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Sandro Veronesi

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Sandro Veronesi nel 2012

Sandro Veronesi (1959 − vivente), scrittore italiano.

Citazioni di Sandro Veronesi

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Citazioni in ordine temporale.

  • Predicò con vigore – Iddio colpirà –, scatenò terrore e devozione – Iddio castigherà –, si agitò e si inginocchiò – solo Maria può salvarci –, producendosi in una di quelle prestazioni di eloquenza celeste che erano rinomate tra le quattordici o quindici – quella mattina sedici – vecchie.[1]
  • [...] fanno letteralmente ridere tutte le riserve che, negli anni, molti esperti e anche molti allenatori hanno accompagnato a Del Piero – cioè alla più forte seconda punta del mondo della sua generazione. Ma ormai abbiamo capito che Del Piero è più forte delle ingiustizie che subisce, delle cattiverie, delle incompetenze e dei calcoli utilitaristici di cui in tanti, nei suoi confronti, si rendono responsabili; ci ha già ampiamente dimostrato che, per lui, nessuna di queste avversità funzionerà mai da alibi per giustificare il declino, ma al contrario sono stimoli formidabili per prolungare e arricchire la sua già formidabile carriera.[2]
  • Perché Del Piero, appunto, è un capitano «naturale», nel senso più pieno e concreto del termine: quando è possibile sa far cambiare il corso delle cose con la propria forza, e sa assorbire con la stessa forza le grandi delusioni quando questo non è possibile.[2]
  • [A Claudio Ranieri e Jean-Claude Blanc, nel 2008] Non preoccupatevi di dare una nuova immagine della Juventus, recuperate piuttosto quella che ha sempre avuto: la storia dice che è quella giusta. Si può essere gentiluomini anche immersi nell'odio sportivo di mezza Italia, come hanno ben dimostrato Boniperti o l'avvocato Agnelli, e le Fiat le hanno sempre comprate anche i tifosi dell'Inter o della Fiorentina. Nulla viene a mancare, nell'integrità di un galantuomo, se i tifosi avversari ti fischiano e ti insultano. Anzi, questo è diventato nel tempo l'alimento principe della dieta bianconera: l'odio degli avversari, il livore, il rancore, gli insulti.[3]
  • [A Claudio Ranieri e Jean-Claude Blanc, nel 2008] Rendetevi conto, voi che avete preso in mano la società nel momento peggiore della sua storia, che la Juve non è stata odiata per più di un secolo a causa dell'antipatia dei suoi dirigenti o giocatori; che non è mai stata una questione personale; che la Juve è stata semplicemente un incubo infinito per qualunque avversario, perché vinceva, o lottava fino all'ultimo per vincere, ogni anno, e questo deve tornare a essere.[3]
  • [Nel 2008 in occasione al ritorno della Juventus in Champions League] Per un vecchio tifoso bianconero come me, in effetti, veder partire una stagione senza la Juve in serie A, o senza la Juve tra le favorite, o senza la Juve nelle coppe europee, com'è successo negli ultimi due anni, è stato come ritrovarsi in un posto veramente lontano, straniero, assurdo: in Alaska, in Patagonia. Sì, si può dire che a questo punto noi tifosi juventini siamo tornati a casa. Insieme a noi sono tornati a casa i nostri fuoriclasse, Del Piero, Nedved, Buffon, Camoranesi, Trezeguet, Chiellini, [Cristiano] Zanetti, che non hanno abbandonato la barca in difficoltà ma sono rimasti a soffrire e hanno puntato la carriera su questo ritorno. E un simile binomio tifosi-campioni, questo grumo di passione e di forza, di amore e di classe, di quantità e di qualità, rappresenta effettivamente la Juventus – la sua storia, la sua tradizione. Dunque, quando si parla di ritorno a casa si parla di una cosa vera, reale: perché la casa della Juventus è la battaglia per la vittoria.[4]
