Giuseppe Marotta (scrittore)

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Giuseppe Marotta, 1947

Giuseppe Marotta (1902 – 1963), scrittore e sceneggiatore italiano.

Citazioni di Giuseppe Marotta[modifica]

  • Il freddo arriva a Milano dalle Alpi e passa sotto l'Arco della Pace come Napoleone; oppure viene dal Po radendo la via Emilia e la strada pavese: è vento, è corsa fino alle porte della città (Casalpusterlengo, Binasco, Busto Arsizio); poi si riassetta, si impettisce ed entra col passo di parata e con la grande uniforme. Si annette Milano, la presidia.
    Sta addossato ai muri la notte e l'indomani riprende i suoi lentissimi andirivieni di piantone, di sentinella, di sgherro.[1]
  • Dunque non userò, per La dolce vita, espressioni come "ritratto di una società e di un periodo", o come "potente affresco", delle quali tanti avidi collezionisti di frasi fatte, individui che non hanno addosso un pelo che gli appartenga, hanno immediatamente abusato. No. Dico semplicemente che La dolce vita è un poema cinematografico, suddiviso in canti e strofe.[2]
  • Ma io recensisco film o colleziono nemici?[3]
  • Ne ho visti morire tanti, e se nessuno torna vuol dire che non ci si trovano male.[3]
  • Non privatevi del film Il seme della violenza. Doveva rappresentare l'America a Venezia l'anno scorso, ma un intervento della signora Luce,[4] che è, che non è, lo tolse di gara. Politica. Infondati, opinabili timori: il solito flemmoncino di intolleranza, di suscettibilità nazionalistica, per il quale non si trovò, o non agì subito, un efficace antibiotico. Signora Luce, abbia pazienza: mi dica qual è la massima riverenza che l'etichetta ambisce ch'io Le faccia, e da me ne avrà una dieci volte più garbata e devota; ma ciò non mi vieterà di manifestarle, come uomo di cinema, come artista, il mio rincrescimento e la mia disapprovazione.[5]
  • Oggi pure i ciechi vedono che la dittatura è l'esito di una cattiva democrazia, mentre la democrazia è l'esito di una cattiva dittatura.[6]
  • Ogni padrone, piccolo o grosso, ha sempre l'aria di pensare che lui non ha fatto il sole perché i salariati ne usufruiscano senza pagarlo.[7]
  • Successe che all'Alcione di Napoli, vedendo Che fine ha fatto Baby Jane?, ingiunsi mentalmente a Robert Aldrich di restituirmi tutta la stima (valga un palazzo o un cece) che mi aveva estorto con Il grande coltello e Attak. Mamma mia, lo hanno pure mandato a Cannes, questo film! Udite. Viene avanti, con cinque minuti di precedenza sui titoli, un "1917" (equivalente all'"Io sono il prologo" del melodramma I pagliacci) e alla cui remota ombra vediamo, su un palcoscenico, esibirsi in canzoni e danze una bambina-prodigio (cinque anni o sei: più mostruosa, cioè, di qualunque Rita Pavone odierna) chiamata Baby Jane Hudson. In un angolo del teatro, Blanche, la quasi coetanea sorella del fenomeno, invece di rallegrarsi mangia limoni e beve aceto.[8]

Dieci racconti[modifica]

  • Gli scettici osservino, prego, l'Arco di Sant'Eligio in qualsiasi fotografia o nel vecchio dipinto di Vincenzo Migliaro: quelle pietre assorte, rozze e magiche insieme come il bastimento nella bottiglia; i negozietti di panni e di ferraglia, di sugheri e di cordami, di crusca e di carrube intorno all'erma su cui ride e piange la deturpatissima testa greca, l'enigmatica e remota scultura detta dalla plebe "donna Marianna, capa di Napoli"; un pianino automatico scantona e un gobbo s'inoltra gesticolando come se incarnasse l'ultima vibrazione di quella storta musica; insomma dove, se non a Sant'Eligio, nulla succede ma succede tutto, specialmente l'impossibile? (da Nell'orologio di Sant'eligio, p. 216)
  • [...] Figurella per esempio era sensale e come. In che diavolo non si immischiava, cioè, questo giovane rosso di pelo, altissimo, lentigginoso, puntuto e vagamente arcaico, forse derivato da qualche lontanissimo armigero svevo? Egli impartiva la sua mediazione ad ogni cosa, valendosi del primordiale sistema di trovarsi comunque, fin dall'inizio o all'ultimo istante, gradito o tollerato, negletto o riconosciuto, fra l'origine e il destino delle cose. Il suo lavoro indubitabile era nell'aria, pulviscolo di mansioni rivelato dal raggio di qualche idea felice, subitanea. Un ragazzo corre verso il portoncino dell'ostetrica? Don Arturo lo trattiene, s'informa, bussa e parla per lui: domani, femmina o maschio, l'otto per cento a don Arturo non glielo toglierà nessuno. Passano botti piene e carri funebri vuoti, mansueti o stizziti discorsi, fiori, frutti, sorrisi, lacrime, conoscenti, forestieri, teste rotte, calcina, travi, guardie, pompieri, asini, galline o finanche i Sacramenti sotto la stola del compunto sacerdote, i cui piedi non toccano terra e le cui occhiate sono basse e fremono come l'erba? Don Arturo li segue, domanda o intuisce, si trasforma lentamente, insensibilmente, in un'equa e opportuna mediazione. (da Nell'orologio di Sant'eligio, pp. 216-217)
  • [Il] mesto orologio di Sant'Eligio – il quale è gotico, ha dunque una serietà indiscutibile, una mutria di secolare galantuomo tedesco [...]. (da Nell'orologio di Sant'eligio, p. 220)
  • La Riviera di Chiaia bruciava. Piedigrotta è anche questo, una furia di luci. "Bancarelle", trespoli, carretti, finestre, chioschi, negozi, palchi delle orchestrine vi fissano con gli occhi roventi e spalancati dei matti. Non esagero, la notte del sette è un interrogatorio di terzo grado, coi riflettori puntati in faccia e una stridula voce che ripete: «Sei contento, ammettilo, ti diverti!»; è una deliziosa tortura per farci confessare che non avremo, domani, cielo da vedere e terra da camminare. Pazienza! Salute a noi! (da La notte del sette, p. 227)
  • La mia città fu, ed è, e sarà in ogni epoca, un libro di tutte le favole. Che cosa non vi producono amore e odio, saggezza e follia, candore e astuzia, verità e menzogna, "guapparia" e soldi? (da Il califfo Esposito, p. 236)

