Charlie Chaplin

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Charlie Chaplin nel 1915

Sir Charles Spencer Chaplin (1889 – 1977), attore, regista, sceneggiatore, compositore e produttore britannico.

Oscar alla carriera (1929) Oscar alla carriera (1972) Luci della ribalta

  • Migliore colonna sonora (1973)

Citazioni di Charlie Chaplin[modifica]

  • [Grammelot] Se bella giu satore | je notre so cafore | je notre si cavore | je la tu la ti la twah. || La spinash o la bouchon | cigaretto portobello | si rakish spaghaletto | ti la tu la ti la twah. || Senora pilasina | voulez vous le taximeter? | Le zionta su la seata | tu la tu la tu la wa. || Sa montia si n'amora | la sontia sogravora | la zontcha con sora | je la possa ti la twah. || Je notre so lamina | je notre so cosina | je le se tro savita | je la tossa vi la twah. || Se motra so la sonta | chi vossa l'otra volta || Li Zoscha si catota | tra la la la la la la.[1]
  • [Ultime parole famose nel 1916] Il cinema è poco più di una moda. È dramma in scatola. Ciò che gli spettatori vogliono vedere è carne e sangue sul palcoscenico.
The cinema is little more than a fad. It's canned drama. What audiences really want to see is flesh and blood on the stage.[2]
  • Il silenzio è un dono universale che pochi sanno apprezzare. Forse perché non può essere comprato. I ricchi comprano rumore. L'animo umano si diletta nel silenzio della natura, che si rivela solo a chi lo cerca.[3]
  • [Ultime parole famose nel 1914] Intendo smetterla col cinema. È troppo per me. Non ci riuscirò mai. È troppo rapido. Non riesco a capire che cosa stia facendo né che cosa si voglia che io faccia.
I'm going to get out of this [film] business. It's too much for me. I'll never catch on. It's too fast. I can't tell what I'm doing or what anybody wants me to do.[4]
  • Le mie pagliacciate, come le chiama la gente – e io detesto la parola pagliaccio, perché io non sono un pagliaccio – possono avere un significato più recondito. Preferisco definirmi un satirista mimetico, perché in tutte le mie commedie ho mirato a parodiare, a mettere in satira il genere umano… o perlomeno quegli esseri umani la cui stessa esistenza è una inconsapevole satira di questo mondo. Quanto al genere umano, preferisco immaginarlo come la malavita degli dèi. Quando gli dèi vogliono farsi un giro nei bassifondi, vengono a visitare la terra. Capisce, non nutro esattamente il massimo rispetto per il genere umano. Le mie buffonate sullo schermo le appariranno senza dubbio ridicole. Ebbene, le buffonate degli uomini – perfino nelle loro occupazioni più serie, e in quelle che scelgono di chiamare le più sublimi – appaiono altrettanto ridicole agli dèi o agli esseri che abitano le dimensioni superiori. In una parola l'umanità nel suo complesso, vista con gli occhi dell'immaginazione comica, è composta di tanti piccoli Charlot. Con le mie buffonate, i miei abiti, i miei scherzi grossolani, i miei gesti illogici e il pathos comico io mostro l'umanità stessa come deve apparire agli spettatori che stanno Lassù, se pure ce n'è qualcuno intento a osservare questa cagnara terrestre.[5]
  • [All'osservazione che forse i movimenti di macchina delle sue regie non erano così interessanti] Non devono essere interessanti "loro": sono interessante "io".[6]
  • [Rivolto all'amico Thomas Burke, nel 1931] Non è patetico, non è terribile che tutta questa gente mi circondi gridando «Dio ti benedica, Charlie!» e che voglia toccarmi il capotto, e ridere o persino piangere? Li ho visti farlo, quando riescono a toccarmi la mano. E perché? Perché? Semplicemente perché li ho rallegrati. Dio, Tommy, che lurido mondo è questo, che permette alla gente di passare una vita tanto abietta che se qualcuno li fa ridere vogliono inginocchiarsi e toccargli il cappotto come fosse Gesù Cristo che li risuscita. Ecco un commento sulla vita. Ecco un bel mondo in cui vivere. Quando la folla mi circonda così – per quanto personalmente mi gratifichi – spiritualmente mi fa male, perché so cosa c'è dietro. Uno squallore, una bruttezza, e una disperazione tale che solo perché qualcuno li fa ridere e li aiuta a dimenticare, chiedono a Dio di benedirlo.[7]
  • Non si ha ogni volta la fortuna che un lavoro cresca come un albero. La Febbre dell'oro, Vita da cani, Il Monello sono eccezionali. Quando rendevo perfetta una scena, si staccava dall'albero. Ho scosso i rami e sacrificato i migliori episodi. Sono autosufficienti. Li potrei proiettare separatamente, a uno a uno, come le mie prime pellicole.[8]
  • Sento di avere il privilegio di esprimere una speranza. La speranza è questa: che avremo finalmente la pace in tutto il mondo: che aboliremo le guerre, e risolveremo tutte le differenze internazionali al tavolo delle conferenze: che aboliremo tutte le bombe atomiche e all'idrogeno, prima che siano esse ad abolire noi.
I feel I am privileged to express a hope. The hope is this: that we shall have peace throughout the world: that we shall abolish wars, and settle all international differences at the conference table: that we shall abolish all atom and hydrogen bombs, before they abolish us.[9]
  • Serve il potere solo quando si vuole fare qualcosa di dannoso, altrimenti l'amore è sufficiente per fare il resto.[10]
  • Un giorno senza un sorriso è un giorno perso.[11]
  • Vivi! È veramente buono battersi con persuasione, abbracciare la vita e vivere con passione, perdere con classe e vincere osando, perché il mondo appartiene a chi osa! La Vita è troppo bella per essere insignificante![12]

La mia autobiografia[modifica]

Incipit[modifica]

Prima che il ponte di Westminster venisse aperto al traffico, Kennington Road era solo una mulattiera. Dopo il 1750 fu tracciata una nuova strada che partendo dal ponte collegava direttamente Londra a Brighton. Di conseguenza Kennington Road, dove ho trascorso gran parte della mia infanzia, vantava alcune belle case di notevole valore architettonico, provviste sulla facciata di balconi con la ringhiera di ferro dai quali gli occupanti avevano potuto vedere Giorgio IV passare in carrozza diretto a Brighton. (p. 9)

Citazioni[modifica]

