Carlo Emilio Gadda

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Gadda in un'immagine giovanile degli anni '20

Carlo Emilio Gadda (1893 – 1973), scrittore italiano.

Citazioni di Carlo Emilio Gadda[modifica]

  • Al discendere la scalèa comitale, che un'ora prima avevo salita, vidi che i lampi e coboldi avevano deciso di fregarmi del tutto. Sfarfallando pazzescamente dalle vetrate, quegli altri arrampicandosi ingegnosamente ai seggioloni monumentali dei conti Delarama, avevano inframmesso nel mio penoso assortimento di parallelogrammi i barbagli dello strabismo, le beffe degli zecchini stentati. Ma c'era almeno la speranza d'un rovescio d’acqua.
    E tutti insieme, inspirati dall’Esecrando, avevano acceso le brame dei roventi omenoni, dei pulverulenti vescovi che sogliono trascorrere l'estate sui più pregevoli piedistalli barocchi della città. La vecchia pietra, odorosa di vecchia polvere, aveva rabbrividito nel presagio della tempesta.
    Ma ecco cipperimerli li lasciavano con quella voglia e dileguavano sghignazzando verso grecale: i venti e i lampi per dove il cielo è più aperto, e rotolandosi con lazzi loro lungo le guide ferrate e starnutendo i coboldi, genïetti suscitatori del malessere umano, il di cui seme, raspando, lo cavano dalla stanca terra.[1]
  • Che c'entro io? Ma lei è un milanese! Be' non tutti possiamo essere nati a Barlà. Ma il padre del tale era un maniscalco! Lo credo bene. Ma non aveva cavalli a ferrare! Mi dispiace di non essere un cavallo. Ma un giorno o l'altro ti metteremo al muro! Pazienza. (Intanto toccherò ferro di cavallo).[2]
  • Crede, e spera, nella Madonna, il fabbricante di madonne?[2]
  • È spiacevole dover parlare di avvenimenti spiacevoli: ma la chiarezza è la prima qualità di un racconto.[3]
  • Gli italiani, generosissimi in tutto, non sono generosi quando si tratta di pensare.[4]
  • Il dirmi che una scarica di mitra è realtà mi va bene, certo; ma io chiedo al romanzo che dietro questi due ettogrammi di piombo ci sia una tensione tragica, una consecuzione operante, un mistero, forse le ragioni o le irragioni del fatto.[2]
  • Il disegno dei borghi fu commesso, con opportuna delibera, ad otto architetti siciliani; perché fin dal suo sorgere (nella luce nuova delle opere e dei giorni attesi) l'edilizia rurale dell'appoderamento ripetesse dagli autori e inventori, nati nell'isola, forme congeniali alla natura e ai paesi di Sicilia: direi al senso del suo costume e della sua storia mediterranea, al suo essere: antico e nuovo. E davvero le forme han corrisposto, per felicità intera e nativa, all'aspettazione ed alla fede. Ho veduto i raduni bianchi dei cubi nella immensità della terra, quasi gregge portatovi da Geometria: e una limpida disciplina di masse, riquadri, diedri, gradi; e li avviva una grazia semplice, un'opportunità dell'atto, una speranza. E mi parvero già custoditi dal senno: non nati dall'arbitrio tetro, come può accadere a chi ha matita tra mano da fare i rettangoli, e soltanto matita. E vi erano brevi, puri portici: tinti alla calce i volti, i pilastri: e a sfondo il sereno. Archi a sesto, campiti di turchese. E la torre. Sul lastrico del cortile erano portate le ombre, come ore. E gli sgrondi cadevano alla serpentina lunga dei tegoli veduti in taglio, quasi ghirigoro o belluria: ma non ghirigoro, disegno sano anzi e venuto da necessità. E la porta era accesso già sacro, e la cucina in luce, con l'acquaio, pareva sbandire tutti i mali del luogo come dèmoni il fulgore dell'Arcangelo.[5]
  • Il nome di Galileo Ferraris non risuona ancora così alto, forse, accanto a quello dei nostri grandi «fisici» quanto la natura dei suoi studi e l'importanza della sua scoperta gli dovranno meritare nel ricordo degli uomini, dei concittadini in ispecie. Nella storia dell'elletrofisica (e della elettromeccanica) la sua ragione ha operato con risultati non meno provvidi di quelli ottenuti da Volta, da Pacinotti, da Bell. Galileo Ferraris fu ingegnere e fisico, e studioso di matematica: fu docente di eccezionale valore. Il ricordo delle sue lezioni al Muaseo Industriale di Torino, indi alla Scuola di Elettrotecnica da lui istituita (1886) rimase vivo nei discepoli finché visse.[6]
  • In questa raccolta di prose narrative, tredici novelle, cinque favole, Betti si rivela veramente un valido e ben vivo artefice dell'arte del raccontare. Vedrà e osserverà il lettore quali siano le note caratteristiche del Betti novelliere; del Betti che incide e sviluppa con dura brevità i suoi temi tragici o amari: o li effonde in una sorta di intermediazione a significare quasi l'inconsistenza d'ogni posizione conoscitiva e le mille vie del possibile; che indugia per attimi nella grazia dell'espressione; che dissolve talora gli aspetti del suo tetro ironismo (ironismo, cioè attitudine immaginifica) nell'amabile vanità della malinconia.[7]
  • [Su Il male oscuro di Giuseppe Berto] L'opera di Giuseppe Berto si contempera dei riscontri d'una assai povera (nel senso economico, sociale) o le molte volte drammatica e talora atroce esperienza del vivere; di una indagata e approfondita conoscenza dei rapporti psicologici tra i componenti di gruppo, per esempio il gruppo di famiglia, vere unità psichiche della gente più di quanto non sia il vecchio pupazzo denominato persona singola, persona individua; di un'arte del raccontare che snida accanitamente il disperso branco dei motivi, dei temi reali, con la muta latrante delle idee implacabili, le sue proprie dovute alla nevrosi e quelle di certi sciagurati che la follia è pervenuta ad asservire. Questa è l'arte del romanziere Berto: esprimere l'angoscia col descrivere la nevrosi, esprimere la follia col penetrare lucidamente, razionalmente, l'interno delirio.[8]
