Francesco Saverio Nitti

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Francesco Saverio Nitti nel 1920

Francesco Saverio Nitti (1868 – 1953), economista, politico, giornalista e antifascista italiano.

Citazioni di Francesco Saverio Nitti[modifica]

  • [Lettera a Giovanni Amendola, dopo il delitto di Giacomo Matteotti] Bisogna resistere e vincere. Noi rappresentiamo la civiltà e la vita contro la nuova barbarie. Io ho fatto sempre opera di moderazione. Ma ora tutta la coscienza nazionale insorge contro i sistemi di brigantaggio e di violenza. In tutta l'Europa è un senso di diffidenza e di attesa. Ella non dubiti della vittoria. Le grandi idee morali hanno una invincibile forza e siamo noi soltanto che ora le rappresentiamo.[1]
  • È stato provato ripetutamente che il sale, mentre per i carnivori ricchi è un lusso, per gli erbivori, e quindi per le classi povere, è un'assoluta necessità [...] Fra tutte le imposte indirette, quindi, quella che quando è molto alta reca spesso effetti più dannosi sul popolo, è l'imposta sul sale, che annulla con i suoi eccessi uno dei grandi benefici della natura, la quale distribuì provvidamente il sale dovunque come un elemento necessario della vita.[2]
  • I politici italiani sono in generale uomini di assai mediocre valore: non amano noie e anche i migliori fra di essi sono incapaci di affrontare i problemi di larga importanza.[3]
  • Il nazionalismo è alla nazione ciò che il bigottismo è alla religione.[4]
  • Io non ho mai appartenuto ad alcuna massoneria in alcun momento della mia vita ed in alcun paese, per la mia invincibile avversione per ogni cosa che limiti la mia libertà di pensiero e di azione.[5]
  • L'Italia, conquistatrice del mondo durante l'antichità romana, museo di tutte le arti del medio evo, mirabile nella civiltà moderna per i suoi sforzi di rinnovazione è, e rimane tuttavia, un paese molto povero: soprattutto essa soffre d'impécuniosité, deficienza di danaro, deficienza di capitali.[6]
  • La storia è un'alterna vicenda di vittorie e di disfatte: non vi sono popoli sempre vincitori. La civiltà consiste nel determinare fra vincitori e vinti quei rapporti che rendono la vittoria meno ingiusta e la disfatta meno insopportabile.[7]
  • La vera saggezza è nel pensare da pessimista, poiché la natura delle cose è ingiusta e crudele e la illusione è debolezza; ma, nella vita pratica e nella misura del possibile, agire da ottimista poiché nessuna energia, nessuno sforzo di bontà e di amore vanno mai interamente perduti.[8]
  • Per le plebi meridionali il brigante fu assai spesso il vendicatore e il benefattore: qualche volta fu la giustizia stessa. Le rivolte dei briganti, coscienti o incoscienti, nel maggior numero dei casi ebbero il carattere di vere e selvagge rivolte proletarie. Ciò spiega quello che ad altri e a me e accaduto tante volte di constatare; il popolo delle campagne meridionali non conosce assai spesso nemmeno i nomi dei fondatori dell'unità italiana, ma ricorda con ammirazione i nomi dell'abate Cesare e di Angelo Duca e dei loro più recenti imitatori.[9]
  • [Su Emilio Colombo] Un chierichetto.[10]
  • [Lettera a Vittorio Emanuele III, sull'avvento del fascismo] Vostra Maestà può con un atto di energia metter fine a quanto accade e dividere ancora la sua responsabilità da un regime di oppressione e di morte. Non devo DirLe il modo. Posso dirLe soltanto che non vi è tempo da perdere.[11]

Interventi all'Assemblea Costituente[modifica]

