsumque in suas actiones absolutam habere potentiam, nec aliunde, quàm à se ipso determinari, credunt. Humanae deinde impotentiae, et inconstantiae causam non communi naturae potentiae, sed, nescio cui naturae humanae vitio, tribuunt, quam propterea flent, rident, contemnunt, vel, quod plerumque fit, detestantur ; et, qui humanae Mentis impotentiam eloquientiùs, vel argutiùs carpere novit, veluti Divinus habetur. Non desuerunt tamen viri praestantissimi (quorum labori, et industriae nos multùm debere fatemur), qui de rectâ vivendi ratione praeclara multa scripserint, et plena prudentiae consilia mortalibus dederint ; verùm Affectuum naturam, et vires, et quid contrà Mens in iisdem moderandis possit, nemo, quòd sciam, determinavit. Scio equidem celeberrimum Cartesium, licet etiam crediderit, Mentem in suas actiones absolutam habere potentiam, Affectûs tamen humanos per primas suas causas explicare, simulque viam ostendere studuisse, quâ Mens in Affectûs absolutum habere possit imperium ; sed, meâ quidem sententiâ, nihil praeter magni sui ingenii acumen ostendit, ut suo loco demonstrabo. Nam ad illos revertere volo, qui hominum Affectûs, et actiones detestari, vel ridere malunt, quàm intelligere. His sine dubio mirum videbitur, quod hominum vitia, et ineptias more Geometrico tractare aggrediar, et certâ ratione demonstrare velim ea, quae rationi repugnare, quaeque vana, absurda, et horrenda esse clamitant. Sed mea haec est ratio. Nihil in naturâ sit, quod ipsius vitio possit tribui ; est namque natura semper eadem, et ubique una, eademque ejus virtus, et agendi potentia, hoc est, naturae leges, et regulae, secundùm quas omnia fiunt, et ex unis formis in alias mutantur, sunt ubique, et semper eaedem, atque adeò una, eademque etiam debet esse ratio rerum qualiumcunque naturam intelligendi, nempe per leges, et regulas naturae universales. Affectûs itaque odii, irae, invidiae etc. in se considerati ex eâdem naturae necessitate, et virtute consequuntur, ac reliqua singularia ; ac proinde certas causas agnoscunt, per quas intelliguntur, certasque proprietates habent, cognitione nostrâ aequè dignas, ac proprietates cujuscunque alterius rei, cujus solâ contemplatione delectamur. De Affectuum itaque naturâ, et viribus, ac Mentis in eosdem potentiâ eâdem Methodo agam, quâ in praecedentibus de Deo, et Mente egi, et humanas actiones, atque appetitûs considerabo perinde, ac si quaestio de lineis, planis, aut de corporibus esset.
Traduzione
[modifica]Parte III – Sentire e Sapere
Prefazione
Il maggior numero di coloro che hanno trattato dei sentimenti e della maniera di vivere degli umani sembrano occuparsi non di cose naturali, soggette alle ordinarie leggi della natura, ma di cose estranee alla natura stessa; e addirittura sembrano considerare la posizione dell'Uomo nella natura come quella di uno Stato in uno Stato, credendo, come credono, che l'Uomo turbi l'ordine della natura più che seguirlo, che egli abbia sulle sue azioni un potere assoluto, e che non sia determinato nel suo agire che da se stesso. Essi poi attribuiscono la causa dell'impotenza e dell'incostanza umane non all'ordinario potere della Natura, ma a non so quale difetto della specifica natura umana: che per questa ragione essi compiangono, o deridono, o disprezzano, o – come accade più spesso – deprecano; e a chi sa con maggiore eloquenza o con maggiore arguzia criticare l'impotenza della Mente umana s'attribuisce la più alta ispirazione. Non sono mancati tuttavia uomini di grande valore (alla cui fatica e alle cui ricerche riconosco di dover molto) che hanno scritto parecchie cose eccellenti sulla retta maniera di vivere e hanno dato ai mortali consigli pieni di prudenza; nessuno però, ch'io sappia, ha definito la natura e le forze dei Sentimenti, e quanto possa d'altra parte la Mente per governarli. So certo
che il celeberrimo Cartesio – sebbene anch'egli abbia creduto che la Mente ha sulle sue azioni un potere assoluto – s'è sforzato di spiegare i Sentimenti umani mediante le loro cause prime, e insieme di mostrare la via per la quale la Mente possa avere sui Sentimenti un dominio totale; però, a mio parere almeno, egli non ha reso noto altro che l'acume del suo grande ingegno, come a suo luogo dimostrerò. Ma torniamo a coloro che al capire i sentimenti e le azioni degli umani preferiscono deprecarli o deriderli. Essi giudicheranno indubbiamente degno di meraviglia che io mi dedichi a trattare razionalmente i vizi e le stupidaggini degli umani, e che voglia dimostrare in maniera inoppugnabile cose che essi proclamano a gran voce ripugnanti alla ragione, vane, assurde, orrende. Ma il mio criterio è proprio questo. In natura niente accade che possa imputarsi a un difetto della natura stessa: la natura è infatti sempre la medesima, e dappertutto la sua virtù e il suo potere d'agire sono identici; ossia, le leggi naturali e le regole di natura, in conformità delle quali tutto accade e tutto si trasforma, sono sempre e dappertutto le stesse: e pertanto dev'esserci un solo, e sempre lo stesso, criterio di interpretazione delle cose-come-sono, quali che esse siano: criterio che s'identifica con le leggi e le regole universali della natura. Quindi i Sentimenti di odio, di ira, di invidia, eccetera, considerati in se stessi, procedono dalla stessa necessità e dalla stessa virtù della natura da cui procedono tutte le altre cose singole; e quindi riconoscono cause determinate, mediante le quali essi sono compresi, ed hanno determinate proprietà, degne d'esser conosciute da noi esattamente come le proprietà di qualsiasi altra cosa di quelle della cui contemplazione ci dilettiamo. Con lo stesso metodo, pertanto, col quale nelle pagine precedenti ho trattato di Dio e della Mente, tratterò ora della natura e delle forze dei Sentimenti, e del potere che la Mente ha su di essi; e considererò le azioni e le inclinazioni umane come se fosse questione di linee, di superfici e di solidi.
[Spinoza, Etica, traduzione di Renato Peri[1]]
Originale
[modifica]Pars quarta – De Servitute Humanâ, seu de Affectuum Viribus
Praefatio
Humanam impotentiam in moderandis, et coërcendis affectibus Servitutem voco ; homo enim affectibus obnoxius sui juris non est, sed fortunae, in cujus potestate ità est, ut saepe coäctus sit, quanquam meliora sibi videat, deteriora tamen sequi. Hujus rei causam, et quid praeterea affectûs boni, vel mali habent, in hâc Parte demonstrare proposui. Sed antequam incipiam, pauca de perfectione, et imperfectione, deque bono, et malo praefari lubet.
Qui rem aliquam facere constituit, eamque perfecit, rem suam perfectam esse, non tantùm ipse, sed etiam unusquisque, qui mentem Auctoris illius operis, et scopum rectè noverit, aut se novisse crediderit, dicet. Ex. gr. si aliquis aliquod opus (quod suppono nondum esse peractum) viderit, noveritque scopum Auctoris illius operis esse domum aedificare, is domum imperfectam esse dicet, et contrà perfectam, simulatque opus ad finem, quem ejus Auctor eidem dare constituerat, perductum viderit. Verùm si quis opus aliquod videt, cujus simile nunquam viderat, nec mentem opificis novit, is sanè scire non poterit, opus ne illud perfectum, an imperfectum sit. Atque haec videtur prima fuisse horum vocabulorum significatio. Sed postquam homines ideas universales formare, et domuum, aedificiorum, turrium, etc. exemplaria excogitare, et alia rerum exemplaria aliis praeferre inceperunt, factum est, ut unusquisque id perfectum vocaret, quod cum universali ideâ, quam ejusmodi rei formaverat, videret convenire, et id contrà imperfectum, quod cum concepto suo exemplari minùs convenire videret, quanquam ex opificis sententiâ consummatum planè esset. Nec alia videtur esse ratio, cur res naturales etiam, quae scilicet humanâ manu non sunt factae, perfectas, aut imperfectas vulgò appellent ; solent namque homines tam rerum naturalium, quàm artificialum ideas formare universales, quas rerum veluti exemplaria habent, et quas naturam (quam nihil nisi alicujus finis causâ agere existimant) intueri credunt, sibique exemplaria proponere. Cùm itaque aliquid in naturâ fieri vident, quod cum concepto exemplari, quod rei ejusmodi habent, minùs convenit, ipsam naturam tum defecisse, vel peccavisse, remque illam imperfectam reliquisse, credunt. Videmus itaque homines consuevisse, res naturales perfectas, aut imperfectas vocare, magis ex praejudicio, quàm ex earum verâ cognitione. Ostendimus enim in Primae Partis Appendice Naturam propter finem non agere ; aeternum namque illud, et infinitum Ens, quod Deum, seu Naturam appellamus, eâdem, quâ existit, necessitate agit. Ex quâ enim naturae necessitate existit, ex eâdem ipsum agere ostendimus (Prop. 16 Part. I). Ratio igitur, seu causa, cur Deus, seu Natura agit, et cur existit, una, eadeóque est. Ut ergo nullius finis causâ existit, nullius etiam finis causâ agit ; sed ut existendi, sic et agendi principium, vel finem habet nullum. Causa autem, quae finalis dicitur, nihil est praeter ipsum humanum appetitum, quatenus is alicujus rei veluti principium, seu causa primaria consideratur. Ex. gr. cùm dicimus habitationem causam fuisse finalem hujus, aut illius domûs, nihil tùm sanè intelligimus aliud, quàm quod homo ex eo, quod vitae domesticae commoda imaginatus est, appetitum habuit aedificandi domum. Quare habitatio, quatenus ut finalis causa consideratur, nihil est praeter hunc singularem appetitum, qui reverâ causa est efficiens, quae ut prima consideratur, quia homines suorum appetituum causas communiter ignorant. Sunt namque, ut jam saepe dixi, suarum quidem actionum, et appetituum conscii, sed ignari causarum, à quibus ad aliquid appetendum determinantur. Quod praeterea vulgo ajunt, Naturam aliquando deficere, vel peccare, resque imperfectas producere, inter commenta numero, de quibus in Append. Part. I egi. Perfectio igitur, et imperfectio reverâ modi solummodo cogitandi sunt, nempe notiones, quas fingere solemus ex eo, quod ejusdem speciei, aut generis individua ad invicem comparamus : et hâc de causâ suprà (Def. 6 Part. II) dixi me per realitatem, et perfectionem idem intelligere ; solemus enim omnia Naturae individua pertinet. Quatenus itaque Naturae individua ad hoc genus revocamus, et ad invicem comparamus, et alia plus entitatis, seu realitatis, quàm alia habere comperimus, eatenus alia aliis perfectiora esse dicimus ; et quatenus iisdem aliquid tribuimus, quod negationem involvit, ut terminus, finis, impotentia, etc. eatenus ipsa imperfecta appellamus, quia nostram Mentem non aequè afficiunt, ac illa, quae perfecta vocamus, et non quod ipsis aliquid, quod suum sit, deficiat, vel quod Natura peccaverit. Nihil enim naturae alicujus rei competit, nisi id, quod ex necessitate naturae causae efficientis sequitur, et quicquid ex necessitate naturae causae efficientis sequitur, id necessariò sit.