  • Tema: perché, tu che hai sempre creduto in Del Piero, hai sempre creduto in Del Piero? Svolgimento: io ho sempre creduto in Del Piero per un gran numero di ragioni. Così su due piedi me ne vengono in mente 61. [...] Ce ne sarebbero molte altre, ma mentre svolgevo il tema è venuta in mente una domanda anche a me, piuttosto urgente: come hai fatto, tu che non hai creduto in Del Piero, a non credere in Del Piero?[5]
  • Cominciamo col dire che Avatar, più che un film, è l'esperienza di un'innovazione. Solo che – e l'immenso successo di pubblico che il film ha già riscosso in tutto il mondo lo dimostra – si tratta di un'innovazione che non mette in crisi, non fa paura, non disorienta, ma al contrario rassicura, perché viene riconosciuta immediatamente come l'evoluzione di qualcosa che conosciamo bene. Del resto, queste sono le uniche innovazioni che possano godere fin da subito di grande consenso, essendo le altre – quelle rivoluzionarie, quelle di rottura – condannate a rimanere per molto tempo appannaggio delle élites. Ecco, Avatar appartiene indubbiamente alla prima categoria.[6]
  • E però, pur suonando tutte note che abbiamo già sentito, Avatar rischia di cambiare il cinema per sempre, tanto da far pensare che dopo, come si dice in questi casi, «nulla sarà più lo stesso». È il mondo di riferimento, ecco, che è nuovo; è quella via di mezzo tra cartoni animati e star system, tra reale e virtuale, che fin qui eravamo stati capaci di concepire, ma che ancora non era stata concretizzata in un'opera cinematografica di queste proporzioni. È un trasloco, ecco, poderoso, costoso, che ci porta tutti un po' più in là. È l'inizio di qualcosa.[6]
  • [Su Fernanda Pivano] Stavo per svenire - ed è stato lì che ho protetto il corpo della Nanda. L'ho protetto dal mio, dal danno che il mio stava per fargli. La sua stretta sul mio braccio era un attestato di fiducia totale; il suo vecchio corpo malato si affidava ciecamente al mio; se fossi andato in terra in quel momento me lo sarei tirato dietro, e gli avrei fatto più danni del cancro che lo rodeva. Perciò smisi di svenire, o per meglio dire rallentai lo svenimento, sviluppando uno sforzo assurdo per restare in piedi; mi guardai intorno, vidi che c'era Valeria un passo dietro di noi, attesi che Valeria facesse quel passo, le dissi in un orecchio di mettere il suo braccio al posto del mio sotto la mano stretta della Nanda, lei lo fece, meccanicamente, senza capire perché, e a quel punto, quando il corpo della Nanda era in salvo, staccato dal mio, al sicuro, svenni sul marciapiede. L'ho salvata. [...] Io non ho mai dato retta al consiglio che la Nanda mi dava, di stare alla larga dai marmocchi. Mi piacciono troppo. E credo che quella cosa che si scrive meglio senza bambini intorno, sicuramente vera per Kerouac o per Hemingway, per me, nel mio piccolo, non funzioni. Così, quando ho potuto mi sono riunito ai miei tre figli e, sempre quando ho potuto, ne ho perfino fatto un altro. Una femmina, stavolta, dopo tre maschi. Nina. Be' , ecco cosa vi dico: il tempo per la nascita di Nina scadeva a ferragosto dello scorso anno, ma Nina non ne voleva sapere di nascere. Non era pronta. 16 agosto, 17 agosto: niente. Poi è morta la Nanda. Poi Nina è nata. È una cosa, come ho detto. E, come ho detto, potete farne quel che volete.[7]