  • Sapevo appena di avere un padre, e non ricordo che abbia mai vissuto con noi. Anche lui era un artista di varietà, un uomo silenzioso e meditabondo dagli occhi scuri. Mia madre diceva che somigliava a Napoleone. (p. 16)
  • Nella stanza buia del seminterrato di Oakley Street mia madre [con le sue letture appassionate del Vangelo] mi accese della fiamma più ardente che questo mondo abbia mai visto, e che da allora ha sempre arricchito teatro e letteratura con i suoi temi più grandi e appassionanti: pietà, amore e umanità. (p. 25)
  • Mi è rimasto in mente un incidente. In fondo alla via [dove abitava con la madre e il fratello Sydney] c'era un macello, e davanti a casa nostra passavano le pecore ivi destinate. Ricordo che ne scappò una, e corse giù per la strada tra le risa degli astanti. Alcuni tentarono di acciuffarla, altri inciamparono e caddero per terra. Mi ero divertito un mondo alle capriole dell'animale, tanto sembrava comico il suo panico. Ma quando esso fu catturato e ricondotto al macello, compresi tutta la realtà della tragedia e corsi a casa da mia madre strillando e piangendo: «L'ammazzano! L'ammazzano!». Per parecchi giorni non riuscii a dimenticare la buffa caccia di quel rigido pomeriggio di primavera; e mi domando se non fu proprio quell'episodio a creare la premessa delle mie future opere cinematografiche: la combinazione di tragico e di comico. (p. 46)
  • Se non fosse stato per il rispetto dovuto agli scrupoli religiosi di mia madre avrei potuto convertirmi al cattolicesimo con la massima facilità, perché mi piacevano il suo misticismo e gli altarini fatti in casa con una Vergine Maria di gesso adorna di fiori e candele accese che i ragazzi erigevano in un angolo della stanza da letto, e davanti ai quali facevano una genuflessione ogni volta che passavano. (p. 50)
  • A un amico Joseph Conrad scrisse così: che la vita gli dava l'impressione di essere un topo cieco con le spalle al muro incapace di sfuggire a una solenne bastonatura. La similitudine potrebbe attagliarsi benissimo alle brutte situazioni in cui finiamo tutti per trovarci, prima o poi. Ciò nonostante, per qualcuno gira il vento della fortuna, ed è questo che accadde a me. (p. 89)
  • Capisco benissimo l'atteggiamento psicologico del teddy boy col suo abito edoardiano; come tutti noi, egli vuole che la sua vita balzi al centro dell'attenzione, evochi il dramma e l'avventura. Perché non dovrebbe abbandonarsi a momenti di sfrenato esibizionismo, come lo scolaro indulge ai vagabondaggi e agli scherzi rumorosi? Non è naturale che quando vede le cosiddette classi abbienti affermare la loro fatuità egli voglia affermare la sua?
    Di questi tempi egli sa che la macchina obbedisce alla sua volontà come obbedisce a quella dell'esponente di qualsiasi ceto; che per cambiare una marcia o premere un bottone non occorre una speciale intelligenza. In quest'era insensata egli è pari a qualsiasi Lancillotto, aristocratico o scienziato che sia; il suo dito può distruggere una città con la stessa facilità di un esercito napoleonico. Non è dunque il teddy boy, una fenice che sorge dalle ceneri di una classe dirigente criminale, con un atteggiamento forse motivato da una subconscia convinzione, e cioè che l'uomo è solo un animale semi-addomesticato che per generazioni ha dominato gli altri con l'inganno, la crudeltà e la violenza? (pp. 110-111)
  • [Durante una tournée a Parigi] Una sera l'interprete venne a dirmi che un celebre musicista desiderava conoscermi: non potevo raggiungerlo nel suo palco? L'invito presentava un certo interesse perché nel palco, insieme a lui, c'era una bellissima signora dall'aria esotica, che faceva parte del Balletto Russo. L'interprete mi presentò. Il signore disse che il mio numero lo aveva divertito e che era rimasto sorpreso dalla mia giovane età. A questi complimenti io mi inchinai educatamente, lanciando di tanto in tanto una occhiata furtiva alla sua amica. «Lei ha l'istinto del musicista e del ballerino» disse lui.
    Rendendomi conto che non potevo rispondere al complimento altro che con un sorriso, lanciai un'occhiata all'interprete e tornai a inchinarmi educatamente. Il musicista si alzò in piedi e mi tese la mano; mi alzai anch'io. «Sì» disse, stringendomi la mano «lei è un vero artista.» Dopo esserci congedati, mi rivolsi all'interprete: «Chi era la signora che lo accompagnava?».
    «È una danzatrice del Balletto Russo, mademoiselle...» Era un nome molto lungo e difficile.
    «E come si chiamava quel signore?» domandai.
    «Debussy» rispose «il celebre compositore.»
    «Mai sentito nominare» commentai. (pp. 135-6)
  • Se non fosse stato per l'acquisto di un libro sull'allevamento scientifico dei maiali, forse avrei abbandonato il teatro per diventare un allevatore, ma quel libro, che illustrava graficamente la tecnica per castrare gli animali, e l'idea di eseguire una simile operazione, gettarono acqua sul fuoco del mio entusiasmo; presto dimenticai il progetto. (p. 150)
  • Il giorno prima di lasciare San Francisco feci quattro passi per Market Street, dove m'imbattei in una botteguccia con la vetrina coperta da una tenda e un cartello che diceva: «Fatevi leggere la fortuna sulle mani e sulle carte. Un dollaro». Entrai, un po' imbarazzato, e mi trovai di fronte a una donna rubiconda sulla quarantina che uscì da una stanza interna masticando un boccone del pasto interrotto. Con aria noncurante m'indicò un tavolino addossato al muro opposto alla vetrina, e senza guardarmi disse: «Prego, si accomodi». Poi sedette davanti a me. I suoi modi erano bruschi. «Mescoli queste carte e tagli il mazzo tre volte, poi metta le mani sul tavolo col palmo in alto, per favore.» Voltò le carte e le sparse sul tavolo, le studiò, poi mi guardò le mani. «Lei sta pensando a un lungo viaggio, il che significa che presto lascerà gli Stati Uniti. Ma vi tornerà fra breve per dedicarsi a un'altra attività... diversa da quella che fa ora.» Qui la donna esitò e parve confondersi. «Be', è quasi la stessa, però è diversa. Vedo un enorme successo coronare questa nuova iniziativa; lei ha davanti a sé una carriera straordinaria, ma non so dirle quale sia.» Per la prima volta alzò lo sguardo su di me, poi mi prese la mano. «Oh sì, ecco tre matrimoni: i primi due non riusciranno, ma lei giungerà alla fine dei suoi giorni felicemente ammogliato e con tre figli.» (Qui sì che si sbagliava!) Poi tornò a studiarmi la mano. «Sì, farà una fortuna eccezionale, è una mano da soldi la sua.» Scrutandomi in viso, disse: «Morirà di broncopolmonite all'età di ottantadue anni. Un dollaro, prego. Ha qualche domanda da fare?».
    «No» dissi ridendo «mi pare che basti.» (pp. 155-156)
  • A Filadelfia mi trovai inavvertitamente fra le mani un'edizione degli Essays and Lectures di Robert Ingersoll. Fu una scoperta entusiasmante; il suo ateismo confermava la mia convinzione che l'orribile crudeltà dell'Antico Testamento fosse degradante per lo spirito umano. (p. 161)
  • [Su Ralph Waldo Emerson] Dopo aver letto il suo saggio sulla «Fiducia in se stessi» ebbi l'impressione che mi fosse stato concesso un prezioso diritto di primogenitura. (p. 161)
