Bernard Berenson

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Bernard Berenson

Bernard Berenson, pseudonimo di Bernhard Valvrojenski (1865 – 1959), critico e storico dell'arte statunitense di origine lituana.

Citazioni di Bernard Berenson[modifica]

  • Avrei voluto mettermi sulle cantonate col cappello in mano a implorare i passanti perché vi lasciassero cader dentro i loro minuti non adoperati. (da Abbozzo per un autoritratto, traduzione di Arturo Loria, Electa, 1949, p. 182)
  • Credo che un vero amore per l'arte sia un dono, quanto il crearla; e può anche essere che entrambi scaturiscano dalla stessa sorgente mentale.[1]
  • Il presente mi affascina, perché è relativamente facile da seguire sebbene più incomprensibile del passato.[1]
  • La coerenza richiede di essere ignoranti oggi come lo si era un anno fa. (da Notebook, 1892)
  • [Su Piero di Cosimo] Ma il vero patriarca dei pittori appartenenti alla cosiddetta età dell'oro fiorentina non fu Cosimo Rosselli, bensì Piero, allievo di Cosimo e poi a lungo il primo aiutante della sua bottega. Egli rappresentata una versione più debole del lato fantastico di Leonardo, così come il Baldovinetti, per il suo sperimentare nuove tecniche pittoriche, può considerarsi una versione più debole del lato scientifico di quel poliedrico genio. Da lui ci aspetteremmo, perciò, un vasto numero di appunti per le sue strane e bizzarre visioni; ma nulla si è conservato fino a noi. Scomparso è perfino il taccuino di schizzi di animali che il Vasari dice aver visto nella raccolta del Duca Cosimo.[2]
  • [A proposito di Giovanni Pugliese Carratelli] Questo Pugliese è uno dei giovani più colti, più intellettuali, e al tempo stesso più fini e delicati che io abbia mai incontrato.
  • [Nel 1952 a Jacqueline Bouvier, futura sposa di John F. Kennedy] Le ragazze americane dovrebbero sposare giovanotti americani. Calzano meglio.[3]
  • Nei primi giorni del dicembre 1888, venivo dal Pireo sopra un piccolo piroscafo mercantile, che doveva lasciarmi a Messina. Il mare ci castigò con una delle sue più matte burrasche, calmandosi poi, mentre ci avvicinavamo alla Sicilia. Salito sul ponte io guardai al firmamento cristallino e vidi una bianca curva seguirlo fino a un punto che mi sembrò lo zenit. Allora chiesi che fosse mai quello che gli occhi scoprivano. Mi fu risposto: «È l'elevazione dell'Etna che s'inarca per adattarsi alla curva del cielo».
    Illusione? Realtà? Posso solo dire che non ho più dimenticato questa straordinaria visione. (citato in Rina La Mesa, Scrittori stranieri in Sicilia, Cappelli, 1961)
  • Pare che l'arte fiorisca meglio là dove l'uomo deve correggere la natura, dove non è scoraggiato dalla sua abbondanza. (da Tramonto e crepuscolo)
  • Stamani mi sono levato alle ore 4'45 e mi sono messo al balcone della mia stanza per vedere l'alba sul'Etna. Il suo colore era argento e viola sopra un delicato rossore, che sembrava vermiglio di dentro. In vetta un diadema di neve, e sotto, la collana delle nubi. La grande altezza della montagna non appariva tale per via dei suoi morbidi e lunghi fianchi. (citato in Rina La Mesa, Scrittori stranieri in Sicilia, Cappelli, 1961)
  • Velázquez, che fu non solo il più glorioso, ma per molti lati il più fedele dei suoi seguaci [del Caravaggio].[4] (da Del Caravaggio, delle sue incongruenze e della sua fama, 1951)
  • [Sui mosaici di Monreale] Visione anticipante del Paradiso, quanto la Gerusalemme tutta d'oro del libro degli Inni.[5]

I pittori italiani del Rinascimento[modifica]

Incipit[modifica]

Tra le scuole italiane di pittura, quella che esercita la più forte e durevole attrattiva sugli amatori d'arte è senza dubbio la veneta.[6]

Citazioni[modifica]