Gli alunni del sole[modifica]

  • [...] piazza Carlo III, te li ricordi i lunghi pomeriggi che trascorremmo in un'aiuola sotto la montagna dell'Albergo dei Poveri?, non lungi dalla cesta, dal tavolino e dai coltelli del venditore delle prime angurie? Ti scegliemmo spesso perché, immensa com'eri, deridevi l'orologio dell'Ospizio e non sembravi più abitata del cielo sul nostro capo; i reggimenti che tornavano dal vicino Campo di Marte, anzi, ti rendevano maggiormente solitaria. Il gigantesco edificio traboccante di sventurati, all'ombra del quale ce ne stavamo, io lo considero un errore del buon re Carlo di Borbone. Era preferibile, invece, ridurne alquanto le dimensioni e collocarvi gli abbienti; così nell'intera Napoli si sarebbe adagiato e sgranchito il solo popolino: una tettoia che la ricoprisse tutta, una adeguata insegna, e il vero Albergo dei poveri, Maestà, sarebbe stato quello. (da Venere punita, pp. 55-56)
  • «Gli esattissimi risultati di Venere, per chi la guardava e per chi la otteneva, erano infallibilmente questi... un'estrema delizia ma pure un dolore, una tristezza, come quando per la troppa gioia si scostano i numeri della quaterna che avete vinto, e compare una bella paralisi cardiaca. Egregio don Salvatore, la massima dolcezza è simultaneamente amara come il fiele... chiunque odorava, non so perché, nell'irresistibile profumo di Venere, il tanfo della propria morte... E così, dato che nessuno si decideva, la proposta di matrimonio alla Dèa gliela fece Vulcano».
    «Chi, il Vesuvio.
    «Una specie, don Salvatore.» (Don Federico Sòrice, da Venere punita, p. 59 [a Don Salvatore Cadamartori])
  • «Io non mi spiego perché si debbano piantare, cogliere, tenere in acqua e sale ma principalmente vendere questi lupini» esclamò don Antonio Pagliarulo. «Che sostanza, che gusto hanno?».
    Il fruttivendolo Cadamartori:
    «Appunto perciò ne mangiamo quintali. Vi mettete in bocca un lupino e masticandolo aspettate... non sentendo niente lo inghiottite e ne pigliate un altro, continuamente un altro finché ne rimangono. Siete all'eterna ricerca del sapore, ho parlato chiaro?... È una fissazione, un puntiglio».
    Il ciabattino Debbiase:
    «Come l'esistenza nostra, Don Antonio, tale e quale. Finisce una giornata insulsa, un lupino di ventiquattro ore, e voi già vi precipitate col pensiero sull'indomani, già vi illudete che i successivi lupini saranno diversi, fragole travestite, caramelle e gianduia, chi lo sa!».
    Don Federico Sòrice:
    «Il paragone regge, mi associo: e per ammorbidire e condire ogni quotidiano lupino, abbiamo fin dalla nascita l'occorrente Serino di lacrime». (da Venere liberata, pp. 63-64)
  • Man mano si addormentarono tutti, rammento; io e Vincenzino Aurispa mangiammo, fantasticando sui palpiti dell'inquieto lumino, i residui fichi. Erano piccoli e appassiti, dolcissimi: i soli frutti capaci di memoria, i soli frutti che non abbiano dimenticato né Adamo né il muro di cinta del remoto Giardino. (da Venere liberata, p. 69)
  • [...] don Salvatore Cadamartori taglia corto facendo arrivare, con un cenno, quattro piattini di "cannolicchi" dalla banchina. Si tratta di un mollusco e insieme della cannuccia per gustarlo raffinatamente: squisiti umori in un delicato e venato astuccio color nuvola, in una sigaretta di mare; succhiamo l'orizzonte che freme tra il Vesuvio e le isole, dai "cannolicchi" [...]. (da Scogli, vele, apparizioni, p. 75)
  • [...] la quiete della controra ingentiliva il vicolo, dorato qua e là come se una processione vi avesse deposto baldacchini stendardi flabelli candelieri e se ne fosse andata frettolosamente a dormire. In certe stagioni e in certe ore Napoli si trasfigura; perde consistenza e profondità, o meglio assume la profondità remota e immaginaria dei quadri... se vi occorrono balconcini che sembrano disegnati su un fazzoletto di seta, o embrici sfioccanti nel roseo vapore che li avvolge, eccoli [...]. (da Non era ancora nato e già rubava, pp. 79-80)
  • [...] don Febo? Che era il dio del sole e delle zingare, di ogni strega sibillina, ve ne informai quando parlammo di Mercurio, di Vulcano, eccetera. Come divinità fu di prim'ordine... e a Napoli che abbiamo un continuo mezzogiorno pure nei cassetti del comò, don Apollo nostro dovremmo venerarlo eternamente! (Don Federico Sòrice, da Febo, anice e bengala, p. 105)
  • Un dio simile, fratello carnale di Giove, chi lo frena se si arrabbia? Pescicani, balene... ma erano cuccioli, erano trastulli, "pazzielle" di Nettuno! Volendo, lui poteva gettarvi addosso un Atlantico o una Spagna... frantumare qualche razza intera... ma essendo buono se ne asteneva. Desiderava la tranquillità perché gli piacevano molto le femmine... avete notato, a proposito, che raramente i donnaiuoli sono cattivi? l'amore acquieta, stanca, e quando uno è debole dà ragione a tutti. Basta, conoscete i Faraglioni di Capri? Sono le corna di Anfitrite, la povera moglie di Nettuno! (Don Federico Sòrice, da Fantasmi nel braciere, p. 113)
  • Quella non fu esclusivamente un'arca di scienza, fu pure la Dèa della guerra intelligente. Prima di lei, greci e romani combattevano, sì, ma come bruti, come facchini: da Minerva impararono le astuzie, gli agguati, gli accerchiamenti... donna Atena fu peggio di Hindenburg... si può dire che solo quando arrivò lei gli eserciti cominciarono veramente a morire per la Patria! (Don Federico Sòrice, da Nascita di Minerva ai «Pellegrini», p. 132)
  • [...] Napoli è una bara di madreperla con quattro corde e una tastiera; affermo sul mio onore, toccandomi il petto come la statua di Gioacchino Murat nella nicchia di piazza San Ferdinando, che Napoli è un mandolino dal quale si affaccia continuamente uno scheletro. Ebbene, salute a noi; strizziamo l'occhio a questo buffo sosia di ognuno, a queste anonime ossa trasformatesi in radici di canzonette [...]. (da Oggi succede tutto, p. 154)
  • Qui è Sant'Elmo, diafano, aereo: un castello, non nego, ma dipinto su un aquilone. (da Oggi succede tutto, p. 157)
  • Puntiamo sul Capo, radendo sabbia e tufo. Gli incontri, gli amori, gli alterchi dell'azzurro e del verde ci attirano, quasi ne udiamo il tramestio, le voci. Ecco lo Scoglio di Frisio, ed ecco San Pietro a due Frati; ecco Villa d'Abro, Villa Gallotti, Villa Rosebery, Marechiaro, il Palazzo degli Spiriti, la Grotta dei Tuoni alla Gaiola; giriamo la punta e qui ci sovrastano i ruderi della Scuola di Virgilio; da Trentaremi ci affacciamo sul Golfo di Pozzuoli, dove fra non molto il sole ci abbandonerà per correre a spegnersi nel Fusaro o in un antro di Cuma, ne sapete niente voi? A prora non ci manca una "lampara", se è per questo; riapproderemo a Santa Lucia di notte, o all'alba, ma vogliamo accertare se le Esperidi sono bionde o brune, che sostanza e che colore hanno i loro volti enigmatici e i loro capelli.
    Don Federico Sòrice, con la gialla fronte in mano, abbagliato e rapito:
    «Fermiamoci... Ah, Napoli bella, tozzo di pane mio, estrema unzione mia!».
    Perché no? Un definitivo boccone di "tòrtano" e, per inalterabile vestito, quattro sassi di Coroglio. (da Le figlie del tramonto a Marechiaro, pp. 164-165)