Dall'intervento alla seduta del 16 luglio 1946

Resoconto stenografico 5. Seduta di martedì 16 luglio 1946

  • I partiti sono una necessità politica, sono anche una necessità e conseguenza della libertà; ma i partiti, interpretati come espressione di volontà, di sentimenti, di energie, di interessi opposti, ma che possono equilibrarsi in una comune libertà e non in una servitù diffusa in un dominio di interessi coalizzati. (p. 56)
  • È grande forza non essere nel Governo e non desiderarlo e non volerlo. (p. 57)
  • Per molto tempo si è detto che tutto dipendeva dalla Costituente. È stata la grande propaganda demagogica. Si è detto: la Costituente avrebbe risoluto subito i problemi dell'Italia: quando avremo la Costituente noi avremo anche pane e lavoro. È venuta la Costituente: abbiamo ancora per qualche tempo pane, ma le nostre condizioni sono gravissime e non abbiamo ancora la sicurezza di lavorare. (p. 57)
  • Le democrazie in nessun paese moderno sono pacifiste. Non lo sono state nemmeno nel lontano passato. Non vi è niente di più ridicolo di dire che le democrazie lavorano sempre per la pace. Le democrazie lavorano troppo spesso per la guerra! (p. 57)
  • La pace si mantiene soltanto per effetto di sentimenti dell'ordine morale, sia con spirito religioso, sia con lo sviluppo dei sentimenti superiori; non sono le forme politiche che danno la pace o la guerra. (p. 57)
  • Il Mezzogiorno è stato troppo ingannato e troppo deluso, perché debba provare ancora delusioni. (p. 57)
  • Il Mezzogiorno è una grande forza dell'Italia, contrariamente alle opinioni di pochi ignorantelli che ne parlano nei loro giornali con tanta volgare leggerezza. (p. 57)
  • Il Mezzogiorno è una forza immensa e non bisogna scoraggiare le sue energie, che non sono mai spente e si rinnovano sempre. (p. 57)
  • [Sull'unità d'Italia] Noi dobbiamo essere uniti, Nord e Sud. Io sono l'ultimo credente fanatico dell'unità e odio tutti questi movimenti di divisione e di discrasia. (p. 57)
  • Accetterei qualunque nuovo sacrificio per il Mezzogiorno piuttosto che distaccarlo dalla Madre Patria. (p. 57)
  • [Sull'unità d'Italia] Noi, solo se saremo uniti, saremo qualche cosa nel mondo; altrimenti periremo. È finito il tempo delle piccole repubblichette del '400, delle piccole repubblichette rivali. Ormai andiamo in Europa e nel mondo, verso grandi unità territoriali, politiche, economiche. Fare opera di separazione è commettere delitto. (pp. 57-58)
  • [...] vi dichiaro che nell'interesse della Repubblica ciò che speravo e che volevo era che il primo Ministero della Repubblica fosse veramente degno del grande avvenimento. Io non posso adularvi, dicendo che voi rappresentate, signori del Governo, quello che attendevamo... (p. 58)
  • Qui non vi è lo Stato nella sua efficienza, non vi è la Nazione, ma la fazione. (p. 58)
  • Lo Stato è volontà, è potenza, sia esso conservatore o bolscevico, sia monarchico o repubblicano. Lo Stato è potenza; e questo Stato attuale dell'Italia non dà né l'idea di potenza né l'idea di volontà, né ha più dignità. (p. 58)
  • Io sono l'unico Presidente del Consiglio - e non il più stupido - che non è Cavaliere dell'Annunziata. (p. 59)
  • [...] il non mai abbastanza defunto re Vittorio Emanuele III [...] aveva mancato non solo al suo dovere di re, ma ad un dovere di onestà. (p. 59)
  • [In risposta agli applausi a Fernando De Rosa] È morto combattendo in Spagna. Questo vale più di un evviva. (p. 59)
  • Un paese come l'Italia, tanto in disordine, tanto in povertà si è dato il governo più costoso e, se posso dire, più inefficiente, perché più aumenta il numero degli individui chiamati al Governo più aumenta l'inefficienza. (p. 59)
  • L'onorevole Togliatti rappresenta idee e programmi diversi dai miei. Siamo due parallele che non potremo incontrarci che all'infinito. (p. 59)
  • L'onorevole Nenni è un uomo interessante. Ogni tanto alcuni del suo partito mi annunciano la sua defenestrazione; ma finisce con l'essere più forte dei suoi avversari. (p. 60)
  • Lo Stato si considera sempre più come proprietà privata dei vari partiti. Se ne dispone secondo le esigenze dei partiti e dei loro aderenti. (p. 60)
  • L'onorevole De Gasperi ha riunito in sé stesso tutti i poteri e quante funzioni gli era possibile riunire. (p. 60)
  • L'onorevole De Gasperi ha i più diversi incarichi e le più terribili responsabilità. Dovrebbe occuparsi di tante diverse cose, di tanti problemi, di tanti contrasti per cui l'intelligenza umana non è sufficiente. È quindi obbligato a non occuparsene. (p. 60)
  • L'Italia è disgraziatamente un Paese più municipale che nazionale. (p. 61)
  • Nella Repubblica veneta erano in funzione dei magistrati speciali: gli «scanzatori» delle spese superflue. Questi magistrati avevano l'obbligo di proporre la soppressione di tutti gli uffizi inutili e tutte le spese superflue della Repubblica. Mi era venuta la strana idea di fare una proposta simile: ma poi ho pensato che, forse, avrei ottenuto un risultato contrario. Nella tendenza alla dissipazione che impera si sarebbe cercato un palazzo o due o tre palazzi per questi «scanzatori» di pubbliche spese e si sarebbero accresciute le spese. (p. 61)
  • Lo Stato tollera la dissipazione e dal canto sue la pratica largamente. (p. 61)
  • Io penso non senza terrore al numero dei Ministri attuali e al numero inverosimile dei Sottosegretari. (p. 61)
  • È nota la storiella autentica di un Sottosegretario che diceva di preparare grandi riforme legislative da far presentare al Parlamento. Passava ore intere nella sua stanza dove non entrava alcuno. Un giorno il suo capo di Gabinetto e il suo segretario ebbero l'idea di spiare dal buco della serratura per vedere che cosa facesse il loro capo. Egli aveva dinanzi a sé un gran numero di giornali e, siccome, forse, aveva finito la lettura, gonfiava e sgonfiava le guance. (p. 62)
  • Se non ci giudichiamo da noi, è il pubblico che ci giudica. Il pubblico è scontento e giustamente spesso ostile. Non ci illudiamo delle apparenze d'indifferenza: il pubblico vede e osserva e odia tutte le forme di dissipazione. (p. 62)
  • Credete: vi sarebbero migliaia di case libere a Roma, dove oggi mancano gli alloggi, soltanto se si abolissero gli uffici inutili. (p. 62)
  • Gli onesti, ma spesso mal congegnati e duri procedimenti del Ministro delle finanze verso i produttori fanno qualche volta ricordare il vecchio proverbio della cucina piemontese «il coniglio ama di essere scorticato vivo». (p. 63) [Riferendosi all'allora Ministro delle finanze Mauro Scoccimarro]
  • [...] il Ministro delle finanze era affidato spesso in passato [...] a uomini di scarso intelletto. Tanto che vi fu a lungo un uomo, che fu definito il più grande imbecille di tutti i tempi, il Ministro Facta, che consegnò l'Italia al fascismo. (p. 63)
  • O la repubblica sarà ordinata, unitaria e rispettabile e avrà la forza nel prestigio della sua opera, o non sarà. (p. 63)
