Antonio Gallenga

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Antonio Gallenga

Antonio Gallenga (1810 – 1895), giornalista, scrittore e patriota italiano.

L'Italia presente e futura[modifica]

  • Gl'Italiani sono considerati come una bella razza, e le loro donne sono sempre più avvenenti verso la fine della stagione invernale breve ma rigida, allorché la salubre tramontana ha richiamato sulle loro carnagioni brune un vivace colorito roseo che il caldo estivo aveva fatto scomparire, ed ha rinforzato le loro forme eleganti e rotondette, che, il soffocante scirocco aveva abbattute ed infiacchite. Ma per le strade affollate, specialmente a Torino, tra la gente di bell'aspetto, scorgete subito, appena arrivati e in un giorno solo, un maggior numero di nani, di storpi, una maggior varietà di gobbi, di ammalati deformi e disgustosi, di quello che potreste vedere a Londra in un anno intero. Le cause di questo doloroso spettacolo non si conoscono ancora bene.
    Pare che la razza nei suoi strati più bassi sia stata, di generazione in generazione, mal nutrita, male alloggiata, viziata e corrotta; né ai disordini che tengon dietro ai peccati dei padri si potrà forse se non col tempo portar rimedio nei deformi e sventurati discendenti. (Introduzione, pp. 10-11)
  • [...] è pure innegabile il diritto dell'Italia ad esser chiamata «il paese della bellezza.» E il «giardino d'Europa,» e non v'è luogo, neppure nelle località relativamente più monotone, in cui l'occhio non sia rallegrato dagli effetti combinati della terra e dell'acqua, dell'aria e della luce. Ma se la natura, in Italia, ha fatto per l'uomo tutto quello che poteva, bisogna convenire che l'uomo le ha mal corrisposto cercando in ogni maniera di guastare l'opera sua; che egli ha defraudato tanto la sua terra quanto il suo clima di tutti quei vantaggi dei quali era gli stato concesso il godimento, e ciò spogliando spietatamente i monti delle loro foreste primitive, che la Provvidenza aveva inalzate a tutela delle regioni più basse. (Introduzione, pp. 11-12)
  • Quando la politica non gli va a verso l'Italiano si limita a non occuparsene. Ragiona così: le faccende del paese sono le faccende di tutti, ossia di nessuno; certo non sono faccende sue. (Introduzione, p. 17)
  • [...] l'Italia può fidare ben poco sulla sua reputazione militare. Domandatene ad un generale francese o tedesco, ed egli vi risponderà che gli darebbe maggior pensiero uno scontro con un pugno di robusti montanari dei cantoni svizzeri che una scorreria in Italia, sebben questa disponga di più di due milioni di combattenti; e questo perché gli Svizzeri hanno dal canto loro il prestigio di Sempach e di Morgarten, di Morat e di Grandson, di Marignano, ec., mentre dal 1495 in poi, dai tempi di Fornovo a quelli di Custoza, nel 1866, l'Italia, come nazione, non ha pur troppo da registrare nei suoi annali militari che ingloriosi disastri. (cap. I, p. 27)
  • Se la massa potesse seguire i propri impulsi e non fosse troppo spesso esposta ai suggerimenti dei suoi peggiori nemici, i così detti «amici del popolo,» si potrebbe forse accettare il Vox populi, come il Vox Dei. Le cose avvenute in Francia c'insegnano che non v'è democrazia la quale non conduca tosto o tardi alla demagogia; nessuna sovranità popolare che non finisca in un Rabagas[1], in un Gambetta e all'ultimo in una dittatura napoleonica. (cap. VII, p. 134)
  • Ai ministri italiani, presi in complesso, non mancano né l'abilità né la buona volontà; assidui nel disimpegno dei loro doveri, sono lavoratori pazienti e perseveranti; ma fanno loro difetto gl'istinti e le abitudini del comando. Pochi di essi son nati al governo e pochi hanno la coscienza dell'autorità e della responsabilità di cui li riveste il loro ufficio. Sembrano a volte ignorare che la missione di un ministro non è tanto quella di lavorare esso stesso quanto quella di badare che facciano il loro lavoro tutti gli individui che dipendono dai suoi ordini; che essi devono prendere su di sé solo la direzione generale degli affari pubblici e non già sbrigarli ad uno ad uno giornalmente. (cap. VII, p. 135)
  • Pur troppo i ministri italiani vengon fuori per lo più dalle file parlamentari; sono semplici oratori e spesso null'altro che oratori; tra essi non ha ancora avuto tempo di prender radice l'arte di stato tradizionale. Come legislatori danno prova di grandissimo zelo, accavallando leggi su leggi, ma sembrando quasi dimenticare che le leggi, fossero pur quelle di Licurgo o di Solone, sono buone solo in quanto vengono strettamente osservate, raramente ricordano il detto del poeta italiano: Le leggi son, ma chi pon mano ad esse? (cap. VII, p. 135-136)

