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Leopoldo Barboni

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Leopoldo Barboni (1848 – 1921), saggista e romanziere italiano.

Fra matti e savi[modifica]

  • Il Civinini era secco allucignolato, con baffi intignati, i denti schiezzati e neri come quelli di Napoleone I, il quale gli aveva così perché tremendo, anzi feroce divoratore di sugo di requilizia. Era brutto..., ma parlava come un angelo del paradiso! Ricordo che un giorno lo trovai su tutte le furie perché un signorino, non toscano, era andato ad offrirgli un romanzetto da mettersi in appendice sul suo giornale[1], e ad ogni costo aveva voluto leggergliene le prime due o tre pagine.
    «Detesto questo genere di letteratura, mi diceva: eppure, per l'ufficio che ho, mi tocca quasi ogni giorno a sentirmi torturare con simili componimenti; e che roba! Non sanno se Nazione si scrive con una zeta o con due, e pur son tutti scrittori [...].» (Ricordi di Firenze capitale, p. 28)
  • Il Fanfani, il filologo che qualche volta diceva e scriveva «està» invece di estate, (apocope che a malapena può avere il diritto di essere usata in poesia), e diceva e scriveva così, forse per far piacere al suo amico Mario Rapisardi, era il disordine in persona. D'inverno toccava gli estremi del grottesco. Portava al collo una pezzuola di cambrì rosso, stampata a fiori gialli, in capo una tuba col pelo eternamente lisciato a ritroso, le fedine come il posa-piano Leopoldo II, ispide e brizzolate, un rotolò addosso o un totterone dell'uno, e in mano uno scaldino da ciane, da due soldi, ruvido, senza culatta.
    Così rinchioccito sedeva lavorando al suo scrittoio di bibliotecario, da dove lanciava ingiurie ai più specchiati e dotti uomini d'Italia, chiamando perfino cane il buono e defunto Nannucci[2]. Su quello scrittoio le streghe convenivano a ballare la ridda il sabato notte, e il diavolo ci recitava la messa nera. Io non vidi mai un arsenale più arsenale di quel banco! C'era d'ogni cosa un po'; la polvere, prima di tutto, e alta un dito; e poi cannelli di ceralacca spezzettati, candele stroncate a mezzo, lapis di tutti i colori, giacenti fra le scheggette cadute nel temperarli, forbici con la moccolaia attaccata al taglio; coltellini, stecche, quadrelli, ostie, lettere a rifascio, matassine di spago, una fogliata di pasticche di rosolacci, mucchietti di fagioli coll'occhio, bianchi, rossi, ceciati; patacconi di inchiostro; l'ira di Dio, insomma, rivelantesi nello scompiglio della scrivania di un filologo malato di milza e di cuore. Però sia pace ai sepolti! (Ricordi di Firenze capitale, p. 30)
  • Povero Yorick! e anche lui è sparito; ed è sparito fra atroci dolori fisici, lui che tanto aveva fatto ridere, di quel riso però che fa bene al corpo quanto allo spirito, così che Renato Fucini felicemente poté scrivere di lui: «Il volgo crede persone serie quelle che non ridono mai, e giudica spesso buffoni coloro che ridono e sanno far ridere. No, mio egregio e rispettabile volgo. Secondo come si ride, secondo come si fa ridere. Quanti malvagi zucconi ho conosciuto che non ridevano mai, e quanti ho veduto ridere e far ridere, uomini d'ingegno e di cuore! – Il povero Yorick era uno di questi.» (Ricordi di Firenze capitale, p. 32)