Bonum, et malum quod attinet, nihil etiam positivum in rebus, in se scilicet consideratis, indicant, nec aliud sunt, praeter cogitandi modos, seu notiones, quas formamus ex eo, quod res ad invicem comparamus. Nam una, eadeóque res potest eodem tempore bona, et mala, et etiam indifferens esse. Ex. gr. Musica bona est Melancholico, mala lugenti ; surdo autem neque bona, neque mala. Verùm, quamvis se res ità habeat, nobis tamen haec vocabula retinenda sunt. Nam quia ideam hominis tanquam naturae humanae exemplar, quod intueamur, formare cupimus, nobis ex usu erit, haec eadem vocabula eo, quo dixi, sensu retinere. Per bonum itaque in seqq. intelligam id, quod certò scimus medium esse, ut ad exemplar humanae naturae, quod nobis proponimus, magis magisque accedamus. Per malum autem id, quod certò scimus impedire, quominùs idem exemplar referamus. Deinde homines perfectiores, aut imperfectiores dicemus, quatenus ad hoc idem exemplar magis, aut minùs accedunt. Nam apprimè notandum est, cùm dico, aliquem à minore ad majorem perfectionem transire, et contrà, me non intelligere, quod ex unâ essentiâ, seu formâ in aliam mutatur. Equus namque ex. gr. tàm destruitur, si in hominem, quàm si in insectum mutetur : sed quod ejus agendi potentiam, quatenus haec per ipsius naturam intelligitur, augeri, vel minui concipimus. Denique per perfectionem in genere realitatem, uti dixi, intelligam, hoc est, rei cujuscunque essentiam, quatenus certo modo existit, et operatur, nullâ ipsius durationis habitâ ratione. Nam nulla res singularis potest ideo dici perfectior, quia plus temporis in existendo perseveravit ; quippe rerum duratio ex earum essentiâ determinari nequit ; quandoquidem rerum essentia nullum certum, et determinatum existendi tempus involvit ; sed res quaecunque, sive ea perfectior sit, sive minùs, eâdem vi, quâ existere incipit, semper in existendo perseverare poterit, ità ut omnes hâc in re aequales sint.
Traduzione
[modifica]Parte IV – Sottrarsi al Servaggio
Prefazione
Chiamo Servaggio, o Servitù, l'impotenza degli umani a governare e a reprimere i sentimenti: dato
che l'agire di un umano sottomesso ai sentimenti è guidato non dall'umano stesso, ma dalla sorte: in potere della quale egli si trova ad un punto tale, che spesso è costretto, sebbene veda ciò che per lui è meglio, a scegliere invece il peggio. Dimostrare la causa di questa situazione, e dimostrare inoltre che cosa i sentimenti abbiano di buono o di cattivo, è ciò che in questa Parte mi sono proposto. Ma prima di cominciare vorrei premettere poche parole a proposito della perfezione e dell'imperfezione e del bene e del male.
Chi ha stabilito di fare una certa cosa, e l'ha portata a compimento, dirà che la sua opera è perfetta; e così dirà anche ognuno che conosca correttamente, o creda di conoscere, il pensiero e lo scopo dell'autore di quell'opera. Per esempio, se qualcuno vede un'opera – che suppongo non essere ancora compiuta – e sa che lo scopo dell'autore di quell'opera è, poniamo, la costruzione di una casa, dirà che, in tale suo stato, la casa è incompiuta, o imperfetta; e la dirà invece compiuta, o perfetta, dal momento che l'avrà vista portata a quel compimento che l'autore aveva progettato di darvi. Ma chi veda un'opera della quale non abbia mai visto un altro esemplare, e non conosca il pensiero del costruttore, non potrà certo sapere se quell'opera sia perfetta o imperfetta. E sembra che questo sia stato il primitivo significato di tali termini. Ma dopo che gli umani han cominciato a formarsi idee universali (v. P. II, Prop. 40, Chiarim. 1°), e a concepire modelli di case, di palazzi, di torri, eccetera, e a preferire determinati modelli di cose ad altri modelli, è accaduto che ognuno chiami perfetto ciò che gli sembri combaciare meglio con 1'idea universale che egli s'è fatto di quella tal cosa, e imperfetto, al contrario, ciò che egli veda meno combaciante col modello da lui concepito – benché a giudizio dell'artefice dell'oggetto esso possa essere perfettamente compiuto. E non sembra che sia diversa la ragione dell'abitudine, che gli umani hanno, di chiamare perfette o imperfette anche le cose naturali, quelle cioè che non sono prodotte da mano umana: ché gli umani sogliono infatti formarsi, sia delle cose naturali sia delle cose artificiali, idee universali, che essi prendono come modelli delle cose, e che secondo loro la natura (la quale, secondo loro, non fa nulla senza un fine) tiene ben presenti e adotta anch'essa come modelli. Quando poi vedono che nella natura si presenta qualche cosa che s'adatta non completamente al loro modello ideale di quella cosa, essi credono allora che la natura stessa abbia avuto un mancamento o un ghiribizzo e abbia lasciato imperfetta la cosa considerata. Vediamo pertanto che gli umani si sono abituati a chiamare le cose "perfette" o "imperfette" più per pregiudizio che per una vera conoscenza delle cose stesse. Abbiamo infatti mostrato nell'Appendice della Prima Parte che la Natura non agisce in vista d'un fine: l'Ente eterno e infinito, che chiamiamo Dio, o Natura, opera per la medesima necessità per la quale esiste. E che esso agisca per la medesima necessità di natura per
la quale esiste è dimostrato nella Prop. 16 della I Parte. Quindi la ragione, o la causa, per cui Dio, o la Natura, opera, e per cui esiste, è la medesima, cioè una sola. Come dunque esso non esiste per alcun fine, esso anche non opera per alcun fine; e come per il suo esistere, così per il suo operare esso non ha alcuna ragione né alcuno scopo. La causa detta finale non è nulla all'infuori dello stesso appetito umano, in quanto è considerato il principio o ragione o causa primaria di una cosa: quando diciamo, per esempio, che la causa finale di questa o quella casa è stata l'abitarci, noi sicuramente non intendiamo altro che questo, che un Uomo, per aver immaginato i vantaggi del disporre di una casa per viverci, ha avuto il desiderio, o l'appetito, di costruirsela. Quindi l'abitare, in quanto è considerato causa finale, non è altro che questo specifico appetito, il quale è in realtà una causa efficiente: che è considerata causa prima perché gli umani, ordinariamente, ignorano le cause dei loro appetiti. Essi sono infatti, come ho detto spesso, ben consapevoli delle loro azioni e dei loro appetiti, ma ignari delle cause dalle quali essi sono determinati ad appetire qualcosa. Quel che poi si dice dalla gente, che la Natura talvolta sia manchevole, o sbagli per sbagliare, e produca cose imperfette, va annoverato tra le fantasie di cui ho trattato nell'Appendice della Prima Parte. Quindi la "perfezione" e l'"imperfezione" sono, in realtà, soltanto modi del pensare: vale a dire, nozioni che noi ci costruiamo col confrontare fra di loro individui della medesima specie o del medesimo genere: e per questa ragione ho detto più sopra (P. II, Def. 6) che coi termini realtà e perfezione io intendo la medesima cosa. Noi siamo soliti, infatti, ridurre tutti gli esseri che sono in Natura a quell'unico genere che è chiamato generalissimo: appunto alla nozione 86 di ente, ossia di cosa che è: nozione pertinente a tutte, senza eccezione, le cose che sono in Natura. In quanto, allora, noi riduciamo tutti gli esseri individui della Natura a questo genere, e li confrontiamo fra di loro, e rileviamo che taluni hanno più entità, o più realtà, o sono più cosa, di altri, in tanto noi diciamo che gli uni sono più perfetti degli altri; e in quanto attribuiamo a questi ultimi qualche particolarità che implica una negazione – come limite, finitezza, impotenza eccetera – in tanto noi li definiamo imperfetti: questo, però, perché la nostra Mente non ne è colpita come dagli esseri che a noi sembrano perfetti, e non perché agli esseri "imperfetti" manchi qualcosa che ad essi compete o perché la Natura abbia sbagliato. Alla natura di una qualsiasi cosa non compete infatti nient'altro che ciò che deriva dalla necessità della natura della causa efficiente; e qualsiasi cosa che derivi dalla necessità della natura della causa efficiente viene ad essere necessariamente.
Quanto ai termini di bene e di male, anch'essi non indicano alcunché di positivo nelle cose, se le consideriamo in sé, e non sono altro che modi del pensare, ossia nozioni, che noi ci formiamo in conseguenza del nostro confrontare le cose le une con le altre. Una stessa cosa, infatti, può essere nello stesso tempo buona, e cattiva, e anche indifferente: la Musica, per esempio, è buona per chi è melanconico e cattiva per chi soffre; e per chi è sordo non è buona né cattiva. Ma, sebbene le cose stiano così, ci conviene egualmente continuare ad usare quei termini. Poiché, infatti, noi vogliamo configurare un'idea di Uomo che sia il modello della natura umana, al quale fare poi riferimento, ci sarà utile conservare i termini in parola nel senso che ho detto. Di qui in poi, pertanto, intenderò per buono (o per bene) ciò che sappiamo con certezza essere un mezzo per avvicinarci sempre più a quel modello della natura umana che ci proponiamo; per cattivo (o per male) invece intenderò ciò che sappiamo con certezza esserci d'ostacolo alla realizzazione in noi di quel modello. In base a questo noi definiremo gli umani come più perfetti o più imperfetti in proporzione del loro maggiore o minore avvicinarsi al modello predetto. Si deve poi far molta attenzione a questo: che quando dico che un umano passa da una minore ad una maggiore perfezione io intendo dire non che quegli cambi in un'altra essenza o forma la sua propria essenza o forma (un cavallo, per esempio, cessa di esistere come cavallo sia che si muti in un Uomo, sia che si muti in un insetto): ma che noi ci rendiamo conto che la sua potenza di agire, in quanto essa risulta dalla sua natura, aumenta o diminuisce. Infine, per perfezione in generale intenderò, come ho detto, la realtà, cioè la natura di una cosa qualsiasi in quanto essa esiste ed agisce in un certo modo, senza alcun riferimento alla sua durata. Nessuna cosa singola può infatti dirsi più perfetta perché ha perseverato più a lungo nell'esistere, dato che la durata delle cose non può determinarsi in base alla loro essenza. L'essenza delle cose, invero, non implica alcuna certa e determinata durata dell'esistenza nel tempo: ma una cosa qualsiasi, sia essa più o meno perfetta, potrà sempre perseverare nell'esistenza con la medesima forza con la quale comincia ad esistere: così che in questo tutte le cose sono eguali.