Gli alunni del tempo[modifica]

Incipit[modifica]

Nella via del Pallonetto di Santa Lucia trovate qualunque cosa, tranne che un giornalaio. Perché? Non fateci ridere con queste domande. In primo luogo onorateci, favorite, allungateci un'occhiata gentile, come se foste un barone di passaggio, o addirittura il sindaco Lauro. Ecco qua: la nostra via del Pallonetto è a "gradoni", sale con l'affanno da Santa Lucia a Monte di Dio, sale con tre quarti di lingua in gola da un "basso" a un palazzetto e da un palazzetto a un "basso", fino all'odore (sempre sia lodato) di lire e di signori della città alta. Mi spiego? Alla conformazione del suolo, aggiungete l'affollamento. Chi non è nato senza gomiti, al Pallonetto, li ha nei fianchi del prossimo; e, d'inverno specialmente, ce li lascia. È chiaro?

Citazioni[modifica]

  • Giurateci: se la Vergine potesse arricchirci, lo farebbe; ma si vede che il Padre e il Figlio la tengono a stecchetto. (da È civile, è cristiano, il denaro?, p. 20)
  • A noi toglieteci dallo stomaco il tam tam selvaggio dell'appetito, e subito ci fabbrichiamo una garitta di paradiso in qualunque inferno. (da Come lavoratore si presenta, p. 23)
  • Dunque la professione attuale di mio figlio è che nelle strade nobili s'avvicina piangendo ai signori e dice: "Ho rotto le tazze... il padrone mi licenzia se non le pago... Aiutatemi". (Don Fulvio Cardillo, da Come lavoratore si presenta, pp. 25-26)
  • Abbiamo voglia di esclamare: "Bentornato, Pallonetto di Santa Lucia... dove eri fuggito, all'estero?" E infatti le prime giornate limpide ci restituiscono il genuino Pallonetto: vecchio, sì, mangiato dai secoli, rotto nelle giunture dalle mazzate di ogni specie di vento, corroso dalle tarme della salsedine, ma abitato da un sole marino, trionfale, che benda con garze di pulviscolo intinte nell'argento e nell'oro di Mida, le sue ferite. Ah gente, che sollievo; in ognuno di noi s'è acceso un forno di allegria. (da Popolo, come stai, ti serve niente?, p. 87)
  • Vieni Giugno, vieni Giugno, e Giugno è venuto. Come s'allargano: diventano saloni, ecco qua, i nostri avari "bassi", ora che abitiamo nella strada. È una famiglia sola, in giugno, il Pallonetto di Santa Lucia. Dove ripara, don Attilio Sgueglia, reti di letti? Nella via. Dove espone tegami, bacinelle e orinalucci, don Cosimo Pellecchia? Nella via. Dove spolvera macchine da cucire e grammofoni, biciclette e quadri ("pegni" insomma) il titolare dell'Agenzia di Pegni Fulgenzi? Nella via. Dove ha messo, il carbonaio Quintieri, le sue bombole di gas liquido? Nella via. Giugno sviscera il Pallonetto, è una radiografia di questi vecchi muri e di questa vecchia gente. Approfittatene. Diagnosticate. Abbiamo qualche numero, secondo voi, per la buffa lotteria della vita? O ci conviene scendere a Castel dell'Ovo e affogarci tenendoci per mano e cantando: "Giro giro tondo, cavallo imperotondo"? Giudicate voi. (da Avremo infine l'abbondanza e l'ozio, p. 103)
  • Don Vito Cacace appunto zucchine ha mangiato, alla "scapece". Ne avete un'idea? Le fette sottili e rotonde (simili a grosse monete) di zucchine, vengono prima offerte al sole, che in un paio di ore le asciuga e le irradia; poi friggono in teglia; poi con aglio tritato e foglioline di menta, riposano, fortificandosi, in un bagnetto d'aceto. Vergine dell'Aiuto! Assaporiamo, nelle zucchine alla "scapece", gli umori faziosi degli orti di Secondigliano, i raggi ultravioletti dei quali ogni fetta (voltata e rivoltata) s'imbevve, l'olio di Bitonto, il ferro della teglia, l'arguzia dell'aglio, il profumo di canzonetta della menta, l'aceto che è vino gobbo e pazzo e sfottente come i giullari... uh mamma mia bella [...]. (da Avremo infine l'abbondanza e l'ozio, p. 104)
  • Ḕ sceso da Pizzofalcone don Saverio Scippo, il friggitore ambulante di riso, di patate, di baccalà, di fiori di zucchine infarinati. Piazza in un angolo fornello, teglia, canestro, e agisce. Non decanta la sua merce: il fumo grasso e nero dell'olio furibondo porta notizie impellenti di don Saverio in tutte le case del Pallonetto. Risorge di colpo, in ognuno, l'appetito dell'infanzia; vecchi e bambini, a causa della frittura dello Scippo, che li fruga con i suoi odori equivalenti ad un mazzo di grimaldelli, diventano coetanei. (da In origine l'uomo stava sugli alberi e si grattava, p. 148)
