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Giovanni Artieri

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Giovanni Artieri

Giovanni Artieri (1904 – 1995), giornalista e storico italiano.

Citazioni di Giovanni Artieri

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  • Da Sorrento, quel giorno andammo da Alvaro a Positano e alla spiaggia per il bagno. In quell'arenile si trovavano spesso frammenti di corallo rosso, portati a riva dalle onde. Bontempelli mostrò un bel pezzo lucido e umido che affiorava dalla sabbia. «Se ne potrebbe fare un cammeo», disse. E subito dopo: «M'accorgo che non è corallo; è solamente un pezzo dell'alluce del mio piede». L'umorismo bontempelliano era fatto di questi esili filamenti di logica e di paradosso. Esistono creature marine composte di novantanove parti di acqua; pure, esse si distinguono dall'acqua. L'arte la fantasia, la misteriosa poesia dei romanzi e dei racconti metafisici di Bontempelli erano come quelle creature marine. Forse altrettanto delicate e caduche.[1]
  • È difficile tradurre la paroletta «gregueria» senza ricorrere a qualche esempio. I dizionari spagnoli le attribuiscono il pesante valore italiano di «schiamazzo», «cagnara», ma non è il giusto significato, neppure in via approssimativa.[2]
  • [Francesco Saverio Nitti] Era (e resta) uno dei più illustri economisti del mondo, un alto esempio di democrazia e un italiano esemplare in ogni istante della sua vita pubblica e privata.[3]
  • Il Bontempelli era l'ideatore e lo scrittore dei programmi teorici del movimento [Novecentismo]; che si poneva come successore ed erede del futurismo e del cubismo; riassumeva il compito dello scrittore nella ricostruzione dello spazio e del tempo.[4]
  • Naturalmente il capo del movimento, Massimo Bontempelli, senza dirlo, proponeva a esempio, stile e modi e forme fantastiche sue a una pleiade di giovani che, poi, finivano per obbedire ognuno al proprio estro particolare.[5]
  • Tra le due guerre la letteratura italiana brillò del nome di Massimo Bontempelli e di quello di Pirandello. Giù cinquantenne, Massimo rappresentò per la nostra generazione di giovani, la vera giovinezza; cioè la speranza nella gloria letteraria. [...] Bontempelli vedeva l'esistenza di un mistero, di una «magia» anche nella più umile e borghese contingenza.[1]
  • [Ferruccio Parri] Triste, modesto, onesto, personalmente mite, cortesissimo, alieno da violenza, molto miope, paziente.[6]