  • Cercare di definire la grandezza di Roger Federer è esercizio assai arduo di per sé, ma farlo in 35 righe è letteralmente impossibile, perché il tennis di Federer è un'esperienza di incredibile completezza e complessità. Anzitutto, per una di quelle rarissime caratteristiche che contraddistinguono pochissimi eletti, si tratta sempre di un'esperienza collettiva; la partecipazione al suo gioco attraverso lo schermo o dalle tribune non è mai una questione di tifo ma di chimica del cervello: i colpi dello svizzero arrivano a stimolare le endorfine, indipendentemente dal fatto che si parteggi per lui oppure no. È una questione di bellezza.[8]
  • Bè, tra questi titani Federer giganteggia da otto anni. Non è questione di vincere o perdere: che vinca o che perda Roger Federer è una tacca sopra al massimo previsto, per lui il display non è programmato. Eccede. Sorprende. Sorprende eccedendo.[9]
  • [Riferito alla Juventus e allo scudetto 2012-13] Quasi cinquant'anni dopo mi ritrovo a festeggiare questo ennesimo scudetto con la stessa gioia del primo (1967), e come sempre il passato riaffiora tutto insieme nello stesso momento, e si mescola al presente, ricreando il formidabile tutt'uno che è la patria che mi sono scelto: la zebra che corre nella savana mentre Haller mi prende in collo in Versilia e Vidal fa il cuore con le mani; le punizioni di Pirlo che coincidono con quelle di Platini, di Baggio e di Del Piero; Pogba che danza, Cabrini che si sgancia, Furino che copre; Bettega che incorna, Vialli che ritorna; Marchisio e Zidane che si passano la palla, Ibra che si fa rimbalzare addosso i difensori; Nedved che cambia passo, l'Avvocato che sorride, Barzagli che anticipa, Tardelli che contrasta, Montero che picchia, Scirea che si sgancia, Buffon che esce, Zoff che vola, Vucinic che fa l'assist, Inzaghi che la mette dentro, Rossi che la mette dentro, Vieri che la mette dentro, Trezeguet che la mette dentro; Lippi che alza le braccia; Conte che sventola la bandierina del corner...[10]
  • La storia che ti lega alla tua squadra del cuore è qualcosa di romantico [...]. Per un tifoso della Juventus è ancora più difficile da dimostrare in quanto è una squadra così vincente. Per cui sento un po' come un dovere da scrittore spiegare che la Juventus è la squadra che ha più vinto e perduto – e proprio sapendo perdere si impara a vincere. Amarla in questo modo dà ancora quel senso romantico di tifo che appartiene ad epoche passate.[11]
  • Prima di conoscere l'opulenza e la grandiosità delle Juventus che ci hanno fatto godere, [...] ne ho conosciuto la parte operaia, umile, quella che non si dà mai per vinta: una forza tipica dello stile Juventus. Poi fu un crescendo rossiniano...[11]
  • Essere stato taggato sui social con Roberto [Saviano] mi ha fatto capire cosa significhi ricevere insulti tutti i giorni, avere un corpo mediatico trafitto come quello di San Sebastiano: le frecce arrivano da tutte le parti. Non ci si può più limitare a prendere posizione solo una volta. E questo significa sporcarsi. Perché, se combatti nel fango, che tu vinca o perda alla fine qualche schizzo lo becchi comunque.[12]