[Spinoza, Etica, traduzione di Renato Peri[1]]
Originale
[modifica]Pars quinta – De Potentiâ Intellectûs, seu de Libertate Humanâ
Praefatio
Transeo tandem ad alteram Ethices Partem, quae est de modo, sive viâ, quae ad Libertatem ducit. In hâc ergo de potentiâ rationis agam, ostendens, quid ipsa ratio in affectûs possit, et deinde, quid Mentis Libertas seu beatitudo sit, ex quibus videbimus, quantùm sapiens potior sit ignaro. Quomodò autem, et quâ viâ debeat intellectus perfici, et quâ deinde arte Corpus sit curandum, ut possit suo officio rectè fungi, huc non pertinet ; hoc enim ad Medicinam, illud autem ad Logicam spectat. Hîc igitur, ut dixi, de solâ Mentis, seu rationis potentiâ agam, et ante omnia, quantum, et quale imperium in affectûs habeat, ad eosdem coërcendum, et moderandum, ostendam. Nam nos in ipsos imperium absolutum non habere, jam suprà demonstravimus. Stoici tamen putârunt, eosdem à nostrâ voluntate absolutè pendêre, nosque iis absolutè imperare posse. Attamen ab experientiâ reclamante, non verò ex suis principiis coacti sunt fateri, usum, et studium non parvum requiri ad eosdem coërcendum, et moderandum ; quod quidam exemplo duorum canum (si rectè memini), unius scilicet domestici, alterius venatici, conatus est ostendere ; nempe quia usu efficere tandem potuit, ut domesticus venari, venaticus contrà à leporibus sectandis abstinere assuesceret. Huic opinioni non parùm favet Cartesius. Nam statuit Animam, seu Mentem unitam praecipuè esse cuidam parti cerebri, glandulae scilicet pineali dictae, cujus ope Mens motûs omnes, qui in corpore excitantur, et objecta externa sentit, quamque Mens eo solo, quòd vult, variè movere potest. Hanc glandulam in medio cerebri ità suspendam esse statuit, ut minimo spirituum animalium motu possit moveri. Deinde statuit, quòd haec glans tot variis modis in medio cerebro suspendatur, quot variis modis spiritûs animales in eandem impingunt, et quòd praeterea tot varia vestigia in eâdem imprimantur, quot varia objecta externa ipsos spiritûs animales versùs eandem propellunt, unde fit, ut si glans postea ab Animae voluntate, illam diversimodè movente, hoc, aut illo modo suspendatur, quo semel fuit suspensa a spiritibus, hoc, aut illo modo agitatis, tum ipsa glans ipsos spiritûs animales eodem modo propellet, et determinabit, ac antea à simili glandulae suspensione repulsi fuerant. Praeterea statuit, unamquamque Mentis voluntatem naturâ esse unitam certo cuidam glandis motui. Ex. gr. si quis voluntatem habet objectum remotum intuendi, haec voluntas efficiet, ut pupilla dilatetur ; sed si de solâ dilatandâ pupillâ cogitet, nihil proderit ejus rei habere voluntatem, quia natura non junxit motum glandis, qui inservit impellendis spiritibus versùs nervum opticum modo conveniente dilatandae, vel contrahendae pupillae cum voluntate eandem dilatandi, vel contrahendi ; sed demum cum voluntate intuendi objecta remota, vel proxima. Denique statuit, quòd, etsi unusquisque motus hujus glandulae videatur connexus esse per naturam singulis ex nostris cogitationibus ab initio nostrae vitae, aliis tamen per habitum possunt jungi, quod probare conatur art. 50 Part. I de Pass. Animae. Ex his concludit, nullam esse tam imbecillem Animam, quae non possit, cùm bene dirigitur, acquirere potestatem absolutam in suas Passiones. Nam hae, ut ab eo definiuntur, sunt perceptiones, aut sensûs, aut commotiones animae, quae ad eam speciatim referuntur, quaeque NB. producuntur, conservantur, et corroborantur, per aliquem motum spirituum (vide art. 27 Part. I Pass. Anim.). At quandoquidem cuilibet voluntati possumus jungere motum quemcunque glandis, et consequenter spirituum ; et determinatio voluntatis à solâ nostrâ potestate pendet ; si igitur nostram voluntatem certis, et firmis judiciis, secundùm quae nostrae vitae actiones dirigere volumus, determinemus, et motûs passionum, quas habere volumus, hisce judiciis jungamus, imperium acquiremus absolutum in nostras Passiones. Haec est clarissimi hujus Viri sententia (quantum ex ipsius verbis conjicio), quam ego vix credidissem à tanto Viro prolatam esse, si minùs acuta fuisset. Profectò mirari satis non possum, quòd vir Philosophus, qui firmiter statuerat, nihil deducere, nisi ex principiis per se notis, et nihil affirmare, nisi quod clarè, et distinctè perciperet, et qui toties Scholasticos reprehenderat, quòd per occultas qualitates res obscuras voluerint explicare, Hypothesin sumat omni occultâ qualitate occultiorem. Quid quaeso, per Mentis, et Corporis unionem intelligit ? quem, inquam, clarum, et distinctum conceptum habet cogitationis arctissimè unitae cuidam quantitatis portiunculae ? Vellem sanè, ut hanc unionem per proximam suam causam explicuisset. Sed ille Mentem à Corpore adeò distinctam conceperat, ut nec hujus unionis, nec ipsius Mentis ullam singularem causam assignare potuerit ; sed necesse ipsi fuerit, ad causam totius Universi, hoc est, ad Deum recurrere. Deinde pervelim scire, quot motûs gradûs potest glandulae isti pineali Mens tribuere, et quantâ cum vi eandem suspensam tenere potest. Nam nescio, an haec glans tardiùs, vel celeriùs à Mente circumagatur, quàm à spiritibus animalibus, et an motûs Passionum, quos firmis judiciis arctè junximus, non possint ab iisdem iterùm à causis corporeis disjungi, ex quo sequeretur, ut, quamvis Mens firmiter proposuerit contra pericula ire, atque huic decreto motûs audaciae junxerit, viso tamen periculo, glans ità suspendatur, ut Mens non, nisi de fugâ, possit cogitare ; et sanè, cùm nulla detur ratio voluntatis ad motum, nulla etiam datur comparatio inter Mentis, et Corporis potentiam, seu vires ; et consequenter hujus vires nequaquam viribus illius determinari possunt. His adde, quòd nec haec glans ità in medio cerebro sita reperiatur, ut tam facile, totque modis circumagi possit, et quòd non omnes nervi ad cavitates usque cerebri protendantur. Denique omnia, quae de voluntate, ejusque libertate asserit, omitto, quandoquidem haec falsa esse, satis superque ostenderim. Igitur quia Mentis potentia, ut suprà ostendi, solâ intelligentiâ definitur, affectuum remedia, quae omnes experiri quidem, sed non accuratè observare, nec distinctè videre credo, solâ Mentis cognitione determinabimus, et ex eâdem illa omnia, quae ad ipsius beatitudinem spectant, deducemus.
Traduzione
[modifica]Parte V – Vivere Liberi
Prefazione
Passo finalmente alla Parte di questo lavoro, l'ultima, che concerne il modo, o la via, per raggiungere la Libertà. In questa Parte tratterò così della potenza della Ragione, mostrando quanto la Ragione stessa possa sui sentimenti e in che cosa consista la Libertà della Mente o Beatitudine: e da questa esposizione risulterà evidente il vantaggio che il sapiente ha sugli umani grezzi e carnali, ossia quanto la Saggezza sia preferibile all'insipienza. Non è questa la sede per indicare come e per qual via l'Intelletto debba essere condotto a perfezione, e con quali criteri il Corpo debba essere conservato in grado di svolgere correttamente le sue funzioni: si tratta di mansioni che competono, rispettivamente, alla Logica e alla Medicina. Qui, come ho detto, tratterò soltanto della potenza della Mente, ossia della potenza della Ragione, e mostrerò in primo luogo la natura e l'entità dell'imperio che essa ha sui sentimenti e col quale li raffrena e li mòdera: perché abbiamo già dimostrato che sui nostri sentimenti noi non abbiamo un dominio assoluto.