  • La mente di Galileo Ferraris operava secondo categorie analogiche, trasferendo concetti e gruppi di concetti da uno ad altro campo scientifico ed applicativo; egli è matematico e fisico «entusiasta»: ma è «scopritore da riflessione», da intuizione riflessa. Rappresenta, cioè, il tipo intellettivo dell'indagatore, non l'uomo fortunato che incocca quasi a caso il bersaglio.[9]
  • La mia biografia è ricchissima di deliziose pre-conferme alle «analisi» degli specializzati e alle loro complesse sistemazioni dottrinali. Tanto che m'era venuta ad idea una possibile «collana» delle manìe del signor x.y.z. (che sarei poi io) descritte per modo da farle regredire ognuna alla rispettiva crisi infantile.[10].
  • La sopportabilità massima del parlato-unito, in Italia, è di quindici minuti. La voce unica e fusa erogata dal graticcio del radioapparecchio, in quanto non soccorsa dalla presenza fisica, dalla gestizione o dall’atteggiamento di chi parla, annoia l’ascoltatore italiano dopo quindici minuti, quali che siano la forma o il contenuto dell’allocuzione. A quindici minuti di parlato corrispondono centottanta righi dattiloscritti. Nessuna conversazione da trasmettere “a una voce” può superare questo limite.[11]
  • Lasciare il Monte Nero!, questa mitica rupe, costata tanto, e presso di lei il Vrata, il Vrsic, lasciare, ritirarsi; dopo due anni di sangue. Attraversai un momento di stupore demenziale, di accoramento che m'annientò. Ma Sassella incalzava: «Signor tenente, bisogna far presto, ha detto il tenente Cola di far presto» e incitò poi per conto suo gli altri soldati. Mi riscossi: credo di non esser stato dissimile dai cadaveri che la notte sola copriva. [...] Finiva così la nostra vita di soldati e di bravi soldati, finivano i sogni più belli, le speranze più generose della nostra adolescenza: con la visione della patria straziata, con la nostra vergogna di vinti iniziammo il calvario della dura prigionia, della fame, dei maltrattamenti, della miseria, del sudiciume.[12]
  • Lavoro in una società elettrica milanese d'un lavoro totalmente diverso e lontano dalla mia naturale curiosità. Il mio gran male è stato sempre e sarà sempre uno: quello di desiderare e sognare, invece di volere e fare. [...] Se non avessi addosso la sifilide della laurea, potrei cavarmela forse meglio.[13]
  • La Conversazione in Sicilia di Vittorini esprime nei segni di poesia amore e pietà di questi suoi fratelli diseredati.[5]
  • La Sicilia rurale (come ogni regione, del resto), è contraddistinta da una modulata varietà di condizioni agronomiche, i cui estremi termini sono l'aranceto e l'uliveto costieri, e il latifondo: che occupa le alte superfici dell'interno. La coltura intensiva, la suddivisione della proprietà, la presenza di abitazioni in tutta la campagna caratterizzano le parti più fertili e più accessibili del territorio, tenute dall'agrumeto, dall'ulivo, dal mandorlo, dalle vigne, dai frumenti densi, mentre che il latifondo si estende nella solitudine e si direbbe costituisca veramente il feudo della solitudine.[5]
  • Lo studio teorico (matematico) dei moti vibratori simultanei e della loro composizione, lo studio della composizione di due raggi luminosi rettilinei polarizzati a dare un raggio polarizzato circolarmente, indi una meditazione «analitica», suggerì al Ferraris l'idea di comporre due vettori alternativi a dare un vettore rotante. Il Ferraris, dal 1885 in poi, compie nel Museo Industriale esperienze dirette a verificare il suo principio e soltanto «dietro premurose insistenze di amici» lo rende pubblico, insieme ai risultati sperimentali ottenuti, nella Memoria (Reale Accademia delle Scienze) del 18 marzo 1888: Rotazioni elettrodinamiche prodotte per mezzo di correnti alternate. È il principio da cui nasce il moderno motore asincrono, cioè il tipo di motore a cui si riconduce la maggioranza dei motori elettrici sulla faccia della terra. Il campo magnetico rotante, che ne costituisce la idea matrice, si chiama oggi Campo Ferraris.[14]
  • Noi viviamo di passato. Siamo degli stracchi rentiers che vivacchiano nell'accumulo lento del passato.[15]
  • Si sente invece il bisogno di un romanzo del Salgari, per capir bene, per utilizzare queste palme così splendide di sopra dalla cui fronda egiziaca, in ritaglia triangolari, il cielo di lapislàzuli.[16]
  • Una difficilissima elaborazione e costruzione morale fatta di incredibili sforzi e autoinibizioni individuali e puri e leganti entusiasmi, darà una più perfetta socialità di quella in che siamo oggi immersi. [...] Una lentissima costruzione morale, una grande cultura, una chiara visione di infiniti problemi tecnici, sociali, igienici, economici, morali, fisiologici, ecc., una calda passione per l'ordine e per il benessere generale e soprattutto una volontà tenace ed eroica potrà avviarci a una migliore socialità. Le parole non bastano e sdraiarsi nel comodo letto della vanità ciarliera è come farsi smidollare da una cupa e sonnolenta meretrice. Le 'parole' sono le ancelle d'una Circe bagasciona, e tramutano in bestia chi si lascia affascinare dal loro tintinno.[4]