  • Piove fino fino, è la prima acqua d'autunno sulla città; è una ragnatela di freschezza, è un liquido ricamo al tombolo fra casa e casa. Il Pallonetto, che bellezza, sembra una lucida e umida bottega di venditore di baccalà. Sapete? Quei marmi, quelle vaschette, quegli spruzzi lievi come aghi (un lungo pettegolezzo di gocce) e il roseo baccalà di Norvegia che si gonfia, si dilata, rivive. (da Avremo la famosa Apocalisse, p. 151)
  • Eh, caro don Fulvio, potrei non essere nipote di mio nonno? Io Brigida la scelsi qua, nel mio quartiere nativo, una ragazza della condizione mia, che aveva scritto in fronte, come Vito Cacace: "Sono del Pallonetto e mangio, bevo e rido quando capita." (Don Vito Cacace, da Eccoti le nozze cattoliche, ma un po' fredde, p. 163)
  • Oggi sul Pallonetto abbiamo nuvole di prim'ordine, eccezionali, spettacolari. Ma guardatele. Che tinte, che misure, che potenza. Vanno dal bianco-panna al viola di contusione, giù fino al nero sfrangiato di uno scialle da vedova. Sono aguzzi faraglioni e lunghe scogliere di fumo pieni di rabbia: vanno, vengono, si urtano, si avvinghiano e si respingono; è un amore ed è un odio, non vogliono (come le persone, d'altronde) né separarsi né fondersi. Ottobre spàssati. Farai un cenno e zac, saranno tonnellate d'acqua; o invece spazzerai con un soffio la tovaglia dalle miche, e riavremo il sole. Chi nasce quadro non muore tondo: sei la fedele copia di Marzo e tanto basta. (da Il subcosciente non ha freni, è scostumato, p. 167)
  • Ehi ehi. Dovessero piovere mazzate? I due contraggono le mascelle e s'irrigidiscono. Mannaggia. Stanno agli antipodi: il Cardillo vende luna, e cioè trasforma in lavoro qualunque cosa, l'Inzerra muta in ozio tutto, tutto. Napoli ha questi due volti, come Giano era sé ed il contrario di sé nell'identica figura; perciò chi dice: "Napoli è fervida, operosa, alacre" non è meno fesso di chi dice: "Napoli è svogliata, indolente, pigra." Ma allora? Gesù Gesù. Napoli è femmina, ossia volubile, contraddittoria, spesso incoerente. Sgobba quanto Milano e poltrisce quanto Honolulu: per ogni napoletano che, immoto in una barca a Mergellina, o riverso in un prato ai Camaldoli, si lascia beatamente crocifiggere dal sole, abbiamo nelle vicinanze un altro napoletano che vacilla e affanna trasportando un quintale. (da No, no, Sua Santità non mi doveva lasciare, pp. 176-177)
  • [Un memorabile pernacchio] Ha una forza e una classe wagneriane; è favoloso, nibelungico, trasfigurante [...]. (da Non siamo del parere, egregio amico, p. 189)
  • Il mondo è mondo, signori miei, la gente è gente. In buona fede o in mala fede, noi sosteniamo questo o quel regime. Senonché, ogni regime nuovo è un abito nuovo: ma dentro c'è l'antico individuo, come Domineddio lo fece e come il demonio lo prese in consegna... amen. (Don Vito Cacace, da I Fagioli sono, dovunque, nemici dell'uomo, p. 196)
  • Il popolo, in ogni luogo, ha soltanto verità e libertà a gocce, come i veleni curativi. (Don Vito Cacace, da I Fagioli sono, dovunque, nemici dell'uomo, p. 196)
  • Qualcuno fondò Napoli, situando magnificamente il Vesuvio, le isole, Capodimonte e il Vomero; disse ai napoletani: "Ecco... Tenete, ricreatevi," e mentre quelli si distraevano a guardare l'ombelico del golfo, agguantò la cassa e fuggì. (da Pazzo chi gioca e pazzo chi non gioca, p. 201)
  • Laggiù, intorno al Castel dell'Ovo, l'acqua è riccia, spumosa, come lo sciampagna. Abbiamo voglia di vino, appunto; dicembre senza vino è un carcere a sbarre doppie, rinforzato di secondini, insopportabile. (da Pazzo chi gioca e pazzo chi non gioca, p. 204)
  • Ne avete un'idea, se è lecito, dei "friarielli"? Non vanno bolliti, ma cotti al vivo nei propri umori e nell'olio, come i polipi di scoglio. Sono di zucchero e d'aloe, sono di una tale amarezza e dolcezza congiunte (nel velluto, nel conforto dell'olio di Bitonto) che la pagnotta nella quale, abbreviata la mollica, vanno situati a regola d'arte, se ne commuove fino all'ultima crosticina. (da E là c'è una dattilografa più scollata della fortuna, p. 231)

L'oro di Napoli[modifica]

Incipit[modifica]

Nel maggio del 1943, in una sua lettera da Napoli, mia sorella Ada fra l'altro mi scriveva: "Ti ricordi Don Ignazio? S'era ridotto a vivere in un basso a Mergellina. L'ultimo bombardamento gli ha spazzato via tutto. Figurati che nella fretta di scappare lasciò sul comodino perfino i denti finti.