  • L'amore della pittura non s'era spento; e il Longhi illustrò agli amatori veneziani la loro vita, negli aspetti domestici e nelle esibizioni eleganti. Nelle scene di toeletta par di sentire il chiacchericcio del barbiere imparruccato e nelle scene di sartoria il pettegolezzo della servettina; alla scuola di ballo, la leggiadra musica del violino. Mai una nota tragica. Tutti stanno a vestirsi, a ballare, fanno inchini, pigliano il caffè; come se al mondo non ci fosse da far altro. (p. 34)
  • Ne consegue che nell'arte della pittura, – in quanto distinta, si osservi bene, dall'arte del colorire – quello che conta è stimolare in qualche modo la coscienza dei valori tattili; affinché il dipinto valga almeno l'oggetto rappresentato, nella capacità di stimolare l'immaginazione tattile. (p. 41)
  • In che modo un oggetto, che non mi dà nessun piacere a riconoscerlo nel vero, diventa, in pittura, l'origine d'un godimento estetico? E in che modo un oggetto, piacevole in natura, mi dà un piacere più e più intenso, a ritrovarlo in un'opera d'arte? La risposta, a mio vedere, dipende dal fatto che l'arte esalta ad insolita attività i comuni processi psichici, da cui derivano tutti, o quasi, i nostri piaceri; e li immunizza da sensazioni fisiche disturbatrici, che ingenerano stanchezza. (p. 42)
  • Giotto rinato, che ripiglia il lavoro al punto dove la morte lo fermò; che immediatamente fa suo quanto era stato trovato durante la sua assenza; che approfitta delle nuove condizioni e delle nuove richieste: — immaginate questo miracolo, e capirete Masaccio. (p. 49)
  • Allora non esistevano professioni scientifiche nello stretto senso della parola; e siccome l'arte, in qualsiasi forma, costituiva l'occupazione d'una gran parte della popolazione maschile fiorentina, accadde, come doveva accadere, che molti ragazzi con le capacità naturali di un Galileo, furono invece instradati nelle botteghe a diventare artisti. [...] Questo fu esattamente il caso del più anziano fra i maestri della nuova generazione: Alesso Baldovinetti, nelle cui scarse testimonianze superstiti, non è traccia di sentimento o interesse puramente artistico. Ed è poco men vero di contemporanei più giovani d'Alesso, ma di lui molto meglio dotati: Antonio Pollajuolo e Andrea Verrocchio. (p. 58)
  • Di quanto finora abbiamo detto sul movimento, sarebbe difficile trovare esempio più valido d'una o due opere del Pollajuolo; che diversamente dalla più parte delle cose ch'egli produsse, e nelle quali è poco più che sforzo e ricerca, son veri capolavori d'un'arte che esalta il nostro senso vitale. Consideriamo per prima la stampa «Battaglia di nudi». Che cos'è che ci fa tornare a guardarla con piacere sempre nuovo e cresciuto? Non sono i volti della maggior parte delle figure, o i corpi appena men truci dei volti. Non è l'arabesco decorativo di tutto il disegno, che ha certo grande bellezza, ma non proporzionata al fascino che l'opera esercita su di noi. Ed è ancora meno, per la maggior parte di noi, un qualsiasi interesse per la tecnica o la storia della incisione. Il piacere che ci dànno queste figure che combattono selvaggiamente, deriva da una loro facoltà di comunicarci energia ed intensificare immensamente il nostro senso vitale. (p. 61)
  • [Sulla Battaglia di dieci uomini nudi di Antonio del Pollaiolo] Guardate il combattente caduto, e l'altro che gli si china addosso, ingegnandosi tutti e due di pugnalarsi. Il caduto punta il piede sulla coscia dell'avversario, cercando con uno sforzo tremendo di tenerlo discosto. E quest'altro, gira come un perno, afferrandosi alla testa del caduto, e non meno strenuamente vuol mantenere il proprio vantaggio. (p. 61)
  • [Sulla Battaglia di dieci uomini nudi di Antonio del Pollaiolo] I significati di questi sforzi muscolari e di queste pressioni sono resi in modo che non possiamo a meno di realizzarli; per così dire, noi ci sentiamo imitare tutti questi movimenti, con l'energia ch'essi richieggono, e senza la minima fatica da parte nostra. Se tali impressioni proviamo, senza bisogno d'alzare un dito, che cosa sarebbe a trovarci materialmente impegnati nell'azione! Mentre dura l'incanto, in una ipertesia non acquistata a mezzo di droghe, e non comperata a spese della nostra vitalità, è come se nelle vene ci corresse un elisir di vita, non già il nostro torpido sangue. (p. 61)