Storia del Piemonte[modifica]

Volume I[modifica]

  • Mossi a principio da null'altro sentimento che dalla brama di distruggere, i Barbari del Nord non avevano, per lungo spazio di tempo, aspirato a governare. I Goti, i Burgundi e i Franchi dapprima si dichiararono soldati dello Impero che andavano devastando; e i loro capi erano insigniti dei titoli di Prefetti o Generali Romani: quando pure all'ultimo fondarono le proprie monarchie, mostrarono quanto grande fosse l'incapacità loro d'ogni civile amministrazione. A dir vero, neppur tentarono o pretesero di governare: l'occupazione loro era semplicemente militare; il paese non era che presidiato: una specie di libera disciplina di campagna teneva d'accordo in qualche modo i seguaci armati del Conquistatore – sol quanto però fosse compatibile col forte individualismo, col geloso, indomabile spirito d'indipendenza personale che era primo vanto di tutte le razze Germaniche: del resto, quanto alle genti soggiogate , esse venivan lasciate o in preda all'anarchia, o all'impero delle proprie leggi: di queste leggi i nuovi padroni nulla sapevano, nulla volevano saperne, limitandosi solo a ciò che esse non avessero a ledere i diritti o le pretese della razza dominante, o porre un limite alle esazioni di essa. (vol. I, Libro III, pp. 85-86)
  • [...] i Longobardi e i Burgundi furono tra i primi popoli Nordici a trovare stabili sedi; e padroni una volta della terra ebbero interesse, com'ebbero anche forza, di guarentirla da ulteriore oltraggio: Lombardi e Burgundi erano entrambi popoli della stessa gente Vandalica; vivevano in vicinanze gli uni degli altri, per ampie foreste lungo le sponde della Vistola, prima che venissero a signoreggiare i paesi cui diedero il nome[2]; ed avean già fama di umani e di miti tra le nazioni barbariche sorelle: i Burgundi aveano di più adottati gli usi della vita civile fino a convivere in torri o villaggi (Burg) la quale circostanza valse loro il nome di Burgundi che venne lor dato in via di sprezzo come a gente che preferisse il ricovero di un tetto all'aria libera dei campi. (vol. I, Libro III, p. 90)
  • [I Burgundi] Erano operai, muratori e legnaiuoli di mestiere, e non sdegnavano nei tempi di pace di campare onestamente la vita col sudor delle fronti. Chi sa fino a qual punto a queste loro abitudini laboriose e costruttive, le quali dovettero ispirar loro una certa venerazione per le maraviglie architettoniche del genio Romano, noi non andiam debitori della conservazione d'antichi monumenti e in Provenza e in Savoia, e ad Aosta ed a Susa? (vol. I, Libro III, pp. 90-91)
  • [I Burgundi] [...] venuti in contatto coi Romani (così si chiamavano ora i nativi tutti delle Gallie, non men che d'Italia), parvero trarre dal suolo stesso che calpestavano alcune scintille del genio del gran popolo conquistatore: le loro leggi (la Loi Gombette) promulgate da re Gondebaldo nel 502, e di nuovo sotto Sigismondo nel 518, erano derivate in gran parte dai Codici Romani; eran dettate dallo spirito di municipalismo Romano, spirito che prevaleva tuttavia nelle città ancor numerose e fiorenti della Gallia Meridionale, ed erano, per altro, meno affette dalla influenza sacerdotale di quel che fossero quelle dei loro vicini, i Visigoti di Aquitania e di Spagna. Le leggi Burgunde, in somma, eran tali da meritare gli encomii dell'Autore[3] de «l'Esprit des Lois,» il quale assegna ad esse il primo posto tra tutti i Codici Barbarici. (vol. I, Libro III, p. 91)
  • [...] le leggi Longobardiche non erano solamente eque verso ai vinti per ciò che spettasse ai nobili e ai liberi, ma usavano clemenza persino verso gli schiavi, a favore dei quali troviamo decreti, che non solamente danno indizio di progresso sulle antiche consuetudini Romane, ma che potrebbero anche dar motivo di rossore ad alcune delle Repubbliche dei tempi nostri presso delle quali è in forza tuttavia la schiavitù: esse proteggevano la castità d'una schiava contro la libidine del padrone, ed accordavano al servo della gleba quei diritti di asilo di cui chiese e santuarii erano fin d'allora in possesso. Questi barlumi di umanità nei codici Longobardi, Burgundi e Visigotici, noi dobbiamo senza fallo alla influenza civilizzatrice della Chiesa. (vol. I, Libro III, p. 94)
  • Ben altrimenti crudi signori [dei Longobardi] erano veramente i Franchi, i quali si conducevano non solamente colla barbarie di nuovi invasori ai quali il guasto dato dai loro predecessori non lasciava più quasi cosa alcuna a rapire o a devastare, ma si comportavano con una efferata crudeltà di gran lunga maggiore di quanto il mondo avesse fino allora veduto, maggiore di quanto mai possa leggersi negli annali stessi della barbarie. Nulla vi è che agguagli la ferocia, la rapacità del popolo; nulla che possa paragonarsi alla scelleraggine, alla doppiezza ed ipocrisia dei Re della Prima Razza, e sopra tutto di Clodoveo, fondatore della Monarchia [...]. (vol. I, Libro III, pp. 94-95)