La Gazzetta dello Sport, 25 aprile 1998.

  • Alessandro Del Piero non lo scambierei con nessuno, nemmeno con Ronaldo: partita dopo partita, in questi quattro anni, Del Piero mi ha confermato di essere un fuoriclasse straordinario, di quelli che segnano le epoche, e che vengono nominati tutti nello stesso fiato: Pelè, Crujiff, Maradona, Platini, Del Piero. I gol che ha fatto, la capacità di esserci nelle partite importanti, la crescita fisica e il miglioramento tecnico che ha mostrato sì, perché si può sempre migliorare, ma i fuoriclasse lo sanno, e i campioni no: tutto questo riguarda solo i geni del calcio, ne sono sicuro.
  • Fa quasi sempre vedere cose strabilianti, e anche quando non le fa vedere, quando lo picchiano e lo marcano in due – tre, come mercoledì sera contro il Paraguay, non manca di lasciare qualche ricordino nella fattispecie un assist e un tunnel. Unisce la raffinatezza del fantasista più sopraffino alla concretezza dell'uomo d'area più opportunista, e riesce a essere superiore nel calcio ultra – veloce di oggi, segno che è anche un grande atleta.
  • Io, che sono tra quelli che lo hanno creduto immenso fin dal primo momento (fin dalla tripletta contro il Parma del 1994, per quanto mi riguarda), posso solo testimoniare di quanto sia bello che un fuoriclasse così giochi nella squadra per cui si fa il tifo: e mi era successo soltanto con Platini, in tutta la mia vita, di credere tanto profondamente in un giocatore, nella sua naturale capacità di vincere da solo la partita o di consolare, con la bellezza del suo calcio, anche la peggiore sconfitta. Ci si sente protetti esteticamente, con lui in campo, e non si ha paura di nulla.

la Repubblica, 31 ottobre 2011.

  • In questo romanzo compaiono dei miracoli, ma solo quando il personaggio che li compie riversa altrove tutta la propria attenzione; Il re pallido è esso stesso un miracolo, ma l'autore nostro fratello non ne era consapevole, tutto preso com'era a sentirsi male attrezzato.
  • In questo senso va detto che Il re pallido, negli Stati Uniti dove le tasse sono una cosa seria, è stato classificato come un romanzo politico, ma la cosa più importante è che si tratta di un romanzo straordinariamente ricco e rigoglioso, pieno di storie terribili e meravigliose e soprattutto pieno di quel dolore la cui sopportazione fa dei suoi protagonisti – prima di diventare agenti del fisco, ma anche dopo – per l'appunto degli eroi.
  • Si può ben dire d'altronde che Il re pallido sia un romanzo sulla consapevolezza. Ma si può dire anche che sia un romanzo sull'attenzione – e ovviamente anche sull'inconsapevolezza e sulla distrazione. Soprattutto, si può dire che sia un grandioso, inaudito monumento alla Noia intesa però non in senso moraviano, cioè esistenziale, cioè sociale, ma proprio nel suo senso letterale, filologico, chimico, nella sua essenza di prodotto di, per l'appunto, attenzione e consapevolezza in dosi molto alte. Un gesto che nessuno aveva mai nemmeno concepito e che, viene da credere, sarebbe rimasto incompiuto comunque, nel senso che DFW non avrebbe probabilmente mai saputo terminarlo anche se il 12 settembre del 2008 non si fosse tolto la vita. In realtà, così come lo leggiamo, il romanzo è più che altro il frutto delle decisioni di Michael Pietsch, suo amico ed editor di Little, Brown che ha letto, studiato, filtrato e selezionato le oltre tremila cartelle lasciate da Wallace in hard disk, raccoglitori, quadernoni, notes, floppy disk, fasci di pagine stampate e fasci di pagine scritte a mano, per ricaravarne le – in lingua originale – circa cinquecento pagine che poi, divise in cinquanta capitoli compongono il romanzo inteso come prodotto editoriale.

La Gazzetta dello Sport, 19 maggio 2012.