  • [Sul Tannhäuser di Richard Wagner] Non avevo mai visto un'opera lirica, solo qualche brano in un teatro di varietà, e la detestavo. Ma adesso avevo voglia di andarci. Comprai un biglietto e presi posto in seconda galleria. L'opera era in tedesco e non ne capii una parola; non conoscevo nemmeno l'argomento. Ma quando la defunta regina venne portata in scena alla musica del coro dei pellegrini, piansi amaramente. Mi parve una ricapitolazione di tutte le pene della mia vita. A stento riuscii a dominarmi; non so che cosa dovette pensare la gente che mi sedeva vicino, ma venni via tremante e coi nervi a pezzi, uno straccio. (pp. 163-164)
  • [Il primo giorno agli studi della Keystone] Sennett mi prese in disparte e mi spiegò il loro metodo di lavoro. «Giriamo senza copione: troviamo un'idea, poi seguiamo il corso naturale degli eventi finché esso non sfocia in un inseguimento, che è il nucleo della nostra comica.»
    La cosa era istruttiva ma non troppo consolante; personalmente non potevo soffrire gli inseguimenti. Annullano la personalità dell'attore; e per poco che m'intendessi di cinema, sapevo che nulla trascende la personalità. (p. 170)
  • [Sulla sua prima interpretazione del personaggio di Charlot] Non avevo la minima idea del personaggio. Ma come fui vestito, il costume e la truccatura mi fecero capire che tipo era. Cominciai a conoscerlo, e quando mi incamminai verso l'enorme pedana di legno esso era già venuto al mondo. (p. 174)
  • Il mio era un personaggio originale e poco familiare agli americani; poco familiare persino a me. Ma una volta nei suoi panni io m'immedesimavo in esso, per me era una realtà e un essere vivente. Anzi m'infiammava di idee folli di tutti i generi, che non avrei mai avuto se non mi fossi messo il suo costume e la sua truccatura. (p. 176)
  • Il successo rende simpatici [...]. Ormai avevo fiducia nelle mie idee, e di questo posso ringraziare Sennett poiché, pur essendo poco istruito come me, egli credeva nel proprio gusto, e infuse anche in me un'autentica fiducia. La sua osservazione, quel primo giorno allo studio: «Giriamo senza copione. Trovata un'idea, seguiamo il corso naturale degli eventi» mi aveva acceso la fantasia e mi parve la chiave di volta di ogni soggetto. (p. 184)
  • [Rivolto a Sennett] Per fare una comica non mi serve altro che un parco, un poliziotto e una bella ragazza. (p. 190)
  • Ricordo che un grande attore un giorno mi domandò: «Ora che siamo arrivati, Charlie, che cosa abbiamo ottenuto?». «Arrivati dove?» risposi. (p. 214)
  • La solitudine è una cosa repellente. Ha un lievissimo alone di tristezza, non riesce ad attrarre o a interessare; se ne prova un po' di vergogna. Ma, in misura maggiore o minore, è la compagna di tutti. (p. 216)
  • È indubbio che chi ha raggiunto il successo vive in un mondo diverso; pur essendo intellettualmente un parvenu, le mie opinioni erano tenute in seria considerazione. Quando incontravo qualcuno, scoprivo sempre visi sorridenti ed espressioni improntate alla massima gentilezza. Tutti volevano stringere amicizia con me e partecipare ai miei problemi quasi fossero dei parenti. Certo la cosa mi lusingava, ma la mia natura non ama una simile intimità. Mi piacciono gli amici come la musica: quando sono in vena. Questa libertà, comunque, doveva costarmi lunghi periodi di solitudine. (p. 227)
  • In un'occasione il consolato russo diede in suo onore [Anna Pavlovna Pavlova] una cena alla quale partecipai anch'io. Fu un incontro internazionale che si svolse in una atmosfera di grande solennità. Durante la cena vennero pronunciati molti brindisi e discorsi, alcuni in francese e altri in russo. Credo fui l'unico inglese invitato. Però, prima che venisse il mio turno di parlare, un professore russo tenne un brillante panegirico sull'arte della Pavlova, nella sua lingua. A un certo punto scoppiò in lacrime, poi si avvicinò alla ballerina e la baciò con ardore. Dopodiché, compresi che qualsiasi discorso da parte mia sarebbe stato straordinariamente insipido, e allora mi alzai per dire che, essendo il mio inglese del tutto insufficiente ad esprimere la grandezza dell'arte della Pavlova, avrei parlato in cinese. Finsi dunque di parlare in cinese, entusiasmandomi come aveva fatto il professore e finendo per baciare la Pavlova con maggiore trasporto di lui: presi anzi un tovagliolo e me lo misi sopra la testa per nascondere quella gragnuola di baci. Tutti i presenti cominciarono a sghignazzare e il ricevimento si spogliò della sua solennità. (p. 232)
  • Parecchi intervistatori mi hanno chiesto dove vado a prendere le idee per i miei film e ancora oggi non sono in grado di dare una risposta soddisfacente. Col passare degli anni ho scoperto che le idee vengono quando se ne ha un intenso desiderio; a forza di desiderare, la mente diventa una specie di osservatorio sempre all'erta per cogliere gli incidenti capaci di stimolare l'immaginazione: la musica, un tramonto, possono dare un volto a un'idea.
    Direi: scegliete un tema in grado di stimolarvi, elaboratelo e svolgetelo, poi, se non riuscite a svilupparlo ulteriormente, scartatelo e prendetene un altro. Questa eliminazione progressiva è il migliore sistema per trovare quello che cercate.
    Come si fa ad avere delle idee? Perseverando fin quasi a impazzire. Bisogna avere la forza di soffocare l'angoscia e dare sfogo all'entusiasmo per un lungo periodo di tempo. Forse per alcuni è più facile che per altri, ma ho i miei dubbi. (p. 252)
  • Attraverso la comicità vediamo l'irrazionale in ciò che ci sembra razionale; il folle in ciò che ci sembra sensato; l'insignificante in ciò che sembra pieno di importanza. Essa ci aiuta anche a sopravvivere preservando il nostro equilibrio mentale. Grazie all'umorismo siamo meno schiacciati dalle vicissitudini della vita. Esso attiva il nostro senso delle proporzioni e ci insegna che in un eccesso di serietà si annida sempre l'assurdo. (p. 253)
  • Alcuni sostenevano che [la Prima guerra mondiale] dipendeva dall'assassinio di un arciduca; ma questo non sembrava un motivo sufficiente per lo scoppio di una conflagrazione mondiale. La gente aveva bisogno di una spiegazione più realistica. Allora si disse che era una guerra per la difesa della democrazia. Anche se la minoranza aveva più cose da difendere della maggioranza, le perdite furono crudelmente democratiche. (p. 255)
  • [Riguardo alla prima volta che vide danzare Nižinskij] Nell'attimo in cui apparve rimasi elettrizzato. Ho visto pochi geni sulla terra, ma Nižinskij è stato uno di loro. Era ipnotico, divino, la sua tristezza suggeriva atmosfere di altri mondi; ogni movimento era poesia, ogni balzo un volo nella fantasia più sfrenata. [...] Il mistico mondo che ha creato, l'invisibile tragedia annidata nell'ombra della bellezza pastorale mentre egli si muoveva attraverso il suo mistero, divinità di appassionata tristezza: riusciva a esprimere tutte queste cose con pochi gesti di estrema semplicità e senza sforzo apparente. (pp. 230-231)
  • Quando la Duse venne a Los Angeles, nemmeno l'età e la fine incombente poterono oscurare il fulgore del suo genio. L'accompagnava un'eccellente compagnia italiana. Prima della sua entrata in scena un giovane e bell'attore fornì una prestazione superba, tenendo magnificamente il palcoscenico. Come avrebbe fatto la Duse a superare la straordinaria prestazione di questo giovanotto?