  • [Silvestro Centofanti] Era un ometto asciutto, dritto impettito, con due piccole fedine candide e ravviate sempre, modestissimo nel vestire, con occhi, anco durante l'infermità dell'annebbiamento, lampeggianti; fronte aperta, maniere squisite, parola calda, movimenti vivacissimi. Sorrise un giorno, ch'io gli diceva:
    «Le stanno a pennello le parole del Byron: Lo vedevi appena, ch'ei ti piacea di colpo...
    «Sì, sì, mi rispose pronto, ma dice anche: o ti spiacea! (Le passeggiate con Silvestro Centofanti, p. 35)
  • Come i suoi amici Gino Capponi e Niccolò Tommaseo, il Centofanti era cieco per caduta di cateratte, sicché quando qualche volta egli, alzandosi improvviso, urtava in una sedia o in altro, io di scatto accorrevo a sorreggerlo sclamando sempre qualche parola di vivo rincrescimento per la sua infermità e per la mia inavvertenza a prevenirlo.
    «Dica quello che vuole, rispondeva scherzando, ma non le passi pel capo di dirmi che mi darebbe i suoi occhi. Non ci crederei. Al più al più, dica che me ne darebbe uno; così saremmo contenti tutti e due. (Le passeggiate con Silvestro Centofanti, pp. 36-37)
  • [Francesco Pacchiani] Quest'uomo singolarissimo, il cui solo nome profferito settanta e cinquanta o trenta anni or sono sortiva il magico effetto di fare atteggiare mille e mille bocche a quell'increspatura di sorriso che rivela una viva esultanza dell'animo, e per cui anc'oggi qualche vecchio, o a pronunziarlo o ad udirlo sente passarsi fra ruga e ruga come un soffio di giovinezza: fu uno di quei nostri carissimi nonni pieni di rosea salute, briosi, caustici, delizia delle brigate, dall'ingegno sfavillante, scomparsi senza eredi su' primi del nostro secolo, quando l'anemia non anche aveva stemperato nello sbaviglio[3] isterico le generazioni. (Il canonico Pacchiani, p. 57)
  • Una sera, in villa, mentre la sala era già piena, un servo annunzia l'arguto e mondano canonico [Pacchiani]. Si fa un profondo e istantaneo silenzio, e tutti si volgono risolenti, perché il cuore di tutti si apre come per incanto alla gioia. Si sentiva, infatti, che ci mancava qualcuno, il deus ex machina. Il Pacchiani s'inchina alla contessa e le serra fra le sue la mano celebratissima e gliela guarda sospirando e se la porta sul cuore. Silenzio anche più profondo, e sguardi avidi da ogni parte, perché ognuno presentisce un balenìo epigrammatico. Il quadro era tipico; la signora, sdraiata mollemente sul sofà, lasciava con noncuranza che il canonico le guardasse la mano, gliela carezzasse come si fa del velluto e sospirasse; finché ubbidendo a quella vanità cui l'aveva ausata il Canova, chiede:
    «Non avete, insomma, nessuna strofa per questa mano[4], canonico?
    «E come no, contessa?...
    Avess'io tanti gigliati | nella vuota mia scarsella, | quanti........ | questa man gentile e bella!
    Alla felice e sfacciata improvvisazione dei quattro ottonari (non, s'intende, castrati come qui li castriamo per rispetto a chi legge) le signore e i vegliatori dettero in una risata e in una smanacciata da far tremare le pareti, mentre la contessa sorrideva pacatamente come se quei versi non la riguardassero né men per ombra o fossero zucchero e miele secondo il codice poetico del Metastasio o del Gessner. I gigliati, poi, eran monete fiorentine portanti in rilievo un giglio, d'onde il nome loro. (Il canonico Pacchiani, p. 60)