  • Ho visto Roger Federer giocare a tennis. Ho visto la straordinaria eleganza che lo accompagna fin da quando entra in campo e saluta, prima ancora che abbia tirato un solo colpo. Ho visto la serenità che copre ormai definitivamente il ruggito interiore che di certo c'è ancora, dentro di lui, e che da adolescente aveva messo a rischio la sua carriera per le intemperanze che produceva, ma che ora non si manifesta più. Ho visto la sua perfezione. Perché il discorso è questo: egli è perfetto.
  • Si mette a giocare, ed è come se la sua persona – quelle spoglie mortali che lo rendono cosi biologicamente simile a tutti noi – sparisse. Al suo posto c'è il Tennis. C'è la stessa ragion d'essere di questo sport nobilissimo e ricco di padri gloriosi, al quale però è mancata per oltre un secolo una vera, definitiva incarnazione. Adesso c'è, ed è lui, e io lo sto vedendo per la prima volta dal vivo.
  • Tu lo guardi giocare e vedi il Tennis in purezza, così come nessun manuale, nessun maestro, nessun campione e anche nessun fuoriclasse della storia ha mai potuto fare. È nato cent'anni dopo l'invenzione del suo sport, eppure l'ha inventato lui – e questo la gente lo sente, lo capisce. Il pubblico non fa il tifo per lui, lo adora. «Roger, sei un Dio!», gli grida una voce coatta dagli spalti del centrale. Il coatto ha ragione: se gli sport hanno i loro dei, Federer è il Dio del tennis. È molto semplice, in fondo. È la cosa più semplice del mondo. È una vera divinità.

Sono integro, ma non del tutto...

Intervista di Teresa Ciabatti, iO Donna, 18 ottobre 2014.

  • Diderot diceva: ognuno si costruisce una statua interiore, e lo fa nel momento peggiore della propria vita, da adolescente, quando non sa ancora nulla di sé e del mondo. Poi passa il resto della vita a fare i conti con questa statua, la conserva o la distrugge. Se tu hai deciso che sei quello che non balla alle feste, dopo è complicato ballare. Bisogna riuscire a far questo, liberarsi dell'essere solitario, di quella statua interiore.
  • I figli inchiodano i padri a cose che loro non sanno, con intento vendicativo. Io lo facevo con mio padre. Eppure oggi sono le cose che mi mancano di lui, perché sono quelle l'identità vera di mio padre.
  • Per me le generazioni si alternano: alla commedia segue la tragedia. I nostri padri erano commedia, noi siamo tragedia. A loro, molto più che a noi, rompeva le scatole morire. Noi diciamo: chissenefrega, quando sarò morto sarò morto. Loro no, erano felici di vivere, più felici di noi, e quindi pretendevano il controllo fino alla fine. Tomba vista mare.
  • Vorrei che sulla mia tomba scrivessero "era un uomo buono", ma se non gli viene di scriverlo vorrà dire che non lo sono stato.