Citazioni[modifica]

  • Napoli, io, certe pietre e certa gente: ecco quanto, forse, si troverà in questo libro. (dalla prefazione, 2020, p. 15)
  • La possibilità di rialzarsi dopo ogni caduta; una remota, ereditaria, intelligente, superiore pazienza. Arrotoliamo i secoli, i millenni, e forse ne troveremo l'origine nelle convulsioni del suolo, negli sbuffi di mortifero vapore che erompevano improvvisi, nelle onde che scavalcavano le colline, in tutti i pericoli che qui insidiavano la vita umana; è l'oro di Napoli questa pazienza. (da L'oro di Napoli, 2020, p. 27)
  • Il matrimonio è come la morte, viene una volta sola. (don Salvatore, da I parenti ricchi, 2020, p. 38)
  • [...] eppure esistiamo per accorgerci, in un continuo trasalire, che la realtà è sempre l'effimero pretesto con cui veniamo allontanati dalla nostra favola, e che proprio l'inconoscibile mito di se stesso è la sola cosa nella quale ciascuno di noi sia certamente, lungamente vivo. (da Il primo amore, 2020, p. 71)
  • Il bisogno d'amore è per l'adolescente, al mio paese, un martirio; Napoli s'apre al sole di giugno come l'anguria spaccata: e i semi neri sprizzano, i desideri sprizzano dovunque. (da Il primo amore, 2020, p. 74)
  • [Su una cartolina:] Napoli, panorama – È un panorama per modo di dire, incompleto, la striscia che va da Mergellina a Castel dell'Ovo con una curva in cui il mare si rifugia e dorme. Riconosco il viale Elena e via Caracciolo, mezza collina di Pizzofalcone, la Villa Comunale, il cielo bianco e adulto del primo pomeriggio. Qui, in agosto, l'aria odora di alberi e di carne giovane, non so, come se le foglie crescessero sul capo di un bambino; dall'altro lato le acque blu vi sgridano se cedete al piacere della terra, non esiste un colore più salato e ironico del loro. (pp. 79-80; 1955) (da Le cartoline, 2020, p. 85)
  • Il suo consiglio era: non fate mai niente per opporvi a niente. Diceva: «Avete malattie? Debiti, corna, pene di qualsiasi genere? Per carità, teneteveli». Don Saverio credeva fermamente che delle disgrazie non ci si possa disfare: chi le ha riesce soltanto a barattarle, ma in pura perdita, ma sempre e inevitabilmente rimettendoci. (p. 81) (da Le cartoline, 2020, p. 87)
  • Frattanto la notte è venuta e Napoli piglia fuoco. Da Via Partenope a Posillipo il mare divampa di luci riflesse, dolgono gli occhi ai pesci, un turista che percorre la litoranea in carrozza non vede i cenci che respirano sul marciapiedi ma scorge distintamente gli scheletri delle sirene che si rivoltano nelle loro tombe di sabbia. Voi dite a Napoli: «Quanto sei bella!», e Napoli è perduta. (da Scoglio a Mergellina, 2020, p. 124)
  • Voglio bene, perché ci son nato, al mondo dei vicoli e della povera gente del mio paese. Di tutti i suoi mali sono depositario e amico, ne parlo perché li conosco, ne parlo con la speranza di giustificarli, di dimostrare che prima di risolversi in colpe i mali di Napoli sono soltanto dolore. Qui il castissimo cielo non è fratello di nessuno. (da L'amore a Napoli, 2020, p. 146)
  • I "Quartieri", a Napoli, sono tutti i vicoli che da Toledo si dirigono sgroppando verso la città alta. Vi formicolano i gatti e la gente; incalcolabile è il loro contenuto di festini nuziali, di malattie ereditarie, di ladri, di strozzini, di avvocati, di monache, di onesti artigiani, di case equivoche, di coltellate, di botteghini del lotto: Dio creò insomma i "Quartieri" per sentirvisi lodato e offeso il maggior numero di volte nel minore spazio possibile [...]. (1955, p. 157) (da I "Quartieri", 2020, p. 153)
  • [Il brodo di polipo] Le dimensioni di questo polipo erano tali che sempre mi ricordavano la piovra descritta da Hugo in uno dei suoi fragorosi romanzi; don Gennarino non si illudeva di cuocerlo effettivamente, né in tutto né in parte: egli vi dava per due soldi una tazzina di bollente brodo del mostro (un cui solo tentacolo era bastato per riempire la pentola), ravvivata da un pizzico di pepe rosso e da un dado di polipo che equivaleva a circa un quarto della più piccola ventosa. Dopo aver sorseggiato l'infernale liquido, ed averlo sentito esplodere nello stomaco, ci si avviava verso casa masticando il frammento di polipo. Per ore esso sopravviveva intatto a ogni sforzo mascellare, limitandosi ad emettere remoti e arguti odori marini che evocavano le miti acque di Santa Lucia, i repentini fremiti delle sabbie sommerse, le vele in deliquio sulla linea dell'orizzonte; andando a letto era opportuno sputare il pezzetto di polipo e non pensarci più, qualora non si volesse masticarlo l'indomani e per sempre. Desidero si sappia che il chewing-gum ha avuto un antenato al mio paese [...]. (da I "Quartieri", 2020, p. 155-156)
  • [Porta Capuana] È verde e accigliata nel cuore della città; intorno a lei "pazziarielli" o comuni passanti non sono mai di oggi, subito li copre la polvere del tempo, sembrano trasferirsi in un'antica stampa. (da Porta Capuana, 2020, p. 186)
  • Il Santuario di Montevergine sorge sul monte Partenio nella feracissima Irpinia, sta come un'arca sul mare dei castagneti e delle selve che gli ribolle intorno. Forse l'antica Madonna a cui è dedicato scosta ogni tanto da sé come un'indocile onda di capelli, quella vegetazione irrompente: poi composta e soave ricomincia a specchiarsi nel suo Bambino, mentre i domenicani del convento vanno e vengono sulle bianche terrazze per escogitare la formula di una nuova[9] preghiera o di un nuovo liquore. (da A Montevergine, 2020, p. 217)
  • Per qualche ora il mare mi aveva accompagnato da lontano e da vicino: in certi punti seguiva il treno come uno strascico; visto dai fianchi delle colline, all'uscita di ogni galleria, pareva fissato all'orizzonte e alla riva, senza una piega, con gli spilli. È un mare che amo perché viene da Napoli, ma quassù diventa signorile, perde il suo aspro odore di alghe, di viscidi cesti in cui troppi pesci si sono voltati e rivoltati per morire, di vele in cui ha troppo sudato lo scirocco: oso dire che in Liguria il mare è biondo mentre a Napoli è bruno, altro carattere, altri pensieri, altra forza. (da Gli spaghetti, p. 247)
  • [...] fulminei e prudenti, spicci e al tempo stesso riflessivi, una improvvisazione e una massima: sono il cibo ideale per chi ha sfacchinato dalla mattina alla sera e non ne può più; sono gli spaghetti all'aglio e all'olio. Chiunque, col cappello in testa e col soprabito sul braccio, miope o duro d'orecchio, contento o disperato, è in grado di prepararli. Mentre l'acqua bolle l'olio frigge intorno all'aglio, un riso crudele su cui dovete spargere misericordiose foglioline di prezzemolo; acconsentite a qualche impercettibile bruciatura di questa subitanea salsa, ne vale la pena perché il perentorio sapore che essa conferirà agli spaghetti assorbe ed elimina ben altre amarezze; chiodo scaccia chiodo, ricordatevene [...]. (da Gli spaghetti, 2020, pp. 248-249)