  • Arduino era tutt'altro che uomo esemplare, sebbene certo non così nero come i Tedeschi han voluto dipingerlo. Scevro di colpe non era, e neppur di delitti; ma i suoi stessi errori e misfatti erano di natura a risvegliare a suo pro tutte le simpatie nazionali: erano i suoi migliori titoli al favor popolare. (vol. I, Libro III, p. 107)
  • [Arduino d'Ivrea] [...] era al colmo della prosperità, quando, inaspettatamente, e per cagioni non ben note, – ove non voglian cercarsi nelle sue infermità, o nel tedio della vita, o nell'ira impotente da lui covata contro l'implacabile suo nemico, Leone di Vercelli, che di nuovo gli avea per stratagemma strappata di mano quella città – si ritrasse da ogni contesa, e fe' rinunzia del trono, nel settembre del 1014. Si condusse quindi alla Badia di S. Benigno di Fruttuaria, sul Malone, a cinque miglia da Chivasso, badia ch'egli stesso avea riccamente dotata, e quivi chiuse i suoi giorni, il 14 dicembre 1015.
    La svariata carriera di questo Piemontese Re d'Italia, che non è senza analogia con quella d'un Principe non ha guari mancato ai vivi, dee considerarsi come il primo grande avvenimento nazionale dell'Italia moderna. (vol. I, Libro III, p. 110)
  • Ben è chiaro che mentre Arrigo non era che il Re dei vescovi, Arduino era il Re del popolo. Questi due poteri stavano contendendo del primato in Italia, e gli sparsi frammenti della grande aristocrazia feudale, i pochi signori Laici tuttora esistenti, cambiavan parte dall'uno all'altro, intenti piuttosto a provvedere alla propria salute, che a far col proprio peso traboccar le bilance dall'uno piuttosto che dall'altro partito. (vol. I, Libro III, p. 111)
  • I Saraceni, razza degenere anch'essi a quest'epoca[4], ed assai diversi da quei Mori Cavallereschi che aveano due secoli avanti condotta a termine la conquista dell'Africa e della Spagna, si erano fatti padroni della Sicilia, aveano posto piede in Apulia, e di là correvano a preda lungo tutte le coste del Mediterraneo. (vol. I, Libro III, p. 115)
  • I Normanni e i Saraceni correvan terre e mari in picciole bande; gli Ungheri, numerosi alla partenza, si sciolsero però anch'essi in parecchie masnade, sicché sembravano trovarsi in ogni luogo al tempo stesso. Aveano meschine armi ed equipaggi. In una età nella quale era il cavallo il nerbo degli eserciti, od erano mal montati , o combattevano a piedi con archi e frecce, quasi del tutto spogli d'ogni armatura difensiva. Forti soltanto della loro selvaggia energia e della indefessa loro attività, eludevano il cozzo della grave cavalleria franca o germanica, cui male avrebber saputo reggere. Stancavano con rapidi movimenti quei ferrei guerrieri con cui non avrebber potuto venire a lotta, – quei ferrei guerrieri che portavan bensì in campo le armi dei loro padri, ma sotto i cui usberghi più non battevano i cuori stessi dei padri loro. (vol. I, Libro III, p. 121)
  • I Goti, i Franchi, ed altre genti avean tratto con sé immense moltitudini con cui ripopolare le esauste provincie dell'Impero Romano. Essi medesimi però caddero tosto in preda a quei mali sociali che aveano spopolato l'Impero stesso. La civiltà romana aveva badato a sviluppare le città a danno delle campagne. I conquistatori del Nord scelsero da prima la dimora in campagna, e diedero così per qualche tempo ad essa il di sopra sulle città. Ma anche tra loro la terra cadde ben presto nelle mani di pochi grandi, i quali la coltivarono per mezzo di coloni o di servi, e fecero così a grado a grado sparire tutta la razza dei minori proprietari e dei liberi cultori. (vol. I, Libro III, p. 122)
  • Posta fra sì gravi e sì complicate strettezze, circondata da sì numerosi e sì diversi nemici, Casa Savoia dovette la sua salvezza in parte ai vantaggi naturali della sua posizione geografica: posta originariamente a cavallo alle Alpi, là dove Borgogna e Lombardia, dove Francia ed Italia venivano a contatto, essa esitò lunga pezza tra il nord e il sud, tra l'est e l'ovest, come un'aquila librata sull'ali presso il suo nido, incerta da qual lato abbia a spiccare il primo suo volo. Per quasi cinque secoli rimase essa straniera all'Italia. (vol. I, Libro III, p. 167-168)
  • È probabile che Amedeo fosse più d'ogni cosa zelante per l'unità e la pace del mondo cristiano; e forse il mondo non era maturo per una rivoluzione quale fu consumata un secolo dopo da Lutero. [...].