Caos calmo

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  • Devo sforzarmi di essere leggero come lei. Devo sintonizzarmi sulla frequenza purissima del suo fiatone, della sua spossatezza senza passato né futuro. Devo sforzarmi di stare anch'io dentro la bolla. Neve. Ormoni. Emozione. Silenzio. Ma il silenzio, non so perché, non riesco a sopportarlo. Devo parlare...
  • ...e comunque quella canzone dice bene, siamo solo incidenti in attesa di capitare...
  • Il caos. Però un caos gioioso, privo di drammaticità, perché i bambini, anche se non sono ancora usciti, hanno già cominciato a spargere qua fuori la sostanza che permette loro di sopravvivere agli adulti, quella specie di antistaminico naturale che rilassa un po' i genitori e li fa regredire, e li rende non solo compatibili ma talvolta addirittura complici del caos del quale loro, i bambini, si sentono parte: il caos delle loro camerette prima dell'ordine di rimettere a posto, il caos degli zaini al ritorno da scuola, degli astucci, dei cassetti, dei quaderni; il caos semplice e fondamentalmente calmo nel quale crescebbero tutto il tempo, se gli fosse permesso, senza comprendere fino in fondo la maggior parte delle cose che accadono ma, proprio per questo, con la capacità di viverle molto intensamente.
  • I topi non avevano nipoti. [palindromo]
  • La gente pensa a noi infinitamente meno di quanto crediamo. Non ci pensa quasi mai, questa è la verità.
  • Noi trasferiamo sui figli le nostre emozioni. Fino ad una certa età quello che loro provano riguardo a qualsiasi cosa non è che la riproduzione o una loro elaborazione di ciò che proviamo noi genitori. Non di ciò che ci sforziamo di manifestare, attenzione: di ciò che proviamo veramente.
  • Ogni parola, del resto, anche la più ridicola, pronunciata poco prima della morte di una persona danza sul confine oscuro della profezia, ma non bisogna scordare mai che il tempo scorre in un verso solo, e ciò che si vede ripercorrendolo all'indietro è fuorviante. Il tempo non è palindromo: partendo dalla fine e risalendolo all'indietro tutto sembra assumere significati diversi, inquietanti, sempre, e non bisogna farsi impressionare da queste cose.
  • Ogni tanto bisogna prendere alla lettera le parole che si dicono ai bambini.
  • Ormai è il mondo, stellina, a non essere normale. Polimeri, ormoni, telefonini, benzodiazepine, debiti, carrelli del supermercato, ordinazioni al ristorante, negozi di occhiali, A è innamorato di B ma B non è innamorato di A, i soldi finiscono sempre rubati, ogni morte ha un colpevole. Ecco cos'è il mondo. Non è più normale.
  • Un bimbo che cerca di sollevare un masso davanti alla madre; ci prova e ci riprova, accanitamente, con tutte le sue forze ma non ci riesce; allora dice alla madre: "Non ce la faccio mamma" e la madre gli dice: "Usa tutte le forze che hai a disposizione, e vedrai che ci riuscirai". Il bambino le dice che l'ha già fatto, ce le ha già messe tutte, le sue forze, e la madre gli risponde: "No tesoro, non le hai ancora usate tutte. Non mi hai ancora chiesto di aiutarti".
  • Bravo, dammi la mano e gira i tacchi, che è meglio. Tornatene in ufficio – fatti questi sei chilometri a fette. E licenziami pure, se vuoi. Mi hai appena detto che sono un genio: licenziami, bravo. Pieno così, di geni, nel tuo mega-gruppo del cazzo. [...] Ecco, è andato. E se mai doveva andarsene anche quanto di marcio c'è dentro di me – perché c'è, c'è sempre stato, e io l'ho sempre saputo: non sono mai stato l'uomo buono, forte ed eroico che ho sempre sognato di diventare da bambino. Dicevo, se mai doveva andarsene quanto di marcio c'è in me, allora se n'è andato insieme a lui, adesso, un momento fa. Non ho sfruttato la mia occasione, non cavalcherò con gli uomini potenti, ma oggi mi sono costruito qualcosa di fenomenale. Un ricordo talmente grande che non potrò parlarne con nessuno. Poi, un giorno, se mi renderò conto di essere davvero diventato quell'uomo buono e retto che sognavo di diventare da bambino... lo dimenticherò.

Ora però devo dirla io a voi, una cosa importante: ci siete ancora tutti? Dopo vi prometto che starò zitto, perché il silenzio non mi fa più paura, ma adesso vi chiedo di fare attenzione a quello che ho da dirvi. È una cosa decisiva che ho capito in questo momento, e che riguarda anche voi. Jolanda, ascoltami, perché a te ti riguarda di sicuro. Ma riguarda anche te, Marta, che non riesci a trovare pace, e anche te Carlo, con la tua fissa per Peter Pan. E forse anche te, Jean-Claude. Forse ci riguarda davvero tutti. Ascoltatemi bene, allora: la palla che lanciammo giocando nel parco è tornata giù da un pezzo. Dobbiamo smettere di aspettarla.