Gli Stoici credettero, invero, che i sentimenti dipendano assolutamente dalla nostra volontà e che noi possiamo dominarli assolutamente. Ma, a malgrado dei loro princìpi, l'esperienza li costrinse a riconoscere che per almeno raffrenare e moderare i nostri sentimenti sono necessari una costanza e un impegno non piccoli. (Qualcuno s'è sforzato di mostrare questa possibilità portando l'esempio, se ricordo bene, dei due cani, l'uno da compagnia e l'altro da caccia: che a forza di addestramento s'avvezzarono, il primo a rincorrere le lepri, il secondo a disinteressarsene). All'opinione stoica originaria è molto favorevole il Cartesio. Egli infatti stabilisce che l'Anima, o Mente, è unita precipuamente ad una parte del cervello, la cosiddetta ghiandola pineale o epifisi, per mezzo della quale la Mente percepisce sia tutti i movimenti del Corpo, sia gli oggetti esterni, e che la Mente può variamente muovere soltanto col volerlo; e afferma ancora che questa ghiandola è sospesa nel mezzo del cervello in modo tale da poter essere mossa dalla minima azione degli spiriti animali. II Cartesio sostiene poi che questa ghiandola, appesa com'è, assume tante posizioni diverse quanto diversamente la colpiscono gli spiriti animali, e che vi s'imprimono tanti vestigi diversi quanti sono i diversi oggetti esterni che orientano verso di essa gli spiriti animali stessi: e da ciò consegue che poi, quando la ghiandola, appesa al suo picciuolo, sia girata dall'Anima – che la muove a suo piacere – in questo o in quel modo in cui a suo tempo la girarono gli spiriti animali agitati in questo o in quel modo, la ghiandola stessa spingerà e determinerà quegli spiriti nella medesima maniera in cui essi in precedenza erano stati respinti dalla ghiandola quando essa si trovava nella stessa posizione, nella quale l'avevano posta gli spiriti animali agitati da cause esterne. Il Cartesio afferma inoltre che ciascuna volizione della Mente è per natura connessa a una determinata posizione della ghiandola: così che, per esempio, se qualcuno vuole osservare un oggetto lontano, questa volontà farà sì che la pupilla gli si dilati; ma se qualcuno intende soltanto dilatare la pupilla, questa volontà non avrà alcun effetto, perché la natura non ha collegato il movimento della ghiandola – che serve a spingere gli spiriti animali verso il nervo ottico nel modo idoneo a dilatare o a restringere la pupilla – con la volontà di dilatarla o di restringerla, ma solo con la volontà di osservare oggetti lontani o vicini. Egli stabilisce infine che, sebbene ciascun movimento della ghiandola considerata sembri connesso per natura, fin dall'inizio dell'esistenza di ciascun umano, a un determinato nostro pensiero, l'esercizio e l'abitudine possono collegare altri movimenti ad altri pensieri: e si sforza di dimostrare questa affermazione nella prima parte, art. 50, del suo "Le Passioni dell'Anima"; e da un tale postulato il Cartesio conclude che non c'è Anima tanto incapace che non possa, se ben diretta, acquistare un potere assoluto sulle sue Passioni. Queste infatti, come egli le definisce, sono "percezioni, o sensazioni, o commozioni dell'anima, che si riferiscono ad essa in modo specifico", e che, si noti, "sono prodotte, conservate e corroborate da qualche movimento degli spiriti" (ibidem, art. 27). Ma dato che a qualsiasi volizione noi possiamo collegare un qualsiasi moto della ghiandola, e quindi degli spiriti, e dato che la determinazione della volontà è totalmente in nostro potere, qualora noi determiniamo la nostra volontà mediante i giudizi certi e sicuri secondo i quali noi vogliamo orientare le azioni della nostra vita, e colleghiamo a questi giudizi i movimenti delle passioni che vogliamo avere, noi allora acquisteremo un dominio assoluto sulle nostre Passioni. L'opinione di quell'uomo celeberrimo è proprio questa che ho esposto, se l'ho costruita correttamente sulle sue proprie parole: e difficilmente io l'avrei creduta espressa da un così grand'uomo, se essa fosse stata meno acuta. Certo non posso meravigliarmi abbastanza che un filosofo, il quale aveva fermamente deciso di non dedurre alcunché se non da princìpi spontaneamente evidenti, e di non affermare alcunché che egli non percepisse in maniera chiara e distinta; che un filosofo il quale, ancora, aveva tante volte criticato i seguaci della Scolastica per il loro volere spiegare mediante qualità occulte le cose difficilmente comprensibili, accetti un'ipotesi più occulta di ogni qualità occulta. Che cosa intende egli, per favore, parlando di unione della Mente e del Corpo? quale concetto chiaro e distinto ha, dico, di un pensiero strettissimamente unito a una determinata particella di sostanza misurabile? Vorrei davvero che egli avesse spiegato una tale unione mediante la sua causa prossima; ma egli ha concepito la Mente così distinta dal Corpo da non poter escogitare alcuna causa singolare né dell'unione predetta, né della Mente stessa: e gli è stato necessario ricorrere alla causa di tutto 1'Universo, cioè a Dio. Vorrei poi – lo vorrei molto – sapere con quale finezza la Mente può comunicare il moto a codesta ghiandola pineale, e con quanta forza può conservarla così sospesa e suscettibile di rotazione: perché non so se la ghiandola in questione sia ruotata dalla Mente più velocemente o più lentamente che dagli spiriti animali, e se i moti concernenti le Passioni, che abbiamo strettamente collegato con i predetti giudizi saldi, non possano separarsi da quei giudizi per cause meccaniche, cioè per cause attribuibili al Corpo: tanto che accada, per esempio, che la Mente si sia fermamente proposta di affrontare un qualche pericolo, e a questa decisio ne abbia collegato il movimento della ghiandola che corrisponde all'Audacia; ma che, alla vista del pericolo, la ghiandola – che è pure una parte di un Corpo animale – si giri in modo che la Mente non possa pensare che alla fuga. E poiché in effetti non c'è un criterio per le operazioni della volontà che possa essere applicato alle operazioni del moto, non c'è nemmeno alcun confronto fra la potenza – o le forze – della Mente e quelle del Corpo; e di conseguenza le forze dell'uno non possono in alcun modo essere regolate o governate dalle forze dell'altra. A ciò s'aggiunga poi che né la ghiandola in parola si trova situata nel mezzo del cervello in condizioni tali da poter agevolmente ruotare secondo ogni asserita necessità, né tutti i nervi del corpo si spingono fino alle cavità del cervello. E infine non prendo in considerazione tutte le affermazioni che il Cartesio fa a proposito della volontà e della sua libertà, avendo qui sopra dimostrato a sufficienza – e anche più – che si tratta di affermazioni non corrispondenti al vero. Poiché dunque la potenza della Mente, come poco fa ho mostrato, è definita soltanto dalla sua intelligenza, noi determineremo il modo di rendere innocui i sent imenti, e anzi di servircene, mediante la sola conoscenza che la Mente possiede: modo del quale, credo, tutti hanno una qualche esperienza, ma che in genere non ve dono distintamente né analizzano con cura; e, una volta determinato quel modo, sulla base di esso dedurremo tutto ciò che concerne la beatitudine della Mente.
[Spinoza, Etica, traduzione di Renato Peri[1]]
Citazioni
[modifica]- A coloro che preferiscono detestare o irridere le azioni o gli affetti umani anziché intenderli, senza dubbio sembrerà strano che io imprenda trattare con procedimento geometrico le stoltezze e i vizi, e che io voglia dimostrare secondo una ragione certe cose che secondo i loro strepiti ripugnerebbero alla ragione, sarebbero vane, assurde, orrende. (inciso presente sul retro dell'opera, 1992)
- Agire in assoluto secondo virtù non è altro in noi che agire, vivere e conservare il proprio essere secondo la guida della ragione, e questo in base al principio della ricerca del proprio utile. (IV, 24, 1988)
- Alla Crudeltà si contrappone la Clemenza, che non è una passione, ma una potenza dell'animo con la quale l'uomo modera l'Ira e la Vendetta. (def. Affetti 38, 1988)
- Altri stimano che Dio sia causa libera per la ragione che potrebbe fare in tal modo che le cose che abbiamo detto seguire dalla sua natura, cioè che sono in suo potere, non avvengano, ossia non siano da egli stesso prodotte. Ma questo sarebbe lo stesso come se dicessero che Dio può far sì che dalla natura del triangolo non segua che i suoi tre angoli siano uguali a due retti. (I parte, 17 prop., traduzione Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988)
- Certamente l'esistenza umana sarebbe molto più felice se negli uomini la capacità di tacere fosse pari a quella di parlare. Ma l'esperienza insegna fin troppo bene che gli uomini non governano nulla con maggiore difficoltà che la lingua. (1992)
- Chi è condotto dal timore, e fa il bene per evitare il male, non è condotto dalla ragione. (IV, 63, 1988)
- Chi immagina che ciò che ama sia affetto da Gioia o Tristezza, sarà anch'egli affetto da Gioia o Tristezza. (III, 21, 1988)
- Chi immagina che ciò che ha in Odio sia affetto da Tristezza, si rallegrerà; se, al contrario, immagina che lo stesso sia affetto da Gioia si rattristerà. (III, 23, 1988)
- Chi vive guidato dalla ragione si sforza, per quanto può, di ricambiare l'odio, l'ira, il dispregio, di altri contro di lui, con l'amore, ossia con la generosità. (IV, 46, 1988)
- Chiamo Schiavitù l'impotenza umana nel moderare e tenere a freno gli affetti; l'uomo soggetto agli affetti, infatti, non è padrone di sé, ma in balìa della fortuna nel cui potere è a tal punto che spesso è costretto, sebbene veda il meglio, a seguire tuttavia il peggio. (Iv, pref.)
- Chiamerò intrepido colui il quale disprezza il male che di solito io temo. (III, 51, 1988)
- Chiamiamo cattivo ciò che è causa di Tristezza. (IV, 30, 1988)
- Chiamiamo umile colui che spesso arrossisce, che confessa i propri vizi e racconta le altrui virtù, che si fa indietro davanti a tutti e che infine cammina a capo basso e trascura gli ornamenti. (def. Affetti 29, 1988)
- Coloro i quali, credono di parlare o di tacere, o di fare alcunché per libera decisione della Mente, sognano ad occhi aperti. (III parte, 2 prop., 1988)
- Colui che vuole distinguere il vero dal falso deve avere un'idea adeguata di ciò che è vero e di ciò che è falso.[2]
- Colui il quale immagina che ciò che ama sia distrutto, si rattristerà; se, al contrario, immagina che si conservi, si rallegrerà. (III, 19, traduzione Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988)
- Colui il quale immagina che ciò che odia sia distrutto, si rallegrerà. (III, 20, 1988)
- Così la vera felicità e beatitudine di un uomo riposano esclusivamente sulla sapienza e sulla conoscenza della verità e non sul fatto che egli è più sapiente degli altri o sul fatto che gli altri son privi della conoscenza del vero, perché questa considerazione non accresce affatto la sua sapienza, cioè la sua felicità autentica. (III, 1988)
- Dico che noi agiamo quando in noi o fuori di noi avviene qualcosa di cui noi siamo causa adeguata, cioè quando dalla nostra natura, in noi o fuori di noi segue qualcosa che può essere compreso chiaramente e distintamente soltanto per mezzo della nostra stessa natura. (III, def. 2, 1988)
- Dio ama se stesso di infinito amore intellettuale. (V, 35, 1992)
- Dio agisce per le sole leggi della sua natura e non costretto da alcuno. (I parte, 17 prop., 1988)
- Dio e tutti i suoi attributi sono eterni.[2]
- Dio esiste necessariamente. (I, 11, 1988)
- Essere ciò che siamo e divenire ciò che siamo capaci di divenire è l'unico scopo della vita.[2]
- È possibile che amiamo oppure abbiamo in Odio certe cose, senza conoscerne la causa; ma soltanto per simpatia (come dicono) o per antipatia. (III, 15, 1988)
- È proprio della natura della Ragione percepire le cose sotto una certa specie di eternità.[2]
- Gli affetti umani indicano la potenza e l'arte se non degli uomini, almeno della natura non meno di molte altre cose che ammiriamo e della cui contemplazione ci dilettiamo. (IV, 57)
- Gli eventi contrari a ciò che dalla nostra utilità è richiesto, li sopporteremo di buon animo, se siamo consapevoli che abbiamo compiuto il nostro dovere, che la nostra potenza non poteva giungere a evitarli, e che noi siamo parte di tutta la natura, di cui seguiamo l'ordine. (IV, Append., cap. 32, 2002)
- Gli uomini fanno tutto in vista di un fine. (I, Append., 1988)
- Gli uomini quando dicono che questa o quella azione del Corpo trae origine dalla Mente che esercita il proprio dominio sul Corpo, non sanno quello che dicono e non fanno altro che confessare con parole speciose di ignorare, senza meravigliarsene, la vera causa di quella azione. (III, 2, 1988)
- I nomi degli affetti rispecchiano più il loro uso che la loro natura. (def. Affetti 21, 1988)
- I superstiziosi che hanno imparato più a biasimare i vizi che a insegnare le virtù e che cercano non di guidare gli uomini con la ragione, bensì di contenerli con la paura in modo che fuggano il Male piuttosto che amare le virtù, non tendono ad altro che a rendere gli altri miseri come essi stessi e perciò non è sorprendente se per lo più sono molesti e odiosi agli uomini. (IV, 63, 1988)
- Il desiderio è l'essenza dell'uomo.[2]
- Il Disprezzo è l'immaginazione di una certa cosa, che tocca così poco la Mente, che la stessa Mente è spinta dalla presenza di una cosa a immaginare quel che nella stessa cosa non è, piuttosto quel che nella stessa cosa è. (def. Affetti 5, 1988)
- Il Favore è Amore verso qualcuno, che ha fatto bene a un altro. (def. Affetti 19, 1988)
- Il Gaudio è la Gioia che accompagna l'idea di una cosa passata che accade al di là della [nostra] speranza. (def. Affetti 16, 1988)
- Il peccato, dunque, non è altro che la disobbedienza, che perciò è punita in base al solo diritto dello Stato, e al contrario l'obbedienza è stimata come un merito per il cittadino, poiché per ciò stesso è giudicato degno di godere dei benefici dello Stato. (IV, 37, 1988)
- Il Pentimento è Tristezza che accompagna l'idea di un certo fatto, che crediamo di aver compiuto per libero decreto della Mente. (IV, 54, 1988)
- Il Pentimento non è virtù, ossia non nasce da ragione; ma chi si pente di ciò che ha fatto, è due volte misero, ossia impotente.