La Stampa, 27 aprile 1952

  • Il primo ministro è un indiano che si arrabbia, ma non è un dittatore: forse vorrebbe esserlo. Egli è un grande romantico, un artista e scrittore caduto nella politica. Ha subìto il fascino marxista, vorrebbe modernizzare il suo paese, ma ha dovuto farsi fotografare nudo, la corda e il triplice segno della casta braminica sul petto. La dea Saraswati, ossia il fiore dell'indecisione.
  • È un uomo di sessant'anni, di volto giovanile, fine, pallido; gli occhi molto belli, cerchiati ed espressivi, brillano sotto una fronte di attore drammatico. Gli americani gli hanno trovato non so quale somiglianza con Charles Boyer, mentre per la eloquenza hanno paragonato il signor Nehru (senza che questi se ne offendesse) nientemeno che a Fiorello La Guardia. A me questo Amleto indiano ricorda Moissi e Ruggeri, due «Amleti» europei.
  • Molte volte il signor Nehru ha tentato di risalire la corrente, ammonendo i suoi elettori di smettere talune funeste abitudini tradizionali: quella di mangiare, in certe regioni, solo riso; quella di andare scalzi; quella di evitare il taglio dei capelli per non uccidere i pidocchi, quella di masticare le fronde di bethel, costellando il suolo delle città di indelibili sputi sanguigni. Anzi a questa faccenda Nehru dedicò un intero discorso e credo sia stato il solo discorso, nella storia politica del mondo, inspirato dal problema dello sputare per terra.
  • Al contrario di Gandhi che agiva sulle folle mediante idee-forza semplici e possenti [...], Nehru non agisce sull'India altro che mostrandosi, simile a un San Gennaro impotente a far miracoli.
  • Egli non si intende minimamente di economia. Si è arrabbiato moltissimo, quando gli ho chiesto il numero dei cittadini indiani iscritti nel ruolo delle tasse; si è arrabbiato ancora di più quando volevo conoscere quello degli operai impiegati nelle fabbriche indiane. Non sapeva nè il primo, nè il secondo di questi dati («S'informi dai miei segretari»). Questa indifferenza ai valori concreti e misurabili della vita indiana, forma il terrore della classe dirigente e della borghesia di cui è principalmente formato il partito del Governo.
  • Chi parla col signor Nehru si chiede, dopo, se davvero ha accostato un grande uomo. Noi occidentali riteniamo un modello ancora troppo cesariano dell'uomo di stato e lo vediamo o vogliamo vederlo nell'uniforme della propria grandezza. I contorni della personalità di Jawaharlal Nehru appaoiono, invece, fortemente vaghi e sfocati: egli non mostra nè il sigaro di Churchill, nè la giacca di taglio severo di Stalin, nè gli stivali brillanti di Mussolini, nè il berretto di operaio di Lenin, nè il ciuffo di Hitler. Il suo vestito indiano, bianco e grigio, intona il pallore sofferente del suo volto e la tremula mobilità delle sue idee. Non so se il paragone trovato per lui dagli americani sia valido, certo è aggiustato: egli incarna lo spirito della dea Saraswati, s'è detto, moglie e - nello stesso tempo - figlia di Brahma, galleggiante su una foglia di loto.

La storia di domani

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1961: Ore drammatiche a Mosca
Sin dal 1958 i rapporti pervenuti al Cremlino dalla Germania di Pankow offrivano notizie assai poco rassicuranti sull'umore delle masse tedesche controllate dal regime comunista della Repubblica popolare. Gli informatori russi più acuti, autorizzati a dire la verità, ponevano in rilievo la scarsa influenza, principalmente sulla gioventù tedesca, delle facilitazioni offerte nel campo della cultura. Uno di essi scriveva: «Mi reco ogni mattina nella Meshdunarodnaja Kniga, (la Grande Libreria di Stato sovietica a Potsdamer Platz). Vi trascorro puntualmente un'ora e annoto età e aspetto dei compratori. Benché in questa libreria si venda quanto di meglio e più recente produca l'Istituto per le edizioni in lingue estere di Mosca, in due mesi di frequenza ho notato soltanto tre giovani studenti. La gioventù tedesca disprezza la cultura russa».

Citazioni

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  • Gli uomini del Governo di Pankow, per giustificare se stessi e la propria opera presso le gerarchie di Mosca, cercano in ogni modo di convincere gli agenti del Cremlino della genuinità della fede comunista nelle masse tedesche. Esse ragionano così: la Germania dell'est è la patria naturale dello spirito militarista germanico. Essa è formata di «terre dure»: Prussia, Pomerania. alta Sassonia, Turingia.
  • Gli esperti di «psicologia delle masse», non se la sentono di dare all'esercito di Pankow le armi che dovrebbero rivolgersi contro i Tedeschi di Bonn. Intanto la Germania di Bonn, a governo socialdemocratico, è diventata la centrale anticomunista d'Europa e del mondo.
  • Il Cremlino, alla vigilia delle grandi decisioni, convoca a Mosca una conferenza politico-militare, le cui conclusioni sono queste: se le ostilità con l'Occidente saranno iniziate, la Russia deve scegliere di ritirarsi dalla Germania orientale o prepararsi a combattervi una disperata guerriglia. Viene adottata la prima soluzione.

Napoli, punto e basta?