    Ciò ch'ei fece parve a tutti i suoi contemporanei il meglio. Lo seguirono nel suo eremo l'applauso e la gratitudine del mondo intero, e persino il buon volere de' suoi opponenti, e il postumo omaggio del suo fortunato rivale Niccolò V, il quale in una lettera apostolica in data del 30 aprile 1451 celebrava nei termini più eloquenti le virtù dell'illustre defunto, e con ogni solennità sanciva tutti gli atti di Amedeo, e quelli che si riferivano al di lui pontificato, e quelli della sua susseguente legazione, e del suo cardinalato. (vol. I, Libro IV, p. 204)
  • [...] tra tutti i potentati della terra, la Chiesa non avrebbe in guisa alcuna potuto trovar mai più costanti, più generosi, più sommessi patrocinatori de' suoi interessi di quel che fossero i Principi di Casa Savoia. Noi tralasceremo di buon grado [...] di fare il novero dei santi e dei beati d'ambo i sessi, di cui questa nobil prosapia arricchì il calendario romano; la santità, casa Savoia l'avea nel sangue; e spesso, come avvenne nella famiglia d'Amedeo III, tanto prese possesso d'una intera generazione, che non fu senza grave difficoltà che poté trovarsi chi volesse gravarsi del peso della corona, o si desse pensiero di perpetuar la famiglia. (vol. I, Libro IV, p. 207)
  • Odoardo [...] giovine impetuoso e bollente, il più avventato Principe di tutta sua stirpe [...]. (vol. I, Libro V, p. 225)
  • Umberto II fu l'ultimo Delfino. Raggiunse egli un potere di gran lunga maggiore di quello dei suoi predecessori, e pervenne persino ad impadronirsi della città di Vienne. Una simile usurpazione gli valse le censure non solo dell'Arcivescovo di quella Diocesi, ma ben anche della Corte Papale di Avignone. Era uomo d'indole fiacca; uomo vano, sconsiderato, bizzarro, scialacquatore, indebitato tutta la vita [...]. (vol. I, Libro V, p. 227)
  • Sopravisse Umberto sei anni all'atto di abdicazione. L'astuto re francese [Filippo VI] seppe indurlo ad entrare negli ordini sacri, e gli ottenne dal Papa alte dignità. Creato a diverse epoche Patriarca di Alessandria d'Egitto, vescovo di Parigi, e Amministratore della sede Metropolitana di Rheims, quell'irrequieto passò di terra in terra, sinché terminò la sua screziata esistenza in un monastero da lui fondato a Clermont. (vol. I, Libro V, p. 228)
  • [Pietro II di Savoia] Morì consunto, non dall'età (non avea che sessantacinque anni), ma da quella sorprendente energia ed operosità, di cui i suoi biografi non trovavano esempio se non rimontando ai tempi del possente Imperatore[5] di cui si compiacevano di dargli il nome. Mori, stanco della fortuna; e gli molceva l'orecchio nell'estreme ore d'agonia, l'arpa dell'amato suo Bardo, Guglielmo de Ferrat, che gli cantava le gesta d'uomini valorosi. La fortuna non si era, mai, se non una volta in Italia, ed un'altra sulle coste d'Inghilterra, mostrata sleale alle sue bandiere. (vol. I, Libro V, p. 247)

Volume II[modifica]

  • I sudditi chiamavano Carlo III «il Buono, e lo Sventurato.» Ma il primo di quei titoli poteva appena schermirlo da quello di «Debole,» che meglio gli si conveniva, ed abbiamo d'altronde alcuni tratti di crudeltà e di doppiezza notati contro di lui – difetti che si trovano non di rado congiunti a quelli della pusillanimità e della irresoluzione. Vi era poi nel carattere di quel Principe un misto di vanità e di frivolezza, che derogavan non poco di quella simpatìa e di quel rispetto che sogliono tributarsi dal mondo ad uomini che sieno realmente ed immeritamente sventurati. (vol. II, Libro X, pp. 57-58)
  • [Carlo III, il Buono] Gli stessi scrittori che vollero tesserne l'elogio, confessano ch'egli era «grand en esprit, petit en courage». Atri han trovato ch'egli era abitualmente «pallido e malaticcio,» e «de nature, sans le vouloir blâmer, un peu bossu de son corps». (vol. II, Libro X, p. 58)