    Poi, dal fondo del palcoscenico, all'estrema sinistra, la Duse entrò in scena sbucando da un archivolto, piano piano, quasi senza farsi notare. Si fermò dietro un cestello di crisantemi bianchi che troneggiava su un pianoforte a coda e, silenziosamente, cominciò a rimetterli a posto. Un mormorio percorse la platea, e la mia attenzione lasciò immediatamente il giovane attore per concentrarsi sulla Duse. Ella non guardò né il collega né alcuno degli altri personaggi, ma continuò silenziosamente a disporre i fiori nel cestello e ad aggiungerne altri che aveva portato con sé. Quand'ebbe finito attraversò diagonalmente il palcoscenico, sedette in una poltrona accanto al caminetto e guardò il fuoco. Solo una volta fissò il giovanotto, e quell'occhiata racchiudeva tutta la saggezza e il dolore dell'umanità. Poi continuò ad ascoltare e a scaldarsi le mani: quelle mani così belle, così sensibili.
    Dopo il veemente discorso di lui, ella parlò pacatamente guardando il fuoco. Non c'era traccia di istrionismo; la sua voce veniva dalle ceneri di una tragica passione. Non compresi una parola, ma mi resi conto di essere alla presenza della più grande attrice che avessi mai visto. (pp. 232-3)
  • [Finita la prima guerra mondiale, con la vittoria degli Alleati] Una cosa era sicura: la civiltà che avevamo conosciuta non sarebbe mai più stata la stessa – quella fase era tramontata. E tramontati erano pure i suoi così detti decori fondamentali – ma, d'altra parte, nessun decoro era stato nulla di straordinario in alcun periodo della storia. (p. 270)
  • Non riesco a immedesimarmi nei problemi di un principe. La madre di Amleto avrebbe anche potuto andare a letto con tutti i cortigiani e io sarei rimasto assolutamente indifferente al dolore inflitto a suo figlio. (p. 305)
  • La caratteristica essenziale del grande attore è che egli si piace mentre recita. (p. 307)
  • L'atteggiamento di chi vuol rendere la miseria attraente per gli altri è piuttosto antipatico. Devo ancora conoscerlo un povero che abbia nostalgia della povertà, o che vi veda la libertà. [...] Io non trovo nessuna costrizione nella ricchezza: al contrario, vi trovo molta libertà. [...]
    Non ho trovato la miseria né attraente né edificante. Non mi ha insegnato altro che a falsare i valori, a sopravvalutare le virtù e le grazie dei ricchi e dei cosiddetti ceti abbienti.
    Ricchezza e celebrità, al contrario, mi hanno insegnato a vedere il mondo nella giusta prospettiva, a scoprire che gli uomini importanti, quando li avvicinavo, erano a loro modo deficienti quanto il resto di noi. Ricchezza e celebrità mi hanno anche insegnato a disdegnare le insegne della spada, del bastone da passeggio e del frustino da cavallerizzo come sinonimi di snobismo, a riconoscere che non basta l'accento preso al college per valutare i meriti e l'intelligenza di un uomo, e la paralizzante influenza che questo mito ha esercitato sul cervello della borghesia inglese, a sapere che l'intelligenza non deriva necessariamente dall'istruzione o dalla conoscenza dei classici. (pp. 322-323)
  • L'atteggiamento di Wells verso il cinema era di benevola tolleranza. «Non esiste un brutto film» diceva «è già abbastanza straordinario il fatto che si muovano!» (p. 326)
  • Gli dissi [a H. G. Wells] che non ero ben informato sul socialismo, e osservai scherzosamente che vedevo pochi vantaggi in un sistema nel quale l'uomo deve lavorare per vivere. «Francamente, ne preferisco uno che gli permetta di vivere senza lavorare.»
    Lui rise. «E i suoi film?»
    «Quello non è un lavoro: è un gioco da ragazzi» dissi, in tono faceto. (p. 327)
  • Il genio e il criminale hanno molto in comune, essendo ambedue sfegatati individualisti. (p. 345)
  • Io non credo, né mi rifiuto di credere, in nulla. (p. 346)
  • Non ci si avvicina alla verità attraverso la ragione, essa ci confina in una matrice geometrica di pensiero che esige logica e attendibilità; in sogno vediamo i morti e li accettiamo come vivi, sapendo al tempo stesso che sono morti. E benché questo stato di sogno sia privo di ragione, non ha forse una sua attendibilità? Vi sono cose che trascendono la ragione. Come possiamo comprendere la miliardesima parte di un secondo? Eppure esiste, se crediamo alla scienza matematica. [...] [La fede] È un'estensione dello spirito, un potere inverso oltre che infinito. Negare la fede è confutare se stessi e lo spirito che genera tutte le nostre forze creative. (p. 347)
  • È paradossale che nell'elaborazione di una comica la tragedia stimoli il senso del ridicolo; perché il ridicolo, immagino, è un atteggiamento di sfida: dobbiamo ridere in faccia alla tragedia, alla sfortuna e alla nostra impotenza contro le forze della natura, se non vogliamo impazzire. (pp. 362-363)
  • Vanderbilt mi spedì una serie di fotografie formato cartolina che mostravano Hitler durante un discorso. Il viso era oscenamente comico: una brutta copia del mio, con i suoi assurdi baffetti, le lunghe ciocche ribelli e una boccuccia disgustosamente sottile. Non riuscivo a prenderlo sul serio. Ogni cartolina ne illustrava una posa diversa: una con le mani simili ad artigli, mentre arringava la folla, un'altra con un braccio levato e l'altro lungo il corpo, come un giocatore di cricket che sta per lanciare la palla, e un'altra con le mani strette davanti a sé come se stesse sollevando un manubrio immaginario. Il saluto con la mano rovesciata all'indietro sulla spalla e col palmo rivolto all'insù mi faceva venir voglia di metterci sopra un vassoio di piatti sporchi. «Questo è matto!» pensai. Ma quando Einstein e Thomas Mann furono costretti a lasciare la Germania, il viso di Hitler non era più comico ma sinistro. (pp. 381-382)
  • Io ho una teoria, secondo la quale scienziati e filosofi non sono che dei romantici idealisti che hanno incanalato le loro passioni in un'altra direzione. Questa teoria si adattava benissimo alla personalità di Einstein. Aveva l'aria del tipico tirolese, nel miglior senso della parola, affabile e gioviale. E benché i suoi modi fossero calmi e gentili, sentii che nascondevano un temperamento estremamente emotivo, e che era da questa fonte che proveniva la sua straordinaria energia intellettuale. (p. 382)
  • La signora Einstein parlava un ottimo inglese, assai migliore di quello del marito. Era una donna quadrata, provvista di una straordinaria vitalità; francamente si divertiva ad essere la moglie di un grand'uomo e non faceva nessun tentativo per nasconderlo; il suo entusiasmo la rendeva simpatica a tutti. (p. 382)
  • [La signora Einstein] mi raccontò la storia del mattino in cui suo marito aveva concepito la teoria della relatività. Disse che il dottore era sceso in vestaglia, come sempre, ma aveva appena toccato la colazione. «Capii subito che qualcosa bolliva in pentola e gli chiesi quale problema fosse a tormentarlo. "Cara" disse lui "ho un'idea formidabile." E dopo aver bevuto il caffè andò al piano e si mise a suonare. Di tanto in tanto s'interrompeva, prendeva qualche appunto e ripeteva: "È un'idea formidabile, un'idea fantastica!"
    "Allora, per amor del cielo, dimmi di che si tratta" dissi io. "Non tenermi così in sospeso."