  • La repubblica non si difende con le parole, con le grida e ancor meno con premio della repubblica, o con l'ingiunzione di gridare o di scrivere nelle strade «Viva la repubblica!». Si difende e si afferma con le opere. (pp. 63-64)
  • Ogni paese deve darsi all'interno la forma che crede la più opportuna e non importa agli altri che non hanno né la necessità né la volontà di farla propria. (p. 64)
  • L'Italia non ha mai avuto né una grande rivoluzione, né una grande guerra di religione. Non è fondamentalmente e non fu mai grande paese rivoluzionario. (p. 64)
  • L'onorevole Corbino è un uomo di ingegno, è un uomo che ha preparazione di studi. Ha però un difetto: una natura profondamente ottimistica. Egli vede tutto color di rosa. (p. 64)
  • L'onorevole Corbino ha qualche cosa che lo riavvicina alla Christian Science, che è una confessione religiosa diffusissima in America. Gli aderenti a tale confessione risolvono tutto con la fede, con la preghiera. Le malattie guariscono con la preghiera. (p. 64)
  • In tutti i campi, di fronte allo straniero, nella vita interna, noi siamo umiliati e in stato di sofferenza. (p. 64)
  • Bisogna dire, ad onore dei Ministri del tesoro che si sono succeduti, che tutti e tre i Ministri del tesoro, Soleri, Ricci, Corbino, che vi sono stati, non hanno ceduto alla tentazione dell'inflazione: tutti e tre non solo non ne hanno abusato, ma ne sono rifuggiti. (p. 65)
  • Io ricordo quando venne alla Camera il povero Matteotti. Era arrivato assai giovane, pieno di buona volontà. Aveva uno spiegabile orgoglio. Era presidente del Consiglio provinciale della sua provincia... aveva dato molto denaro per le cooperative socialiste e... ne aveva anche perduto. Era circondato da simpatie. Giunto alla Camera, fece un amaro discorso finanziario contro di me. Io dal banco del Governo non lo contraddissi, non lo interruppi; presi nota di tutto. Era caduto in errori di inesperienza, aveva confuso partite diverse del bilancio, aveva male interpretato la funzione dei residui e aveva confuso, perfino, alcune cifre dell'attivo con quelle del passivo, e viceversa. Io mi accorsi di ciò e tacqui. Ma quando gli risposi, cominciai col lodare la sua intelligenza, la sua facondia, e poi dissi soltanto: « È accaduto però che ha confuso alcune cifre dell'attivo con il passivo ». Fu uno scoppio di risa, di cui mi pentii. Mi aspettavo che l'onorevole Matteotti mi dicesse delle insolenze, invece all'uscita mi aspettò serenamente e con un sorriso. Aveva grandi, buoni e dolci occhi, e mi disse: Io sono stato troppo poco prudente. (p. 65)
  • Noi dobbiamo avere la coscienza che la ricostruzione nazionale di un Paese devastato non si fa che con l'economia, con l'ordine e il lavoro e soprattutto trasformando il capitale circolante in capitale fisso. (p. 65)
  • Io dicevo nel 1919 una frase, che poi mi fu rimproverata, anche in forma grossolana: «bisogna lavorare di più e consumare di meno». Qualche esaltato osò dire che bisognava invece produrre di meno e consumare di più. (p. 65)
  • L'Italia, per la sua struttura economica, è paese che più di altri deve produrre con ogni sforzo e risparmiare. (p. 65)
  • De Foville diceva, non senza una certa ironia, che l'Italia è, secondo la frase di Rabelais, malata di impecuniosità. (p. 65)
  • [...] non esiste in Europa nessun Paese che abbia tanto nazionalizzato come l'Italia. (p. 66)
  • Le nazionalizzazioni sono cosa di cui non bisogna abusare. Si può nazionalizzare quando si ha certezza che si potrà far meglio dell'industria privata, non quando è il contrario. (p. 66)
  • Bisogna non logorare i nervi del paese. Non si può turbarlo continuamente con notizie mirabolanti, soprattutto se non sono vere. (p. 66)
  • Io combattei sempre le riparazioni di guerra [...] esse sono distruzione inutile del vinto e, poi, danno del vincitore. (p. 66)
  • Anche l'Albania chiede riparazioni, forse per averci dato una parte dei suoi insetti e probabilmente una buona dose di quella grave forma di malaria che era quasi scomparsa in Italia. (p. 66)
  • In materia di riparazioni noi dobbiamo dichiarare che non possiamo darne. (p. 66)
  • Non posso parlare della Francia senza rispetto e affezione. Non dirò dunque parole alcuna che sia poco amica: Sono stato e sono amico a tutti i capi francesi e con essi ho avuto vera intimità. (p. 66)
  • Qualunque giudizio di si dia di Mussolini, la verità è che egli fu sempre un nemico della Francia. (p. 67)
  • Non è vero il luogo comune che si ripete sempre: noi e i francesi, se non siamo della stessa razza, siamo della stessa civiltà. Noi siamo paese di civiltà e di lingua affine, e quindi vi è una continuità di natura, non vi è continuità di razza. (p. 67)
  • La Francia può esser molto utile all'Italia, ma l'Italia può dar molto alla Francia. (p. 67)
  • I francesi sono una grande popolo, ma spesso con essi l'intesa non è facile, hanno un antico difetto: non vogliono mai essere giudicati e basta la più piccola osservazione per offenderli. (p. 67)
  • L'onorevole De Gasperi ha in quest'ora il peso più terribile. Egli è Capo del Governo; è capo del suo partito o, come si dice, segretario del suo partito, ciò che che assorbe in gran parte la sua attività. Egli è Ministro dell'interno ed, ad interim [...], Ministro per gli affari esteri. Egli si deve occupare poi di tutte le questioni della vita nazionale e di tutti i rapporti essenziali della vita economica e si deve occupare soprattutto della pace. In Inghilterra, il Capo del Governo non ha nessun Dicastero, perché fa il lavoro di coordinamento; tanto meno pensa di essere Ministro degli esteri e ancor meno Ministro dell'interno; ma non tutte queste cose assieme. E quante cose crede invece di poter fare l'onorevole De Gasperi? (p. 68)
  • Noi non abbiamo mai avuto alleati dopo la guerra. [...] Abbiamo vincitori diffidenti od ostili, e qualcuno soltanto benevolo. (p. 68)
  • Ci voleva tutta la stupidità di Mussolini per dire che l'Inghilterra è il nostro eterno nemico. (p. 69)
  • Nella sua storia l'Inghilterra non ha mai partecipato ad alcuna guerra contro l'Italia e sempre che ha potuto ha aiutato il nostro Paese. (p. 69)
  • L'onorevole De Gasperi è certamente un uomo intelligente; ma oso dire che nemmeno Cavour, assistito da uomini come Talleyrand, Sir Robert Peese e Bismarck, potrebbe adempiere simile compito. Non gli basterebbe neanche un cervello più grande della cupola di San Pietro per caricarsi di un simile lavoro. (p. 69) [Riferendosi ai vari incarichi governativi di Alcide De Gasperi]
  • [...] noi siamo vana cosa, piccoli uomini che scompariremo più presto che non crediamo dalla scena politica e che dobbiamo dare conto di quello che facciamo e di quello che vogliamo fare. (p. 69)
  • [...] l'onorevole de Gasperi non può, senza la rovina di tutti, e del suo stesso partito, essere nello stesso tempo Capo del Governo, Capo del partito, Ministro dell'interno, Ministro degli esteri. Tutte queste funzioni non aumentano il prestigio di chi le ha, ma lo diminuiscono. (p. 69)