I difensori

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  • Per venire amati da me non è mai stato necessario essere dei campioni, se si giocava in difesa nella Juve [...] È il fatto stesso che loro difendessero ad appassionarmi, perfino a commuovermi: là davanti un nuvolone di gloria, coi più forti attaccanti del mondo che si danno il cambio a gonfiare la rete [...]; a centrocampo uno scroscio continuo di genio, estro e furia agonistica [...]; in porta, vabbe', è stata quasi solo leggenda [...]; ma è in difesa che si è sempre costruita la supremazia della Juventus, in questa scuola di vita fatta di attenzione, tempismo, corsa, fatica e sacrificio che non può tramontare mai, perché chiunque abbia osato contraddirla, concependo un calcio solo offensivo, è sempre stato spazzato via.
  • Francesco Morini. [...] La bellezza fisica non lo danneggiò. [...] Prese talmente sul serio il compito di non far segnare nessuno che non segnò mai nemmeno lui.
  • Lilian Thuram. Battilo tu, uno così, in qualunque sport. Era il numero 1, poteva andare dove voleva, e volle la Juve.
  • Ernesto Castano. [...] Si era in piena Guerra Fredda: la Russia e l'America avevano l'atomica, noi [juventini] avevamo lui.
  • Pietro Vierchowod. La sua faccia da rettile estinto, il suo fisico da bronzo di Riace, i suoi gol di puro odio.
  • Giorgio Chiellini. Come può uno scoglio arginare il mare:[13] col punto interrogativo è Lucio Battisti, senza è Giorgio Chiellini.
  • Sergio Brio. Come diceva Bud Spencer: "Non c'è cattivo più cattivo di un buono che diventa cattivo". Fisico da Troll, voce in falsetto e animo sensibile.
  • Andrea Fortunato. Arrivò [alla Juventus] a 21 anni ed era così forte che uno squadrone onnipotente se lo prese di prepotenza quando ne aveva 24.
  • Igor Tudor. Ah, l'insolenza delle sue giocate, l'eleganza dei suoi svarioni!
  • Alessandro Birindelli. L'umiltà fatta persona. [...] Quando venne convocato in nazionale disse: "Io in nazionale? È la fine del calcio".
  • Jonathan Zebina (e il suo doppio). Ragazzo raffinato, calciatore animalesco. Entusiasmante a volte, altre volte sconcertante. Fisico straripante ma anche fragile e incline all'infortunio. Non si faceva in tempo a giudicarlo che toccava cambiare il giudizio.
  • Zdeněk Grygera. Per la sua solidità e la sua umiltà sarebbe stato l'ideale nelle squadre [juventine] di Trapattoni, Lippi, Ancelotti e Capello. Ma ha avuto Ranieri, ha avuto Zaccheroni, ha avuto Delneri. Ha avuto sfortuna.
  • Massimo Carrera. Scarpone? Pilastro!
  • Paolo Montero. Egli non odiava, era odiato. Non retrocedeva, faceva retrocedere. Non dimenticava, non sarà dimenticato.

Il colibrì

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Incipit

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Il quartiere Trieste di Roma è, si può ben dire, un centro di questa storia dai molti altri centri. È un quartiere che ha sempre oscillato tra l'eleganza e la decadenza, tra il lusso e la mediocrità, tra il privilegio e l'ordinarietà, e per adesso tanto basti: inutile descriverlo oltre, perché una sua descrizione potrebbe risultare noiosa, all'inizio della storia, addirittura controproducente. Del resto, la migliore descrizione che si può dare di qualunque posto è raccontare cosa vi succede, e qui sta per succedere qualcosa di importante.

Citazioni

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  • Dovrebbe essere noto – e invece non lo è – che il destino dei rapporti tra le persone viene deciso all'inizio, una volta per tutte, sempre, e che per sapere in anticipo come andranno a finire le cose basta guardare come sono cominciate. (Un filo, un Mago, tre crepe (1992-95))
  • Quando siamo colpiti dal lutto censuriamo la nostra libido, mentre è proprio quella che può salvarci. Ti piace giocare a pallone? Giocaci. Ti piace camminare in riva al mare, mangiare la maionese, dipingerti le unghie, catturare le lucertole, cantare? Fallo. Questo non risolverà nemmeno uno dei tuoi problemi ma nemmeno li aggraverà, e nel frattempo il tuo corpo si sarà sottratto alla dittatura del dolore, che vorrebbe mortificarlo. (Mascherina (2012))
  • Tu sei un colibrì perché come il colibrì metti tutta la tua energia nel restare fermo. Settanta battiti d'ali al secondo per rimanere dove già sei. Sei formidabile, in questo. Riesci a fermarti nel mondo e nel tempo, riesci fermare il mondo e il tempo intorno a te, certe volte riesci addirittura anche a risalirlo, il tempo, e a ritrovare quello perduto, così come il colibrì è capace di volare all'indietro. (Terza lettera sul colibrì (2018))