  • [Carlo III, il Buono] Come l'avo suo, il [nonno paterno] Duca Ludovico, ei mostrò al mondo il raro fenomeno di un principe di Savoia inetto ad esercizi guerrieri, in una età in cui né amici né nemici potean perdonare ad un uomo ch'ei non sapesse stare a cavallo, e mantenere il suo per forza di braccio. (vol. II, Libro X, p. 58)
  • [...] Carlo III diè segno troppo presto di sommissione cieca e passiva: confidava per la propria difesa nella giustizia della sua causa, nella sua dolcezza e moderazione. Avea per motto favorito: «Nil deest timentibus Deum.»
    Neutralità possentemente armata potea forse salvar lo Stato: ma Carlo fidò nella Provvidenza, e mise abbasso le armi. (vol. II, Libro X, p. 59)
  • Il Piemonte, onninamente[6] prostrato da venticinque anni di occupazione straniera, devastato dal calpestìo di tutti gli eserciti d'Europa, richiedeva ora l'opera d'un Genio costruttore, e a tal compito era provvidenzialmente atto Emanuele Filiberto. Null'uomo poteva più impunemente esordire una carriera pacifica di quel che lo potesse il vincitore di San Quintino. Siccome lo rappresenta un valente scultore moderno, quel Principe era tuttavia un guerriero in completa armatura, e mostrava non men ferma risoluzione che tranquilla dignità, nell'atto stesso di riporre la spada nella guaina: e quegli stessi che traevano vantaggio dalle sue strettezze per imporgli duri patti, badavano però di non spingerlo troppo agli estremi, e lo trattavano con riverenza e riguardo. (vol. II, Libro XI, p. 111)
  • Tale era Emanuele Filiberto, uno di quei grandiosi eroici tipi, i quali si diletta di contemplare la storia – uomo a cui la storia è di tanto più volonterosa di far giustizia, quanto più egli sdegnò di prezzolarla: poiché quando Paolo Giovio gli offerse il tributo delle venali sue lodi, tributo accettato bramosamente ed anzi sollecitato da altri Principi, il Duca rispose con dignità sublime, «ch'egli stimava assai più il lieve susurro dell'interna voce della coscienza che non tutto il clamore dell'applauso del mondo.» Era tipo completo, carattere quasi senza menda alcuna – ove non fosse la tenerezza soverchia verso il bel sesso, e i sette od otto figli naturali che ne furon frutto – amabil colpa, – si riteneva in quell'età, e da trattarsi con indulgenza ne' Principi, come pur troppo si stima ancora a' tempi nostri. (vol. II, Libro XI, pp. 165-166)
  • [Emanuele Filiberto] Nota è la statura alquanto al disotto della mezzana, le larghe spalle, le forme delicate per natura, ma use ad aspre fatiche per gli esercizii militari degli anni giovanili, – gli occhi grigi e freddi, le ciglia inarcate, il labbro inferiore sporgente alquanto, i capelli biondi, corti, arricciati, la barba breve e folta, non mai screziata di canizie in età matura, la testa piccola e rotonda – «Testa di ferro;» – tutto è a noi noto fino alle gambe alquanto incurvate all'infuori, «all'Ercolina,» come si dice in Italia, leggera menda ch'egli sapea volgere a suo pro, poiché «non fu mai uomo che sedesse con maggior forza o con grazia più naturale in sella». (vol. II, Libro XI, p. 166)
  • [Carlo Emanuele I di Savoia] [...] uomo dotato forse d'ingegno più vasto e più acuto, ma pur troppo anche più fervido e più avventato di quel che fosse quello del genitore [Emanuele Filiberto]; mancavano in lui le più grandi virtù del padre: la moderazione e la rettitudine. (vol. II, Libro XII, p. 174)
  • [Carlo Emanuele I di Savoia] Nato fra l'uno e l'altro secolo, fu detto di lui che gl'illustrasse ed agitasse entrambi. Non pose limite all'ambizione, all'animo non concedette riposo. Aspirò a diverse epoche della lunga sua vita alle Corone di Provenza, di Borgogna e di Francia, a quelle di Spagna, di Portogallo e di Cipro, alla Lombardia, alla Liguria, alla Corsica, e persino, a quanto si dice, al Papato. Non vi era sproporzione di forze che lo sgomentasse, non disonestà di mezzi che lo disanimasse. Sì poco lo movevano gli scrupoli come i timori. (vol. II, Libro XII, p. 174)
  • [Carlo Emanuele I di Savoia] Era profondo fino all'astuzia, e pur tuttavolta impetuoso fino alla insania. La cieca violenza della sua tempra ad ora ad ora lacerava le reti tese dalla sottile sua mente. Visse d'intrighi e morì di rabbia. (vol. II, Libro XII, p. 174)