- Il Rimorso è la Tristezza che accompagna l'idea di una cosa passata che accade contro la nostra speranza. (def. Affetti 17, 1988)
- Il Riso come anche il gioco è pura Gioia; e perciò, purché non abbia eccesso, è di per sé buono. (IV, 45, 1988)
- Il sommo bene di coloro che seguono la virtù è comune a tutti e tutti egualmente possono goderne.[2]
- Il Timore è la Cupidità di evitare con un male minore un male maggiore che temiamo. (def. Affetti 39, 1988)
- In base al modo in cui ciascuno è stato educato, si pente di un certo fatto o se ne gloria. (def. Affetti 27, 1988)
- In natura nulla accade che possa essere attribuito ad un suo vizio; la natura, infatti, è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è ovunque una e identica, cioè le leggi e regole della natura secondo le quali tutte le cose avvengono e si mutano da una forma in un'altra sono ovunque e sempre le stesse. (III, prefazione)
- In quanto una cosa concorda con la nostra natura, in tanto è necessariamente buona. (IV, 31, 1988)
- In verità, se poniamo mente alle cose che dipendono dalla sola opinione, potremo concepire che può accadere che l'uomo senta di sé meno del giusto; può accadere, infatti, che qualcuno, mentre contempla tristemente la propria debolezza, immagini di essere disprezzato da tutti, e che ciò avvenga mentre gli altri a nulla pensano di meno che a disprezzarlo. (def. Affetti 28, 1988)
- Intenderò per Buono ciò che sappiamo con certezza che è un mezzo per avvicinarci sempre più al modello della natura umana che ci siamo propositi; e per Male, invece, ciò che sappiamo con certezza che impedisce che riproduciamo lo stesso modello. (IV, pref.)
- L'affermare che il mondo è un effetto necessario della natura divina equivale certamente a negare che sia stato fatto a caso.[2]
- L'affetto che si dice patema dell'animo è un'idea confusa, con la quale la Mente afferma una forza di esistere del suo Corpo [...] e, data la quale, la stessa Mente è determinata a pensare questo piuttosto che a quello. (def. Affetti gen.)
- L'amore intellettuale della mente per Dio è lo stesso amore di Dio, con cui Dio ama se stesso, non in quanto è infinito, ma in quanto può essere manifestato attraverso l'essenza della mente umana, considerata sotto specie di eternità; ossia l'amore intellettuale della nostra mente per Dio è parte dell'infinito amore con cui Dio ama se stesso. [...] Ne segue che Dio, in quanto ama se stesso, ama gli uomini, e quindi che l'amore di Dio per gli uomini e l'amore intellettuale della mente per Dio, sono una sola e medesima cosa. (V, 36, 1992)
- L'Audacia è la Cupidità dalla quale qualcuno è incitato a fare qualcosa in condizioni di pericolo che i suoi eguali temono affrontare. (def. Affetti 40, 1988)
- L'avversione è Tristezza concomitante con l'idea di una certa cosa che per accidente è causa di Tristezza. (def. Affetti 9, 1988)
- La Beatitudine non è premio alla Virtù, ma la Virtù stessa; né godiamo di essa perché teniamo a freno le libidini; ma, al contrario, poiché godiamo di essa, possiamo tenere a freno le libidini.
- La Benevolenza è Cupidità di fare bene a colui del quale abbiamo compassione. (def. Affetti 35, 1988)
- La Commiserazione è la Tristezza che accompagna l'idea del Male che accade ad un altro che immaginiamo a noi simile. (def. Affetti 18, 1988)
- La conoscenza del male è conoscenza inadeguata. (IV, 64, 1988)
- La conoscenza del Bene e del Male non è altro che l'affetto della Gioia e della Tristezza in quanto ne siamo consapevoli. (IV, 8, 1988)
- La Costernazione si predica di colui la cui Cupidità di evitare il male è repressa dall'ammirazione del male che teme. (def. Affetti 42, 1988)
- La Crudeltà, o ferocia, è la Cupidità dalla quale qualcuno è incitato ad arrecare male a colui che amiamo o di cui abbiamo Compassione.
- La cupidità che nasce dalla letizia, a parità di condizioni, è più forte della cupidità che sorge dalla tristezza. (IV, 173 traduzione di Sossio Gianetta, Bollati Boringhieri, Torino 1992)
- La Cupidità è la stessa essenza dell'uomo, in quanto si concepisce determinata da una certa sua affezione a fare qualcosa. (def. Affetti 1, 1988)
- La Disistima consiste nel sentire, per Odio, meno del giusto nei confronti di qualcuno. (def. Affetti 22, 1988)
- La Disperazione è Tristezza nata dall'idea di una cosa futura o passata, rispetto alla quale è venuta meno la ragione di dubitare. (def. Affetti 15, 1988)
- La fluttuazione dell'animo e il dubbio non differiscono tra loro se non per il più e il meno. (III, 17, 1988)
- L'eccitazione piacevole e il dolore si riferiscono all'uomo quando una parte è affetta a preferenza delle altre; l'ilarità, invece, e la malinconia quando tutte le parti sono parimenti affette. (III, 11, 1988)
- La forza e l'incremento di ogni passione e la sua perseveranza nell'esistere non è definita dalla potenza con la quale ci sforziamo di perseverare nell'esistere, ma dalla potenza della causa esterna paragonata con la nostra. (IV, 25, 1988)
- L'Emulazione è Cupidità di una certa cosa, che si ingenera in noi, per il fatto che immaginiamo che gli altri abbiano la stessa Cupidità. (def. Affetti 33, 1988)
- La Gioia non è direttamente cattiva, ma buona; la Tristezza, in-vece è direttamente cattiva. (IV, 41, 1988)
- La Gloria è Gioia che accompagna l'idea di una certa nostra a-zione, che immaginiamo sia lodata dagli altri. (def. Affetti 30, 1988)
- L'idea di tutto ciò che aumenta o diminuisce, favorisce o limita la potenza di agire del nostro Corpo, aumenta anch'essa o diminuisce, favorisce o limita la potenza di pensare della nostra Mente. (III, 11, 1988)
- Le azioni della Mente hanno origine dalle sole idee adeguate, le passioni invece dipendono dalle sole idee inadeguate. (III, 3, 1988)
- L'Ilarità non può avere eccesso, ma è sempre buona, e al contrario la Malinconia è sempre cattiva. (def. Affetti 42, 1988)
- L'Indignazione è Odio verso qualcuno che ha fatto male a un altro. (def. Affetti 20)
- L'Invidia è Odio, in quanto produce nell'uomo un affetto per cui si rattrista della felicità altrui e, al contrario, gode dell'altrui Male. (def. Affetti 23, 1988)
- La maggior parte di coloro che hanno scritto sugli Affetti e sul modo di vivere degli uomini, sembra che trattino non di cose naturali, che seguono le comuni leggi della Natura, ma di cose che sono al di fuori della Natura. Sembra anzi che concepiscano l'uomo nella Natura come un impero nell'impero. Infatti credono che l'uomo sconvolga l'ordine della Natura, piú che seguirlo, e che abbia sulle proprie azioni un potere assoluto, e che non sia determinato da altro che da se stesso. Attribuiscono poi la causa dell'impotenza e dell'incostanza umana non al comune potere della Natura ma a un presunto vizio della natura umana, e perciò la compiangono, la deridono, la disprezzano, o, piú comunemente, la detestano; e chi con maggior eloquenza o arguzia sa cogliere l'impotenza della Mente umana passa per uomo divino. Tuttavia non sono mancati uomini assai illustri (alla cui fatica e operosità riconosciamo di dover molto) che hanno scritto cose eccellenti sul giusto modo di vivere e hanno dato ai mortali consigli pieni di saggezza; ma nessuno, che io sappia, ha determinato la natura e le forze degli Affetti, e che cosa possa fare la Mente per dominarli. So bene che il celeberrimo Cartesio, benché anch'egli abbia creduto che la Mente è dotata di un potere assoluto sulle sue azioni, ha cercato tuttavia di spiegare gli Affetti umani mediante le loro cause prime e, nello stesso tempo, ha cercato di indicare la via per cui la Mente potesse ottenere il potere assoluto sugli Affetti; ma secondo me non ha dimostrato altro che l'acume del suo grande ingegno, come a suo tempo dimostrerò. Infatti io voglio tornare a coloro che preferiscono detestare e irridere gli Affetti e le azioni degli uomini piuttosto che comprendere. A costoro sembrerà certamente strano che io mi accinga a trattare dei vizi e delle stoltezze umane secondo il metodo Geometrico, e che voglia dimostrare con un ragionamento rigoroso cose che essi proclamano incompatibili con la ragione, vane, assurde, orrende. Ma ecco quale è il mio argomento. Nella Natura nulla accade che possa essere attribuito a un suo vizio; infatti la Natura è sempre la stessa e la sua virtœ e potenza di agire è ovunque una sola e medesima, ossia le leggi e le norme della Natura, secondo le quali ogni cosa accade e da una forma si muta in un'altra, sono ovunque e sempre le medesime, e perciò anche il modo d'intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, deve essere uno e medesimo, ossia in base alle leggi e alle norme universali della Natura. Quindi gli Affetti dell'odio, dell'ira, dell'invidia, ecc., in sé considerati, derivano dalla stessa necessità e virtú della Natura, come le altre singole cose; e perciò ammettono determinate cause per mezzo delle quali vengono conosciuti e hanno determinate proprietà degne della nostra conoscenza come le proprietà di qualunque altra cosa di cui la sola contemplazione basta a dilettarci. Tratterò dunque della Natura e delle forze degli Affetti e del potere della Mente su di essi, con lo stesso Metodo con cui nelle parti precedenti ho trattato di Dio e della Mente, e considererò le azioni e i desideri umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi. (III parte, Prefazione, p. 187-188, UTET, Torino 1988)
- La Mente umana ha conoscenza adeguata dell'essenza eterna ed infinita di Dio.[2]
- La Mente non conosce se stessa se non in quanto percepisce le idee delle affezioni del Corpo. (II, 23, 1988)
- La Mente non ha una conoscenza adeguata, ma soltanto confusa di se stessa, del proprio Corpo e dei corpi esterni ogni qual volta percepisce le cose secondo il comune ordine della natura, ossia ogni qual volta in modo estrinseco, secondo la fortuita comparsa delle cose, è determinata a contemplare questo o quello, e non ogni qual volta dall'interno, per il fatto cioè che contempla più cose simultaneamente, è determinata a comprendere le loro concordanze, le loro differenze e contrarietà; ogni qual volta, infatti, è disposta dall'interno in questo o in altro modo, allora contempla le cose chiaramente e distintamente. (II, 29, 1988)
- La Mente non è soggetta agli affetti che si riferiscono alle passioni se non nel corso della durata del Corpo. (V, 34, 1988)
- La Mente non può immaginare nulla, né ricordarsi delle cose passate se non nel corso della durata del Corpo.[2]
- La Mente si sforza di immaginare soltanto quelle cose che pongono la sua potenza di agire. (III, 54, 1988)
- La Mente umana è atta a percepire moltissime cose, e tanto più è atta quanto più il suo Corpo può essere disposto in molti modi. (II, 14, 1988)
- La Mente umana non implica una conoscenza adeguata delle parti che compongono il Corpo umano. (II, 24, traduzione Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988)
- La Misericordia è Amore, in quanto produce nell'uomo un affetto per cui gode del bene altrui e, al contrario, si rattrista del Male altrui. (def. Affetti 24, 1988)
- La natura aborrisce il vuoto.[2]
- La nostra Mente è attiva in certe cose e passiva in altre, cioè in quanto ha idee adeguate, in tanto è necessariamente attiva in certe cose e in quanto ha idee inadeguate in tanto è necessariamente passiva.[2]
- L'Odio è Tristezza, concomitante con l'idea di una causa esterna. (III, def. 7, 1988)
- L'Odio non può mai essere buono. (IV, 45, 1988)
- La perfezione delle cose deve essere valutata soltanto in base alla loro natura o potenza, né le cose sono più o meno perfette perché dilettano o offendono i sensi degli uomini, o perché giovano alla natura umana o la avversano. (I, appendice, 1988)
- La perfezione non toglie l'esistenza della cosa, ma al contrario la pone. (I, 11, 1988)
- La paura non può essere senza speranza né la speranza senza paura. (1992)
- La Propensione è una Gioia concomitante con l'idea di una certa cosa che per accidente è causa di Gioia. (def. Affetti 8, 1988)
- La Pusillanimità si predica di colui la cui Cupidità è repressa dal timore del pericolo, che i suoi eguali osano affrontare. (def. Affetti 41, 1988)
- La superstizione sembra stabilire che è buono quel che procura Tristezza e, viceversa, cattivo quel che procura Gioia. (IV, 31, 1988)
- Lo sforzo di causare un male a colui che odiamo si chiama Ira; lo sforzo, invece, di ricambiare il male che ci è stato procurato si chiama Vendetta. (III, 40, 1988)
- Lo sforzo di fare bene a chi ci ama e si sforza di farci bene, si chiama Riconoscenza o Gratitudine; e perciò è manifesto che gli uomini sono molto più preparati alla vendetta che a ricambiare un beneficio. (III, 41, 1988)
- La Sicurezza è Gioia nata dall'idea di una cosa futura o passata, rispetto alla quale è venuta meno la ragione di dubitare. (def. Affetti 14, 1988)
- La Soddisfazione di sé è Gioia nata dal fatto che l'uomo contempla se stesso e la propria potenza di agire. (def. Affetti 25, 1988)
- La Speranza è una Gioia incostante, nata dall'idea di una cosa futura o passata, del cui esito in qualche misura dubitiamo. (def. Affetti 12, 1988)
- La Stima facilmente rende superbo l'uomo che è stimato. (IV, 59, 1988)
- Le cose non avrebbero potuto essere prodotte da Dio in altro modo, né con un altro ordine da quello in cui sono state prodotte. (I, 33, 1988)
- Le cose sono state prodotte da Dio con somma perfezione: poiché sono seguite necessariamente da una data natura che è perfettissima. (I, 33, 1988)
- La Sottovalutazione di sé consiste nel sentire di sé, per Tristezza, meno del giusto.