Eros e Priapo[modifica]

Incipit[modifica]

  • Li associati a delinquere cui per più d'un ventennio è venuto fatto di poter taglieggiare a lor posta e coprire d'onte e stuprare la Italia, e precipitarla finalmente in quella urina e in quell'abisso dove Dio medesimo ha paura di guardare, pervennero a dipingere come attività politica la distruzione e la cancellazione della vita, la obliterazione totale dei segni della vita. Ogni fatto o atto della vita e della coscienza è reato per chi fonda il suo imperio col proibire tutto a tutti, coltello alla cintola.

Citazioni[modifica]

  • [Su Benito Mussolini] Lo spirocheta fu lui, il Primo Ministro (ministro delle concussioni e delle bravazzate), lui il Primo Maresciallo (maresciallo del cacchio), lui il Primo Racimolatore e Fabulatore delle scemenze e delle cazziate che ci sgrondarono giù dal balcone ventitré anni durante. Sulle povere cotenne di una gente sudata, convocata poliziescamente ai rostri delle future sconfitte e alle acclamazioni obbligative: compresa al raduno come la gente acciughiera nel barile, in realtà spersa tra i segni di demenza: a veder lontanare il futuro, il pane della carne e dello spirito futuri. (Da Capitolo I, pp. 14-15)
  • Su issù poggiuolo il mascelluto, tronfio da esplodere, a quelle prime grida della ragazzaglia era di già ubriaco d'una sua pazza libidine, simile ad alcoolòmane cui basta annasare il bichiere per sentirsi ismarrito in un piscio elìseo, prosciolto da ogni ritegno. (Da Capitolo I, p. 15)
  • Vorrei, e sarebbe il mio debito, essere frenòlogo e psichiatra da poter indagare e conoscere con più partita perizia | la follia tetra d'un gaglioffo ipocalcico dalle gambe a roncola, autoerotòmane, eredoalcoolico ed eredoluetico: e luetico in proprio. [...] Sifilòlogo e frenologo non essendo, farò icché potrò. (Da Capitolo I, p. 16)
  • [Su Mussolini] Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltura d'un orango; ai pantaloni a righe, al tight, | al tubino, ovverosia bombetta, ai guanti bianchi del commendatore uricemico: dell'odiato ma pazzamente invidiato borghese. Con que' du' grappoloni di banane delle du' mani che non avevano mai conosciuto un lavoro: e gli pendevano giù dai fianchi senza saper che fare, davanti il fotografo, come i ditoni dieci di certi negri inguantati. Pervenne. Alla feluca, pervenne. (Da Capitolo I, p. 19)
  • La Italia la era padronescamente polluta dallo spiritato: lo spiritato l'era imperialescamente grattato e tirato a pruriggine dallo spirocheta, principe d'un poppolo di quarantaquattro milioni | di miliardi di animalazzi a cavatappo, che gli sparnazzano dentro al liquor, e a l'ampolle de' bulbi, ancor oggi: infin dagli anni di sua pubertà maladetta, ch'era le millanta volte meglio... vo' vu' m'intendete senza parole. (Da Appendice I. Avantesti e riscritture. Il bugiardone, p. 241)
  • [Su Mussolini] Mbà, isgrondava, il verbo. Di colassù di balcone i versi, i grugniti, i rutti, i sussulti priapeschi, le manate in poggiuolo, e 'l farnetico e lo strabuzzar d'occhi e le levate di ceffo d'una tracotanza villana: ch'era senza sustegno di cervello, né di potere alcuno da tenere addietro l'inimico, o, più, l'alleato. E al mezzo, al centro scenico del mimo, andatone ad ogni vento il dolore, atto catalitico e risolutorio in fra tutti la esibizione del dittatorio mento e de la panza in orpelli: lo sporgimento di quel suo prolassato e incinturato ventrone,|il dondolamento ad avanti-indietro, da punte a tacchi, irrigiditi i ginocchî, di quel culone suo goffo e inappetibile a qualunque. Indi la reiterata esultazione di tutto 'l corpo, come lo iscagliasse ad alto una molla, e di tutta la sua persona asinina... (Da Appendice I. Avantesti e riscritture. Il bugiardone, pp. 264-265)

Il primo libro delle favole[modifica]

  • Il pontecorvo ha capellatura corvina: e naso matematico.
  • Le parole sacre, vedute le labbra dell'autore, ne rifuggono. Le cose sacre, veduto il cuore dell'autore, vi si fermano.
  • L'italiani sono di simulato sospiro.
  • Morire per la patria è cosa dolce e onorevole: infatti alcuni sono morti per la patria immortale: ed altri, a guardarla dalle tignole, è bisognato vivessero. Questa favoletta ne dice: il morto giace, il vivo si dà pace.

