Vittorio Imbriani

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Vittorio Imbriani

Vittorio Imbriani (1840 – 1886), scrittore italiano.

Citazioni di Vittorio Imbriani[modifica]

  • E se almeno sapessero il greco!... Ma per lo più conoscono il linguaggio di Platone e d'Epicuro come quel bergamasco impostore che spacciava d'averlo imparato ne' suoi viaggi, probabilmente immaginari. Ma fatecene sentire qualche frase, insisteva certa gente dabbene. Ed egli: Μύ μελαρρύδω δέ στυμιγχιών. E quei minchioni: Oh com'è dolce, com'è grazioso il greco! Che bella lingua davvero![1]
  • [...] i birbanti hanno talvolta un cuore, e massime i birbanti che nascono sotto il cielo di Napoli.
    A Napoli, un uomo senza cuore è una deplorabile eccezione...
    Questa specialità non si trova che nel ceto de' ricchi. È l'inferno che Dio dà loro.[2]
  • [Il Barocco] I difetti del secolo, ripeto, furono difetti napoletaneschi, difetti di un popolo che ha più immaginazione che fantasia, più acume ed arguzia che sentimento e passione, il quale rimane con la testa fredda in mezzo agli impeti più selvaggi ed arzigogola e sofistica anche quando sragiona.[3]
  • In Italia non mi ci posso più vedere. È la patria mia, è quella che ho amato, che ho tanto desiderata lontano; eppure qui mi sento infelice e mi tormenta la nostalgia. Tutti i buoni soffrono un pochino codesto male, perché tutti debbono vedere, notare uno stacco profondo fra la patria qual è, e la patria quale si vorrebbe che fosse. Ma in me, questa nostalgia è più crudele, più determinata, perché non sono innamorato d’un ideale fantastico, d’un’Italia migliore che esiste solo nell’immaginativa mia. Io conosco un’altra Italia simile affatto a quella che vorrei fosse questa Italia mia nativa; ed è per ritrovarla che m’imbarcherò posdomani.[4]
  • Ultimamente fece gran rumore in Europa un tenebroso delitto com messo in un convento di Cracovia.
    Una monaca era stata quivi tenuta sepolta viva per lo spazio di oltre venti anni.
    Il fatto di Barbara Ubric gittò una gran luce su i misfatti che si commettevano ne'chiusi recinti, dove la più pura pietà cristiana avrebbe dovuto aver seggio.
    Un santo scoprì appo noi gli osceni misteri del convento di S. Arcangelo a Bajano; ed oggi ancora, dopo vari secoli, il lettore raccapriccia alla narrazione di quelle turpitudini, che formarono lo scandalo de' napolitani.
    Quando al grido della progrediente civiltà si dischiusero le porte de'claustri femminei, si scoprirono in varî conventi misteriose comunicazioni con attigui monasteri maschili. Un senso di suprema indignazione si destò ne' cuori. Il sacrilegio annidava sotto le tenebrose volte. Notturni viaggi accoppiavano le impudiche vestali co'furbi solitarî sacerdoti di un Dio, che abborre financo un pensiero d'impurità. Forse non a caso edificavansi in prossimità i claustri femminei e quelli maschili. Vie sotterranee menavano dagli uni agli altri.
    L'occasione di aprire novelle strade nella città nostra dette agio di scoprire questi scandalosi corridoi scavati ne' visceri della terra. Nessun paese ha forse tante vie sotterranee quante ne ha la nostra Napoli, edificata su l'antica Partenope.
    Palepoli giace sotto la moderna Napoli.
    Noi camminiamo su le ruine dello antico, su lo scheletro della città greco-romana.
    Interrogate i secoli; ed essi vi risponderanno di sotto alle pietre vulcaniche, di che abbiamo ricoperte le nostre vie.
    Nulla di più facile che stabilire occulte e sotterranee comunicazioni tra un luogo ed un altro.
    Il voto di castità, temerariamente proferito da labbra pervicaci, si perdeva nelli strani connubî che Palepoli formava.
    Lo Spirito delle tenebre aleggiava laggiù come immondo ed osceno pipistrello.
    Il peccato e spesso il delitto camminavano sotto la cocolla del solitario.[5]
  • S'era nell'agosto; ed in Iscaricabarilopoli, città moscosissima, nessuno rimembrava di aver mai visto negli agosti precedenti tanta copia di mosche, tal quantità di mosconi, tanti stuoli di moscerini, tali turbe di mosconcini, tal novero di mosconacci, tal moltitudine di mosconcelli, tanta folla di moschette, tanta adunanza di moscini, tanto popolo di moschettone, tanta frequenza di moscherelli, tanto spesseggiar di moscherini, tanto concorso di moschini, tanto esercito di mosciolini e tanta folta di moscioni. Scaricabarilopoli era tutta un moscaio. I signori salariavano persone apposta per moscare con gli scacciamosche, le ventole, le roste, i ventagli, i paramosche: per ogni stanza si tenevan tre o quattro piattelli con carta moschicida, cinque o sei acchiappamosche prussiani; ed il suolo era bruno per gl'innumerevoli cadaveri moscherecci. Ma non pareva, che quello sterminio le diminuisse: e le moscaiuole e i guardavivande non bastavano a riparare i cibi e le provviste. La povera gente pappava mosche in ogni pietanza. Anzi, il dottissimo Dummkopf, professore a Gottinga, nella Filosofia e Storia comparata della culinaria e della gastronomia, volume quarto, capitolo sessagesimoquinto, pagina seicentonovantotto della settima edizione, annotata dall'egregio Zeitverlust, racconta, che, abituandovisi, le trovarono finalmente gustose; e che gli Scaricabarilesi son tuttora moschivori ed educano ed ingrassano apposta in certi loro moschili sciami, o gregge di insetti. Cosa, della quale non può dubitarsi, vedendola affermata da due tali rappresentanti della scienza tedesca![6]
  • [su Ferdinando Petruccelli della Gattina] Uomo scandalosissimo [...] Scrive, come un cane, in francese ed in italiano, articolesse, libelli, romanzacci, indecenti sotto ogni aspetto, e storie, anche più indecenti.[7]