- La Sottovalutazione di sé, tuttavia, può essere corretta più facilmente dalla Superbia, poiché questa è un affetto della Gioia, quella invece della Tristezza; e perciò questa è più forte di quella. (IV, 56, 1988)
- La Stima consiste nel sentire, per Amore, più del giusto nei confronti di qualcuno. (def. Affetti 21, 1988)
- La superstizione sembra stabilire che è buono quel che procura Tristezza e, viceversa, cattivo quel che procura Gioia. (IV, 31, 1988)
- La teologia non è ancella della ragione, né la ragione della teologia.[2]
- La virtù, che per il saggio consegue alla conoscenza, per il volgo è oggetto di obbedienza, che esso accoglie non in base all'evidenza intrinseca del comando ma sulla fiducia nella testimonianza stessa.
- Lo sforzo di conservare se stessi è il primo e unico fondamento della virtù. (IV, 22, 1988)
- L'Umanità, ossia la Modestia, è la Cupidità di fare le cose che piacciono agli uomini e di omettere quelle che dispiacciono loro. (def. Affetti 43, 1988)
- L'Umiltà è Tristezza nata dal fatto che l'uomo contempla la propria impotenza, o debolezza. (def. Affetti 26, 1988)
- L'umiltà non è virtù, non nasce dalla vera contemplazione o ragione, ma è passione. L'umiltà è la tristezza che sorge dal fatto che l'uomo contempla la sua impotenza. (IV, 53, 1992)
- L'uomo che è guidato da ragione è più libero nello Stato, dove vive secondo un decreto comune, che nella solitudine, dove obbedisce soltanto a sé stesso. (1992)
- L'uomo è sempre necessariamente soggetto alle passioni e segue l'ordine comune della Natura e vi obbedisce e, per quanto lo esige la natura delle cose, vi si adatta. (IV, 4, 1988)
- L'uomo è un animale sociale.[2]
- L'uomo in quanto trascura il proprio utile, e cioè di conservare il proprio essere, in tanto è impotente. (IV, 20, 1988)
- L'uomo libero, cioè chi vive soltanto secondo il dettame della ragione, non è guidato dalla paura della morte, ma desidera direttamente il bene, cioè agire, vivere, conservare il proprio essere sulla base della ricerca del proprio utile; e perciò non pensa a niente meno che alla morte, ma la sua sapienza è meditazione della vita. (IV, 67, 1992)
- L'uomo pensa.[2]
- La vera felicità e beatitudine di ciascuno consistono esclusivamente nel godimento del Bene e non già in quel vanto che sorge al pensiero di essere il solo a godere del Bene, mentre gli altri ne sono esclusi.[2]
- La Verecondia è la paura o timore della vergogna dalla quale l'uomo è trattenuto dal commettere qualcosa di turpe. (def. Affetti 31, 1988)
- La Vergogna è Tristezza che segue a un fatto di cui si ha pudore.
- La volontà e l'intelletto sono la stessa e unica cosa.[2]
- La volontà non può essere chiamata causa libera. (I, 32, 1988)
- Lascio, dunque, che ognuno viva a suo talento e che chi vuol morire muoia in santa pace, purché a me sia dato di vivere con la verità.[2]
- Massima superbia o massimo avvilimento sono massima ignoranza di sé. (1992)
- Né il Corpo può determinare la Mente a pensare, né la Mente può determinare il Corpo al movimento o alla quiete; né a qualunque altra cosa (se ve n'è una). (III, 2, 1988)
- Nella Sottovalutazione di sé è presente una falsa specie di Pietà e di Religione. (IV, 22, 1988)
- Nelle idee non vi è nulla di positivo per cui si dicono false. (II, 33, 1988)
- Nessuno ha invidia della virtù di qualcuno, se non di un proprio uguale. (III, 55, 1988)
- Niente accade in contrasto con la natura, anzi essa mantiene un ordine fisso e immutabile.[2]
- Niente esiste dalla cui natura non scaturisca un qualche effetto.[2]
- Noi ci sforziamo di affermare di noi stessi e della cosa amata tutto ciò che immaginiamo che produca un affetto di Gioia in noi o nella cosa amata; e, al contrario, di negare tutto ciò che immaginiamo che produca un affetto di Tristezza in noi o nella cosa amata. (III, 25, 1988)
- Noi ci sforziamo di promuovere che avvenga tutto ciò che immaginiamo conduca alla Gioia; e invece di rimuovere o distruggere tutto ciò che immaginiamo conduca alla Tristezza. (III, 28, 1988)
- Noi non cerchiamo, vogliamo, appetiamo, né desideriamo qualcosa perché riteniamo che sia buona; ma, al contrario, noi giudichiamo buona qualcosa, perché la cerchiamo, la vogliamo, la appetiamo e la desideriamo. (III. 9, 1988)
- Noi sentiamo e sappiamo di essere eterni.[2]
- Non c'è affezione del Corpo della quale non possiamo formare un concetto chiaro e distinto. (V, 4, 1988)
- Non c'è da meravigliarsi che assolutamente tutti gli atti che per consuetudine si chiamano cattivi siano seguiti da Tristezza e quelli che si dicono retti da Gioia.
- Non esiste Speranza senza Paura e Paura senza Speranza. (def. Affetti 12)
- Certamente, nulla se non una torva e triste superstizione proibisce di prendersi diletto. (IV, 45, 1988)
- Ogni cosa, per quanto è in sé, si sforza di perseverare nel suo essere. (III, 6, 1988)
- Ogni cosa singolare, ossia qualunque cosa che è finita e ha una determinata esistenza, non può esistere né essere determinata ad agire se non sia determinata ad esistere e ad agire da un'altra causa che è anche finita e ha una determinata esistenza: e anche questa causa non può a sua volta esistere né essere determinata ad agire se non sia determinata ad esistere e ad agire da un'altra causa che è anch'essa finita e a ha una determinata esistenza, e così all'infinito. (I, 28, 1988)
- Ognuno, secondo le leggi della propria natura, necessariamente ricerca o respinge ciò che giudica buono o cattivo. (IV, 19, 1988)
- Ognuno, per quanto può, si sforzerà perché ami ciò che ama e odi ciò che odia. (III, 31, 1988)
- Ognuno regola tutte le cose secondo il proprio affetto e coloro i quali, inoltre, sono combattuti da affetti contrari non sanno quel che vogliono; mentre coloro i quali non sono agitati da alcun affetto, sono spinti qua e là da un lieve impulso. (III, 2, 1988)
- Per beatitudine intendo perseguire l'utile in maniera razionale e vivere la vita nel miglior modo possibile.[2]
- Per Bene intenderò ciò che sappiamo con certezza che ci è utile. (IV, def. 1)
- Per Idea intendo il concetto della Mente che la Mente forma perché è cosa pensante. (II, 3, 1988)
- Per il fatto solo che abbiamo considerato una certa cosa con un affetto di Gioia o di Tristezza, affetto della quale la stessa cosa non è causa efficiente, possiamo amarla o averla in Odio. (III, 15, 1988)
- Per il fatto solo che immaginiamo che una certa cosa ha qualcosa di simile a un oggetto che di solito produce nella Mente un af-fetto di Gioia o di Tristezza, sebbene ciò in cui la cosa è simile a quell'oggetto non sia la causa efficiente di questi affetti, tuttavia la ameremo o la avremo in Odio. (III, 16, 1988)
- Per l'invidioso non vi è nulla di più gioioso che l'altrui infelicità e nulla di più molesto che l'altrui felicità. (III, 39, 1988)
- Per Male, invece, intendo ogni genere di Tristezza e soprattutto ciò che frustra il desiderio. (III, 39, 1988)
- Per Male invece ciò che sappiamo con certezza che ci impedisce di impadronirci di un certo bene. (IV, def. 2, 1988)
- Per perfezione intenderò la realtà in genere, e cioè l'essenza di una certa cosa in quanto esiste e agisce in un certo modo, senza tener conto della sua durata. Infatti, nessuna cosa singolare può dirsi più perfetta perché ha perseverato nell'esistenza per un tempo maggiore. (IV, pref.)