    "È difficile" disse lui. "La devo ancora sviluppare."»
    Mi disse che continuò a suonare il piano e a prendere appunti per circa mezz'ora, poi salì nel suo studio, informandola che non voleva essere disturbato, e vi rimase due settimane. «Tutti i giorni gli mandavo su i pasti» disse «e la sera faceva una passeggiatina igienica e poi tornava al suo lavoro.»
    «Finalmente» disse «uscì dallo studio: era pallidissimo. "Ecco qua" disse stancamente, posando sul tavolo due fogli di carta. E quella era la teoria della relatività.» (p. 383)
  • [L'appartamento berlinese dei coniugi Einstein] Sembrava uno di quegli alloggi che si possono trovare nel Bronx, con una sola stanza adibita a soggiorno-sala da pranzo, e con il pavimento coperto da vecchi tappeti logori. Il mobile più prezioso era il pianoforte nero sul quale egli prese quegli storici appunti preliminari sulla quarta dimensione. Mi sono chiesto spesso che fine abbia fatto. Può darsi che sia allo Smithsonian Institute o al Metropolitan Museum; ma può anche darsi che i nazisti se ne siano serviti per accendere il fuoco. (p. 384)
  • Il suo film [di Ėjzenštejn] Ivan il Terribile, che vidi dopo la seconda guerra mondiale, fu certo il migliore di tutti i film storici. Egli trattò la storia poeticamente, il che è un ottimo sistema per fare della storia. Quando penso alla distorsione che subiscono anche i fatti più recenti, la storia come tale desta solo il mio scetticismo, laddove un'interpretazione poetica consegue l'effetto generale del periodo. Alla fin fine c'è più autenticità storica nelle opere d'arte che nei libri di storia. (pp. 386-387)
  • All'inizio nessuno sapeva dosare il sonoro: il cavaliere errante dentro la sua armatura sferragliava come un'acciaieria; una semplice cenetta in famiglia sembrava l'ora di punta in una trattoria e chi versava l'acqua in un bicchiere faceva un rumore da sfondare i timpani. Uscii dal teatro convinto che il sonoro avesse i giorni contati. (p. 388)
  • [Dopo il successo delle prime pellicole sonore] Era il tramonto del cinema muto. Fu un peccato, perché cominciava a perfezionarsi proprio allora. (p. 389)
  • [Durante la prima di Luci della città] Accadde una cosa assolutamente incredibile. A un tratto, nel bel mezzo di una risata, il film fu interrotto. Si accesero le luci in sala e da un altoparlante una voce annunciò: «Prima di riprendere la proiezione di questo bellissimo film, permetteteci di rubarvi cinque minuti per segnalarvi i pregi di questo nuovo, elegante teatro». Non credevo ai miei orecchi. Ero furioso. Balzai dalla poltrona e di corsa mi lanciai su per la corsia. «Dov'è quell'idiota, quel figlio di puttana del direttore? Ma io lo ammazzo!»
    Il pubblico era con me e cominciò a pestare i piedi e a battere le mani mentre l'imbecille continuava a magnificare i pregi del teatro. S'interruppe, tuttavia, quando il pubblico cominciò a fischiare. Occorse un'intera bobina perché le risate riprendessero come prima. (p. 395)
  • La cosa più triste che possa immaginare è l'assuefazione al lusso. Io non mi ci abituerò mai. (p. 399)
  • Conversai con Maynard Keynes, l'economista, al quale dissi di avere letto in una rivista inglese un articolo sul funzionamento del credito nella Banca d'Inghilterra, che era allora una società privata: durante la guerra la Banca aveva esaurito le proprie riserve auree, restando solo con 400.000.000 di sterline in titoli esteri, e quando il governo aveva chiesto un prestito di 500.000.000 di sterline essa non aveva fatto altro che prendere questi titoli, guardarli e rimetterli in camera di sicurezza, per poi effettuare il prestito al governo; e la transazione si era ripetuta diverse volte. Keynes annuì e disse: «Sì, le cose sono andate pressappoco così».
    «Ma» chiesi educatamente io «come furono riscattati quei prestiti?»
    «Con lo stesso danaro fiduciario» disse Keynes. (p. 400)
  • Il fascino di Churchill consiste nella sua tolleranza e nel suo rispetto per le opinioni altrui. Si direbbe che non nutra né rancore né collera per coloro che non la pensano come lui. (p. 404)
  • La camera da letto di Churchill era in parte una biblioteca con un numero enorme di libri accatastati contro il muro, dappertutto. [...] C'erano anche molti volumi su Napoleone. «Sì» ammise «sono un suo grande ammiratore.» (p. 405)
  • Ho sempre rispettato e ammirato Gandhi per l'acume politico e la volontà di ferro da lui dimostrata in innumerevoli occasioni. Ma secondo me la sua visita a Londra fu un errore. La leggendaria importanza della sua figura diminuì sulla scena londinese, e la sua ostentazione religiosa fece poca impressione sulla gente. Nel clima freddo e umido dell'Inghilterra, con la fascia tradizionale che gli cingeva le reni ricadendogli in disordine attorno alle gambe, egli parve un personaggio assurdo. Fu così che la sua presenza a Londra divenne materia per barzellette e caricature. Si fa colpo sulla gente quando si tengono le distanze. (pp. 405-406)
  • [Il Mahatma Gandhi ribatte alla critica di Chaplin riguardo le ragioni dell'avversione dimostrata dal politico nei confronti delle macchine] «In passato le macchine ci hanno fatto dipendere dall'Inghilterra, e l'unico modo che abbiamo per liberarci da questa dipendenza è di boicottare tutte le merci prodotte da queste macchine. Ecco perché abbiamo reso patriottico dovere di ogni indiano filarsi il proprio cotone e tessersi la propria tela. Questa è la nostra forma di attacco a una nazione potente come l'Inghilterra: e, naturalmente, vi sono altre ragioni. L'India ha un clima diverso da quello inglese, diversi sono i suoi bisogni e le sue usanze. In Inghilterra il rigore delle stagioni rende necessaria un'industria sviluppata e una complessa economia. A voi occorrono utensili per mangiare, noi usiamo le dita. E ciò si traduce in molteplici differenze.»
    Ricevetti una lucida lezione di tattica nella lotta dell'India per la libertà, ispirata, paradossalmente, da un visionario realista e virile dotato della volontà di ferro necessaria per condurla in porto. Egli mi disse anche che la suprema indipendenza consiste nel disfarsi degli oggetti inutili, e che la violenza finisce sempre per distruggere se stessa. (p. 407)
  • Il clero britannico vanta una tradizione di sincerità e spregiudicatezza che è un riflesso del lato migliore dell'Ighilterra. Sono uomini come il Dr. Hewlett Johnson, il canonico Collins e numerosi altri prelati a conferire alla Chiesa inglese la sua vitalità. (p. 410)
  • Wells mi domandò quando fosse nato il mio interesse per il socialismo. Risposi che risaliva alla mia venuta negli Stati Uniti e all'incontro con Upton Sinclair. Stavamo andando in macchina a Pasadena, per pranzare a casa sua, quando mi chiese sommessamente se credevo nel sistema capitalistico. Dissi in tono faceto che per rispondere avrei avuto bisogno di un ragioniere. Era una domanda disarmante, ma compresi istintivamente che toccava proprio il nocciolo del problema, e da quel momento cominciai a interessarmi e a vedere la politica non come storia ma come un problema esclusivamente economico. (pp. 415-416)
  • [L'Olocausto] [...] è successo in Germania; ma le stesse cellule malate si trovano nel corpo di ogni nazione, pronte a entrare in attività.