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  • Per chissà quali remoti legamenti con il pensiero eleatico (Elea, del resto, si trova a due passi da Napoli) i napoletani posseggono un naturale, istintivo senso della relatività. Il velo di ironia che si scopre, come la polvere del caffè in fondo alla tazza, alla fine di ogni conversazione, per quanto seria voglia essere, con un napoletano, viene da questa natura relativistica. (da Dedica a San Gennaro, pp. 7-8)
  • [Napoli] è la sola città del mondo ove sia possibile scorgere qualche probabilità di sfuggire al destino comune dell'Europa d'oggi. Che ci appare assai simile a quello del decadente Seicento, alla ricerca d'un'anima che ne sorregga l'affastellata apparenza barocca.
    In questa ricerca, l'Italia e l'Europa si affacciano al davanzale di eri. Cercano uno stile, una poesia. Tentano di rifarsi al neorealismo, ch'è poi il semplice e nudo realismo del secolo scorso.
    Dove si pensa a quest'angoscia, è a Napoli. Napoli è ricca d'una incredibile ricchezza. Essa non ha bisogno di «darsi» uno stile. Non deve cercare una cifra, una chiave, un modulo per essere «se stessa». Non ha perduto, insomma, il contatto con il passato. Essa è sempre affacciata alla finestra che guarda sul giardino (un poco appassito) delle memorie e su quello fragrante e fresco dell'attualità. Perciò tutti invidiano Napoli [...] (da Il davanzale di ieri, pp. 31-32)
  • Il concetto di nobiltà, a Napoli, è profondamente unitario e totale: pochi, anche tra i più forti napoletanisti, conoscono, per esempio, un'espressione del dialetto per indicare «tutti, nessuno escluso», questa espressione rara è nòbbele e snòbbele[7](cioè nobili e non nobili), quanto dire l'intero popolo. Per questo diverso e più sottile coincidere degli intendimenti sociali e unitari della paroletta «nobilissima», Napoli lo è. [...] La loro prima nobiltà è diplomata dall'intelligenza, dall'acume, dallo spirito e dalla cultura. Un principe fesso non vale uno scugnizzo intelligente. (da Le bombe dello Zeppelin, pp. 33-34)
  • [A Shiraz, in un tempio zoroastriano] Vi fummo introdotti e un tale, ch'era l'officiante parsi, accese un fiammifero. Subito dal suolo, traverso una bocchetta di ferro, sprizzò una fiamma chiara e fumosa. Era petrolio nativo, come, in quel paese, se ne incontra dappertutto. «Ecco», ci disse l'uomo, «ecco: guarda la luce dello Spirito.» «Ma», obiettammo, «l'hai accesa tu, adesso, con un fiammifero...» «Non importa. La fiamma era lì, anche quando non appariva. Era lì. Ma tu non la vedevi.» Forse quell'imbroglione di prete parsi aveva ragione. Anche a Napoli, la «fiamma» è lì: spesso non la vediamo. Spesso la cogliamo per strada, camminando. La troviamo nella bocca di una popolana o nella rassegnata ironia di un tranviere. (da Le bombe dello Zeppelin, p. 39)
  • La Serao, nonostante le ambizioni proprie e la moda letteraria del suo tempo è, e resta, un grande poeta di Napoli. Nasce alla vita dell'arte come una creatura di Napoli, un suggerimento o una espansione della città. (da Lettere della signorina Matilde, p. 124)
  • La giovane Matilde non avrebbe ripetuto il genio ch'ebbe e quella sua, davvero scespiriana, ampiezza di visione se fosse vissuta altrove o altrove fosse nata all'arte. Il fenomeno più interessante, nell'arte di donna Matilde, è appunto questa sua facoltà di assorbire e di serbare, trasformandolo, il mondo esterno. In un'epoca nella quale non si conosceva ancora Marcel Proust, ella poteva dire di sé: «Dal primo giorno che ho scritto, io non ho mai voluto e saputo essere altro che una fedele e umile cronista della mia memoria. Mi sono affidata all'istinto e non credo che mi abbia ingannato».
    Non sapremmo immaginare, perciò, fuori di Napoli e di quella Napoli, la più verace e sincera Matilde Serao. Non è possibile staccarla dalle strade e dai vicoli della sua prima giovinezza. (da Lettere della signorina Matilde, p. 124)
  • [Su Leopardi] Sulle sue idee, certamente c'è poco da equivocare. Ma dove, principalmente, egli le espose e le ragionò?
    Nelle grandi liriche, nelle composizioni in cui la fantasia e l'estro si accendono al calor bianco e cercano di raggiungere per ineluttabili scorciatoie i significati assoluti. È lo stato più estraneo alla coscienza vera, al giudizio accettato dalla ragione, quello che genera canti come A se stesso o La Ginestra. In quella loro altezza disperata si confonde davvero con la negazione una più alta e improvvisa accettazione dell'idea divina. (da La difficile morte del povero Giacomo, p. 224)