- Per quanto riguarda il matrimonio; certo che esso è in armonia con la ragione se la Cupidità di congiungere i corpi non sia generata dalla sola bellezza, ma anche dall'amore di procreare figli e di educarli saggiamente; e, inoltre, l'amore di entrambi, e cioè del maschio e della femmina non abbia come causa la sola bellezza, ma soprattutto la libertà dell'animo. (IV, 20, 1988)
- Per quel che riguarda le forme esteriori del culto è certo che esse non possono per nulla giovare, né nuocere alla vera cognizione di Dio ed all'amore che necessariamente ne deriva.[2]
- Per Realtà e Perfezione intendo la stessa medesima cossa. (II, def. 6, 1988)
- Per virtù e potenza intendo la stessa cosa. (IV, def. 8, 1992)
- Poiché per lo più accade che coloro che hanno fatto molte espe-rienze tentennino fino a quando contemplano una cosa come futura o presente e abbiano molti dubbi sull'esito della cosa stessa, avviene che gli affetti che nascono da simili immagini delle cose non siano così costanti, ma siano per lo più turbati da immagini di altre cose, fino a quando gli uomini non divengano più sicuri dell'esito della cosa. (III, 18, 1988)
- Poiché supponiamo che l'uomo abbia in Odio ciò che è oggetto della sua Irrisione, segue che questa Gioia non è solida. (def. Affetti 11, 1988)
- Quando la Mente contempla se stessa e la sua potenza di agire si rallegra, e tanto più quanto più distintamente immagina se stessa e la sua potenza di agire. (III, 53, 1988)
- Quando la Mente immagina la propria impotenza, per ciò stesso si rattrista. (III, 55, 1988)
- Quando amiamo una cosa che ci è simile, ci sforziamo per quanto è in noi di far sì che a sua volta ci ami. (III, 33, traduzione Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988)
- Quanto più conosciamo le cose singolari, tanto più conosciamo Dio. (1992)
- Quanto più una cosa ha di perfezione, tanto più è attiva e tanto meno è passiva, e al contrario quanto più è attiva tanto più è perfetta. (V, 40, 1988)
- Riconosco tre affetti primitivi ossia primari, e cioè la Gioia, la Tristezza e la Cupidità. (def. Affetti 4)
- Riguardo agli uomini politici sembra che essi siano più portati a tendere insidie all'umanità che non a prenderne cura, che siano insomma più astuti che saggi. Infatti l'esperienza vien loro dicendo che ci saranno vizi finché ci saranno gli uomini.[2]
- Sappiamo con certezza che niente è buono o cattivo se non ciò che conduce effettivamente a comprendere, o ciò che può impedire che comprendiamo. (IV, 27, 1988)
- Sarebbe troppo lungo elencare tutti i mali della Superbia, poiché i superbi sono soggetti a tutti gli affetti; ma a nessuno meno che a quelli dell'Amore e della Misericordia. (IV, 57, 1988)
- Se, al contrario, immaginiamo che lo stesso produca un affetto di Tristezza nella cosa che amiamo, saremo viceversa mossi da Odio contro di lui. (III, 22, 1988)
- Se accade che immaginiamo spesso cioè che ammiriamo, cesseremo di ammirarlo. (def. Affetti 10, 1988)
- Se Dio agisce in vista di un fine, necessariamente appetisce qualcosa di cui manca. (I, Appendice, traduzione Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988)
- Se dunque possiamo essere causa adeguata di qualcuna di queste affezioni, allora per Affetto intendo una azione, altrimenti una passione. (III, def. 3, 1988)
- Se gli uomini fossero in grado di governare secondo un preciso disegno tutte le circostanze della loro vita, o se la fortuna fosse loro sempre favorevole, essi non sarebbero schiavi della superstizione.[2]
- Se gli uomini impotenti nell'animo fossero tutti egualmente su-perbi, se non si vergognassero di nulla e non avessero paura di qualcosa, come potrebbero essere uniti e costretti da vincoli? (IV, 54, 1988)
- Se non possedessimo la testimonianza della Sacra Scrittura, noi dubiteremmo della salvezza della maggior parte degli uomini. (XV, 1988)
- Se uno ha in odio un altro, si sforzerà di fargli male, a meno che tema che possa derivargliene un male maggiore; e viceversa, chi ama un altro, per la stessa legge si sforzerà di fargli del bene. (1992)
- Tratterò dunque della natura e delle forze degli affetti, come anche del potere della Mente su di essi con lo stesso metodo con il quale ho trattato Dio e della Mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come se fosse questione di linee, di superfici o di corpi. (III, pref., 1988)
- Tutta la natura è un solo individuo, le cui parti – cioè tutti i corpi – variano in infiniti modi senza alcun mutamento dell'individuo nella sua totalità. (II, lemma 7, scolio, 2008)
- Tutto ciò che ci sforziamo di fare secondo ragione non è altro che comprendere; né la Mente, in quanto si serve della ragione, giudica per sé utile altro se non ciò che conduce a comprendere. (IV, 26, 1988)
Citazioni con testo originale
[modifica]- A tutte le azioni alle quali siamo determinati da un affetto che è passione, possiamo senza di questo essere determinati da ragione. (IV, 59, 1988)
- Ad omnes actiones, ad quas ex affectu, qui passio est, determinamur, possumus absque eo à ratione determinari.
- Agire assolutamente per virtù non è niente altro (per la definizione 8 di questa parte) che agire secondo le leggi della natura. Ma noi, in tanto solo agiamo, in quanto intendiamo (per la proposizione 3, parte terza); dunque agire per virtù, in noi non è niente altro che agire, vivere, conservare il proprio essere sotto la guida della ragione, e ciò sul fondamento (per il corollario della proposizione 22 di questa parte) di ricercare il proprio utile. C.d.d. (IV, 24, 1992)
- Ex virtute absolutè agere, nihil aliud est (per Def. 8 hujus), quàm ex legibus propriae naturae agere. At nos eatenus tantummodò agimus, quatenus intelligimus (per Prop. 3 Part. III). Ergo ex virtute agere, nihil aliud in nobis est, quàm ex ductu rationis agere, vivere, suum esse conservare, idque (per Coroll. Prop. 22 hujus) ex fundamento suum utile quaerendi. Q.E.D.
- Dio è la causa immanente e non transitiva di tutte le cose. (I, 18, 1992)
- Deus est omnium rerum causa immanens, non vero transiens.
- L'amore è letizia accompagnata dall'idea di una causa esterna. (1992)
- Amor est titillatio, concomitante idea causae externae.
- L'esistenza di Dio e la sua essenza sono una sola e medesima cosa. (I, 20, 1992)
- Dei existentia, ejusque essentia unum et idem sunt.
- L'essenza delle cose prodotte da Dio non implica l'esistenza. (I, 24, 1992)
- Rerum à Deo productarum essentia non involvit existentiam.
- Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare. (V, 42, 1992)
- Ma tutte le cose preziose sono tanto difficili quanto rare. (2007)
- Sed omnia praeclara tam difficilia, quam rara sunt.
- Non si può concepire secondo verità nessun attributo della sostanza, dal quale segua che la sostanza può essere divisa. (I, 12, 1992)
- Nullum substantiae attributum potest verè concipi, ex quo sequatur, substantiam posse dividi.
- Poiché la Ragione non esige alcunché che sia contrario alla natura, essa dunque esige che ciascuno ami se stesso, cerchi ciò che gli è utile (ma utile davvero), desìderi tutto ciò che indirizza davvero l'Uomo ad una perfezione maggiore: in assoluto, la natura esige che ognuno, per quanto sta in lui, si sforzi di conservare il proprio essere. E questo è vero necessariamente, come necessariamente è vero che il tutto è maggiore di una sua parte. Dato poi che la virtù non è altro che l'agire in conformità delle leggi della propria natura, e che nessuno si sforza di conservare il proprio essere se non in conformità delle leggi della sua propria natura, ne deriva in primo luogo che il fondamento della virtù è lo stesso sforzo, o impegno vitale, di conservare il proprio essere, e che la felicità, per un umano, consiste nel poter conservare il suo essere; in secondo luogo, deriva da quanto sopra che la virtù è da desiderarsi e da ricercarsi per se stessa, e che non c'è alcunché migliore di essa o preferibile ad essa o che ci sia più utile, e a causa del quale la virtù si dovrebbe desiderare; in terzo luogo, infine, si comprende come coloro che s'uccidono abbiano un animo impotente e siano totalmente sopraffatti da cause esterne radicalmente ostili alla loro natura. (IV, 18, traduzione di Renato Peri[1])
- Cùm ratio nihil contra naturam postulet, postulat ergo ipsa, ut unusquisque seipsum amet, suum utile, quod reverâ utile est, quaerat, et id omne, quod hominem ad majorem perfectionem reverâ ducit, appetat, et absolutè, ut unusquisque suum esse, quantum in se est, conservare conetur. Quod quidem tam necessariò verum est, quàm, quòd totum sit suâ parte majus (vide Prop. 4 Part. III). Deinde quandoquidem virtus (per Def. 8 hujus) nihil aliud est, quàm ex legibus propriae naturae agere, et nemo suum esse (per Prop. 7 Part. III) conservare conetur, nisi ex propriae suae naturae legibus ; hinc sequitur primò, virtutis furdamentum esse ipsum conatum proprium esse conservandi, et felicitatem in eo consistere, quòd homo suum esse conservare potest. Secundò sequitur, virtutem propter se esse appetendam, nec quicquam, quod ipsâ praestabilius, aut quod utilius nobis sit, dari, cujus causâ deberet appeti. Tertiò denique sequitur, eos, qui se interficiunt, animo esse impotentes, eosque à causis externis, suae naturae repugnantibus, prorsùs vinci.
- Oltre Dio non si può né dare né concepire alcuna sostanza. (I, 14, 1992)
- Praeter Deum nulla dari, neque concipi potest substantia.
- Se gli uomini nascessero liberi, non si formerebbero nessun concetto di bene e di male, finché fossero liberi.
Dimostrazione Ho detto che è libero chi è guidato dalla sola ragione; chi dunque nasce libero e libero rimane, non ha se non idee adeguate; e perciò non ha alcun concetto del male (per il corollario della proposione 64 di questa parte) e, di conseguenza (dato che il bene e il male sono correlativi), neanche del bene. C.d.d. (IV, 68, 1992)
- Si homines liberi nascerentur, nullum boni, et mali formarent conceptum, quamdiu liberi essent.
Demonstratio: Illum liberum esse dixi, qui solâ ducitur ratione ; qui itaque liber nascitur, et liber manet, non nisi adaequatas ideas habet, ac proinde mali conceptum habet nullum (per Coroll. Prop. 64 hujus), et consequenter (nam bonum, et malum correlata sunt) neque boni. Q.E.D.
- Si homines liberi nascerentur, nullum boni, et mali formarent conceptum, quamdiu liberi essent.
- Tutto ciò che è, è in Dio, e niente può essere né essere concepito senza Dio. (I, 15, 1992)
- Quicquid est, in Deo est, et nihil sine Deo esse, neque concipi potest.