  • Seduto fermamente sul trono di Francia, Arrigo IV aspirava a dare alla Monarchia l'antico suo lustro, abbassando l'Austriaca rivale. Dodici anni di pace avean rimessa la Francia dalle sciagure di sì lunghe guerre civili; ardeva essa perciò di desiderio di versarsi al di fuori, e il Re le apparecchiava non lieve bisogna. Vasto era il pensiero di Arrigo, e sì vasto che altri non volle supporlo concetto d'un sol uomo, e lo credette a lui suggerito dal Papa, altri da Elisabetta Regina d'Inghilterra. Rovesciato il trono Austriaco, meditava il Re di costituire una federazione o Repubblica di quindici Stati divisi ed ordinati, per quanto le idee d'allora il comportassero, secondo principii nazionali. (vol. II, Libro XII, p. 185)
  • Carlo Emanuele [II] impiegò ì più felici giorni del suo regno in opere magnifiche di architettura, di cui ereditò l'amore non meno dalla madre [Cristina di Borbone-Francia] che dall'ambizioso suo avo. Il Valentino, acquistato già da Emanuel Filiberto dai Birago, e rifabbricato quasi di pianta da Cristina; la Piazza San Carlo, ideata già sotto Carlo Emanuele I, ebbero l'ultima mano da questo Duca. Fabbricò egli altresì la cappella della Sacra Sindone, il Palazzo Reale, la Venaria, Rivoli, e la strada di Po, e non pochi degli altri grandiosi, sebbene barocchi, edifizi cospicui al giorno d'oggi in Torino e nei contorni. (vol. II, Libro XII, p. 211)
  • A questa passione per lo sfoggio e la magnificenza, che sempre abbaglia le moltitudini, al suo severo sentimento di giustizia per cui seppe resistere e all'oro degli uomini e ai vezzi delle donne, più che non usassero allora altri regnanti – e di più alla grande sua urbanità e famigliarità di modi – debbe ascriversi la popolarità di cui godette Carlo Emanuele II, a malgrado di gravi errori politici, e delle imposte di cui la stessa sua prodigalità gravò lo Stato. (vol. II, Libro XII, pp. 211-212)
  • Sentendo appressarsi il suo fine, [Carlo Emanuele II] volle che si spalancassero le porte delle sue stanze, perché venisse ammesso il popolo che vi si era affollato, affinché l'infimo de' suoi soggetti vedesse come passava di vita il suo Principe, ed egli avesse il conforto di morire tra' suoi; aveva egli allora quarantatré anni. (vol. II, Libro XII, p. 212)
  • Una delle più atroci misure adottate contro i Valdesi era il diritto accordato al clero Cattolico di por mano sui fanciulli dei Protestanti che si mostrassero disposti a condursi nel grembo della chiesa di Roma, a fine di sottrarli all'influenza degli eretici genitori. Sotto pretesto di esaminare le tendenze dei fanciulli in tenera età, un prete malvagio ed ignorante avea così accesso alle famiglie Valdesi, e talvolta strappava bambini di seno alla madre quando per infantile vaghezza di imagini, di rosarii o d'altre bazzecole di simil genere, dessero indizio di «vocazione alla vera fede.» Quest'uso, nato da principio da scellerato abuso, venne poi in forza di legge, sotto Vittorio Amedeo I, il quale ordinò che niun fanciullo fosse tolto ai parenti col disegno di convertirlo prima dell'età di dodici anni pei maschi, e di dieci per le femmine; col quale decreto quel Principe, mosso senza dubbio da umano intendimento, venne però ad autorizzare la leva forzata dei fanciulli maggiori di quell'età. (vol. II, Libro XIII, pp. 269-270)
  • Al tempo della Ristorazione[7] il Principe [Carlo Alberto di Savoia] avea sedici anni, e siccome Vittorio Emanuele I non avea figli maschi, e Carlo Felice figlio alcuno, Carlo Alberto venne riguardato come erede presuntivo. Le circostanze della sua nascita ed educazione, il suo alto e dignitoso esteriore, le maniere, le abitudini, e più specialmente i sensi generosi a cui dava espressione, – tutto ciò in somma che a lui si riferisse, parea fatto per risvegliare in favor suo la più brillante e fervida aspettativa dei liberali. Si combinavano nel suo carattere i tratti del Principe Savoiardo e del patriota Italiano. (vol. II, Libro XVI, pp. 442-443)