Le milanesi[modifica]

  • Ero tutta forme, bella, solida, il ritratto della sposa e della mamma in fiore. Che vita dunque cominciò per me. [...] con quelle due boccucce al seno mi dicevo: «Sei tutta mamma, Carmela». Nessuna differenza: latte e baci ero per Cesare, latte e baci ero per Luigi. Oh Santa Vergine, li sentivo egualmente carne mia... le donne m'intendono, ci si fa balie come si fa pane la farina. Me l'avevano consegnato smunto e pallido, Cesare; ma in poche settimane lo ricreai. La meraviglia dei genitori mi lusingava più che se un principe mi avesse detto: «Carmela, sei bella, ti amo». Diciassette anni, avevo diciassette anni. Mi scioglievo in Cesare e Luigi: gli fui mamma e sorella anche mentre li svezzavo. (da Carmela, pp. 9-10)
  • Le parole, da noi, spogliano e vestono, illudono e offendono, lavano e sporcano, accelerano o bloccano il tempo, creano, soprattutto, creano l'inesistente e creano meglio ancora quello che davvero c'è. Il cuore nostro è un alveare; non conosceremmo il Sud [...] se non ce lo dicessimo continuamente da muro a muro, da fiato a fiato. (da Concetta, p. 38)
  • [...] per qualunque donna, la toilette è una mezza confessione, un rito, un mistico appuntamento con se stessa, un atto di contrizione e, insieme, di fede. (da Donatella, p. 132)
  • La frangia di luna che riceve la mia confessione è qui, sul parapetto: ha un che di spumoso, di effervescente, a causa della ruvidezza della pietra a cui s'aggrappa; è una luce con la febbre, mi conviene, mi si addice: le riferirò più di quanto io stessa, magari, non sappia. Raggio di luna, mi riconosci? Sono Leila. Giovinetta, lessi, non rammento dove, che sei tu, luna, a formare le donne. Tu, c'era scritto, ne influenzi lo sviluppo e gli umori; le fai di pelle soave e le arrotondi; le snervi e le agiti. Perciò noi siamo, antica luna, i fusi mossi dalle tue lunghissime, impalpabili dita; sei tu che tessi quaggiù le nostre illogiche azioni, le nostre complicate, astruse vicende. E allora dammi retta, luna di giugno su Milano; giustificati e giustificami; piglia i trilli angosciosi del telefono che non si arrende e gettali su qualche oceano o su qualche giungla del tuo sterminato cammino... allontanali, dissolvili tu. (da Leila, pp. 143-144.)
  • Io sono, per natura, discreta, leggera come i battiti del rametto di glicine alla finestra. Mi volete, mi chiamate, ed io lì per lì funziono: ossia, vi piazzo la nubile, ricevo il pattuito compenso e rientro, silenziosa, nell'ombra. Acqua in bocca, zitti voi zitta io, ma il rispetto, e un truciolo di riconoscenza, non me li dovete lesinare. [...] Accomodatevi, prego. Io vi ascolto e godo. Per me si tratta di un lavoro, e che lavoro; ma è un po' come sgobbare cantando, ci trovo il mio svago, la mia soddisfazione. Chiaro?
    Mediatrici si nasce, è una vera inclinazione. Fin da bambina intuii che la realtà deve essere corretta, incanalata, smossa col fiato: e mi regolai. (da Carolina, pp. 175-176)
  • A me le spiagge non danno emozioni; preferisco le rocce che scendono a precipizio, decise a interrogare il fondo, la sostanza del mare. (da Veronica, p. 224)
  • L'alba; ma già dalla strada (via Vitruvio, a due passi dal corso Buenos Aires) viene un leggero brusio. L'intermittente e sommesso dialogo, fate conto, del sacrestano e della beghina fra due colonne di marmo o d'ombra. Milano è tagliata con l'accetta nei più concreti elementi; eppure ha le sue rare, fuggevoli trasfigurazioni. Vedrei, se m'affacciassi, una via Vitruvio sconosciuta, azzurrognola, punteggiata di nebbia sfioccante; l'agonia dei globi elettrici e le effimere stelle di un velocissimo trolley mi commuoverebbero, forse. (da Clelia, p. 239)
  • Ragazze, sceglietevi un abbozzo d'uomo, una creta o una cera d'uomo, e lavoratela con la vostra immaginazione, con i vostri desideri, imprimendole con la solerzia del genio la forma definitiva. Non commettete l'errore mio, quello di invaghirvi di una perfetta quanto immodificabile statua che non ha bisogno di voi, che vi accetta come una ovvia testimonianza, e che da ogni vostro alito è come appannata e lesa. Ragazze, non illudetevi che la bellezza contenga qualcosa: in genere, avendo esteriorizzato il meglio che poteva esprimere, essa è intimamente arida e vuota, una landa. (da Clelia, p. 240)
  • [...] «Onore? Scioglici un po' di bicarbonato... passerà» Cominciò a ridere; mi spiegò che nel 1959 l'onore equivale a un pupazzo del Carnevale di Viareggio, è un'arcaica buffonata. «Chi lo dice?» esclamai «Noi lo diciamo – ribatté. – Io e i pari miei. Lo abbiamo deciso all'unanimità, per difenderci. Alle corte, nonno. Io sono teddy-boy. [...] Tutti nemici, è il nostro motto. Così non sbagliamo... ogni nostra botta fa centro. Vandali? Belve? E sia. Gli ipocriti ci hanno stancati. Piglia mio padre e i miei zii! Noi siamo canaglie genuine, pulite... noi ci battiamo per l'Adamo sincero, animale, terreno: vogliamo l'inquilino somigliante alla casa, l'uomo fedele, insomma, alla Natura. Esigiamo un puro e semplice ritorno agli istinti, caro nonno. E per te è finita, se mi tradisci». (da La sortita, Altri racconti milanesi, p. 325)
  • [...] Gesù risorto è inammissibile che giunga dal nord... quello proviene infallibilmente dal Sud, porta calore e salute, porta il Vesuvio nel pugno come un cero. (da L'agnello nero, Altri racconti milanesi, p. 331)