  • Chi ha detto Napoli città «savia», non la conosce: non sa quanto, a Napoli, il filisteo professorale, l'uomo di pomposa serietà che non sbaglia mai, che non sappia ridere o sorridere, rischi di passar da scemo, da «fesso», da persona non pertinente alla città.
    A Napoli sta di casa una certa illustre e armoniosa follia di origini bacchiche e filosofiche, proveniente dal remoto passato, qualche cosa come i misteriosi raggi cosmici usciti dalle insondabili profondità del caotico universo. La follia trema con la sua luce di diamante, in fondo all'animo queto e ragionevole dei napoletani. (da I pazzi di Napoli, p. 230)
  • [Benedetto Croce] [...] proveniva dal Settecento europeo; armato di tutte le armi della Ragione e della Certezza. La solare perentorietà della storia lo domina e lo possiede; organizza e architetta il suo pensiero, lo dispone in un linguaggio vasto, ricco, fluente: un grande fiume di primavera, in pianura. Croce pensa per sé e per tutti; l'Enciclopedia storica e filosofica ch'egli rappresenta risponde a tutte le necessità. Egli non dimentica e non dubita: le sue certezze riposano sull'archivio e lo schedario. (da Il napoletano Tilgher, p. 252)
  • Come una grida improvvisa della strada, un profumo repentino e dissolto o un'ombra o una luce sull'alto di un cornicione, o il trascorrere di certe velature sul paesaggio di Napoli primaverile, così il pensiero di Tilgher e le sue intuizioni nascono, balenano, scompaiono; lasciandoci dietro, spesso, qualche preziosa scoria di contraddizioni, di incongruenze, di idee sofferte o superate o, come diceva Croce del modo di ragionare di Enrico de Nicola, di idee consunte da una critica dall'interno, logorate dal loro stesso acido.
    È proprio in questo che Tilgher ci appare un vero napoletano [...] (da Il napoletano Tilgher, p. 252)
  • [...] la natura filosofica dei napoletani non è discriminabile nelle manifestazioni della vita comune; anzi è tutt'una con essa; in questo si rintraccia il segno più vero della nostra sostanza ellenica.
    È un tratto del nostro pudore, della nostra ironia di fronte alle certezze troppo solenni e auguste della scienza, della storia, della morale: un'eleganza dello spirito che rifiuta a se stesso l'orgoglio di ritenersi capace di costruzioni eterne e perfette, di raggiungimenti immuni da incoerenze e contraddizioni. È, a pensarci bene, un senso di squisita umiltà. (da Il napoletano Tilgher, p. 253)
  • Napoli pesa poco nel bagaglio di chi viaggia per il mondo, poiché appartiene al mondo delle idee. Si può incontrare, come una categoria universale, in ogni angolo, il più strano della terra. (da Ritratto borghese di Gino Doria, p. 276)
  • Ferdinando IV non vende più i suoi pesci e le sue quaglie a questa plebe, ma, in cambio di voti, i partiti politici le vendono feste televisive e adulazioni sociali. (da Ritratto borghese di Gino Doria, p. 280)
  • [Su Gino Doria] Tutta la sua opera va a sorreggere l'edificio solido, solenne e chiaro della cultura liberale: quella sulla quale si fonda ancora ciò che resta dell'Europa o ciò che, forse, sarà l'Europa rinnovata e mondata dalla malattia totalitaria.
    Sotto questo punto di vista la storiografia liberale, e quella del Doria in particolare, occorre considerarla non come una forma della conservazione europea, ma come anticipazione dell'Europa futura; in un certo senso come rivoluzione, rispetto alle teorie marxistiche invecchiate rapidissimamente in un secolo. (da Ritratto borghese di Gino Doria, p. 282)
  • [L'ultimo incontro con Gino Doria, alla Certosa di San Martino] E noi, «ncielo[8]» stavamo, chini sulla ringhiera barocca del celebre balcone su Napoli, lì sull'angolo dominato dalla cupa mole del Forte. Si guardava la città ai nostri piedi; compatta e ammonticchiata come sempre appare Napoli a chi la vede da una prospettiva aerea. Un grattacielo tagliava l'aria, dominando il mare confuso delle case, solcato dai neri decumani dei quartieri greco-romani.