  • [Su Antonio del Pollaiolo] E osserviamo quel trionfo di movimento anche maggiore: «Ercole che strangola Anteo». Nel realizzare la presa dell'Ercole solidamente piantato sulla terra, il gonfiarsi dei polpacci sotto il pondo che li grava, il violento rovesciarsi del torace, la forza soffocante di quella stretta; nel realizzare il supremo sforzo d'Anteo che con una mano ricaccia addietro la testa d'Ercole e con l'altra cerca di scrollarne il braccio, è come se una fonte d'energia ci ribolla sotto ai piedi e salga per le nostre vene. (pp. 61-62)
  • Con la morte dei Lorenzetti, la scuola senese entrò in una decadenza da cui non riuscì più a sollevarsi. Ebbe ancora momenti che lasciavano sperare, ore di consunta bellezza, ma non più quel rifluire d'energie senza di che l'arte è condannata all'esaurimento. Il Barna, Bartolo di Fredi, Taddeo di Bartolo a volte rintracciano un raggio dello splendore martiniano o lorenzettiano. E Domenico di Bartolo tenta alla bell'e meglio di suscitare nuova vita, introducendo forme ed atteggiamenti che i grandi fiorentini avevano allora salvati dal caos e definitivamente fissati. Ma egli non sentiva il vero significato di coteste forme ed atteggiamenti, connessi ai valori tattili e di movimento; e i colleghi e concittadini ebbero buon gusto a preferire, alla sua rettorica eroica e al falso naturalismo, i modi irreali ma amabili d'una tradizione antica e venerata. (p. 102)
  • Dotatissimo fra i talenti locali che presero coscienza di sé sotto l'impulso di Benozzo, fu Lorenzo da Viterbo, morto assai giovane, lasciando nella sua piccola città alcune grandi pitture. Una cappella da lui affrescata, e d'un insieme esuberante, è piena di splendidi difetti e promesse più splendide ancora. Raramente si vede cerimonia ariosa come questo «Sposalizio della Vergine», festoso e tuttavia monumentale popolato di solenni messeri, composte matrone, e giovani orgogliosi e brillanti, più adatti a corteggiare Penelope che le vergini galilee. (p. 115)
  • Molto diverso fu Niccolò da Foligno, per taluni riguardi fondatore della scuola umbra in senso ristretto; ma che poi in realtà è la scuola di Perugia e della sua vallata: primo pittore nel quale pienamente si rivela il temperamento ora appassionato e violento, or mistico ed estatico, dei conterranei di San Francesco. Considerato unicamente come illustratore, Niccolò occupa un posto eminente. Con indiscutibile convinzione coglie la delirante angoscia del divoto che rivive la Passione di Cristo fino a sentire in sé il tormento delle Stimmate, e medita i dolori di Maria finché gli par d'essere egli stesso trafitto dalle Spade. Niccolò sente acutamente, si esprime senza attenuazione e non accetta compromessi. (p. 115)
  • Il solo frammento considerevole che di mano dell'Altichiero resta in Verona: l'affresco in Santa Anastasia, dove tre gentiluomini della famiglia Cavalli son presentati alla Vergine dai loro santi patroni, è senza dubbio fra le grandi opere degli ultimi del Trecento. L'ampia semplicità dell'impianto, l'araldica magnificenza dei costumi, la solennità dei santi, la suggestività della Vergine, i graziosi visi degli angioli, assicurano al pittore, fra i seguaci di Giotto, un posto che neanche a Firenze sarebbe stato inferiore a quello d'altri; incluso l'Orcagna, col quale l'Altichiero ha una rassomiglianza impreveduta. (p. 137)
  • Fra i giovani che corsero a Padova, nessuno più di Cosimo Tura fu naturalmente dotato, nessuno approfittò più voracemente dell'esempio di Donatello, ed ebbe più alto destino. Perché Tura fondò una dinastia di pittori, che non soltanto signoreggiò la natìa Ferrara, ma tutte le terre Estensi e la regione da Bologna a Cremona. E fu il patriarca da cui discesero Raffaello e Correggio. (p. 159)
  • [Su Cosmè Tura] È probabile che egli risentisse di Donatello eccessivamente; e che i primi capolavori di Mantegna gli avessero fatto addirittura girare il capo. Chi sa, del resto, a quale pittura medievale egli reagiva: una pittura floreale, larvale; e in quella sua reazione, egli esagerò esasperatamente l'unico principio che a Padova era riuscito a conquistare. Hokusai, nell'estrema vecchiezza, soleva firmarsi: «L'uomo impazzito per il Disegno». Tura avrebbe potuto firmare, tutta la vita: «L'uomo impazzito per i Valori Tattili.» (p. 160)