La bella bionda[modifica]

Incipit[modifica]

Bell'uso il nostro di dir bianco quando pensiamo nero, e nero quando pensiamo rosso; di mentire tutti, sempre, da mane a sera, imperturbatamente, su qualunque proposito, per diletto od abitudine, anche se le bugie nulla giovano! Per lo più, senza mala fede; anzi, come notò quell'arguto francese, ci persuadiamo delle nostre menzogne per intolleranza di mentite, ed infinocchiamo noi stessi, per infinocchiar poi meglio gli altri. Somigliamo tutti al Duca di Bassano, del quale il Talleyrand diceva, praticar egli così male la massima diplomatica di sempre ingannare senza mai mentire, che invece mentiva sempre senza ingannar mai.

Citazioni[modifica]

  • I rimorsi, gli scrupoli di coscienza sono amarissimi per tutti, ma doppiamente per l'uomo irreligioso. Chi crede in un'altra vita, in un dio rimuneratore o castigatore, in un inferno ed in un paradiso, ricava conforto da queste credenze stesse, e finisce per acquetarsi.
  • Se per un presupposto assurdo, gli uomini, snaturandosi, diventassero sinceri, realizzerebbero la favola della torre di Babele: non ci s'intenderebbe più, proseguendo tuttavia nell'interpretare a rovescio le chiacchiere de' nostri cari simili.
  • Soltanto il galantuomo può truffare; del mariuolo notorio tutti diffidano.
  • Si suole mentire disinteressatamente, senza malizia e senza scopo, da' migliori.
  • Le passioni spuntano e germogliano lentamente assai nel cuore umano, come le piante nel suolo; e come queste appunto, sono tanto più saldamente radicate nell'animo, quanto più tempo impiegarono a radicarsi.
  • Se amore significa desiderio d'una persona e d'ogni sua parte, come può sorgere questo pieno desiderio, quando s'ignora gran numero di quelle parti?
  • Beati i veri cristiani! Si buttano a' piedi di un confessore, si accusano, si mortificano, e si rialzano di lì, e si spazzolano i calzoni insudiciati con una consolazione grandissima: perché, o vennero assoluti, o fu loro imposta una penitenza, che frutterà l'assoluzione.
  • Chi ha forza di braccia, farà forse la stiratrice; chi ha sveltezza di dita, ricamerà; e chi ha bellezza rara di forme, non potrà fare la modella?
  • Chi notoriamente è l'informista del quartiere, viene riverito e temuto dal popolino.