    Freddo e remoto il Vesuvio spento, albuginoso e come spento anch'esso, il mare; la collina di Posillipo ricoperta di eczemi. Dal caos brulicante veniva un vago rombo, un respiro di lontanissima risacca. Stavamo zitti, Doria ed io, a guardare come superstiti di una conflagrazione di mondi, reduci spaesati di evi caotici e rotolanti. Di tanto in tanto, don Gino puliva e s'aggiustava il monocolo, per vedere qualcosa nello spessore dell'aria. Qualcosa che nemmeno a me riusciva di scorgere. (da Ritratto borghese di Gino Doria, p. 292)
  • L'europeo, in Giappone, misura dalla sproporzione tra le sue dimensioni e quelle della casa giapponese la prima e fondamentale diversità tra il suo e il mondo nel quale è andato a vivere.
    Pure, rapidamente, s'acconcia a quella picciolezza; e, dopo poco, l'avverte comoda e cara. Ogni cosa sottomano e al suo posto; la necessità, quasi forzata, dell'ordine e di conseguenza la impossibilità di pensare disordinatamente. La regola mirifica della società collettiva delle api è dettata dalla geometria dell'alveare. L'ordine puntiglioso, la nettezza, la pedante precisione dei giapponesi viene dalla geometria avara della casa. Questo ritmo costante e regolare finisce col rendere un poco «noiosi» i popoli che vi si sottomettono.
    Ma in Giappone il pericolo è stornato dalla natura profonda dell'arcipelago; del vulcanesimo sul quale giace come un San Lorenzo sulla graticola. La fantasia e la poesia ai giapponesi viene, poi, suggerita dalle vibrazioni del terremoto; ch'è endemico come tutti sanno e non mette paura a nessuno. (da Il giapponese di Napoli, p. 307)
  • In questo discorrere, il lento e grigio giorno di Tokio declinava; fedelmente accompagnato dalla pioggia sottile. Ero un poco scontento. Perché a me, allora, Shimoi interessava assai più come «giapponese» che come «napoletano» mentre a lui, quel fatto di possedere ogni segreto dell'anima e della misteriosa essenza d'arte del suo paese, non diceva quasi niente. Un fatto spiegabilissimo, del resto, che dice quanto Napoli avesse mutato o, come gli dissi scherzosamente, «corrotto» un nipponico così puro.
    Allora Shimoi mi raccontò quest'aneddoto. Nel 1949 ricevette un invito a recarsi al palazzo imperiale. Mc Arthur aveva stabilito che l'Imperatore diventasse un monarca borghese e Hirohito, prima di obbedire al generale americano ordinò di celebrare, per l'ultima volta, la «cerimonia del », convocando tutti i familiari, cioè tutti i principi del Giappone. A Shimoi fece dire dal suo maestro di cerimonie: «Venga ad allietarci con le sue storie di Napoli, in quest'ora triste». Nessun napoletano avrebbe immaginato il nome della sua città capace di consolare, anche per poco, la tragedia di un imperatore vinto. (da Il giapponese di Napoli, p. 309)
  • [Gli antichi pompeiani] Era gente prima di tutto vivace, amica del buon vivere, erotica, amante di spettacoli e feste, largamente superstiziosa. Bilanciata tra la naturale, ovvia mercantilità di ogni popolazione rivierasca e una certa romantica malinconia suggerita dalla vicinanza dell'orrida e meravigliosa altura vesuviana, si lasciava andare ai sospiri d'amore e di tristezza che abbiamo detto: gli stessi che i napoletani dovevano tradurre in musica e canzoni. In quest'equilibrio quasi perfetto del carattere si insinuava il dilettoso inclinare a ciò che i napoletani odierni chiamano lo «sfottò». I pompeiani adoravano l'aggettivo «azzeccòso», il verso satirico, l'ironia, la battuta. Il maneggio della lingua, la secchezza pungente di alcune epigrafi graffite, appaiono talune volte miracolosi a chi, non napoletano, non sappia come nel popolo odierno queste naturali virtù poetiche e artistiche sono vive e splendide e comprovabili ad ogni quadrivio. (da Pompeiani e napoletani, pp. 335-336)
  • La Sibilla ci restituisce l'immagine di una vita sbagliata e scontenta, vissuta attorno all'errore di calcolo della eterna giovinezza. Ella chiese di vivere tanti anni quanti granelli di sabbia potesse stringere nel pugno. Fu accontentata, ma invecchiò. Reggeva la sua stessa vita come un insopportabile peso. Non senza qualche significato, nella Cena di Trimalcione, Petronio la fa apparire in un'ampolla di vetro. E al commensale che le chiede: «Sibilla, cosa vuoi?», ella risponde: «Voglio morire». (da Le grotte della Sibilla, p. 342)