Mal di Galleria[modifica]

Incipit[modifica]

Stavo immobile nel centro della Galleria, puntato là come la gamba ferma di un compasso, quando rividi la bionda. Attizzo il nodo della cravatta, mi abbottono la giacca sportiva (non vesto male), e con due balzi affianco la mia bella sconosciuta.
«Permette una parola?»
«No, se ne vada».
«La prego... Sia gentile... Dopo tutto quello che giovedì feci per lei, mi tratta così»
«Giovedì! Lei? Dunque fu lei?».
Usciamo dai rigagnoli di gente, io la guido in un angolo morto, ci fissiamo. Che ragazza, o meglio che donna. Quanto a me, potrei essere (trentanove anni, alto un metro e ottanta, bruno, asciutto e nervoso) il colonnello Townsend di qualunque Altezza Reale; e con la massima finezza e disinvoltura, bruciai le tappe.

Citazioni[modifica]

  • La Galleria? Scherziamo? Le appartengo e mi appartiene. È casa, è ufficio, è strada, è ombrello, è tutto per me. Ristoranti, caffè, bigliardi, farmacie, bagni, parrucchieri, lustrascarpe, donne formose ed eleganti, uomini vivaci, ombra d'estate e raggi infrarossi d'inverno. Io ci campo da re.[10]
  • Un esimio ladro di portafogli ha contemporaneamente le due mani che ha e le due mani che finge di avere. (p. 14)
  • Il teatro è la chiesa delle bugie. (p. 24)
  • Mi rendo conto, oggi, solo oggi, che il destino, o chi è, permette i ricchi ma li adopera come ingenui strumenti, li obbliga a non turbare l'ingiustizia e l'inimicizia universali. (p. 87)
  • La vedova sa tutto, dell'uomo, perché non l'ha visto unicamente vivere ma lo ha visto anche morire. Lo ha conseguito, lo ha detenuto e lo ha congedato. Ne ha un ritratto completo, esattissimo. (p. 174)
  • Una vedova, come un'attrice, è due volte donna; voi la circuite, ma ne rimane sempre una libera, disoccupata, agevole preda, secondo me, dei cattivi pensieri. (p. 179)

Racconti[modifica]

  • Al monito di cristiana pietà ai posteri, i fondatori delle catacombe delle Fontanelle impartirono caratteri vezzosi, allettanti, architettonici. Nelle vaste grotte, nei tortuosi cunicoli, essi edificarono altari, navate, colonne di ossa. Ma le unghie dei secoli produssero innumerevoli frane e guasti nella cattedrale sotterranea. È probabile che nel giorno del Giudizio, quando ognuno si accalcherà al guardaroba, ci sarà un po' di confusione, laggiù. Dio, fate che non prevalga, nel singolo, il concetto di arraffare alla cieca il meglio che c'è. (da Le Fontanelle, p. 299)
  • Forse non è vero che l'amore sia una vetta al sole; occorre forse scendere nell'amore, il supremo coraggio di scendere scendere nell'oscurità più densa, come in fondo a un pozzo. (da Le Fontanelle, p. 300)
  • Non date retta agli odierni lamentatori della città, i quali tetramente affermano che è morta e seppellita; ma neanche badate ai tam-tam di quanti la proclamano fortunata e contenta; Napoli è terra di favole puerili e angosciose, tutta miele e cicuta, grembo di mamma e schiaffo di padrigno, favola sono pure chi la denigra e chi la decanta, vorreste che le mancassero proprio gli orchi e le fate? (da Le apparizioni, p. 303)
  • È una penna, una piuma dichiaravano fremendo i nostri coetanei, mentre nelle sudicie manine loro, a titolo di saggio, concedevamo che frusciasse brevemente lo strùmmolo incantato degli zingari. Quel prodigio ci estraeva puliti puliti, fra la smorfia della bocca di ghisa della fontanina pubblica, e l'immondizia accatastata negli angoli, dei nostri cenci. L'impercettibile ronzio della trottola napoletana ha proprio la dolcezza con cui si srotolano veloci e quiete le reminiscenze in un cuore. (da Le apparizioni, pp. 305-306)

San Gennaro non dice mai no[modifica]

Incipit[modifica]

Sono contento, pensai, che mi capiti di andare a Napoli proprio in questi giorni, prima che finisca il mese di marzo.
In marzo a Napoli è una città bambina, con le violette in mano, che va a fare la sua prima comunione. Chiede indulgenza per i suoi peccatucci invernali – una incipriatura di neve il 29 dicembre, pioggia e vento nell'ultima settimana di gennaio, uno scivolone il 15 febbraio all'Arco Mirelli con frattura del femore eccetera –, mea culpa dice sfavillando in ogni vetro di finestra, riceve l'assoluzione, riceve come sacramento un sole purissimo, un sole particolare; e infine si alza, strizza l'occhio a una nuvoletta che è apparsa dietro il Vesuvio, conta fino a sessanta.