Dio ne scampi dagli Orsenigo[modifica]

Incipit[modifica]

Non presumo sputar fuori ned un paradosso, ned una novità; credo, anzi, ripeter cosa, ormai, consentita, da chiunque s'intenda, alcun po', della partita, dicendo "che una relazione è, quasi sempre, più pesante del matrimonio". Sicuro! Impone obblighi maggiori, senza diritti corrispettivi: e la parte piacevole tocca, non di rado, al marito; e la gravosa all'amante. Questo perché l'amore non è da tutte: bensì, da pochissime, arcipochissime. L'amore, anch'esso, è manifestazione della fantasia; la facoltà d'amare è cognata alla virtù poetica. Se una femmina non ha il cervelluzzo congegnato in quel dato modo, ben potrà civetteggiare, condiscendere, eccitare, lusingare, promettere, deludere, crucciare e crucciarsi, bisticciarsi, rappattumarsi, come chiunque sa contar fino a undici può scandire endecasillabi; ma i versi, per sé soli, non fanno poesia, né le condiscendenze, da sole, costituiscono l'amore.

Citazioni[modifica]

  • "[...] una relazione è, quasi sempre, più pesante del matrimonio". Sicuro! Impone obblighi maggiori, senza diritti corrispettivi: e la parte piacevole tocca, non di rado, al marito; e la gravosa, all'amante. Questo, perché l'amore non è da tutte; bensì, da pochissime, arcipochissime. L'amore, anch'esso, è manifestazione della fantasia; la facoltà d'amare è cognata alla virtù poetica. Se una femmina non ha il cervelluzzo congegnato in quel dato modo, ben potrà civetteggiare, condiscendere, eccitare, lusingare, promettere, deludere, cruciare e crucciarsi, bisticciarsi, rappattumarsi, come chiunque sa contar fino ad undici può, scandire endecasillabi: ma i versi, per sé soli, non fanno poesia, né le condiscendenze, da sole, costituiscono l'amore. Il senso n'è sustrato e presupposto, non essenza. (p. 61)
  • Il dolore è la forma più intensa di vita, è sovreccitazione: quindi, il ricerchiamo. (p. 72)
  • [...] così porta la natura nostra: in pubblico (se, anche il pubblico è ridotto al termine minimo d'un solo individuo) affettiamo sensi sdegnosi e noncuranza suprema; soli con noi medesimi, operiamo in aperta contraddizione di quelli. V'è un po' d'ipocrisia, anche, nella virtù più incorrotta e sincera. (p. 105)
  • Fra l'Inferno ed il Paradiso dantesco, c'è da esitare? Non per la Salmojraghi! La sofferenza le apparve cosa desiderabile; la colpa o ciò, che, sino allora, aveva chiamato con questo nome, quasi, uno stato di grazia, moralmente superiore alla inerte e sterile innocenza. Avete, mai, visto in uno sperimento chimico, ravvicinare due sali, la base di ciascuno de' quali abbia maggiore affinità con l'acido dell'altra, che non col proprio? si decompongono e, contemporaneamente, ecco costituiti due copri, diversi da' primi. Come avviene, che la pietra infernale ed il sal comune, ravvicinati si trasformino in nitrato di sodio ed in cloruro di argento, così era accaduto nel ravvicinamento del Radegondato di serenità con l'Almerinduro di passione. (p. 107)
  • Questo profondo desiderio della passione era, già, di per sé, la passione stessa: non la bufera, che sconquassa l'animo, anzi la breve pausa di raccoglimento, che precede i cataclismi così orali come fisici. Le scomparve il riso dalle labbra, le si accese un fuoco cupidissimo, negli occhi. Ned osava confessare a sé medesima cosa desiderasse, confessarselo esplicitamente, collocando i titoli sugl'i; non siamo franchi, nojaltri uomini, neppure ne' colloqui con la coscienza nostra. Eppure ch'ella ne convenisse o no, che l'avvertisse o no, pure, la passione le si presentava fatalmente, sotto le forme di quel Maurizio, nel quale, prima di ella l'aveva vista così rigogliosa e potente e (come a lei pareva) sublime. (p. 108)
  • Così è, quando si ama molto e si è persona di mondo, certi pregiudizi religiosi, morali, civili cadono, di per sé: che importa la legittimità del legame? le formalità nel contrarlo? Il meno guarentito sembra, quasi quasi, più rispettabile, perché patto di onore, senza sanzione legale. (p. 153)
  • Ebbene, accettava, rassegnatamente, (che dico?) giojosamente, questo mestissimo avvenire. E sentite, poi, asserire, che chi s'abbandona, al cosiddetto vizio, non cerca, se non il piacere! Ah se sapessero quanta e qual forza di animo ci voglia, spesso, per perseverare sulla via dell'inferno! se sapessero quanto è aspra, quanti doveri e pesantissimi impone! quanto più agevole sarebbe il batter la strada della virtù convenzionale! Eh no! si preferisce soffrire, combattere, esser condannato, da' buoni e dagl'ipocriti, esser vilipeso e scornacchiato e sputacchiato, pur di conformarsi a ciò, che la passione ci addita. È da uomini il far così. (pp. 213-214)