  • [Sul ciclo dei tori dipinti dall'artista] [...] Castello riceveva dal fondo dei secoli il messaggio del più antico e glorioso culto di Capri: che fu quello di Mitra, cioè il sole, raffigurato in un toro sacrificale. Tori (o Tuori) si chiamano ancora le due colline centrali, le vere mammelle dell'isola; e qui, l'amico Amedeo Majuri, se fosse tra noi, ci soccorrerebbe subito di sua dottrina ricordandoci i versi di Stazio, descrittivi dei boati e dei muggiti delle taurùbule, luoghi di Capri dove, certamente, dovette esistere un allevamento di tori per i sacrifici mitraici.
    Castello non ha mai saputo nulla di quel che ho detto. L'Isola gli suggerì i tori; ed egli nel modulo astratto e puramente intuitivo della sua pittura di allora, li dipinse. (da Il pittore di Capri, p. 372)
  • [...] don Felice, a considerare bene, sostituì Pulcinella promettendo ai napoletani la destinazione borghese: agi, decoro, o se vogliamo dirla con gli economisti, full employment. Pulcinella è la maschera per le platee di disoccupati e di sfaccendati del Largo di Castello; Sciosciammocca riflette una società alla quale il governo dell'Italia liberale prometteva l'automobile appena fosse stata inventata. (da Storia economica di Sciosciammocca, p. 435)
  • Purtroppo, né il cinematografo, né altro mezzo perpetuano fissandolo nella sua possibile verità «reale», la natura, l'essere, le realizzazioni dell'attore. Peggio che sull'acqua esse sono scolpite nell'aria. Perciò si fa e stiamo facendo tanta teoria sull'arte dell'attore; perciò saremmo tentati di dar ragione a chi la paragona alla predicazione del laico o alla mediazione del confessore. (da Eduardo e Napoli europea, p. 460)
  • Eduardo – autore è, prima di tutto, un inventore di casi. Non li copia dalla vita, li inventa. Molière «isola» i suoi «tipi» dal catalogo umano, Shakespeare ne canta i grandi sentimenti, Cecov condensa le impalpabili atmosfere del non-detto, Pirandello ne svela la realtà per scoprirne la inesistenza. Eduardo De Filippo, ricostruisce questa realtà dell'uomo, per via di trovamento.
    Sotto questo profilo i consueti ricorsi alla similarità, parallelismo o dipendenza del teatro di Eduardo da quello di Luigi Pirandello, appaiono – spesso – arbitrari e, in sostanza, sbagliati. Un parallelismo, condizionato e limitato, tra il grande Pirandello e Eduardo De Filippo, diventa accettabile per quanto riguarda lo spirito di ricerca, di esplorazione, di – spesso – esplosiva «novità» dei due teatri. Non si può andare oltre [...]. (da Eduardo e Napoli europea, pp. 472-473)
  • [...] l'avvento del relativismo, del problema della personalità, dell'incomunicabilità, del rapporto tra sogno e realtà, della cristallizzazione dei miti, della solitudine assoluta dell'uomo, dell'inafferrabilità d'ogni certezza morale, rientrano nel novero dei side-effects creati dalla prima guerra mondiale. L'ultima conseguenza di quel trionfo dell'aleatorio, del perpetuum mobile in orbite sempre mutevoli e indefinibili è la fissione atomica. Che – si badi – è un prodotto della prima, non della seconda guerra mondiale. Soltanto la pietà per se stesso e per gli uomini, suggerisce ad Einstein la proposizione: Gott würfelt nicht[9]. (da Eduardo e Napoli europea, p. 491)
  • [Su Peppino De Filippo] [...] l'arte comica per l'arte comica, insomma, nella quale egli era un maestro inarrivabile e – ciò di cui non si rendeva conto – un prezioso reliquiario: perché la tradizione della «commedia dell'arte» si concentrava in lui, i secoli antichi passavano in lui, il tesoro della storia teatrale napoletana si raccoglievano in lui; a lui restava Napoli e la svanita scena del «San Carlino», persino la mentalità, il linguaggio, il genio dei modi, dei luoghi, degli spiriti dei «mami» e dei Pulcinelli, dei Tartaglia e dei «buffi barilotti», dei «guappi» e delle «Colombine». Tutto questo si trasferiva in lui [...] (da Eduardo e Napoli europea, p. 503)
  • [Su Peppino De Filippo] [...] attore-autore in un inseparabile tutt'uno, da collocarsi nel pantheon del teatro comico napoletano. (da Eduardo e Napoli europea, p. 503)
  • Se dico «Titina», ecco con la muta e un poco ironica figura bionda di lei, anche certi «momenti» ineffabili di Via Toledo, del lungo vicolo della Speranzella: i cieli sopra le colline, trasvolati da vecchi piccioni di monasteri barocchi. Ecco: le goffe armonie ballonzolanti delle «carrozzelle» sul «basolato» di Napoli; ecco il vago strepito di àrnia della città. È una musica, non so: una malinconia, una emozione; non so. Per suscitarla (adesso che non vi sono più né «carrozzelle», né «basoli» o selci, per via Toledo) basta pronunciare questo nome, aguzzo e lieto: Titina. (da Eduardo e Napoli europea, p. 505)