Il socialismo cattolico[modifica]

Incipit[modifica]

I moderni storici del socialismo, quali che siano le loro tendenze economiche, esagerano grandemente l'importanza delle antiche lotte sociali, e attribuiscono al così detto socialismo antico gran parte del programma e delle tendenze del socialismo contemporaneo.
Nel concetto fondamentale del socialismo moderno bisogna distinguere una dottrina etica e una dottrina economica. La prima è stata accettata anche da gran parte di coloro che respingono con più veemenza i sistemi economici delle scuole socialiste, la seconda è invece assai controversa anche fra gli scrittori che militano nelle stesse file.

Citazioni[modifica]

  • Spirito nobile, temperato dalle lotte della vita, von Ketteler non disdegnò trattare della questione operaia rinunziando a gran parte dei pregiudizi della sua classe[12] e accettando ciò che egli credeva vi fosse di puro e di sano nella morale e nelle dottrine economiche del socialismo. (cap. 5, p. 110)
  • [von Ketteler] Combattette il domma dell'infallibilità, ma con la piena intenzione di sottomettervisi ove fosse proclamato. Difatti il 13 luglio 1870 votò contro, e ottenuta una udienza privata dal pontefice gli si prosternò e lo supplicò ripetutamente di ridonare all'episcopato tedesco la perduta pace e la perduta concordia.
    Però, proclamata l'infallibilità, egli non fu fra i 56 vescovi della minoranza. Anzi, ritiratosi a Magonza, sostenne con singolare ardore l'opera del pontefice, e, per spirito di ubbidienza, accettò quanto il Vaticano avea fatto e difese in parecchi opuscoli ciò che prima avea egli stesso combattuto. (cap. 5, p. 114)
  • Ma il più eminente dei socialisti cattolici svizzeri, colui che non si è contentato soltanto di una vana propaganda teorica, ma è sceso sul terreno pratico delle riforme sociali e ha avuto una importanza decisiva sulla legislazione della Svizzera e sul movimento cattolico in tutta Europa, è stato ed è tuttavia Gaspard Decurtins, in cui l'audacia dei propositi va unita a una cultura economica non comune e a una singolare elevatezza di mente. (cap. 9, p. 231)
  • Secondo Decurtins, l'estensione della legislazione protettrice degli operai nei diversi paesi europei, non è punto emanazione di teorie astratte e di filantropiche velleità, ma una conseguenza necessaria delle condizioni della produzione moderna. (cap. 9, p. 235)
  • Il conte Albert de Mun, cui si deve la massima parte del successo dell'Œuvre, e che, con talento e con eloquenza mirabile, ne sostiene in parlamento le idee, è un uomo di una tenacia e di una energia ammirevole. Antico capitano di cavalleria, ha portato nella propaganda il suo ardore e la sua fierezza di soldato. (cap. 9, p. 259)
  • De Mun non vede altra via di salute che in un ritorno all'antico regime economico del medio evo e in un ristabilimento delle corporazioni. (cap. 10, p. 259)
  • Il cardinal Manning, che gode anche fra gli avversari, per l'austerità della vita e la fierezza del carattere, di un grande prestigio, è già da molto tempo arrivato strettamente alle conclusioni del socialismo.
    Il 4 maggio del 1890, giorno della grande dimostrazione operaia inglese in favore delle otto ore di lavoro, su alcune bandiere socialistiche era dipinto, accanto al ritratto di Marx, il ritratto del cardinal Manning, la cui popolarità tra gli operai di Londra diventa sempre più grande. (cap. 11, p. 299)
  • Manning riconosce in tutti gli uomini il diritto al lavoro e quindi il diritto alla sussistenza. Appoggiandosi sul testo delle scritture in alcune famose lettere al Times, ruppe delle lance contro i pretesi benefizi dell'economia liberale e in un memorabile articolo pubblicato nella Fortnightly Review sostenne, come tutti i socialisti, perfino il diritto al furto come complemento necessario al diritto di esistenza, nei paesi dove lo stato non ha punto organizzato il diritto all'assistenza. (cap. 11, p. 301)