  • [Giovanni Rosini] Aveva mandato copia della sua Monaca di Monza, indigesto e indigeribile e goffo e frollo romanzo storico, ad Alessandro Manzoni; poi era andato egli stesso a Milano per far visita al poeta, forse nella speranza di sentirsi dire: Siete non la più grande candela, ma la più gran torcia d'Italia che sia accesa!
    Non fu così. Il Rosini bussa a casa Manzoni, e al servo che, inchinandosi, lo interroga tacitamente chi sia, risponde: «Dite al vostro padrone che c'è l'autore della Monaca di Monza». E il servo va, e poco dopo ritorna ed espone: «Ha detto il mio padrone che non ha il bene di conoscerlo...» Ira del nume, subito repressa con un maestoso scrollare di capo. Il Rosini esce, ritrova gli amici e, contato loro il caso, conclude compassionando: Ma quale colpa ho io, se agl'italiani, più che i Promessi sposi, piace la mia Monaca di Monza? (Il canonico Pacchiani, p. 70)
  • [...] qui non è irriverenza a Giovanni Rosini. A lui l'Italia deve gratitudine somma per avere ai suoi giorni rinfrancato il buon gusto nello scrivere, ripubblicando molti classici nostri. Ma pei suoi romanzi papaverici e per le sue strappature alla grande prosa della Storia d'Italia di Francesco Guicciardini e per le sue inqualificabili borie, no davvero. (Il canonico Pacchiani, p. 70)
  • Il nostro Pietro Frediani fu [...] pastore di professione, forse per maggiore rispetto ad Apolline Nomio; ma quando gli capitava faceva doghe per botti, vangava la terra, potava gli olivi, murava a secco. Imparò a leggere sulle lapidi mortuarie della bella e solenne Certosa di Calci presso Pisa, dove spesso andava a far due chiacchiere con quei frati che lo amavano e s'intrattenevano volentieri con lui stuzzicandogli l'estro con celie, con motteggi e con fiaschi di vino. Portava costantemente nel suo sacco da pastore la Divina commedia e la Gerusalemme liberata, una penna d'oca, una boccetta d'inchiostro, un quinternetto di carta, e sdraiato sull'erba o sopra un macigno, al rezzo d'una quercia o sull'orlo d'un torrentello, confortato dal sordo rumore dei rotoni dei mulini che saliva dal fondo della patria valle operosissima, o dal lene[5] mormorio delle foglie dei castagni, o dal fremito misterioso degli aguglioli dei pini, scriveva, come Orazio a Tivoli o Catullo a Sirmio, quelle sue poesie caserecce che il dimani tutti i suoi conterranei avrebbero conosciuto e mandato a memoria. (Un pastore poeta, p. 79)
  • [Pietro Frediani] Trincava beatissimamente, con una voluttà quale non avrebbe provato maggiore se lo avesser baciato tutte le Urì del paradiso maomettano, socchiudendo gli occhi, gettandoli in tralice e sorridendo da' precordi anche quando la nebbia gl'impediva la vista di chi gli stava dinanzi. Ma, s'è detto, il vino allora era buono, spumeggiava sincero amabile arzillo, non c'erano porcaggini e scelleraggini, come sangue di bue o gesso o acido solforico a gloria del codice penale, e, quel che più conta, costava poco, anzi nulla: una crazia toscana, cioè sette vili centesimi il fiasco! Verità che par menzogna per noi viventi sotto il sole della libertà e del progresso chimico. (Un pastore poeta, p. 79)
  • Codino per la pelle, Pietro Frediani [...] usava i calzoni corti e le calze lunghe legate sopra il ginocchio anche quando quella foggia era stata da mezzo secolo e più bandita dal mondo.