Incipit di alcune opere

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Gli sfiorati

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Il suo olfatto era già sveglio abbastanza da straziarlo con un pesante tanfo di stalla.[14]

Un dio ti guarda

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Io sono ancora lì. La mia testa, il mio cuore, il mio corpo e tutto ciò che ho avuto di senziente sono sempre rimasti lì. E ora che sono morta posso dirlo: la mia anima è lì – forse c'è sempre stata. Io sono nata per vivere quell'ora e mezza.[14]

Borgo San Giuda non era nemmeno più un paese, era un villaggio. Settantaquattro case, di cui più della metà abbandonate, un bar, uno spaccio di alimentari e la chiesa con la sua canonica – spropositate, in confronto al resto. Fine. Niente giornalaio, niente barbiere, niente pronto soccorso, niente scuola elementare: per tutto questo, e per gli altri frutti della civiltà, bisognava andare a Serpentina, oltre il bosco, oppure a Doloroso, a Massanera, a Gobba Barzagli, a Fondo, a Dogana Nuova, o addirittura giù a Cles. Però c'era un fabbro, per dire, Wilfred, che faceva i chiodi a mano e sembrava Mangiafuoco, e un cimitero con oltre trecento tombe. Vivere lì non aveva senso, ma ci vivevamo in quarantatré – anzi, in quarantadue, da quando era morto il vecchio Reze'. Era un posto che non esisteva quasi, e nessuno riuscirà mai a capire perché quello che è successo sia successo proprio lì, dove non succedeva niente.

Note

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  1. Da Brucia Troia, Bompiani, 2007.
  2. a b Da Ale capitano, la scelta giusta, La Gazzetta dello Sport, 13 giugno 2008.
  3. a b Da La vera benzina di noi «gobbi», La Gazzetta dello Sport, 5 luglio 2008.
  4. Da Le regole della casa bianconera, La Gazzetta dello Sport, 31 agosto 2008.
  5. Da Credere in Ale, La Gazzetta dello Sport, 12 novembre 2008.
  6. a b Da È vero, Cameron può cambiare il cinema, La Gazzetta dello Sport, 16 gennaio 2010.
  7. Da Omaggio a Nanda Pivano - Quando ho tenuto per mano un mito, la Repubblica, 14 luglio 2010.
  8. Da Federer, questione di bellezza. Numero 1 anche quando non lo è, La Gazzetta dello Sport, 25 gennaio 2012.
  9. Da Federer un esempio di perfezione come Comaneci, Coppi, Jordan e Alì, La Gazzetta dello Sport, 21 marzo 2012.
  10. Da Come diventare tifoso juventino da una convalescenza in ospedale , gazzetta.it, 6 maggio 2013.
  11. a b Dall'evento Gli incontri del J-Museum; citato in Amore inevitabile: Sandro Veronesi racconta la sua Juve, Juventus.com, 18 ottobre 2014.
  12. Da intervista di Simonetta Fiori, Su la testa: dialogo con Roberto Saviano e Sandro Veronesi, Rep.repubblica.it, 24 novembre 2018.
  13. Cfr. Lucio Battisti, Io vorrei... non vorrei... ma se vuoi: «Come può uno scoglio | arginare il mare. | Anche se non voglio, | torno già a volare.»
  14. a b Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia

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Voci correlate

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Altri progetti

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Opere

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