La cognizione del dolore[modifica]

Incipit[modifica]

In quegli anni, tra il 1925 e il 1933, le leggi del Maragadàl, che è un paese di non molte risorse, davano facoltà ai proprietari di campagna di aderire o non aderire alle associazioni provinciali di vigilanza per la notte.
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]

Citazioni[modifica]

  • Camminava tra i vivi. Andava i cammini degli uomini. Il primo suo figlio [...] in una lunga e immedicabile oscurazione di tutto l'essere, nella fatica della mente, e dei visceri dischiusi poi al disdoro lento dei parti, nello scherno dei negoziatori sagaci e dei mercanti, sotto la strizione dei doveri ch'essi impongono, così nobilmente solleciti delle comuni fortune, alla pena e alla miseria degli onesti. Ed era ora il figlio: il solo. Andava le strade arse lungo il fuggire degli olmi, dopo la polvere verso le sere ed i treni. Il suo figlio primo. [...] Il suo figlio: Gonzalo. A Gonzalo, no, no!, non erano stati tributati i funebri onori delle ombre; la madre inorridiva al ricordo: via, via!, dall'inane funerale le nenie, i pianti turpi, le querimonie: ceri, per lui, non eran scemati d'altezza tra i piloni della nave fredda e le arche dei secoli-tenebra. Quando il canto d'abisso, tra i ceri, chiama i sacrificati, perché scendano, scendano, dentro il fasto verminoso dell'eternità.
  • Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi: e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d'una vita, più greve ogni giorno, immedicato.
  • Il fumare lo aiutava molto davanti alle donne, a cui il fumo piace, anche perché lo ritengono, e magari con ragione, un gradevole presagio dell'arrosto.
  • [...] le moribonde parole dello Incas. Secondo cui la morte arriva per nulla, circonfusa di silenzio, come una tacita, ultima combinazione del pensiero.
  • [L'umanità] Questo mare senza requie, fuori, sciabordava contro l'approdo di demenza, si abbatteva alle dementi riviere offrendo la sua perenne schiuma, ribevendosi la sua turpe risacca.
  • Se un'idea è più moderna di un'altra, è segno che non sono immortali né l'una né l'altra.
  • Un'infanzia tormentata e un'adolescenza anche più dolorosa.
  • [...] l'io, io!... il più lurido di tutti i pronomi!... I pronomi! Sono i pidocchi del pensiero. Quando il pensiero ha i pidocchi, si gratta come tutti quelli che hanno i pidocchi... e nelle unghie, allora... ci ritrova i pronomi: i pronomi di persona.
  • Ma sognare è un fiume profondo, che precipita a una lontana sorgiva, ripùllula nel mattino di verità.

Explicit[modifica]

E alle stecche delle persiane già l'alba. Il gallo, improvvisamente, la suscitò dai monti lontani, perentorio ed ignaro, come ogni volta. La invitava ad accedere e ad elencare i gelsi, nella solitudine della campagna apparita.

La Madonna dei Filosofi[modifica]

Incipit[modifica]

Mi rincresce di cadere nel convenzionale, ma è proprio andata così. Metà strada fra Boffalora e Turbigo c'è una strada che traversa: e da una banda si sperde fra salci ed altissimi pioppi verso il Ticino: e dall'altra, con forte salita, valica lo spalto boschivo segnante, nella coltre fonda della pianura, l'erosione del fiume.

Citazioni[modifica]

  • Che bravi! Le finestre han cornici barocche di pietra grigia, e fra la seconda e la terza del primo piano, sopra un bel balcone di ferro battuto, e panciuto, c'è dipinta una Madonna che appare benedicente a San Carlo Borromeo. (p. 72)
  • Certi imparaticci poi, recitati a gran voce dai concionanti droghieri, improvvisatisi economisti della nuova Europa, gli parevano indegni d'un venditore ambulante di fazzoletti. (p. 87)
  • i cani, quando abbaiano a ogni più futile caso, li avrebbe remunerati versando loro con un imbuto del burro fritto e ben rosolato nelle orecchie; e ai loro padroni nell'umbilico... (p. 87)

Explicit[modifica]

«Alors, pensez vous,... la roucoulade est aisée: ... voyons, mes mignonnes!»
Parve, socchiusi gli occhi, dilontanar lo sguardo di là dalle volute del fumo, non so se verso le Argonne o la Beresina.
«Tandis que nos gens», mormorò,«se faisaient tuer à la vendange des siècles...»

Lettere a una gentile signora[modifica]

  • Gentilissima Signora,
    al solito si è venuto accumulando in me, dopo le sue amichevoli, fraterne lettere, il nembo dei rimorsi, sospinto dalla bufera ciclonica della vergogna. [...]
    Ho verso di Lei rimorsi infiniti; il senso d'una inciviltà che non mi è abituale, e che si spiega solo con quel corso di oscure angosce e di traumi che neppure avvertiamo, quasi, ma che ci privano d'una persuasione necessaria a compiere gli atti più sostanziali. Vivacchiamo così tra noie ed espedienti, respingendo la verità e la necessità. Perché? Non sono passati forse degli anni senza una pagina? E perché, se la pagina è la cosa più urgente, più mia? Perché andavo ad ogni inezia, a pagar la tassa, a ordinare il vestito, a far risuolare le scarpe, trascurando il «compito» l'unico e il più gradito? Se anche angoscioso. (Milano, 27 giugno 1938)
  • Se fosse un libro non letterario e se lei potesse farmi la traduzione quasi definitiva e io avessi davvero poco lavoro, potrei lasciare a lei il maggior utile: e contentarmi di un quasi parassitario prelievo, dovuto alla mia qualità di grand'uomo: (semi-fesso). Del resto, scrive meglio Lei di me. – (Milano, 31 agosto 1938)
  • Subito preso dal lavoro della «puntata» per «Letteratura», passo giorni angosciosi. Ma risorgerò alla vita. E, anche prima di risorgere, esternerò grati sensi, in meno cartolinesco modo e stile. (Milano, 14 aprile 1939)
  • «Dio salvi almeno se stesso», dice l'impagabile Elio. (Firenze, 22 dicembre 1941)
  • La mia persistente piccola-povertà, i miei revenus di lavoro, e di lavoro da travet, i lunghi periodi di mancato guadagno per dedicarmi allo scribacchiamento, tutto ciò ha fatto di me un falso-borghese, che deve sostenere un certo decoro esterno, senza il retroterra dei fondi. (Roma, 12 dicembre 1957)