  • Nemico per istinto nativo degli Austriaci, [Carlo Alberto di Savoia] era poi invelenito dalla conoscenza delle mene appena segrete del Gabinetto di Vienna, che cercava di escluderlo dalla successione, e di sostituirvi il Duca di Modena, marito di Beatrice di Savoia, e genero di Vittorio Emanuele I. Del resto era giovinetto di schive e riservate maniere; carezzevole e persin seducente agl'intimi; ma famigliare a nessuno. Era dotato di gran padronanza sugl'impeti delle proprie passioni; e di poteri quasi precoci di dissimulazione: era studioso sopratutto di scienze militari, operoso, stoico, inclinato alla malinconia, amante del ritiro. (vol. II, Libro XVI, p. 443)
  • Vi sono abissi del cuore umano in cui non scende che l'occhio di Dio. Che Carlo Alberto [con la concessione, il 13 marzo 1821, della costituzione spagnola con riserva dell'approvazione di Carlo Felice] sacrificasse ogni cosa per amor del suo dritto[8] di successione al trono è un punto fuor di quistione; se poi l'ultimo suo scopo fosse pura volgare ambizione, o generosa aspirazione patriotica, non è cosa che il mondo possa mai giudicare, perché vi fu un destino che lo spinse oltre con cieco impeto, né vi è tra tutti i fatti della susseguente sua carriera un solo che possa veramente dirsi figlio della libera sua volontà. (vol. II, Libro XVI, p. 445)
  • Gioberti era sempre stato uom moderato tra i più moderati. Avea scritto libri per provare esser l'Italia inetta persino ad uno esperimento di costituzionalismo Transalpino. Tuttociò ch'ei raccomandava era concessione guardinga e graduale: del resto voleva che la causa nazionale trionfasse per opera di Papi e di Principi. Nulla vi era ch'ei più abborrisse che le radicali e violente riforme. (vol. II, Libro XVI, p. 489)
  • La libertà e il benessere di questo paese [il Piemonte sabaudo] – erano strozzati dal favoritismo di Corte e da un insolente nipotismo aristocratico. D'Azeglio per sé spregiatore d'ogni distinzione, fuor quella che nasca dal merito personale, parea non aver fermezza di mente necessaria a staccarsi dalle sue associazioni di famiglia e di casta. Si esagerava il pericolo di una troppo aperta guerra coll'antica nobiltà, la quale pure, come corpo, era impotente a far male come a far bene. Parlava di riforme, di avanzamento del vero merito, ma poi, dolce di cuore, lasciava correre. Sfuggiva all'impegno di una lotta con uomini avvezzi a riguardar lo Stato come una fattoria intesa a beneficio di se medesimi, dei loro parenti ed amici. (vol. II, Libro XVII, p. 548)
  • Cavour al contrario [del D'Azeglio] era aristocratico in fondo all'anima: avverso al profano volgo, pieno della propria capacità, troppo certo dell'inettezza altrui: uno dei più doviziosi signori del Piemonte, congiunto di parentela colle più illustri famiglie. Esordì, nel 1847, come giornalista, redattore del Risorgimento, uno dei fogli più conservativi tra i costituzionali, né fece mistero delle sue speranze che il giornale avesse, nelle sue mani, a cangiarsi in portafoglio. In quel tempo, e per tutta la crisi del 1848-49, si rese poco accetto, a motivo sopratutto de' modi suoi assoluti e alquanto imperiosi, e passò per Codino: ma era uomo di gran senno, e vide come uno Stato libero debba esser retto dalla vera sua aristocrazia; capi cioè che, o la nobiltà dee dar prova di nuove facoltà e sforzarsi, come fa sempre negli Stati liberi, a tenere il primato per proprio merito, o dee rassegnarsi a vedere il potere nelle mani di gente nuova, dee dar luogo a' suoi «superiori.» (vol. II, Libro XVII, p. 548)