    Io non posso parlare di orgoglio nazionale. Se uno è attaccato alla tradizione familiare, alla casa e al giardino, a un'infanzia felice, alla famiglia e agli amici, posso capire questo sentimento: ma io non ho un passato del genere. Nel migliore dei casi per me il patriottismo si nutre delle usanze locali: corse ippiche, caccia, Yorkshire pudding, hamburger americani e Coca-Cola, ma al giorno d'oggi questi affetti si possono coltivare in ogni parte del mondo. Naturalmente, se il paese in cui vivo stesse per essere invaso, come la maggior parte di noi, credo che sarei pronto al supremo sacrificio. Ma non ho nessuna voglia di rinunciare alla vita o alla carriera per un editto del parlamento o del congresso, se non credo alla causa: non sono un martire per ragioni nazionalistiche e non intendo morire per un presidente, un primo ministro o un dittatore. (p. 424)
  • [Emil Ludwig] Mi domandò quali fossero le cose più belle che avessi mai visto. I movimenti di Helen Wills mentre gioca a tennis, gli dissi confidenzialmente: erano pieni di grazia, di spontaneità, e avevano un sano sex appeal. Un'altra era la sequenza cinematografica di un documentario di attualità, subito dopo l'armistizio, nella quale si vedeva un contadino che arava un campo nelle Fiandre dove erano morti migliaia di soldati. [...] Ma ricordo altri spettacoli meravigliosi: il Perseo di Benvenuto Cellini in Piazza della Signoria, a Firenze. Una notte, con la piazza illuminata, fui attirato dalla figura del David di Michelangelo. Ma appena vidi il Perseo tutto il resto passò in seconda linea. Rimasi affascinato dallo straordinario equilibrio delle sue magnifiche proporzioni. Perseo, che leva alta la testa di Medusa col suo corpo patetico contorto ai suoi piedi, è l'epitome della tristezza, e mi fece pensare al mistico verso di Oscar Wilde: «Perché ogni uomo uccide ciò che ama». Nella lotta di quell'eterno mistero, il bene e il male, il suo scopo era stato raggiunto. (pp. 425-426)
  • Sul lavoro le donne non mi hanno mai interessato. Era solo tra un film e l'altro, quando non avevo nulla da fare, che offrivo il fianco. Come disse H. G. Wells: «Quando, nel corso della giornata, ti accorgi di avere scritto al mattino le tue cartelle, sbrigato la corrispondenza nel pomeriggio, e non hai altro da fare, viene il momento in cui ti annoi: ecco l'ora del sesso». (p. 429)
  • [A Stratford-on-Avon] Vi arrivai un sabato sera a tarda ora, e dopo cena feci una passeggiata, nella speranza di trovare la casa di Shakespeare. La notte era nera come la pece ma io svoltai istintivamente per una traversa e mi fermai davanti a uno stabile, accedi un fiammifero e lessi: «Casa di Shakespeare». Solo lo spirito del Bardo poteva avermi condotto fin là! (p. 434)
  • Dall'avvento del sonoro, non riuscivo a fare progetti per il futuro. [...] Certuni mi dissero che il vagabondo poteva anche acquistare la parola. La cosa era inconcepibile, perché la prima parola che avesse pronunciato lo avrebbe trasformato in un'altra persona. (p. 436)
  • Gli abitanti dell'isola di Bali non applaudono mai, e non hanno nemmeno una parola per dire «amore» o «grazie». (p. 441)
  • [Durante una vacanza nell'isola di Bali] In molti villaggi vidi berline nuove di zecca usate come pollai. Ne chiesi la ragione a Spies, che mi disse: «Il villaggio si regge su basi comuniste, e i soldi che guadagna con l'esportazione di pochi capi di bestiame finiscono in un libretto di risparmio che col passare degli anni raggiunge una somma considerevole. Un giorno un intraprendente piazzista in automobili li ha convinti a comprare delle berline Cadillac. Per i primi due o tre giorni se ne sono andati in giro godendosela un mondo, finché non è finita la benzina. Allora hanno scoperto che il mantenimento di una macchina sarebbe costato loro in un giorno quanto guadagnano in un mese, e perciò le hanno abbandonate nei villaggi, dove si sono trasformate in pollai».
    [...] Bali era allora un paradiso. Gli indigeni lavoravano quattro mesi nelle risaie e dedicavano gli altri otto all'arte e alla cultura. Gli svaghi erano gratuiti in tutta l'isola, dove un villaggio si esibiva per un altro. Ma ormai il paradiso non esiste più nemmeno là. La civiltà ha insegnato alle donne a coprirsi il petto e ad abbandonare le loro divinità amanti del piacere per le usanze occidentali. (p. 443-444)
  • Tutte le navi dovrebbero chiamarsi Panacea, poiché non c'è nulla di più tonificante di un viaggio per mare. Le preoccupazioni sono tutte rinviate a data da destinarsi, la nave ti adotta, ti cura, e quando finalmente entra in porto ti restituisce, riluttante, alla noia e alla monotonia del mondo. (p. 461)
  • Se avessi conosciuto gli orrori dei campi di concentramento tedeschi non avrei potuto fare Il dittatore; non avrei certo potuto prendermi gioco della follia omicida dei nazisti. Ma ero ben deciso a mettere in ridicolo le loro mistiche scemenze sulla purezza del sangue e della razza. Come se una cosa simile fosse mai esistita al di fuori delle tribù degli aborigeni australiani! (p. 472)
  • [A New York negli anni '40] Era strano sentire giovani e abili nazisti arringare da piccoli pulpiti in mogano capannelli di passanti lungo la Quinta Avenue. [...] Un giovanotto, tipico rampollo della nuova generazione newyorkese, mi chiese con aria benevola perché fossi tanto antinazista. «Perché loro sono antiuomo» risposi. «Ah, già» disse lui, come se facesse una improvvisa scoperta. «Ma lei è ebreo, nevvero?»
    «Non occorre essere ebreo per essere antinazista» risposi. «Basta essere un normale essere umano con un briciolo di dignità.» E la discussione finì lì. (pp. 484-5)
  • Quando ti colpisce una disgrazia o una profonda delusione, se non ti abbandoni alla disperazione ricorri alla filosofia o al tuo senso dell'humour. (p. 542)
  • Will [Durant], un entusiasta, che per intossicarsi non aveva bisogno di stimolanti diversi dalla vita, una volta mi chiese: «Qual è il suo concetto della bellezza?» Risposi che secondo me era un'onnipresenza di morte e leggiadria, una sorridente tristezza che discerniamo nella natura e in tutte le cose, la mistica comunione avvertita dal poeta: potrebbe esserne un'espressione una pattumiera colpita da un raggio di sole, o una rosa nel rigagnolo. El Greco la vide nel nostro Redentore sulla croce. (p. 546)
  • Quando Luci della ribalta fu terminato, avevo meno dubbi sul suo successo che per qualsiasi altro film avessi mai fatto. (p. 547)
  • La vera felicità è qualcosa di molto vicino alla tristezza. (p. 553)
  • [Tornato a Londra dopo 20 anni, dopo aver lasciato gli Stati Uniti] Guardai Oona mentre ammirava il panorama, il volto teso dall'eccitazione che la faceva sembrare più giovane dei suoi ventisette anni. Dal giorno delle nozze aveva affrontato coraggiosamente molte prove al mio fianco; e mentre i suoi occhi erravano su Londra, e il sole le giocava tra i capelli neri, vidi per la prima volta qualche filo bianco. Non feci commenti, ma in quel momento, mentre diceva tranquillamente: «mi piace Londra» provai per lei il senso di dedizione di uno schiavo. (p. 555)
  • La violenza ha assunto una carica sessuale. (p. 556)