L'Italia all'alba del secolo XX[modifica]

Incipit[modifica]

Pochi paesi sono più malcontenti dell'Italia: e se il malcontento, com'è stato detto, è segno di progresso e indice di elevazione, noi siamo veramente un paese da invidiare. Pur troppo però il nostro malcontento non deriva sempre in noi da cause buone, non è sempre indice di un desiderio di espansione e di ricchezza; è un malcontento fatto di rimpianti e di illusioni. Noi rimpiangiamo le cose morte e illudiamo gli altri e noi stessi sulla situazione nostra e sul nostro avvenire. Sopra tutto impera un equivoco che è ragione prima di tutte le nostre difficoltà; un equivoco che nuoce a noi più che i nostri mali, l'equivoco della ricchezza e della grandezza.

Citazioni[modifica]

  • Non vi è quasi avvenimento che interessi l'anima nazionale, o l'avvenire del paese, in cui non si ripeta che manca l'uomo. L'uomo è in noi stessi, può esser dato dallo sforzo di tutti, dalla coscienza di tutti: e noi lo attendiamo invece come una forza operante all'infuori di noi. (p. 13)
  • L'eroe è colui il quale fa da solo ciò che altri dovrebbero fare: è dunque l'espressione del paese che si rassegna, delle genti in cui la coscienza individuale è debole ; che non sono ancora entrate nella civiltà, o che vi sono entrate male. (p. 13)
  • Fra il 1810 e il 1860, quando tutta l'Europa occidentale del centro e del Nord compieva la sua più larga trasformazione, l'Italia rimaneva quasi immobile, poiché le lotte per l'unità e per l'indipendenza assorbivano le energie migliori. (p. 19)
  • Inoltre su gran parte del nostro suolo pesa inesorabile la malaria e distribuisce, sopratutto nel Mezzogiorno, la popolazione in una forma quasi ignota altrove e dannosissima alla produzione. (p. 21)
  • Ora dunque l'Italia è naturalmente, nelle condizioni attuali della produzione, un paese povero. Si aggiunga che si deve lottare contro paesi nuovi, ove la terra non ha ipoteche, e non ha né meno la ipoteca del passato. Si deve lottare con paesi dove esistono territorii a unità di cultura grandi quanto più le grandi regioni d'Italia. Oramai nell'industria i popoli più progrediti hanno accumulato tesori d'energia. Hanno asservito forze naturali che parevano invincibili: hanno strappato dalle viscere della terra i tesori che vi erano accumulati. (p. 21-22)
  • Due cose sono oramai fuori di dubbio: la prima è che il regime unitario, il quale ha prodotto grandi benefizi, non li ha prodotti egualmente nel Nord e nel Sud d'Italia; la seconda è che lo sviluppo dell'Italia settentrionale non è dovuto solo alle sue forze, ma anche ai sacrifizi in grandissima misura sopportati dal Mezzogiorno. Quando per la prima volta sollevai la questione del Nord e del Sud e cercai farla passare dal campo delle affermazioni vaghe, in quello della ricerca obbiettiva, non trovai che diffidenze. Molti degli stessi meridionali ritenevan pericolosa la discussione e non la desideravano. (p. 108)
  • Ora, ciò che noi abbiamo appreso dei Borboni non è sempre vero: e induce a grave errore attribuire ad essi colpe che non ebbero, ed è fiacchezza d'animo per noi tutti non riconoscere i lati manchevoli del nostro spirito e della nostra educazione, e voler attribuire ogni cosa a cause storiche. (p. 110)
  • È un grave torto credere che il movimento unitario sia partito dalla coscienza popolare: è stata la conseguenza dei bisogni nuovi delle classi medie più colte; ed è stato più che altro la conseguenza di una grande tradizione artistica e letteraria. (p. 110)
  • I Borboni temevano le classi medie e le avversavano; ma tenevano anche ad assicurare la maggiore prosperità possibile al popolo. Nella loro concezione gretta e quasi patriarcale non si preoccupavano se non di contentare il popolo, senza guardare all'avvenire, senza aver vedute prospettive. Bisogna leggere le istruzioni agli intendenti delle province, ai commissari demaniali, agli agenti del fìsco per sentire che la monarchia cercava basarsi sull'amore delle classi popolari. [...] Fra il 1848 e il 1860 si cercò di economizzare su tutto, pure di non mettere nuove imposte: si evitavano principalmente le imposte sui consumi popolari. Niente scuole, ma niente balzelli ; poche opere pubbliche, ma pochi oneri. Il Re dava il buon esempio, riducendo la sua lista civile spontaneamente di oltre il 10 per cento ; fatto questo non comune nella storia dei principi europei, in regime assoluto o in regime costituzionale. Era spesso un «paternalismo» corrompente volgare: si cercava contentare un po' tutti. Piccoli impieghi e la maggior parte di poco conto e senza diritto a pensione; ma folla enorme di impiegati. Chi sapeva leggere, se non diventava un liberale, diventava senza dubbio un impiegato. (p. 111)
  • Era la vecchia Europa con tutte le sue avversioni per ogni cosa nuova, con tutte le sue debolezze. Si evitavano le concessioni industriali; si evitava che si formassero banche o società per azioni; si temeva che la speculazione penetrasse e con essa il desiderio di cose nuove. Si amava un quietismo monacale: un popolo contento per vita tranquilla, una borghesia da tenere a bada con gl'impieghi e con la cura; una nobiltà ossequente e legata alla tradizione. Si amava molto di divertirsi, di svagarsi; si temevano le grandi energie individuali: la vecchia Europa, con tutti i suoi pregiudizi. Masse di monasteri, la carriera del sacerdozio facile; il brigantaggio come minaccia perenne; una grandissima città per capitale con un gran numero di province quasi impenetrabili. Ma si voleva un'amministrazione prudente, accorta. La finanza era rigida, la banca onesta. (p. 112)
  • Con un'assai più grande ricchezza il regno delle Due Sicilie rimaneva in una fase statica; il Piemonte fra il 1848 e il 1868 fu sempre in una fase dinamica. Lo squilibrio grandissimo imponeva di accelerare il movimento. (p. 113)
  • Nel 1800, la situazione del Regno delle Due Sicilie, di fronte agli altri Stati della penisola, era la seguente, data la sua ricchezza e il numero dei suoi abitanti. 1° Le imposte erano inferiori a quelle degli altri Stati; 2° I beni demaniali e i beni ecclesiastici rappresentavano una ricchezza enorme e, nel loro insieme, superavano i beni della stessa natura posseduti dagli altri Stati; 3° Il debito pubblico, tenutissimo, era quattro volte inferiore a quello del Piemonte e di molto inferiore a quello della Toscana; 4° Il numero degli impiegati, calcolando sulla base delle pensioni nel 1860, era di metà che in Toscana e di quasi metà che nel Regno di Sardegna; 5° La quantità di moneta metallica circolante, ritirata più tardi dalla circolazione dello Stato, era in cifra assoluta due volte superiore a quella di tutti gli altri Stati della penisola uniti assieme. Il Mezzogiorno era dunque, nel 1860, un paese povero; ma avea accumulato molti risparmi, avea grandi beni collettivi, possedeva, tranne la educazione pubblica, tutti gli elementi per una trasformazione. (p. 113)
  • Quando nel 1860 il regno delle due Sicilie fu unito all'Italia, possedeva in sé tutti gli elementi della trasformazione. L'Italia meridionale aveva infatti un immenso demanio pubblico. Le imposte dei Borboni erano mitissime e Ferdinando II avea cercato piuttosto di mitigarle che di accrescerle. [...] Dal 1820 al 1860 il regime economico e finanziario dei Borboni determinò una grande capitalizzazione. È vero che le province erano in uno stato quasi medioevale, senza strade, senza scuole; ma è vero pure che vi era uno stato di grossolana prosperità, che rendeva la vita del popolo meno tormentosa di ora. Il commissario governativo mandato a Napoli da Cavour, dopo l'annessione, il cavaliere Vittorio Sacchi, riconosceva tutti i meriti della finanza napoletana, e nella sua relazione ufficiale non mancava di additarli. (p. 118)
  • Or, poiché si diceva che il Nord fosse meno ricco del Sud e si credeva che molto avesse sacrificato alle lotte della indipendenza e della unità, parve anche assai naturale che i meridionali pagassero il loro contributo. Così i debiti furono fusi incondizionatamente e il 1862 fu unificato il sistema tributario ch'era diversissimo. Furono venduti per centinaia di milioni i beni demaniali ed ecclesiastici del Mezzogiorno, e i meridionali, che aveano ricchezza monetaria, fornirono tutte le loro risorse al tesoro, comprando ciò che in fondo era loro; furon fatte grandi emissioni di rendita nella forma più vantaggiosa al Nord; e si spostò interamente l'asse della finanza. Gl'impieghi pubblici furono quasi invasi dagli abitanti di una sola zona. La partecipazione ai vantaggi delle spese dello Stato fu quasi tutta a vantaggio di coloro che avevano avuto la fortuna di nascere nella valle del Po. (p. 118-119)
  • Dal 1860 a oggi i 56 miliardi che lo Stato ha preso ai contribuenti sono stati spesi in grandissima parte nell'Italia settentrionale. Le grandi spese per l'esercito e per la marina: le spese per i lavori pubblici; le spese per i debiti pubblici; le spese per tutti gli scopi di civiltà e di benessere, sono state fatte in grandissima parte nel Nord. Per quaranta anni è stato un drenaggio continuo: un trasporto di ricchezza dal Sud al Nord. Così il Nord ha potuto più facilmente compiere la sua educazione industriale; e quando l'ha compiuta ha mutato il regime doganale. [...] Perfino le spese fatte nel Mezzogiorno furono in gran parte erogate per mezzo di ditte settentrionali. (p. 119)
  • Fatte alcune nobili eccezioni, la rappresentanza del Mezzogiorno vale assai poco. Molti di coloro che ci comandano, noi non vorremmo avere in domesticità. Per la più gran parte dei deputati del Mezzogiorno una croce di cavaliere ha più importanza di un trattato di commercio; anzi importa più che l'indirizzo di tutta la politica finanziaria. (p. 120)
  • I meridionali hanno spesso qualità dissociali o antisociali: poco spirito di unione e di solidarietà, tendenza a ingrandire le cose o addirittura a celarle, per amore di falsa grandezza; per poco spirito di verità. [...] Manca lo spirito del lavoro nelle classi medie; manca la educazione industriale. Si sopporta che l'amministrazione e la politica siano spesso nelle mani di persone indegne, pure di averne piccoli vantaggi individuali. [...] Manca spesso la buona fede commerciale; manca più spesso ancora l'interesse di ogni cosa pubblica. (p. 130-131)
  • La questione meridionale è una questione economica, ma è anche una questione di educazione e di morale. [...] L'Italia meridionale non deve chieder nulla: deve solo formare la sua coscienza, perché reagisca alla continuazione di uno stato di cose che impoverisce e degrada. Deve, soprattutto, volere maggior sicurezza di ordinamenti; maggiore rispetto della legge; deve, più ancora, preferire agli aumenti di spese per qualsiasi ragione, la diminuzione delle imposte più tormentose. Continuerà ancora l'equivoco presente? Continuerà fino a quando noi non vorremo vedere la verità così com'è; fino a quando noi attenderemo la nostra salvezza dagli altri e non da noi stessi. (p. 131)

Excipit[modifica]

La trasformazione agraria che si è compiuta non può essere giudicata dai dati forniti dalla statistica; ma ciò che scrivono i giornali e le riviste speciali indica una trasformazione profonda e relativamente rapida. Sopra tutto nell'Italia del Nord la trasformazione e stata generalmente rapida, e tendono a prevalere ogni giorno metodi più industriali di cultura.

Meditazioni dell'esilio[modifica]

Incipit[modifica]

Questo libro è una raccolta di saggi scritti durante la mia deportazione in Germania, a Itter e a Hirschegg. Non hanno fra loro alcun nesso. Quando furono redatti io non mi proponevo alcun scopo teorico né pratico di politica. Nello stato di profonda tristezza in cui ero e nell'incertezza di ogni cosa che mi riguardasse avevo bisogno, per non abbattermi e per non abbrutire, di lavorare, leggere e meditare intensamente; e, sopra tutto, avevo bisogno di scrivere.