Quer pasticciaccio brutto de via Merulana[modifica]

Incipit[modifica]

Tutti oramai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investigativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. Di statura media, piuttosto rotondo della persona, o forse un po' tozzo, di capelli neri e folti e cresputi che gli venivan fuori dalla metà della fronte quasi a riparargli i due bernoccoli metafisici dal bel sole d'Italia, aveva un'aria un po' assonnata, un'andatura greve e dinoccolata, un fare un po' tonto come di persona che combatte con una laboriosa digestione: vestito come il magro onorario statale gli permetteva di vestirsi, e con una o due macchioline d'olio sul bavero, quasi impercettibili però, quasi un ricordo della collina molisana.

Citazioni[modifica]

  • Sosteneva, fra l'altro, che le inopinate catastrofi non sono mai la conseguenza o l'effetto che dir si voglia d'un unico motivo, d'una causa al singolare: ma sono come un vortice, un punto di depressione ciclonica nella coscienza del mondo, verso cui hanno cospirato tutta una molteplicità di causali convergenti. Diceva anche nodo o groviglio, o garbuglio, o gnommero, che alla romana vuol dire gomitolo. Ma il termine giuridico «le causali, la causale» gli sfuggiva preferentemente di bocca: quasi contro sua voglia. (I; p. 4)
  • La vitalità di questi mostriciattoli [i cani] è una cosa incredibile. Verrebbe voglia di accarezzarli, poi di acciaccarli. (I; p. 6)
  • Aveva quarantanove anni, per quanto ne dimostrasse cinquanta. (I; p. 27)
  • Nel caso nostro, nel novello ravage comportato da un troppo focosa reminiscenza degli antichi bastoncelli (i quali, semmai, bastoncellavano a sensi di legge, non a sensi di teppa), il telefono si ritrovò bell'e impiantato a prestare, alla tripotente camorra, gli uffici eminenti d'un ufficiale portaordini controllato dallo zelo e dagli orecchi ipersensibili di un ufficiale spia. La raccomandazione burocratica poté assumere quel tono, e, più, quel carattere duramente ingiuntivo o addirittura imperatorio che solo si addiceva agli «homines consulares», agli «homines praetorii» del neo-impero in cottura. Chi è certo d'aver ragione a forza, nemmeno dubita di poter aver torto in diritto. Chi si riconosce genio, e faro alle genti, non sospetta d'essere moccolo male moribondo, o quadrupede ciuco. (III; p. 69)
  • L'attimo della dolce angoscia fuggiva, oh, che altro può fare un attimo? ma il succedente gli succedeva: l'integrale dei fuggenti attimi è l'ora: l'ora impareggiabile, dove un pensiero esatto si deroga a speranza e ad angoscia, come saettata spola, nell'ordito degli sguardi furtivi, dei muti dissensi, dei muti consentimenti. (VI; pp. 141-142)
  • Là c'era il comando dell'Arma: là, là, da più lune, la sua pratica risognata attendeva, attendeva. Come delle pere, delle nespole, anche il maturare d'una pratica s'insignisce di quella capacità di perfettibile macerazione che la capitale dell'ex-regno conferisce alla carta, si commisura ad un tempo non revolutorio, ma interno alla carta e ai relativi bolli, d'incubazione e d'ammollimento romano. S'addobbano, di muta polvere, tutte le filze e gli schedari degli archivi: di ragnateli grevi tutti gli scatoloni del tempo: del tempo incubante. Roma doma. Roma cova. In sul pagliaio de' decreti sua. Un giorno viene, alfine, che l'ovo della sospirata promulga le erompe alfine dal viscere, dal collettore di scarico del labirinto decretale: e il relativo rescritto, quello che abilita il macilento petente a frullar quel cocco, vita natural durante a frullarlo, vien fulgurato a destino. In più d'un caso ci arriva insieme l'Olio Santo. Abilita il destinatario entrato in coma, carta canta villan dorme, a esercitar quell'arte assonnata, quel mestieruccio zoppo che aveva tocche tocche esercitato fin là, fino all'Olio: e che d'allora in poi, de jure decreto, si studierà esercitare un po' per volta all'inferno con tutto l'agio partecipatogli dall'eternità. (VIII; pp. 179-180)
  • Don Ciccio moderò il galoppo della smania, tirò le redini allo scalpitare della rabbia. (X; p. 262)
  • Il corindone, pleòcromi cristalli, si appalesò tale di fatto sul bigio-topo dell'ambienza, venuto di Ceylon o di Birmania, o dal Siam, nobile d'una sua strutturante accettazione, o verde splendido o rosso splendido, o azzurro notte, anche, un anello, del suggerimento cristallografico di Dio: memoria, ogni gemma, ed opera individua dentro la memoria lontanissima e dentro la fatica di Dio: verace sesquiossido Al2 O3 veracemente spaziatosi nei modi scalenoedrici ditrigonali della sua classe, premeditata da Dio.[17]