  • Così Tura è amatissimo; come un gran maestro del grottesco, e del grottesco araldico, che ne costituisce la forma più eletta. I suoi lavori, non meno che di grottesco inconscio, pullulano d'un grottesco perfettamente voluto. Adora strane cose marine, e cose terrestri più strane che mai. Ama le bestie simboliche; e quando nel «San Giorgio e il drago» dipinge un cavallo, gli dà, come un blasonista, una superba testa araldica. (p. 161)
  • Il Francia, che una finitezza meticolosa, e i visetti dei suoi angioli, e un sentimentalismo quietista resero popolarissimo, sul piano universale dell'arte ha scarsa importanza. Cresciuto come orefice, divenne pittore in anni maturi, senza il tirocinio necessario ai requisiti fondamentali dell'arte figurativa. Ma prima di cadere in enfasi che preannunciano quelle de' suoi conterrannei d'un secolo appresso, il Francia, nella qualità del sentimento, è almeno all'altezza del Perugino. Nessun dipinto dell'umbro è solennemente grazioso, tenero, e pervaso tuttavia di religioso timore, come uno che del Francia si vede a Monaco; con la Vergine in atto di genuflettersi, le braccia incrociate sul seno, al Bambino giacente fra le rose. (p. 165)
  • Timoteo Viti, nella «Maddalena» a Bologna e nell'«Annunciazione» a Milano, come pittore di figura, vale almeno il miglior Francia. Ma non per cotesti due dipinti qui si rammenta: piuttosto, come primo maestro di Raffaello, e dal quale Raffaello ereditò, comunque indebolite, non poche tradizioni originarie del patriarca Tura. Occorre appena avvertire che, nelle condizioni in cui gli giunse, era questa un'eredità che Raffaello avrebbe fatto bene a non accettare senza benefizio d'inventario. E a nulla avrebbe mai potuto servirgli, s'egli non vi avesse aggiunto i tesori fiorentini. (pp. 165-166)
  • [Sulla Scuola veronese di pittura] Nei pittori veronesi del Quattrocento si notano due tendenze distinte. Quella che si manifesta più chiaramente ed energicamente in Domenico Morone, era di respingere in blocco l'eredità medievale, e aderire alle forme ed atteggiamenti introdotti dal Mantegna. L'altra tendenza, capeggiata da Liberale, cercava piuttosto di salvare, del vecchio repertorio figurativo, quanto potesse trovare un compromesso con le nuove formule. Questo partito tradizionalista fu così tenace da portare in salvo fino al Cinquecento il suo patrimonio; e la scuola veronese cinquecentesca risultò appunto dalla fusione dei due movimenti specificati. (p. 167)
  • Domenico Morone lo conosciamo soltanto nell'ultima fase. La sua opera più rilevante rimastaci, ora alla Reggia mantovana: un dipinto divertente che raffigura la cacciata dei Buonaccolsi per parte dei Gonzaga, è di quelle battaglie rinascimentali che hanno più l'aria d'un galante carosello che d'una carneficina. Squisiti cavalieri, su giannetti educatissimi, vanno accennando forbite schermaglie; ed a volte si buttano l'uno contro l'altro, quasi volessero far sul serio. Ma è evidente che non hanno intenzioni cattive, e solamente cercano pose da cui risalti il loro grazioso modo di cavalcare, l'elasticità delle membra, e il brio dei destrieri. Molto armoniosamente si tengono aggruppati in mezzo alla gran piazza, cinta di facciate bizzarre, sullo sfondo di monti lontani. (p. 167)
  • [Su Domenico Morone] L'artista che finì in questo stile, deve aver cominciato strenuamente; perché in arte, come in amore, «non è premio che pel valoroso». Infatti, a San Bernardino, esistono affreschi rovinati, dove non si scorge preoccupazione d'eleganza e di grazia, ma ogni sforzo di conquistare la forma e il movimento. A vedere cotesti affreschi, viene da chiedersi se l'autore non abbia per avventura studiato a Padova. Scialbi riflessi delle sue vigorose tendenze giovanili traspajono anche dalle opere degli allievi; ed altra prova di certa superiorità intellettuale può essere nel fatto che questi allievi, lasciando da parte il Caroto, riuscirono i migliori della loro generazione. (p. 167)
  • Dei seguaci del Morone può trattarsi così in gruppo, essendo le loro affinità assai più rimarchevoli delle differenze. Non che ciascuno non introducesse le inevitabili novità del proprio temperamento. Francesco Morone è il più severo, come se formatosi quando il padre era ancora nella fase arcaica ed impegnativa. La sua «Crocifissione» a San Bernardino di Verona, con quelle solide figure e la croce che terribilmente giganteggia sull'orizzonte, è fra le più ispirate interpretazioni del tema sublime. Francesco andò poi perdendo di vigoria, non già di sentimento poetico; che s'esprime soprattutto nei cieli, popolati di rosse, bronzine nuvolette, tocche dalle luci trasfiguranti del tramonto e dell'alba. Quasi gigionesco è il suo dono di fondere figure e paese in un significato romantico. Il suo «Sansone e Dalila» al Poldi-Pezzoli ci trasporta in un mondo di soavi nostalgie, di desiderî che non vorremmo compiuti, in una lirica atmosfera che, a mo' di musica, rasserena il senso della vita. (p. 168)