    Così vestito, con l'unghie sudice, tutto impregnato del puzzo di caprino, gli scarponcelli unti di sciugna, il bastone in mano e il saccapane a tracolla, si presentò un giorno nella libreria Nistri a Pisa, nella qual libreria, celebre pel nome di Sebastiano Nistri, col Bodoni ed altri onore e vanto dell'arte tipografica italiana, convenivano di quei tempi tutti i professori dell'Università e quanto di più colto v'era fra la cittadinanza.
    Come il libraio intese che quello zoticone voleva una Divina Comedia lo sbirciò quant'era lungo, poi, sogghignando e facendo l'occhiolino al dotto consesso, gli domandò:
    «La volete in musica?...
    Sorrisetto piccante del Frediani, e risposta prontissima:
    «La musica è nei versi...
    «Allora a voi.
    E gliene porse una copia, aperta, con le pagine a capo all'ingiù.
    «E costa?
    «Trenta paoli.
    Senza sconcertarsi, il pastore svoltiglia mezzo metro di cordino da una borsa di frustagno e vi caccia la mano. E pesca e ripesca, poi sospira perché i trenta paoli (pari a sedici lire e ottanta italiane) non ci sono.
    «Ma no, galantuomo, ho scherzato; costa tre paoli.
    «Signor mio, ne avrei pagati due volte trenta se gli avessi avuti, perché Dante non ha prezzo». (Un pastore poeta, pp. 82-83)
  • «Sovranamente bello», come di lui diceva la contessa Guiccioli, giovane, splendente di fama, rigorosamente aristocratico, circondato ognora da gentiluomini e seguito da servi, lord Byron era divorato con gli occhi, o quando usciva cavalcando su i Lungarno [di Pisa], o quando galoppava pel vialone delle Cascine o per quello che va ai Bagni di San Giuliano, o, più specialmente, fuori la porta alle Piagge da dove spingevasi per ogni via e viuzza e angiporto e magari traverso i campi, facendo in mille modi pompa di esimio cavalcatore. Durante quelle sue corse sfrenate costumava il poeta a un certo punto saltar giù di sella, e allora, infitto un paolo (moneta toscana d'allora) nella buccia d'un albero, oppur gittandolo in aria, di poi vi tirava con la pistola cogliendolo botta botta. (Lord Byron e il sergente Masi, p. 110)
  • [Lord Byron] Levavasi alle dieci, e dalle undici al mezzogiorno faceva colazione. È ameno a sapersi com'egli non mangiasse che di magro, solendo dire che il mangiar carne rende l'uomo feroce; ma il Poujolat[6] osserva accortamente che se non ne mangiava era perché l'idea dell'obesità lo spaventava; criterio accettabilissimo, mentre non c'è chi ignori come il grand'uomo fosse autolatra e come avrebbe dato a chius'occhi tutto il suo ingegno pur di non avere la bruttura della gamba più corta. Eppure è a quel piede scontorto ch'ei deve forse la sua universale rinomanza, perocché, come sentenzia lord Bacon, «chiunque ha nel suo corpo un difetto permanente per cui debba temere d'essere dileggiato, ha pur anco in sé un perpetuo sprone che lo eccita a redimersi». (Lord Byron e il sergente Masi, p. 110)
  • [Lord Byron] Usava il pranzo alle sette, finito il quale recavasi, acqua o vento, dalla contessa Teresa Guiccioli, la bella donna che, idolatrata, lo idolatrava, ma che pure, chiusi gli occhi «il suo Giorgio», doveva avvalorare anch'essa la verità espressa da Dante nella terzina che dice:
    Per lei assai di lieve si comprende | quanto in femina fuoco d'amor dura, | se l'occhio, o 'l tatto, spesso nol raccende. (Lord Byron e il sergente Masi, p. 111)