Explicit[modifica]

Schopenhauer ha detto che la felicità è uno stato negativo, ma io non sono d'accordo. Negli ultimi vent'anni ho capito che cosa significa felicità. Perché ho la fortuna di essere sposato con una moglie meravigliosa. Vorrei poter scrivere di più su questo tema, ma si tratta di amore, e il perfetto amore è la più bella di tutte le frustrazioni perché è più di ciò che si possa esprimere. Dacché vivo con Oona, la profondità e la bellezza del suo carattere sono per me una continua rivelazione. Anche quando mi precede lungo gli stretti marciapiedi di Vevey, semplice e dignitosa nella figurina eretta ed elegante, con i capelli neri pettinati all'indietro che mostrano qualche filo argenteo, mi sento sommergere da un'improvvisa ondata di amore e ammirazione per tutto ciò che è: e mi viene un nodo alla gola.
Pago di queste gioie, talvolta siedo sul terrazzo, al tramonto, e al di là dell'ampio prato verde contemplo il lago lontano, e oltre il lago i monti silenziosi, e in questo stato d'animo non penso che a godermi la loro magnifica serenità. (pp. 579-580)

Citazioni su Charlie Chaplin[modifica]

  • Chaplin è stato contemporaneamente il più grande comico e il più grande personaggio drammatico. (Massimiliano Gallo)
  • Chaplin ha speso tutto il suo genio per comprare sesso [...]. Seppe addirittura fingersi ebreo, cosa difficilissima, per accattivarsi il potere finanziario a Hollywood... Un amabile cinico, creatore di un personaggio umanitario. (Guido Ceronetti)
  • Charlie Chaplin e io ci affronteremo in un'amichevole sfida: chi realizzerà il lungometraggio con il minor numero di sottotitoli? (Buster Keaton)
  • La grandezza e la miseria di Chaplin sta nella sua capacità di adattamento e seduzione, nel suo dialogo con la storia. Quella di Keaton nella sua inadattabilità, nella sua fedeltà, nella sua irriducibilità alla storia. Chaplin è sociale, Keaton è metafisico. (Goffredo Fofi)
  • Non basterebbe un'intera enciclopedia a narrare la sua attività. Lo ricordiamo sempre per la sua intelligenza, il suo umorismo, la sua bontà... la sua "straordinaria bontà!" (Bruno Amatucci)
  • Per lui il sonoro guasta l'arte più antica del mondo, la pantomima e annienta la grande bellezza del silenzio. (Bruno Amatucci)
  • Quando Eisenstein si recò a Hollywood e gli venne domandato che cosa ammirasse di più del cinema americano, rispose senza esitare: «Chaplin, Stroheim e Walt Disney». (Peter Noble)
  • Tutto il mio amore è per Charlie Chaplin: il divino vagabondo, il divino fanciullo, il comico, il clown. (Roberto Benigni)
  • Un pagliaccio del cinema a nome Charlot. (Henry de Montherlant)