  • Girolamo dai Libri, fra gli allievi di Domenico, ebbe forse più ingegno e dette di più. Non solo quanto a saldezza di forme ed evidenza di azioni, ma in una più matura realizzazione paesistica. Se non un maestro, fu almeno un mago del paesaggio. Quali visioni d'una natura grandiosa e pur umanissima, frequentata d'immagini di poesia, soffusa di luce tepida e quieta! E che senso delle lontananze; come nella «Madonna col Figlio e due santi» alla galleria di Verona, dove le tre figure come archi incorniciano armoniche apriture d'acque e di campi, monti e praterie. Di quale imponderabile mancò Girolamo, a riuscire un gran compositore spaziale, un altro Perugino? (pp. 168-169)
  • Liberale fu allevato come miniaturista; e poiché le tradizioni resistono più a lungo nelle arti minori, e ciò è forse dovuto che, tutta la vita, nei tipi e negli schemi coloristici, Liberale tanto ritenne della vecchia scuola. (p. 169)
  • Cavazzola, il più giovane della schiera, si sentì a minor agio in quelle tradizioni, non ebbe il genio per reagire ad esse fruttuosamente, e fuorché nei ritratti e nei paesi, veramente risulta un po' ingrato. Ma a volte, come nel ritratto a Dresda, ha l'intensità d'un Durero, pur serbando il fare ampio della sua scuola. E nello sfonfo della «Deposizione» di Verona, anticipa di tranquilli effetti del Canaletto. (p. 169)
  • Gli inizi furon brillanti; e Liberale era ancor quasi ragazzo, quando intraprese miniature che, senza eguagliare le miniature di Girolamo da Cremona, sono fra le più belle eseguite in Italia. Belle per la vivacità dell'azione, per lo straordinario vigore coloristico, e talora non remote dalle solitarie altezze del Disegno Immaginativo. (pp. 169-170)
  • Il miglior discepolo di Liberale fu Francesco Caroto, nel complesso il più abile pittore veronese della sua generazione. A Mantova, entrò in diretto contatto col Mantegna; e perciò ne risentì più profondamente di altri concittadini, trovandosi altresì preparato a conformare il proprio stile a quello dei veronesi mantegneschi. Le due tendenze di cui parlammo, confluirono e si fusero in lui perfettamente, senza perdere le proprie qualità. Ma tali qualità non avevano nulla d'intellettuale; né il Mantegna dell'ultimo periodo poteva inculcare a Caroto la disciplina di cui questi aveva bisogno. Caroto fece a meno della disciplina; fece a meno di idee proprie, e tuttavia, sentendo che ci sarebbero volute, umilmente acchiappava da Raffaello, da Tiziano; o addirittura ripeteva schemi compositivi d'altri artisti. (pp. 170-171)
  • Il primo artista italiano puramente pittorico fu un allievo del Caroto: Domenico Brusasorci. La constatazione è unicamente storica; non nasconde intenzioni d'encomio. Non tutte le opere del Brusasorci ce lo mostrano nella nuova luce. La più parte piacevoli, talora deliziose, son d'un artista che, in ispalla il bagaglio del Caroto, inciampando e a tentoni cercava di camminare dietro al Tiziano e a Bonifazio, a Michelangiolo e al Parmigianino. (p. 173)
  • La pittura milanese del Quattrocento, per quello almeno che ne conosciamo, dovette la propria esistenza a Vincenzo Foppa. Nella composizione e nel paesaggio, talvolta egli accusa il tirocinio pisanallesco; ma la sua miglior formazione fu a Padova, insieme al Tura, al Mantegna e ai Bellini. Giudicando da quelle pervenuteci, le sue opere non valgono in qualità quelle de' suoi condiscepoli. E tuttavia non è certo che, Mantegna a parte, le doti native di Foppa fossero inferiori a quelle di Tura, e magari dei Bellini. (p. 176)
  • Il più rimarchevole seguace di Foppa fu Ambrogio Borgognone; si vorrebbe dire, il più rimarchevole pittore della terra milanese. Non ha gran respiro; raramente oltrepassa gli orizzonti segnati dal maestro; e non brilla per cospicui doni di forma, movimento e composizione spaziale. Non è in tutto libero dalle tipiche debolezze degli imitatori; né dalla graziosità che, a' suoi anni tardi, inondò la Lombardia. Ma ha lasciato una delle più severe, profonde, raffinate espressioni di genuina divozione. (p. 178)