Citazioni[modifica]

  • [...] sperando forse di trarne vantaggio, i ricchi ebrei furono tra i primi e maggiori sostenitori del fascismo. Fatto strano e caratteristico. Molti grandi banchieri in America, fra cui il famigerato Otto Kahn, aiutarono quanto potettero il fascismo nell'agevolare operazioni di credito. Questo sinistro e disonesto individuo, di cui è nota la bassezza, giunse al punto di offrire all'ambasciata dell'Italia fascista a Washington una mia lettera, credendo così render servizio a Mussolini che, nel suo cuore, dovette naturalmente disprezzarlo. (Ariani e Semiti - Il grande equivoco degli ariani, pp. 56-57)
  • Tra i pochi che [delle leggi razziali fasciste] ne trassero grande vantaggio fu l'abietto prete Preziosi che, benché antipatico a tutti e anche a Mussolini, divenne ministro di Stato, mentre era uomo che meritava solo di finire in carcere. (Ariani e Semiti - Il grande equivoco degli ariani, p. 59)
  • L'idea razziale, abbia o non abbia alcun fondamento, è un'idea del tutto recente. (Ariani e Semiti - Il grande equivoco degli ariani, p. 61)
  • Più scellerata e bestiale fu in Ungheria l'azione [antisemita] di Bela Kuhn, individuo di specie anche peggiore, che per qualche tempo riuscì a dominare lo Stato e poi si rifugiò in U.R.S.S. Di lui anche gli elementi estremisti ungheresi che vennero a Parigi[13] e che erano intorno al conte Karoly[14], mi parlarono con orrore e comprendo quanto male la sua azione abbia fatto agli ebrei. (Ariani e Semiti - Il grande equivoco degli ariani, p. 64)
  • L'uomo che nella rivoluzione francese fu il fenomeno più interessante e che fece, forse, più male alla Francia e all'Europa fu Brissot, di cui in generale gli storici della rivoluzione parlano poco o non sufficientemente. Fu sopra tutto questo piccolo giornalista da ricatti, divenuto arbitro della politica estera, che precipitò la Francia in quella serie di interminabili guerre, che dopo tante alterne vicende al loro inizio finirono poi nella tirannia e nella dominazione imperiale di Napoleone. (Cesare e Napoleone, p. 105)
  • [Jacques Pierre Brissot] Era una delle maggiori espressioni dello spirito giacobino. Da principio non si diceva Jacobins, ma Brissotins. (Cesare e Napoleone, p. 105)
  • Brissot era invasato dall'idea che la guerra dovea essere la suprema risorsa della rivoluzione [francese]. Dovunque parlava nell'assemblea nazionale, ai giacobini, nei circoli dimostrava con sicurezza che i popoli di tutta Europa erano sull'esempio dei Francesi disposti a liberarsi dei re e prevedeva vittoria facile da parte degli eserciti repubblicani. La guerra, egli affermava in uno dei suoi discorsi all'assemblea, era l'avvenire della rivoluzione e il solo pericolo era invece la pace. La Francia potea regolarsi secondo il suo interesse non essendo legata da trattati precedenti perché la sovranità del popolo non è mai legata dai trattati dei tiranni. (Cesare e Napoleone, p. 106)
  • Fu nella bottega di Santerre che venne preparato l'assalto alla Bastiglia e fu Santerre stesso che lo diresse. Più tardi fu anche lui che ebbe cura di trasformare l'avvenimento dall'impresa di esaltazione eroica (e basata su un generale equivoco) in una speculazione sui materiali demoliti. Come accade ai grandi meneurs[15] di folle, egli era nello stesso tempo un esaltato, un calcolatore e uno speculatore. Più tardi in tutti i movimenti più torbidi di Parigi, [...], si trova sempre Santerre. (Cesare e Napoleone, p. 107)
  • Quando Luigi XVI fu trascinato alla ghigliottina e serbò contegno ammirevole, Santerre comandava la guardia nazionale. Con spaventevole cinismo, dando prova di brutalità, volle impedire al disgraziato sovrano che voleva parlare al popolo prima di morire, di pronunziare una sola parola. Le guardie impedivano al re di essere veduto dal pubblico, mentre il continuo e fragoroso rullo dei tamburi impediva di udire qualsiasi parola. Nella sua grossolana vanità Santerre volle farsi nominare più tardi generale in Vandea e diede miserabile prova di sé e delle sue attitudini. (Cesare e Napoleone, p. 107)
  • Pio IX era un sentimentale, un romantico e un impulsivo ed era in realtà uno spirito bonario e mediocre, che passava facilmente da un eccesso all'altro. Era stato l'idolo dei liberali e si era fatto acclamare come il pontefice di larghi spiriti e rinnovatore e poi, dinanzi ai pericoli veri o immaginari era passato alla reazione più oscura, per finire più tardi nel suo lungo pontificato fino agli errori più dannosi come la proclamazione del Syllabus, che contristò i cattolici più illuminati. (Montecassino, p. 189)
  • Concepita nobilmente la Società delle nazioni di Ginevra, fu in realtà un inganno alla buona fede del mondo, una ignobile istituzione, che aumentò con i suoi equivoci le cause generali di guerra e fu fra le cause della guerra del 1939.
    Escluse da principio i vinti e poi si organizzò come una santa alleanza dei vincitori, giustificò tutti gli abusi. Divenne una borsa di valori in cui prevalevano i più forti con i loro aderenti e fu il generale equivoco di pace. (Riflessioni e aforismi sulla guerra e sulla pace, p. 243)
  • Le maggiori difficoltà che ho incontrato nella mia vita, nel mondo accademico da principio e poi in misura ben maggiore nella politica, mi sono venute sempre dalla fatale avversione dei mediocri e degl'incapaci che non mi hanno mai perdonato di essere considerato uomo di talento. (Il peso dell'intelligenza in tutta la mia vita, p. 393)

Napoli e la questione meridionale[modifica]

Incipit[modifica]

Napoli, la grande città che era ancora qualche secolo fa la seconda in Europa per popolazione, che nel 1860 soverchiava per importanza tutte le città italiane; Napoli, la città che Sella chiamava cospicua e che avea almeno fino a qualche tempo fa alcune apparenze di ricchezza, Napoli muore lentamente sulle sponde del Tirreno.

Citazioni[modifica]

  • Napoli e la Basilicata sono dunque i due estremi della questione meridionale: la città popolosissima e la campagna spopolata. (p. 13)
  • I politici italiani sono in genere uomini di assai mediocre valore: non amano noie e anche i migliori fra di essi sono incapaci di affrontare i problemi di larga importanza. (p. 19)
  • Napoli ha cessato di essere, per necessità delle cose, città di consumo e non è diventata città industriale, né di commercio: quindi le risorse dei cittadini sono diminuite. (p. 43)
  • Come vivea Napoli prima del 1860? Essa era, come abbiam detto, la capitale del più grande regno della penisola. Messa in clima temperato, tra la collina e il mare (come nell'ideale platonico) dato lo scarso sviluppo della igiene pubblica in tutta Europa, non ostante condizioni cattive della sua edilizia, rimaneva città di dolce soggiorno, in cui i forestieri si recavano spesso a svernare, più spesso ancora erano attratti, oltre che dalla bellezza del clima, dalla facilità della vita. (p. 49)

Nord e sud[modifica]

Incipit[modifica]

Mio caro [Luigi] Roux, dedico a te questo mio libro, per sciogliere un antico voto di riconoscenza. Tu sei stato sempre il mio editore cortese; e tu mi hai accolto amicamente nel tuo giornale, molti anni or sono, me quasi fanciullo e ignoto. La bontà affettuosa che tu hai avuto per me all'inizio della mia carriera di lavoro (ahi! come rude), il tuo consiglio e la tua parola non ho dimenticato mai più tardi, non dimenticherò mai in avvenire.