Un fulmine sul 220[modifica]

  • La volizione del volitivo giovane involveva già del suo velle la fuggitiva labilità degli eventi. (Un'orchestra di 120 professori [parte prima]: p. 108)
  • Come si capì dopo, il chiodo senatoriale era stato ribadito dalle martellate categorizzanti della signora Vigoni. Sicché il gambero, come sempre i suoi confratelli, fu costituito in totem, quindi in dogma e si propagò ed estese mirabilmente nel soma della tribù: e più gambero era, e più dogma divenne: dacché la tribù funziona come corpo uno e unanime rispetto alla mònade centrale e gamberològica. (Un'orchestra di 120 professori [parte ultima]: p. 130)
  • Il risultato era, nell'animo nostro, un turbamento ingiustificabile, un male doloroso e remoto, come il ricordo di un'irripetibile gioia che giorni crudeli ne avessero allontanata per sempre: poiché tutto di lei diceva, tra gli automobilisti e i giovani e sotto gli alberi verdi festosi del parco: «sono io, sono viva: ancora per un poco, oggi, sono con voi!» E pareva che dovunque, tra labili fiori, insorgessero i veti disumani del tempo. (Un'orchestra di 120 professori [parte ultima]: p. 138)
  • Senonché l'Adalgisa era di quelle meravigliose donne lombarde che estrinsecano la propria forma mentis nel postulare dovunque e davanti a chiunque la certezza della propria infallibilità. Per quanto sbagliata sia la strada dove si son messe, ne usciranno «a tutti i costi» in trionfo. La lingua ce l'hanno, il carattere anche: e con la lingua e con il carattere si trionfa, ciò è noto, dei peggiori nemici, oltre che del destino, dei professori de' propri figli e delle donne di servizio se implorano qualche lira al mese di più.– (Un'orchestra di 120 professori [parte ultima]: p. 139)
  • «Sei stupido!» «E tu sei scemo!» «Finitela!», si inviperì l'Adalgisa fuori di sé. «Finiscila Peppo o ti dò uno schiaffo!» E lo schiaffo arrivò difatti più rapido ancora dell'ipotesi, come il lampo in precedenza del tuono.– (Un'orchestra di 120 professori [parte ultima]: p. 143)
  • Il Carlo, per quanto innamoratissimo glie la tirava lunga di settimana in settimana, di mese in mese: il talamo si perdeva nei regni infiniti del domani, proiettato verso un punto infinitamente al di là del dopodomani, infinitamente pallidamente remoto, come il bacio dell'asintoto alla sua curva.– (Un'orchestra di 120 professori [parte ultima]: p. 167)
  • Il flusso continuo dei taxi, sul viale maggiore, pareva la vana furia degli uomini, che ad ogni costo volesse arrivare a una fine. (Un'orchestra di 120 professori [parte ultima]: p. 190)
  • Insomma gli schidioni della cintura di castità erano ancora nel magazzino delle idee compossibili. O servivano ai rosticceri di via Larga, da infilarci dei polli. (fine di Un'orchestra di 120 professori [parte ultima]: p. 196)
  • Così la mia gente si fa ignara dell'inutile: dei segni che dici di bellezza non caverai càvolo per il bottaggio, di verità non caverai cotechino. Quelle ragioni, ella dice, le son bubbole, ella dice «balle» in sua parlata ciabatta. Così accede al benessere (cresci-cotenne) quando non decede alla servitù de' bajuli. Così, senza dimandarla manco, mi offre i «miei» personaggi. Essi sono figli della Certezza e del Paraocchî. Quando il credere diventa presumere. (Nuove Battute sul Politecnico vecchio: p. 204)
  • Quest'aula era un'aula modello, poiché nelle officine vere, dicevano i maestri, daddovero ci si cava gli occhî al disegno, sotto lampada alle due del meriggio: ed è bene prepararsi politecnicamente alla vita vera, cioè alla vera perdita di tutt'e due gli occhî [...]. (Nuove Battute sul Politecnico vecchio: p. 206)
  • Nei loro cuori è la fede: una certezza, una sicurezza salda: nessun lezzo di critica maldigesta contaminerà l'affermazione perenne: «Io sono il tuo Politecnico e tu non avrai altro Politecnico avanti di me». (Nuove Battute sul Politecnico vecchio: p. 207)

Incipit di alcune opere[modifica]

L'Adalgisa[modifica]

«... E che ero una qui, e che ero una là; e che cantavo nei teatri da strapazzo, per i militari; che avevo già avuto una cinquantina d'amanti!... Ma sì!... cento... mille... un milione!»[18]

La meccanica[modifica]

Ma per piani aridi e illuni o nell'aggrovigliata paura delle giungle immense udrà forse taluno di là da ogni voce de' viventi come segui il torbido fiume delle generazioni a devolversi e penserà che sciabordi contro sue prode le rame e li steli dalle selve divelti; e verdastre, con i quattro piffari all'aria, le carogne pallonate de' più fetidi e malvagi animali, quali furono in vita e saran pecore, jene, sanguinolenti sciacalli, saltabeccanti scimie, asini con crine de' lioni e gran baffi: e branco lurico e tronfio arriverà nelli approdi lutulenti a travolgersi, dove è soltanto la vanità buia della morte.[19]