  • Bramantino, malgrado ottimi sforzi formali, documentati nell'«Ecce Homo» della raccolta Rohoncz, presto decadde in una meticolosità smidollata, in una superficialità che soltanto le sue qualità più affascinanti possono compensare. Ché affascinante, malgrado tutto, egli resta. Dai predecessori aveva un ramo di quell'alta poetica follìa umbro-toscana, che tutte le sue milanesi preoccupazioni d'ornata graziosità non riuscirono a guarirgli. (pp. 179-180)
  • [Su Bramantino] In quanto allievo del Bramante, aveva un finissimo senso dei profili architettonici, e parecchi suoi dipinti non perderebbero nulla, eccetto nella generale distribuzione delle masse, a toglierne le figure. La pratica d'illuminare dal basso, la smania dei poetici contrasti chiaroscurali, completano uno stile seducentissimo, malgrado frequenti ed intrinseche inferiorità. (p. 180)
  • [Su Defendente Ferrari] Ci dà gustosi schemi lineari, campiti di colore gustoso, trattato come lacca o come smalto, e talvolta di lucentezza gemmea. Tra fulgidi arabeschi, ricama i contorni di mansuete madonne quasi fiamminghe, o il tagliente profilo d'un donatore: uno di quei profili stampigliati, nei quali riuscivano tanto bene anche i lombardi più modesti. Ricordo un gran trittico, dalla sontuosa doratura, con una canopia gotica leggiadramente bulinata, e nel mezzo la Vergine dal rassegnato tipo fiammingo, che amorosamente abbraccia il Bambino, e sembra navigare nello spazio, ai piedi di una falce di luna. (p. 187)
  • Vivendo, come Carlo Crivelli, in disparte dalle idee correnti, Defendente, come l'attraentissimo veneto, sviluppò, seppure in modo più limitato, gli elementi puramente ornamentali della propria arte. In realtà, «pittura» è nome che sta ad indicare una quantità d'arti indipendenti: e una di queste fu appannaggio del nostro piccolo piemontese. La relazione di essa con la grande arte non è dissimile fra i bronzi decorativi e la scultura; e sarà sempre preferibile, se buono, uno di cotesti bronzi a una scultura mediocre. (p. 187)
  • Moretto, condiscepolo del Romanino, più s'avvicina ad essere grande artista fra i coetanei dell'Italia Settentrionale, eccettuando Venezia; dove pure egli non avrebbe ceduto a uomini come Paris Bordone e Bonifazio. È vero che non ha lasciato immagini del fastoso e giojoso sogno rinascimentale, quali essi lasciarono nel «Doge e il Pescatore» e nel «Banchetto dell'Epulone». Il suo colore non è talmente lieto; e ai suoi brutti momenti egli cade più in basso di Paris e Bonifazio; ma ha più poesia, più forza nel disegno, e così è miglior compositore. Grazie a tali doni, quando ci dà quanto sa dare, le sue figure sono convincenti, le membra hanno peso e i torsi sostanza; o potremo sempre molto perdonargli, per la trepida, lirica gravità del colorito, tutto macchiato di luci e ombre. Oltre a questo, egli ha inconsuete virtù d'espressione, e un vivo senso dei significati spirituali. (p. 189)
  • Moretto ebbe a scolaro Moroni, l'unico italiano che abbia dipinto solamente ritratti. Anche in tempi più tardi, in periodi di tetra decadenza, questa terra, Madre delle arti, non dette mai pittore altrettanto povero d'inventiva, addirittura paralizzato se non gli sedeva un modello davanti. Le sue pale d'altare sono larve meschine, copie scolorite di quelle del maestro; e l'eccezione conferma la regola: l'«Ultima Cena» a Romano si stacca dalla più stupida mediocrità solo perché alcune teste sono ritratti. (pp. 189-190)
  • Nel colorito, il Moroni è a un tempo più bruciato e più gelido; gli manca del tutto la luminosa poesia morettiana; quasi mai s'accosta a quei toni calmi e solenni. D'altra parte, nell'impianto e nel movimento, è appena sotto al Moretto; e il suo gran capolavoro: il «Sarto» alla National Gallery, quanto a forma ed azione, vince il Moretti ottimo. (p. 190)
  • Che se invece intendessimo il genio come capacità di proficuamente reagire alla educazione ricevuta, non ci troveremmo costretti a negarlo ad intiere arti e professioni, in epoche altrimenti piene di slancio ed energia; e vedremmo che il genio è almeno così portato a distruggere che a costrurre, e ci spiegheremmo il suo egotismo, e l'istintiva simpatia ed emulazione che ispira, anche quando esso sembra avere gli effetti più funesti. (p. 201)