  • Cavour è grande e come amministratore e come oratore; porta alle Camere uno spirito guerriero, ed ha l'occhio vivo, l'orecchio attento, la mano pronta, la duttilità, il tempo, tutte le doti d'un impareggiabile schermidore. Nulla gli sfugge, si volge a dritta e a sinistra, e non ama entrare in lizza finché non è certo di avere a fronte tre o quattro competitori, per godere il diletto di abbatterli l'uno sull'altro. Ha la parola alquanto impacciata; e l'uso costante del francese fa che sgrammatichi in italiano terribilmente; ma uomini come egli han diritto di dire: «Tanto peggio per la grammatica!» Ei va dritto al suo scopo, lottando contro ogni ostacolo, né cessa finché non gli sia riuscito il frizzo o l'epigramma che dee annientare il suo avversario, e cattivare a sé il buon umore della Camera. Del resto, ha poco cuore, o non ne fa mostra; la politica è per lui un giuoco d'invito; e il suo sangue freddo gli dà facilmente il di sopra sugli avversari appassionati. (vol. II, Libro XVII, p. 549)
  • Già nel 1852, Cavour avea tentato di formare un governo per mezzo di una combinazione de' suoi più stretti amici i semi-conservativi del Centro Destro, coi semi-radicali del sinistro [...]. Non riuscì per allora, ma ebbe miglior fortuna l'anno appresso, e da quell'anno il Governo è sempre stato nelle mani di questo finanziere a testa massiccia, centi-mano, insonne, infaticabile – e la sua politica fu quale dovea aspettarsi da una coalizione o Connubio di tutti i partiti, tranne gli estremi. L'ambizione torreggiante del Primo Ministro, commensurata alla sua rara energia ed impareggiata abilità non ammette non solo rivali, ma neppur soci d'autorità, almeno in quei dipartimenti su cui ama di esercitare più o men diretta influenza. Ove si eccettuino La Marmora per la guerra, e Paleocapa pei lavori pubblici, Cavour non vuole intorno a sé se non uomini mediocri. (vol. II, Libro XVII, p. 549-550)
  • Rattazzi, avvocato, sa far prova di gran sottigliezza negli argomenti: imbroglia se non convince: è pieghevole e vario, arguto sebbene freddo, copioso, vivace, se non profondo – temibile come avversario. Fuor della Camera è però indolente, e il suo dicastero, quel dell'Interno, è il peggio amministrato. (vol. II, Libro XVII, p. 550)
  • Lanza, ministro dell'istruzione pubblica, è uomo d'animo; dotato di vigore e di fermezza, più che d'accorgimento, si tien forte al proposito, e vince d'ostinazione. Forse gli han dato un portafoglio non di sua vocazione, ma è uomo sincero, coscienzioso, solerte, fermo al dover suo, attento al disimpegno de' doveri altrui. Se non come Ministro, varrà sempre tesori come primo uffiziale. (vol. II, Libro XVII, p. 550)
  • Il primo uso che da un popolo Italiano debbe farsi di libere istituzioni si è, il miglioramento di ogni sistema di educazione fisica e morale. Nulla evvi in Italia che non abbisogni di immediata ed intera rigenerazione, e chiunque apre una scuola conferisce al paese maggior beneficio di chi convoca un Parlamento. (vol. II, Libro XVII, p. 553)
  • Fin qui in somma il Piemonte non ha che la forma, non lo spirito della libertà: il Piemonte ha la facoltà di farsi libero, ma lo è desso? Il Principe gli ha detto «Prenditi il giaciglio sulle spalle e cammina,» ma esso ama gli antichi agi, e continua a stirar braccia e gambe e a sbadigliare. La libertà! – comprenderne tutta la vasta e profonda significanza, svilupparne gl'inesauribili mezzi, seguirne le varie tendenze – compierne la sublime missione – è opera di secoli. Libertà è qui fra noi, perché chi fu generoso a darla, è onesto a conservarla: ma l'emancipazione di un popolo Italiano richiede totale rigenerazione. Il degradamento dell'Italiano data almeno dal 1530. Saremo noi accusati di soverchia sfiducia se crediamo non potersi aver piena redenzione prima del 1900? Lungo servaggio ha snaturato l'Italiano; il dosso curvo per tanti anni sotto il giogo non potrà raddrizzarsi che dopo due o tre generazioni. (vol. II, Libro XVII, pp. 559-560)

Note[modifica]

  1. Commedia di Victorien Sardou del 1872.
  2. Lombardia e Borgogna.
  3. Montesquieu.
  4. Si riferisce al IX secolo.
  5. Carlo Magno.
  6. ant. o letter. per "interamente", "del tutto".
  7. arc. per "Restaurazione"
  8. leggi "diritto"

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