Notte di luna[modifica]

Un'idea, un'idea non sovviene, alla fatica de' cantieri, mentre i sibilanti congegni degli atti trasformano in cose le cose e il lavoro è pieno di sudore e di polvere.[19]

Citazioni su Carlo Emilio Gadda[modifica]

  • Credo fosse il 1954. Avevo lasciato da poco la Rai, dove ero stato assunto nel 1950 come giovanissimo funzionario al Terzo programma radiofonico. C'era gente interessante allora. Mi capitò di intrattenere rapporti di scontrosa familiarità con personaggi anche notevoli, come per esempio Gadda. [«L'aneddotica su di lui è vasta»] È vero, potrei dirle che c'erano certi giorni in cui si trascinava nei corridoi tirandomi per la giacca e dicendo cose irripetibili su alcuni suoi colleghi. Ma al di là di ciò dava l'impressione di essere un uomo misterioso, che arrivava da un buio antico, da un dolore indicibile che ha prodotto uno stile ecumenico. Senza ombra di dubbio è stato il più grande scrittore italiano del '900. [«Come argomenterebbe questa affermazione?»] Sentì più di ogni altro la carenza di vocalità dell'italiano. Avendo l'italiano poca voce, necessita del supporto del canto o del dialetto. Ma Gadda non era uno scrittore dialettale. Inventò una lingua vocale che si appoggiava ai dialetti. Si comportò come Dante con la Commedia. Che dopo aver detto che tutti i dialetti fanno schifo, che non ce ne è uno che valga "la pantera profumata del volgare illustre", scrive utilizzando di tutto: desinenze, calate, strutture sintattiche delle parlate che conosceva e perfino di quelle che gli erano ignote. (Vittorio Sermonti)
  • Erano gli anni delle 'cause' ricavate da "Paese Sera": ogni sera Elsa Morante arrivava in trattoria agitando "Paese Sera" e strillando che era uno scandalo e bisognava mobilitarsi, una volta per la bomba atomica, un'altra per i gatti di Roma. E il giorno dopo, al telefono Gadda: "Ha urlato parecchio anche ieri sera? Ho fatto bene a non uscire". (Alberto Arbasino)
  • Gadda diceva di sé: "Io non sono né un esibitivo né narcissico" e io posso dire la stessa cosa di me. "Low profile" è la parola d'ordine. (Alberto Arbasino)
  • Gadda mi è sempre stato antipatico. L'eminente critico e filologo Gianfranco Contini afferma che di quello scrittore il centro è nella "lacerante delusione di un uomo d'ordine smentito dalla storia sua e di tutti". Non per nulla Gadda, nel suo Diario di guerra, si scagliava contro i soldati che non avevano nessuna voglia di affrontare il pericolo e la morte. Certe laceranti delusioni, ecco, non mi commuovono affatto. [...] Plurilinguismo ed espressivismo vogliono presentare il mondo intero come una nave di folli. Spirito, questo, che si destina agli spiritosi poveri di spirito, illusi che il riso renda padroni. Sarà, come ho detto, a causa di una mia tenace antipatia: ma qui io ci sento soltanto quello che Emilio Cecchi chiamava "il partito dei carabinieri a cavallo". (Franco Fortini)
  • Gadda per me è stato molto più importante di Proust o Céline o Dostoevskij o Tolstoj. Più di questi, mi ha fatto scoprire o riflettere sull’importanza di una lingua movente, che si fa nel suo divenire costante, nel suo mutarsi da un autore all’altro. (Jean-Paul Manganaro)
  • La derisoria violenza della sua scrittura esplodeva esasperata, contestando insieme il linguaggio e la parodia, tra il ron-ron rondesco-neoclassico-fascistello e il pio-pio crepuscolare-ermetico-pretino, in schegge di incandescente (espressionistica) espressività… Proprio come per Rabelais e per Joyce che gli sarebbero poi stati accostati, «a braccio» e «a orecchio», i suoi messaggi fanno a pezzi ogni codice, spiritate e irritate, le sue invenzioni verbali dileggiano significati e significanti; devastano ogni funzione o finalità comunicativa; rappresentano innanzitutto se stesse, e i propri fantasmi, in un foisonnement inaudito e implacabile di spettacolari idioletti… [...] La complessa ricchezza linguistica e tematica dell'opera gaddiana, così visceralmente composta e tramata, e sardanapalesca, e pantagruelica, continua a sollecitare una pluralità di letture, a diversi livelli, lungo differenti parametri, secondo i più svariati presupposti e pregiudizi: a costo di razionalizzare fin troppo lucidamente attraverso nitidi procedimenti di schede e di referti quel suo atrabiliare viluppo di fantasticate irrisioni e di furie «compossibili»… [...] Non per nulla, gl'interessi enciclopedici dell'Ingegnere coincidono (fino al delirio di riversare tutta la Funzione nell'Espressione) coi manifesti tracciati due secoli fa dagli impeccabili fratelli Verri e da Cesare Beccaria, risoluti a insultare programmaticamente la Crusca in nome di Galileo e di Newton, cioè a sviluppare una cultura extraletteraria cosmopolita e un pensiero intellettuale «assolutamente moderno» a dispetto della grammatica arcaica dei Pedanti, trasgredendo al purismo imbecille che caldeggia l'impiego di qualsiasi grulleria del Piovano Arlotto per definire prodotti e nozioni del nostro tempo. (Alberto Arbasino)
  • Quanto a me, provavo per lui un'immensa venerazione, come non ho mai provato per nessuno. Non veneravo soltanto il Pasticciaccio o La cognizione del dolore: ma tutto ciò che egli faceva o diceva o pensava o immaginava o fantasticava. Non mi importava affatto che qualcuno dicesse che Gadda era un nevrotico, o un ipocondriaco, o un paranoico. Per me, anche le sue minime fantasie emanavano da una grande figura dolorosa, che restava nell'ombra. (Pietro Citati)
  • Romanzo contemporaneo come enciclopedia [...] [Gadda] cercò per tutta la vita di rappresentare il mondo come un garbuglio, o groviglio, o gomitolo, di rappresentarlo senza attenuarne affatto l'inestricabile complessità, o per meglio dire la presenza simultanea degli elementi più eterogenei che concorrono a determinare ogni evento. (Italo Calvino)
  • [Ad una domanda sul rapporto fra matematica e letteratura] Vedo con favore i rapporti di tutto con tutto, e della Matematica con la Letteratura in particolare. [...] Detto questo, diffido un po' delle pure suggestioni: i matematici leggono Borges, ascoltano Bach, i letterati leggono Hofstadter... [...] Posso visitare una regione esotica, inebriarmi di architetture e usanze che mai conoscerò e tornarmene a casa con il mio rullino di diapositive. Questo è ciò che chiamo suggestione.
    Un rapporto più profondo, invece, implica un vero e proprio "bilinguismo": Gadda era perfettamente "bilingue" (perfetto scrittore, perfetto ingegnere) e ha saputo raccontare complesse equazioni nel suo linguaggio irresistibile. Bilingue è Roubaud. Bilingue era Queneau. (Stefano Bartezzaghi)