Citazioni[modifica]

  • Toledo era invasa dai mendicanti, ne era pavimentata. Costoro inventavano Napoli con una forza vittorughiana. (p. 26)
  • Allora come allora, nel marzo del 1947, Napoli, eccettuandone via dei Mille, via Tasso, il viale Elena e poche altre arterie di Chiaia di San Ferdinando del Vomero, era tutta un rione popolare. Napoli era allora un vicolo solo, un "basso" solo, una botteguccia sola. (p. 29)
  • Non importava vendere molto o vendere poco o non vendere affatto: bastava che si tentasse di vendere. (p. 29-30)
  • Il vero mare di Napoli è quello esiguo e domestico di Santa Lucia, di Coroglio e di Posillipo. Consuma Castel dell'Ovo e il Palazzo Donn'Anna, bruca il muschio delle vecchie pietre, sente d'alga e di sale come nessun altro mare. (p. 42-43)
  • Salvatore Di Giacomo morirà solo quando Marechiaro (che ora ha una via intitolata al suo nome) e l'intera Napoli avranno cessato di esistere... (p. 61)
  • Che cosa c'è tutto sommato, a Napoli? C'è un vulcano [Vesuvio] che ha tante possibilità di sterminio quanti sono gli acini d'uva e le ginestre cui si agghinda per dissimulare le sue intenzioni. (p. 99)
  • Lasciatemi dire che a Napoli i Santi, dal supremo e volubile San Gennaro al distratto San Giuseppe, da Sant'Antonio che protegge Posillipo a San Pasquale che sorveglia attentamente Chiaia, non sono che autorevoli congiunti del popolo. Il napoletano ha San Luigi, Sant'Espedito e ogni altro Santo come a certi poveracci dei vicoli capita di essere imparentati con un insigne professore residente a via dei Mille. Questi poveracci descrivono orgogliosamente l'attività e i successi dell'eccezionale consanguineo, dicono: «E quello il commendatore ci è stretto cugino», solo per qualche consiglio o raccomandazione si permettono di disturbarlo, la verità è che si leverebbero il pane di bocca per accrescere il suo benessere. Così, o quasi, stanno le cose a Napoli tra il popolino e i Santi; ma sempre fede è, sempre amore. (p. 135)

Incipit di Carmela[modifica]

Il dottorino Ghislaghi dice:
«Gliela faccio, non tema, l'iniezione. Ma cerchi di resistere un poco, signora Galò... bisogna ricorrere alla morfina quando proprio... quando proprio... eh signora, mi capisce, vero?»[11]

Citazioni su Giuseppe Marotta[modifica]

  • La pagina di Giuseppe Marotta ha sempre il sapore di una cosa non definita e non compiuta. Si muove ai limiti del bozzetto e del surreale. Possiede, infatti, del bozzetto il vigore concentrato sulla parola e l'illimitata possibilità di fare presagire vicende ancora da costruirsi come prende dal surreale certe evasioni e certe nostalgie che rasentano i regni della favola e del sogno. (Francesco Grisi)

Note[modifica]

  1. Da A Milano non fa mai freddo, citato in Alberto Alfredo Tristano, Napoli a Milano, il viaggio dimenticato di Marotta, linkiesta.it, 12 ottobre 2013.
  2. Da Un fraterno evviva all'amara via Veneto di Fellini; in Al cinema non fa freddo, a cura di G. Amelio, postfazione di G. Fofi, Cava de' Tirreni, Avagliano, 1992, pp. 79-80.
  3. a b Citato in Fernando Palazzi, Dizionario degli aneddoti, Baldini Castoldi Dalai, 2000.
  4. Clara Booth Luce, ambasciatrice degli Stati Uniti in Italia.
  5. 1956; citato in Il seme della violenza - Rassegna stampa, mymovies.it.
  6. Da Visti e perduti, Bompiani.
  7. Da A Milano non fa freddo, Bompiani, 1949.
  8. Da Di riffe o di raffe, a cura di Vittorio Paliotti, Bompiani, Milano, 1965, p. 359.
  9. Nuovi, refuso, nella fonte.
  10. Citato in Roberto Napoletano, La libreria Bocca, Marotta e la «sua casa» in Galleria, ilsole24ore.com, 17 gennaio 2016.
  11. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937

Bibliografia[modifica]

  • Giuseppe Marotta, Dieci racconti, in Gli alunni del sole, Bompiani, Milano, 1966.
  • Giuseppe Marotta, Gli alunni del tempo, Bompiani, Milano, 1967.
  • Giuseppe Marotta, L'oro di Napoli, Bompiani, 1955.
  • Giuseppe Marotta, L'oro di Napoli, Rizzoli, BUR, 1987.
  • Giuseppe Marotta, L'oro di Napoli, introduzione di Raffaele Nigro, Rizzoli, BUR grandi classici, Milano, stampa 2020. ISBN 978-88-17-01091-7
  • Giuseppe Marotta, Le milanesi, Bompiani, Milano, 1963.
  • Giuseppe Marotta, Mal di Galleria, Bompiani, Milano, 1958.
  • Giuseppe Marotta, Racconti, in Gli alunni del tempo, Bompiani, Milano, 1967.
  • Giuseppe Marotta, San Gennaro non dice mai no, prefazione di Michele Prisco, Avagliano Editore, 1995.

Filmografia[modifica]

Voci correlate[modifica]

Altri progetti[modifica]

Opere[modifica]