Originale
[modifica]Propositio 42
Beatitudo non est virtutis praemium, sed ipsa virtus; nec eâdem gaudemus, quia libidines coërcemus ; sed contrà quia eâdem gaudemus, ideo libidines coërcere possumus.
Demonstratio: Beatitudo in Amore erga Deum constitit (per Prop. 36 hujus et ejus Schol.), qui quidem Amor ex tertio cognitionis genere oritur (per Coroll. Prop. 32 hujus), atque adeò hic Amor (per Prop. 59 et 3 Part. III) ad Mentem, quatenus agit, referrit debet ; ac proinde (per Def. 8 Part. IV) ipsa virtus est, quod erat primum. Deinde quò Mens hoc Amore divino, seu beatitudine magis gaudet, eò plus intelligit (per Prop. 32 hujus), hoc est (per Coroll. Prop. 3 hujus), eò majorem in affectùs habet potentiam, et (per Prop. 38 hujus) eò minùs ab affectibus, qui mali sunt, patitur ; atque adeò ex eo, quòd Mens hoc Amore divino, seu beatitudine gaudet, potestatem habet libidines coërcendi ; et quia humana potentia ad coërcendos affectûs in solo intellectu consistit, ergo nemo beatitudine gaudet, quia affectûs coërcuit ; sed contrà potestas libidines coërcendi ex ipsâ beatitudine oritur. Q.E.D.
Scholium: His omnia, quae de Mentis in affectûs potentiâ, quaeque de Mentis Libertate ostendere volueram, absolvi. Ex quibus apparet, quantum Sapiens polleat, potiorque sit ignaro, qui solâ libidine agitur. Ignarus enim, praeterquam quod à causis externis, multis modis agitatur, nec unquam verâ animi acquiescentiâ potitur, vivit praeterea sui, et Dei, et rerum quasi inscius, et simulac pati desinit, simul etiam esse desinit. Cùm contrà sapiens, quatenus ut talis consideratur, vix animo movetur ; sed sui, et Dei, et rerum aeternâ quâdam necessitate conscius, nunquam esse desinit ; sed semper verâ animi acquiescentiâ potitur. Si jam via, quam ad haec ducere ostendi, perardua videatur, inveniri tamen potest. Et sanè arduum debet esse, quod adeò rarò reperitur. Quî enim posset fieri, si salus in promptu esset, et sine magno labore reperiri posset, ut ab omnibus ferè negligeretur ? Sed omnia praeclara tam difficilia, quàm rara sunt.
Finis
Traduzione
[modifica]Prop. 42.
La Beatitudine non è il premio della Virtù: ma la Virtù medesima è premio a se stessa e beatitudine; e noi non ne godiamo perché reprimiamo le nostre inclinazioni irrazionali, ma, al contrario, siamo in grado di reprimere le nostre inclinazioni irrazionali perché godiamo della Beatitudine.
Dimostrazione: La Beatitudine consiste nell'Amore verso Dio, e questo Amore sorge dalla conoscenza di terzo genere; questo Amore, perciò, deve riferirsi alla Mente in quanto essa è attiva: e perciò s'identifica con la virtù; e questo è il primo punto. Inoltre – secondo punto – quanto più la Mente gode di questo Amore divino, o Beatitudine, tanto più essa conosce o intèllige, ossia tanto maggior potere essa ha sui sentimenti, e tanto meno è passiva rispetto ai sentimenti che sono cattivi: per il suo godere di questo Amore divino o Beatitudine, quindi, la Mente ha il potere di reprimere le voglie – o inclinazioni irrazionali, o appetiti sregolati – che sorgono in essa; e come la potenza che l'Uomo ha di coartare i sentimenti consiste soltanto nell'intelletto, nessuno dunque gode della Beatitudine perché ha coartato i propri sentimenti (sregolati), ma, viceversa, il potere di coartare o reprimere le proprie voglie s'origina dalla stessa Beatitudine posseduta. (P. III, Prop. 3; Prop. 59; P. IV, Def. 8; P. V,
Conseg. d. Prop. 3; Prop. 32 e sua Conseg.; Prop. 36; Prop. 38).
Chiarimento: Con questo ho esaurito tutto ciò che volevo mostrare a proposito del potere della Mente sui sentimenti e a proposito della Libertà della Mente. Da ciò che ho esposto risulta chiaro quanto possa il Saggio, e quanto egli valga più dell'Uomo grezzo, o Uomo carnale, che agisce soltanto per ricavarne vantaggi immediati ed angusti. L'Uomo carnale, oltre che essere agitato in molti modi dalle cause esterne e non arrivar mai a godere di una vera Soddisfazione interiore, vive quasi inconsapevole di sé e di Dio e delle cose, e come cessa di patire cessa anche di essere. Il Saggio invece, in quanto è davvero tale, ben difficilmente incontra cagioni di turbamento interiore; e non cessa mai – per una precisa necessità eterna: ossia perché, in assoluto, la massima parte della sua Mente esiste nell'Eternità – di essere cosciente di sé e di Dio e delle cose; e sempre possiede e gode la vera Soddisfazione interiore o Pace dell'anima.
Ora, se la via che ho mostrato condurre a questa condizione di Letizia inalterabile [(v. qui sopra, Prop. 36, Chiarim., a mezzo)] sembra difficilissima, essa però può essere percorsa. Certo deve essere difficile ciò che sì vede conseguito così di rado. Se la Salvezza fosse a portata di mano e potesse esser trovata senza una grande fatica, è mai possibile che quasi tutti gli umani rinunciassero a cercarla? Il fatto è che tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare.
[Spinoza, Etica, traduzione di Renato Peri[1]]
Citazioni sull'Ethica
[modifica]- Esistono senza dubbio passioni tristi che hanno un'utilità sociale, ad esempio la paura, la speranza, l'umiltà, il pentimento, ma solo quando gli uomini non vivono sotto la guida della ragione. Rimane comunque il fatto che ogni passione, dal momento che implica tristezza, è cattiva in quanto tale: anche la speranza e la sicurezza. Lo Stato è tanto più perfetto quanto più poggia su affetti di gioia: l'amore della libertà deve prendere il sopravvento sulla speranza, la paura e la sicurezza. L'unico dettame della ragione [...] consiste nel concatenare il maggior numero di gioie passive col maggior numero di gioie attive. Infatti, la gioia è un'affezione passiva che aumenta la nostra potenza di agire, e solo la gioia può essere un'affezione attiva. [...] Il sentimento della gioia è il sentimento propriamente etico. (Gilles Deleuze)
- Il nocciolo, a dir così, dell'«Ethica» di Spinoza è l'intera sottomisione dell'egoismo alla libertà razionale, la quale finisce col purificarlo, insegnando a ravvisare nell'assoluta rinunzia al Tutto e all'Eterno l'unica vera affermazione di sé. (Vincenzo Iannuzzi)
- L'«Ethica» dello Spinoza vuol essere soprattutto la conoscenza di Dio: da ciò risultano le linee fondamentali della sua intuizione del mondo. La soluzione del problema metafisico condiziona la intuizione dell'essenza del problema morale. (Vincenzo Iannuzzi)
- L'Etica è esposta nello stile di Euclide, con definizioni, assiomi e teoremi: si suppone che quanto viene dopo l'assioma sia rigorosamente dimostrato attraverso un ragionamento deduttivo. Tutto ciò rende difficile la lettura di Spinoza. (Bertrand Russell)
- Qualcuno ha detto che solo Dio avrebbe potuto scrivere l'Ethica. Credimi, costui sbagliò. Nemmeno Dio. Infatti l'impossibilità per l' Ethica di essere scritta non è che la stessa impossibilità per il mondo di essere creato, cosa che l' Ethica dimostra perfettamente. (p. 100)
- Se Spinoza l'avesse davvero sposata, Clara Maria[3], sarebbe stato un disastro. Ci avrebbe lasciato un mediocre canzoniere in latino, invece dell'astro che mai sarà Buco Nero dell'Ethica. (Guido Ceronetti)
- Si tratta di capire perché Spinoza, scrivendo un libro intitolato Etica, parli in continuazione di Dio, iniziando con il darne una definizione [...] e concludendo col dire che la più alta virtù è «l'amore intellettuale della mente verso Dio» (libro V, proposizione 36). Perché tanto parlare di Dio, per parlare di etica? Non sarebbe bastato parlare appunto solo di etica, di etica rigorosamente laica, tale da sussistere «etsi Deus non daretur» (anche se Dio non ci fosse) come aveva proposto solo qualche anno prima un altro grande olandese, Ugo Grozio? Invece no, Spinoza insiste sulla teologia, come aveva già fatto scrivendo, prima dell'Etica, opere come il Breve trattato su Dio, l'uomo e il suo bene e il più noto Trattato teologico-politico. Il fatto è che Spinoza sa bene che, senza un adeguato discorso su Dio, cioè sul fondamento razionale dell'essere, non si dà alcuna possibilità di stabilire un'etica. (Vito Mancuso, Disputa su Dio e dintorni)
- Sul tavolo era aperto un libro in latino, con gli ampi margini pieni di note e commenti aggiunti dal dottor Fischelson in uno stampatello minuto: era l'Etica di Spinoza, che egli studiava da trent'anni. Sapeva a memoria ogni proposizione, ogni dimostrazione, ogni corollario e ogni scolio, e quando voleva rileggere un determinato passo apriva quasi sempre il libro alla pagina giusta senza doverla cercare; eppure continuava a studiare l'Etica ogni giorno, per ore e ore, con una lente d'ingrandimento nella mano ossuta, mormorando fra sé e annuendo col capo. La verità era che più studiava e più scopriva punti di difficile interpretazione, passi oscuri e osservazioni enigmatiche; in ogni frase c'erano significati riposti che nessuno studioso di Spinoza aveva mai decifrato. Il filosofo, in realtà, aveva precorso tutte le critiche della ragion pura formulate da Kant e dai suoi seguaci. (Isaac Bashevis Singer)
- Chi si accinge a leggere l'Etica, si trova anzitutto di fronte a difficoltà grandissime: le definizioni, gli assiomi, le proposizioni, gli scolii, si presentano come bastioni inespugnabili, quasi isolati e ostili gli uni agli altri. Ma approfondendo l'indagine, cioè scendendo nei cunicoli sotterranei di ciascun bastione, si scoprono i collegamenti.
- L'Etica ha la fermezza di un tempio, in un paesaggio disabitato: se sapremo contemplarlo, penetrare devoti il suo interno, conosceremo il divino.
- L'Etica richiede lettori non pigri, discretamente dotati e soprattutto che abbiano molto tempo a loro disposizione. Se le si concede tutto questo, in cambio offre molto di più di quello che ci si può ragionevolmente attendere da un libro: svela l'enigma di questa nostra vita, e indica la via della felicità, due doni che nessuno può disprezzare.
Note
[modifica]Bibliografia
[modifica]- Baruch Spinoza, Ethica, a cura di P. Sensi, Armando editore, 2008.
- Spinoza, Etica, traduzione di Emilia Giancotti, Editori Riuniti, 1988.
- Spinoza, Etica, traduzione di Sossio Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992.
- Spinoza, Etica, traduzione di Sossio Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 2002.
- Spinoza, Opere. I Meridiani (Etica, traduzione di Filippo Mignini), Mondadori, Verona 2007.