Geni e capi ameni dell'Ottocento[modifica]

  • [...] egli [Edmondo De Amicis], che sentiva nel cuore come l'Italia si facesse allora e quanto bisogno avesse di gioventù data alle armi, prese la via della milizia, e prima a Torino, fu poi, dal '63 al '65, uno dei più elogiabili ed elogiati allievi del Collegio militare di Modena.
    Sempre elogiabile veramente no. Un giorno dovendo egli attaccarsi alla tunica un bottone che gli ciondolava, vi si provò, ma fu un disastro. Il sergente di squadra scapeggiò, e, quasi ne derivasse la rovina d'Italia, con ghigna seria gli osservò: «Ella sarà buono a far versi, ma in quanto a attaccar bottoni è indietro di cent'anni!» Oh, prodigioso sergente! (cap. I, pp. 12-13)
  • Nelle scienze, oltre a glorie nostrane, campeggiava Maurizio Schiff, materialista e rinnovellatore della vivisezione. Le signore dell'aristocrazia guelfa ne avevano orrore, e l'odiavano a morte. Tormentatore, o, meglio, Torquemada di poveri e innocenti animali, lo Schiff, e con lui gli allievi suoi, lo era. Che cosa di vantaggioso a pro dell'uomo ritragga la scienza dallo scoperchiare la scatola ossea del cervello d'un cane, d'un gatto o d'un coniglio vivi, o dal praticar loro un buco nello stomaco, e traverso a quel buco ficcare stoppa o stracci o rimbrencioli di carta per vedere se con quei succulenti manicaretti si nutrano lo stesso che a complimentarli di una bistecca o d'un bel cavolo cappuccio, non so. So che la cosa è inumana. (cap. I, pp. 15-16)
  • Sul conto dello Schiff correva una scellerata voce, che, del resto, era vera. Secondo l'uso toscano, ogni anno in prossimità della Pasqua, parmi, c'è in ogni parrocchia la registrazione o «segnatura delle anime». Un prete, per lo più il cappellano stesso, in roccetto e stola, accompagnato da un abatucolo con penna, calamaio e scartafaccio, gira le vie della propria parrocchia, entra in ogni casa, e bussa o suona a ogni quartiere. Un anno o due prima dello «sfratto stupefacente», un prete suonò o bussò alla stordita anche all'abitazione dello Schiff. Avesse letto almeno il polizzino occhieggiante dalla porta del quartiere! Accorre la serva, una ragazza fiorentina battezzata e cresimata, e che, se non altro per sentito dire, sapeva bene chi era lo Schiff. La serva guarda, spalanca gli occhi, e senza misteri vola affannosa nello studio dello scienziato.
    «Signor padrone!... Di là c'è un prete colla stola.»
    Maurizio Schiff alza la testa, posa gli occhiali d'oro, s'alza dalla poltrona, s'incammina flemmatico nella sala d'ingresso, fa un lieve inchino, e in tutta la scolpita sua pronunzia ostrogota chiede:
    «Rewerendo, che ccosa vvolete?»
    «Sono venuto per segnare le anime...»
    «Anime? Qui ci ssono dei ccorpi!»
    Il prete scappa ancora per le scale, divorando i gradini a tre o quattro per volta. Quella ostrogotissima dinegazione dell'anima si riseppe subito, e l'aristocrazia nera fremé e divampò; mise in campo gli orrori della vivisezione, e Maurizio Schiff dové sloggiare dall'Italia! (cap. I, p. 16-17)
  • Povero Nicotera! Passava intiere giornate [recluso nel carcere borbonico di Favignana] steso lungo sul suo pagliericcio, sostentandosi quasi esclusivamente di latte, forse perché i dolori al petto cominciavano a torturarlo. Ma la fierezza indomita non lo abbandonava. Una sera un soldato napoletano vedendolo con la fronte appoggiata all'inferriata a croce del piccolo sportello della porta, gli si avvicinò, e nella sua rozzezza gli chiese:
    «Come stai?»:
    «Benissimo...»:
    «Ma staresti meglio se, invece che qui, tu fossi a Napoli, 'o paese mio.»:
    «No, rispose il Nicotera, perché a Napoli c'è il tuo re.»:
    E si ritirò. (cap. VIII, p. 202)

Note[modifica]

  1. Civinini era direttore del quotidiano fiorentino La Nazione.
  2. Vincenzio Nannucci (1787-1857), filologo e letterato italiano.
  3. toscanismo per "sbadiglio".
  4. Il Canova aveva preso a modello per la sua Venere Anadiomene la mano "candida, tornita mirabilmente" della contessa. (Leopoldo Barbiani, Fra matti e savi, p. 59).
  5. letterario per "lieve".
  6. Jean-Joseph-François Poujoulat (1808-1880), storico, giornalista e politico francese.

Bibliografia[modifica]

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