Citazioni su Bernard Berenson[modifica]

  • Berenson, lo posso testimoniare di persona, sosteneva che la storia dell'arte è un grande gioco d'azzardo, nel quale vince chi possiede più fotografie. Modo piuttosto unilaterale di vedere le cose, perché si può benissimo, con l'aiuto di un'enorme documentazione fotografica, scoprire l'autore di un quadro e poi non capire assolutamente nulla di quel che l'autore volesse dire. (Federico Zeri)

Note[modifica]

  1. a b Da Tramonto e crepuscolo; citato in Elena Spagnol, Enciclopedia delle citazioni, Garzanti, Milano, 2009. ISBN 9788811504894
  2. Citato in L'opera completa di Piero di Cosimo, introdotta e coordinata da Mina Bacci, Rizzoli, Milano, 1976, p. 11.
  3. Citato in Arthur Schlesinger Jr., I mille giorni di John Kennedy, Milano, Rizzoli Ed., 1966, p. 115.
  4. Citato in Velázquez, I Classici dell'arte, a cura di Elena Ragusa, pagg. 183 – 188, Milano, Rizzoli/Skira, 2003. IT\ICCU\TO0\1279609
  5. Citato in Un giro a Palermo tra le citazioni da Wilde a Pirandello, Giornale di Sicilia.it, 13 ottobre 2014.
  6. Citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993.

Bibliografia[modifica]

  • Bernard Berenson, I pittori italiani del Rinascimento, traduzione di Emilio Cecchi, Sansoni, Firenze - The Phaidon Press, London, 1957.

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