  • In ogni napoletano si può scorgere il riflesso dell'ironia, del sarcasmo, del gusto, dolorosamente umano, della deformazione bruegheliana[10], comica e tragica di Eduardo de Filippo: la facoltà di tradurre in paradosso e poesia, la contingenza storica: nel prodigio di un detto, di una forzatura comica, d'una constatazione centrata nell'ironica e contraddetta natura delle cose.
    Durante la sfilata a Napoli delle squadre di camicie nere, nell'ottobre del 1922, uno scugnizzo chiese ad alta voce, dinanzi a tante braccia protese nel saluto romano: «Ma ched'e', chiove?» (Ma cos'è, vedono se piove?). Quello scugnizzo non sapeva di fissare un tratto di storia. (Eccetera, eccetera.) (da Erminio o i fiori di carta, p. 507)
  • Il napoletano non divenne lingua nazionale ma resistette alla penetrazione degli idiomi di occupazione, per così dire; specialmente lo spagnolo. [...] Nonostante il secolare dominio della Spagna e contrariamente a ciò che se ne dice dai poco informati, il napoletano è scarsamente imbevuto di spagnolismi. La sua struttura fondamentale, ciò che si dice lo «spirito» della lingua è rimasto legato fortemente ai secoli classici della grecità e della latinità. Di qui le implicazioni del carattere, del costume, della spicciola morale del popolo; di qui quel sapore «antico» nell'intonazione e nei riflessi del linguaggio. Sulle settemila voci del Dizionario dialettale di Altamura, la maggioranza degli étimi tocca al greco e al latino. La stessa andatura musicale del napoletano appartiene al greco antico o, come precisa l'abate Galiani, al dialetto dorico «per le vocali più aperte, le voci pronunciate con maggiore espressione, le consonanti battute con maggiore impulsione».
    Gli spiriti dell'antichità, insomma, folleggiavano freschi e sapidi nella gran parte delle parole napoletane [...] (da Elegia della lingua napoletana, p. 521)
  • Nel '90 s'era inaugurata la galleria Umberto I, il «salotto» della città. I napoletani amarono subito questo monumento di vetro, vago, aereo, sul quale galleggiava, con effetto di mongolfiera piedigrottesca, la bellissima coupole di Boubé. La musica, i varietà, i caffè di grido, le botteghe eleganti andavano a rifugiarsi sotto l'ombrello trasparente della Galleria; e una variegata società tra artistica e picaresca si formò in quell'aria di acquario, tra i fumi delle speranze e quelli delle prime macchine del caffè espresso. (da Gli ultimi trovatori, p. 590)
  • Altri e più terribili dolori sarebbero intervenuti nella vita della città, diventata uno dei centri strategici della seconda guerra mondiale, nel Mediterraneo. Prove eroiche misero a nudo lo spirito stoico della popolazione, la sua illimitata capacità di sopravvivere, la sua quasi magica facoltà di «ridurre» stranieri e invasori al proprio modulo umano, e dominarne così eccessi e barbarie. (da La saga della camorra, p. 637)
  • Un pomeriggio del settembre '54 con Amedeo Majuri e Augusto Cesareo andammo a rivedere Piazza del Mercato e quel che la guerra ne ha lasciato. Spettacolo triste. Il guasto e la polvere avvolgevano ugualmente l'arco di Sant'Eligio e la facciata gotica di San Giovanni a mare. E, di fronte, il piedistallo di «Marianna 'a capa 'e Napule» era vuoto. Vi appoggiava le spalle una bellissima venditrice di pannocchie bollite, una «spicaiola». «Signò», ci disse, «l'hanno luvata stammatina. Dice ch'a mettono dinto 'o Municipio. Mo ce stongh'io...[11]» La Cibele era stata tolta, per trovar posto nel Cortile del palazzo del Municipio e lei, la bellissima, diceva: «La sostituisco io». Tanto è stretta la parentela tra i napoletani e gli dèi. (da Note, pp. 665-666, nota 15)
  • [...] il napoletano adopera la sua superstizione come un elemento aggiuntivo e razionale del suo giudizio. Come, cioè, una variabile indipendente il cui comportamento gli sfugge, ma la cui influenza gli è nota. Ciò è dimostrato dalla natura stessa della cabala e delle pratiche magico-aritmetiche in uso per la previsione dei numeri del lotto. La Smorfia, libro dei sogni, introduce l'elemento fantastico nel rigore matematico delle scadenze, delle figure, degli estratti su cui si intrecciano i movimenti e l'intera meccanica delle giocate. (da Note, p. 681, nota 15)