Citazioni[modifica]

  • Prima del 1860 non era quasi traccia di grande industria in tutta la penisola. La Lombardia, ora così fiera delle sue industrie, non avea quasi che l'agricoltura; il Piemonte era un paese agricolo e parsimonioso, almeno nelle abitudini dei suoi cittadini. L'Italia centrale, l'Italia meridionale e la Sicilia erano in condizioni di sviluppo economico assai modesto. Intere provincie, intere regioni eran quasi chiuse ad ogni civiltà. (pp. 2-3)
  • Per cause molteplici (unione di debiti, vendita dei beni pubblici, privilegi a società commerciali, emissioni di rendita) la ricchezza del Mezzogiorno, che potea essere il nucleo della sua trasformazione economica, è trasmigrata subito al Nord. Le imposte gravi e la concentrazione delle spese dello Stato fuori dell'Italia meridionale, hanno continuata l'opera di male. (p. 8)
  • Il governo delle province, prefetti, intendenti di finanza, generali, ecc., è ancora adesso in grandissima parte nelle mani di funzionari del Nord. Non vi è nessun senso d'invidia in quanto diciamo. Ma vogliamo solo dire che se i governi fossero stati più onesti e non avessero voluto lavorare il Mezzogiorno, cioè corromperne ancor più le classi medie a scopi elettorali, molto si sarebbe potuto fare, e che, in ogni caso, la responsabilità non è solo dei meridionali. (p. 11)
  • L'Italia meridionale ha poca ricchezza e poca educazione industriale: pure lo Stato quando ha speso per essa, ha speso più per mantenere il parassitismo, che per combatterlo. Invece è l'educazione industriale che bisogna formare. (p. 14)
  • Senza togliere nessuno dei grandi meriti che il Piemonte ebbe di fronte all'unità italiana, che è stata in grandissima parte opera sua, bisogna del pari riconoscere che senza l'unificazione dei varii Stati, il regno di Sardegna per lo abuso delle spese e per la povertà delle sue risorse era necessariamente condannato al fallimento. La depressione finanziaria, anteriore al 1848, aggravata fra il '49 e il '59 da un'enorme quantità di lavori pubblici improduttivi, avea determinata una situazione da cui non si poteva uscire se non in due modi: o con il fallimento, o confondendo le finanze piemontesi a quelle di altro stato più grande. (p. 30)
  • Dei Borbone di Napoli si può dare qualunque giudizio: furono fiacchi, non sentirono i tempi nuovi, non ebbero altezza di vedute mai, molte volte mancarono di parola, molte volte peccarono; sempre per timidità, mai forse per ferocia. Non furono dissimili dalla gran parte dei prìncipi della penisola, compreso il Pontefice. Ma qualunque giudizio che si dia di essi non bisogna negare che i loro ordinamenti amministrativi erano spesso ottimi; che la loro finanza era buona, e in generale, onesta. (p. 31)
  • Ma, dal punto di vista della finanza, bisogna ricordare che nel 1860 il Piemonte avea grandissima rete stradale; numerose ferrovie e canali e opere pubbliche di molta importanza. Queste cause, estranee in gran parte alla guerra, erano i veri agenti della depressione finanziaria. (p. 38)
  • L'ordinamento finanziario del Regno di Sardegna fu esteso a tutto il resto d'Italia. Fu il [Pietro] Bastogi, che fra il 1861 e il 1862, compì l'opera di trasformazione. Con cinque disegni di leggi, che furono la base delle leggi successive, il Bastogi estese il sistema fiscale piemontese a tutti i vecchi Stati che erano entrati a far parte del nuovo regno. Avvenne così, per effetto del nuovo ordinamento, che il regno delle Due Sicilie si trovò a un tratto, senza che nessuna trasformazione economica fosse in esso avvenuta, anzi perdendo quasi tutto il suo esercito e molte sue istituzioni, a passare dalla categoria dei paesi a imposte lievi, nella categoria dei paesi a imposte gravissime. (p. 48)
  • [su Cavour] È stato veramente il più grande uomo politico del suo tempo, e la cui gloria crescerà sempre di più [...] In oltre cinque anni di amministrazione con perspicua mente, molte cose modificò, molte corresse. L'amministrazione centrale ridusse notevolmente, modificò gli uffici provinciali. Assorbito da altre cose, non poté però compiere l'opera iniziata, e l'ordinamento piemontese rimase rigido, pesante, costoso. (p. 52)
  • L'Italia meridionale, che prima del 1860 era in gran parte chiusa alla civiltà e che, all'infuori di una piccola zona dintorno a Napoli, era quasi impenetrabile, molto si è giovato dell'unità. La cultura media è di gran lunga elevata: le abitudini sono diventate migliori; vi è numero assai più grande di strade; l'agricoltura, sopra tutto in Puglia, è migliorata; comincia a penetrare il soffio della civiltà nuova. Ma i benefizi sono stati in gran parte di carattere etico: là dove si è creata una situazione economica assai difficile. Il Mezzogiorno continentale non è ricco; non lo è mai stato. (p. 189)

Excipit[modifica]

Poiché l'avvenire dell'Italia è nella unione intima e più grande, nella crescente tendenza unitaria, coloro che sentiranno quanto l'Italia nuova ha fatto per essi, saranno più giusti verso quel Mezzogiorno d'Italia, in cui è la soluzione non solo dei problemi dell'unità, ma dell'esistenza stessa del regime liberale.

Scritti sulla questione meridionale[modifica]

Citazioni[modifica]

  • [Su Ferdinando II delle Due Sicilie] Pochi principi italiani fecero tra il '30 e il '48 il bene che egli fece. Mandò via dalla corte una turba infinita di parassiti e di intriganti: richiamò i generali migliori, anche di parte liberale, e licenziò gli inetti; ordinò le leve militari; fece costruire, primo in Italia, una strada ferrata, istituì il telegrafo, fece sorgere molte industrie, soprattutto quelle di rifornimento dell'esercito, che era numerosissimo; ridusse notevolmente la lista civile; mitigò le imposte più gravi. Giovane, forte, scaltro, voleva fare da sé, ed era di una attività meravigliosa. Educato da preti e cattolicissimo egli stesso, osò, con grande ammirazione degli intelletti più liberi, resistere alle pretese del papato e abolire antichi usi, umilianti per la monarchia napoletana. È passato alla storia come "Re bomba" e non si ricordano di lui che il tradimento della Costituzione, le persecuzioni dei liberali, le repressioni di Sicilia, e le terribili lettere di Gladstone. Abbiamo troppo presto dimenticato che, durante quasi due terzi del suo regno, i liberali stessi lo chiamarono Tito e lo lodarono e lo esaltarono per le sue virtù e per il desiderio suo di riforme. Abbiamo troppo presto dimenticato il sollievo che le sue riforme finanziarie produssero nel popolo, e l'ardimento che egli dimostrò nel sopprimere vecchi abusi. (Volume 1, p. 41)
  • Da tre secoli a questa parte mai l'Italia è stata ciò che è ora: in quarant'anni di unità, di questa unità che con le sue ingiustizie è sempre il nostro più grande bene, in quarant'anni di unità, noi abbiamo realizzato progressi immensi. Noi non eravamo nulla e noi siamo molto più ricchi, molto più colti, molto migliori dei nostri padri. (Volume 1, p. 125)
  • Il solo male vero che ha l’Italia odierna è la poca fiducia in sé stessa: poiché ella ingrandisce a torto il passato e non vede con serenità il presente. (Volume 2, p. 446)