Note[modifica]

  1. Da Domingo del señorito en escasez, Domenica del giovin signore di scarsi mezzi, in AA.VV., Nuovi racconti italiani, di Arpino, Bassani, Berto, Buzzati, Cassola, Dessì, Gadda, Ginzburg, La Capria, Levi, Manzini, Marotta, Moravia, Pasolini, Piovene, Pratolini, Prisco, Rea, Repaci, Soldati, Strati, Tecchi, Testori, Fratelli Melita Editori, La Spezia, 1992, pp. 103-104.
  2. a b c Da I viaggi la morte. Psicanalisi e letteratura; in Saggi Giornali Favole, Vol. I, Edizione diretta da Dante Isella, Garzanti, Milano, 1991, p. 464. ISBN 88-11-58642-9
  3. Da I Luigi di Francia.
  4. a b Da Meditazione milanese, Garzanti.
  5. a b c Da I nuovi borghi della Sicilia rurale, La Nuova Antologia, Roma, 1941, 1° febbraio 1941, p. 7.
  6. Da Saggi Giornali Favole, Vol. I, Edizione diretta da Dante Isella, Garzanti, Milano, 1991, pp. 980-981. ISBN 88-11-58642-9
  7. Da Saggi Giornali Favole, Vol. I, p. 687.
  8. Da Saggio introduttivo, in Giuseppe Berto, Il male oscuro, Mondadori, Milano, 1987, p. 5.
  9. Da Saggi Giornali Favole, Vol. I, pp. 983-984.
  10. Da Una tigre nel parco, in Saggi giornali favole e altri scritti, a cura di L. Orlando, C. Martignoni, D. Isella, I, 1991, p. 74.
  11. Da Norme per la redazione di un testo radiofonico; citato in ilpost.it, 18 ottobre 2018.
  12. Da Giornale di guerra e di prigionia, Sansoni.
  13. Da Lettera a Ugo Betti.
  14. Da Saggi Giornali Favole, Vol. I, p. 984.
  15. Da Eros e Priapo, citato in Pietro Citati, La più sublime delle invettive, Corriere della Sera, 9 gennaio 2017, p. 29.
  16. Citato in Salvatore Battaglia, Grande Dizionario della Lingua Italiana, Vol. VIII, Unione Tipografico-Editrice Torinese, Torino, 1973, p. 765.
  17. Citato in Rinaldo Rinaldi, Gadda illegibile, The Edinburgh Journal of Gadda Studies, 2003. ISBN 1-904371-08-6, gadda.ed.ac.uk.
  18. Citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.
  19. a b Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia[modifica]

  • Carlo Emilio Gadda, Eros e Priapo Versione originale, A cura di Paola Italia e Giorgio Pinotti, Adelphi, Milano, 2016. ISBN 978-88-459-3116-1
  • Carlo Emilio Gadda, I Luigi di Francia, Garzanti, 1992.
  • Carlo Emilio Gadda, La cognizione del dolore, Garzanti, 2000. ISBN 8811666449
  • Carlo Emilio Gadda, La Madonna dei Filosofi, in Romanzi e racconti, Vol. I, Edizione diretta da Dante Isella, Garzanti, Milano, 2000. ISBN 88-11-58640-2
  • Carlo Emilio Gadda, Lettere a una gentile signora, Adelphi, 1983.
  • Carlo Emilio Gadda, Norme per la redazione di un testo radiofonico, Adelphi, 2018. ISBN 9788845933004
  • Carlo Emilio Gadda, Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Garzanti, 2002. ISBN 8811666422
  • Carlo Emilio Gadda, Saggi Giornali Favole, Vol. I, Edizione diretta da Dante Isella, Garzanti, Milano, 1991. ISBN 88-11-58642-9
  • Carlo Emilio Gadda, Un fulmine sul 220, Garzanti, 2000. ISBN 881167848X

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