Peter Bogdanovich[modifica]

  • È paradossale che questa star, che appartiene essenzialmente al cinema muto, abbia girato due dei suoi migliori film quando il sonoro aveva ormai preso saldamente piede.
  • La ragione dell'enorme successo che riscosse è ancora chiarissima: la potente mistura di farsa irriverente della 'slapstick comedy' con un profondo senso di squallore e di tragedia.
  • La sagoma del suo vagabondo è una delle icone del ventesimo secolo.
  • Quando Fairbanks e Chaplin facevano le loro tournée europee, negli anni Venti, erano accolti da un'universale adulazione, da un'apoteosi di massa di un'intensità che la storia non aveva mai registrato sino ad allora.

Jean Cocteau[modifica]

  • Chaplin deve essere pronunciato alla francese: è la famiglia del pittore.
    Di due origini è orgoglioso. Questa discendenza francese e una nonna zingara.
  • Charlie Chaplin è a bordo. La notizia mi sconvolge. Più tardi Chaplin mi disse: «Il vero compito di un'opera è quello di permettere ad amici come noi di bruciare le tappe. Ci conosciamo da sempre».
  • Non parlo l'inglese. Chaplin non parla il francese. E parliamo senza il minimo sforzo. Che cosa succede? Che lingua è la nostra? È la lingua viva, la più viva di tutte, che nasce dalla volontà di comunicare ad ogni costo, la lingua dei mimi, la lingua dei poeti, la lingua del cuore.

Filmografia[modifica]

Note[modifica]

  1. La canzone di Titina, citato in Tempi Moderni di C. Chaplin e La canzone di Titina, vecchiocircolo16.wordpress.com, 22 agosto 2015.
  2. Citato in Christopher Cerf e Victor Navasky, The Experts Speak, New York, Villard, 1998, p. 190. ISBN 0-679-77806-3
  3. Da My Trip Abroad, New York, 1922.
  4. Citato in Christopher Cerf e Victor Navasky, The Experts Speak, New York, Villard, 1998, p. 310. ISBN 0-679-77806-3
  5. Intervista riportata in: Charlie Chaplin, Opinioni di un vagabondo. Mezzo secolo di interviste, a cura di Kevin J. Hayes, Minimum Fax 2017, pp. 96-7.
  6. Citato in Enos Mantoani, Little Miss Poker Face: Helen Wills, Ubitennis.com, 19 aprile 2011.
  7. Riportato in David Robinson, Chaplin. La vita e l'arte, Biblioteca Marsilio, 2005, p. 491.
  8. Citato in Jean Cocteau, Il mio primo viaggio, traduzione di Olga Koudacheff, De Agostini, Novara, 1964.
  9. Citato nel documentario Charlie Chaplin - Les années suisses (2003).
  10. Citato in G. Vota, L'azienda quantica: Come creare e gestire olisticamente un'impresa di successo, p. 30.
  11. Citato in Anna Lupo Bari, Inseguire una stella, Greco&Greco editori, Milano, 2004, p. 78. ISBN 88-7980-333-6
  12. Citato in Jean Cocteau, Il mio primo viaggio, p. 76.

Bibliografia[modifica]

  • Charlie Chaplin, La mia autobiografia, traduzione di Vincenzo Mantovani, Mondadori, 1964.
  • Charlie Chaplin, Opinioni di un vagabondo. Mezzo secolo di interviste, a cura di Kevin J. Hayes, Minimum Fax, 2017.

Voci correlate[modifica]

Altri progetti[modifica]