Citazioni su Francesco Saverio Nitti[modifica]

  • Conobbi giovinetto il Nitti, venuto in Napoli – di antica famiglia borghese dei miei paesi, poverissima, – insieme col padre, la madre e le tre sorelle, che egli sostentò, letteralmente, per più anni, del più duro umile suo lavoro di tavolino; e lo amai, perché veramente eroico e d'ingegno e desideroso d'apprendere. Fu autodidatta, nel più stretto ed anche nel più eccessivo significato della parola. (Giustino Fortunato)
  • Era (e resta) uno dei più illustri economisti del mondo, un alto esempio di democrazia e un italiano esemplare in ogni istante della sua vita pubblica e privata. (Giovanni Artieri)
  • Giolitti odia sempre a morte Nitti: dice che è un ladro; vive troppo largamente per i suoi mezzi di insegnante universitario. Io credo che l'odio accechi Giolitti. Nitti non è uno stinco di santo. Ma nessuno ha mai potuto finora fargli in pubblico le accuse di disonestà che tutti gli fanno in privato. E i suoi guadagni di avvocato commercialista possono permettergli una vita che non è poi sardanapalesca. (Gaetano Salvemini)
  • Il programma di Nitti fu il solo programma conservatore serio della borghesia italiana. (Piero Gobetti)
  • Io credo che veramente il Nitti fu un uomo fatale all'Italia, ma verso il quale durante tutto quest'ultimo ventennio mi sono astenuto dal pronunciare anche soltanto una parola amara, per ciò che egli è stato ed è un perseguitato e un assente: due ragioni decisive per cui egli ha diritto al mio rispetto. (Vittorio Emanuele Orlando)
  • L'uomo di Stato più moderno, intelligente e preparato della borghesia italiana. (José Carlos Mariátegui)
  • Lucano di Melfi, Francesco Saverio Nitti incarnava anche nel fisico tozzo e grassottello il tipo del notabile meridionale, colto, brillante, scettico e alquanto egocentrico. [...] la sua specialità era il problema del Mezzogiorno, di cui fu tra i primi seri studiosi e che gli fornì anche la base elettorale. [...] Sul livello medio della classe politica di allora, egli faceva spicco per preparazione, equilibrio e lucidità, ma anche per una certa propensione ad attribuirsi il monopolio di queste virtù. (Indro Montanelli)
  • Nitti era un uomo di eccezionali qualità sia come amministratore che come statista. (David Lloyd George)
  • Nitti fu un grande pensatore di cui molte cose sulla democrazia e sull'economia restano di attualità in una visione grande, ma realistica dell'Italia. Guardiamo soprattutto all'oggi per valorizzare un pensiero che pare oggi molto utile al contesto italiano. (Giuseppe Galasso)
  • Speriamo che l'Italia non abbia più bisogno di lei! (Francesco Chieffi)
  • [Lettera a Benito Mussolini] Voi vi lasciate mettere sul collo il piede porcino del più abietto truffatore che abbia mai illustrato la storia del canagliume universale. Qualunque altro paese, anche la Lapponia, avrebbe rovesciato quell'uomo. (Gabriele D'Annunzio)
  • Uomo di indiscusso valore e di indiscussa capacità. (Palmiro Togliatti)
  • Di Nitti apprezzavo la vastissima cultura, le grandi doti d'intelletto e la capacità come uomo di Stato, ma egli era un uomo pauroso da non dirsi: Nitti era sempre preoccupato della propria sicurezza personale e per evitare di correre rischi si faceva proteggere da agenti e carabinieri. Un giorni mi confidò che si sentiva sicuro soltanto quando aveva chiuso a doppio giro di chiave la porta di casa. A mia volta gli feci osservare che si trattava di una sicurezza molto relativa perché nessun carabiniere sarebbe stato in grado di impedire a un malintenzionato di far saltare la casa gettando una carica di dinamite contro la porta. Nitti non fiatò, impallidì e rimase per un attimo soprapensiero. [...] Quando ormai era sulla porta si fermò e mi disse: "Maestà, vi prego di non far parola con alcuno di quanto mi avete detto. Parlarne potrebbe far circolare l'idea e risvegliare propositi e intenzioni che per il momento sembrano addormentati" (Vittorio Emanuele III).
  • Voi siete stato un uomo di Stato, un onesto uomo di Stato. Ma non avete mai avuto fiducia nella grande capacità del popolo italiano, nella sua capacità di ricostruzione e di rinascita. Non l'aveste dopo l'altra guerra e non l'avete nemmeno ora. (Emilio Lussu)

Note[modifica]

  1. Citato in Francesco Saverio Nitti, UTET, Torino, 1984, p. 485.
  2. Da Principi di scienza delle finanze; citato da Pietro Amendola nella seduta del 23 novembre 1955 della Camera dei Deputati.
  3. Da Napoli e la questione meridionale, Guida Editori, Napoli, 2004, p. 19.
  4. Da Scritti politici: La pace. La libertà. Bolscevismo, fascismo e democrazia, Laterza, Bari, 1959, p. 255.
  5. Da La disgregazione dell'Europa, Faro, 1946.
  6. Da La ricchezza dell'Italia, Napoli, 1904, p. 8.
  7. Da La decadenza dell'Europa. Le vie della ricostruzione, R. Bemporad & Figlio, 1922, p. 144.
  8. Citato in Francesco Saverio Nitti, UTET, Torino, 1984, p. 561.
  9. Da Eroi e Briganti, Edizioni Osanna, Venosa, 1987, p. 34.
  10. Citato in Dicono di lei: Colombo, La Stampa, 11 febbraio 1973.
  11. Citato in Francesco Saverio Nitti, UTET, Torino, 1984, p. 489.
  12. Von Ketteler era nato da «famiglia ricchissima e nobile». (F. S. Nitti, op. citata, p. 111)
  13. Città ove per venti anni Nitti dimorò nel suo esilio dall'Italia.
  14. Mihály Károlyi (1875–1955), detto "il conte rosso" per le sue simpatie socialiste.
  15. Capi, agitatori o sobillatori.

Bibliografia[modifica]

  • Francesco Saverio Nitti, Il socialismo cattolico, L. Roux e C. Editori, Roma-Torino-Napoli, 1891.
  • Francesco Saverio Nitti, L'Italia all'alba del secolo XX, Casa Editrice Nazionale Roux e Viarengo, Torino-Roma, 1901
  • Francesco Saverio Nitti, Meditazioni dell'esilio, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 1947
  • Francesco Saverio Nitti, Nord e Sud, Casa Editrice Nazionale Roux Roux e Viarengo, Torino- Roma, 1900
  • Francesco Saverio Nitti, Napoli e la questione meridionale; in Francesco Saverio Nitti e Domenico De Masi, Napoli e la questione meridionale 1903-2005, Alfredo Guida editore, 2004, anteprima su Google libri
  • Francesco Saverio Nitti, Scritti sulla questione meridionale, Laterza, Bari, 1958.

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