Note

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  1. a b Da Massimo Bontempelli e l'avventura novecentesca, L'osservatore politico letterario, anno XXIV, novembre 1978, n.° 11, pp. 39-52; disponibile anche su Circe.lett.unitn.it.
  2. Da Prima, durante e dopo Mussolini: memorie del Novecento, Mondadori, 1990, p. 65. ISBN 88-04-31394-3
  3. Da Napoli scontraffatta, Mondadori, 1984, p. 250.
  4. Da Cronaca del Regno d'Italia: Dalla Vittoria alla Repubblica, Mondadori, 1978, p. 423.
  5. Da Il Vesuvio col pennacchio: ovvero, Funiculì funiculà, Longanesi, 1959, p. 363.
  6. Citato in Indro Montanelli e Mario Cervi, L'Italia del Novecento, BUR, Milano, 2001, p. 292. ISBN 88-17-86402-1
  7. Sdòbbele, refuso, nel testo.
  8. In cielo.
  9. Dio non gioca a dadi.
  10. Nel testo il refuso: breugheliana.
  11. Signore, l'hanno tolta stamattina. Corre voce che la collocano nel Municipio. Adesso ci sono io...

Bibliografia

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  • Giovanni Artieri, La storia di domani; citato in Storia Illustrata, Arnoldo Mondadori Editore, Anno II, N. 1, Gennaio 1958.
  • Giovanni Artieri, Napoli, punto e basta?, Divertimenti, avventure, biografie, fantasie per napoletani e non, Arnoldo Mondadori Editore, Milano, 1980.

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