Passeggiate romane[modifica]

  • [...] la filosofia me ne insegna tante delle belle cose; ma quando una pasione m'investe, scordo tutti gli ammaestramenti della scienza. Sotto ad ogni uomo razionale ci è l'uomo naturale, che di tempo in tempo s'emancipa, insorge, inizia una guerra servile contro il suo dominio. Ed allora persino il Bruno e lo Spinoza sentono come il volgo, sragionano come il volgo ed appunto come il volgo vorrebbero che l'universo intero badasse unicamente ai desiderî ed alle occorrenze loro. O che altro significa esser volgo, tranne che vivere passionalmente,
    ......come bruti | Senza seguir virtude e conoscenza?
    chi dunque ha mai potuto o potrebbe mai svellere dall'animo proprio ogni parte volgare? È già molto l'occultarla. (Passeggiate romane, Roma, 29. XI. 71., p. 23)
  • [Roma] Questa città davvero è incantevole. Appaga. Non vi si ha che desiderare. O per meglio dire uno ha quasi rimorso di desiderarvi cambiamenti e miglioramenti, tanto è bella e simpatica così com'è. Questi palazzi, questi monumenti, queste ville, queste strade hanno tanta vaghezza e maestà! Potremo ripulire, ampliare, popolare: ma chi sa che così non se ne alteri il carattere? Questa è l'opinione di tutti, tranne che di pochi incontentabili, i quali trovano da biasimare anche nel Colosseo e nel palazzo Farnese. (Passeggiate romane, Roma, 4. XII. 71., p. 26)
  • Il presente non è che il rovescio d'una splendida tappezzeria: quando saremo passati dall'altro lato e la vedremo come storia, allora solo potremo equamente valutarne il merito. (Passeggiate romane, Roma, 4. XII. 71., p. 28)
  • Non passa anno senza che le collezioni scientifiche di qualunque altra città d'Italia si arricchiscano per la munificenza di qualche privato. E così mano mano si colmano le lacune, si completano le serie e si ottiene più assai di quello che non sia il potere dello stato e de' municipii di fare. Ma il napoletano largo di bocca e stretto di mano; mentre non sa vivere fuori della sua città, non vuol poi far niente per renderla più bella e simpatica; non è superbo delle sue istituzioni, non è zelante di migliorarle; il suo municipalismo non sa mai incarnarsi in un'opera bella e generosa. (Passeggiate romane, Roma, 11. XII. 71., p. 37)
  • Per me, tutto ciò che accade fuori di questo nostro pianeta, non m'interessa: Amo la terra e nella terra amo solamente l'uomo. È la vita, è la storia, sono le azioni e i pensieri degli uomini che mi scuotono e mi cattivano e mi paion grandi. Questo universo sterminato e inconscio, infinito ed inintelligente, senza pensiero proprio, mi desta meno curiosità che l'anima semplicetta di un fanciullo. Dall'alto di quei tetti, da' quali si è soliti contemplare gli astri, io guardavo in giù. Ed allora mi sentivo commuovere. (da Passeggiate romane, Roma, 11. XII. 71., p. 38)
  • La Natura per se stessa non è né bella né poetica, né interessante: di bello e commovente non vi ha al mondo che l'uomo; e dove egli manca, io sbadiglio. (Passeggiate romane, Roma, 11. XII. 71., p. 39)
  • «La dipendenza volontaria è lo stato migliore». – dice il Goethe «né sarebbe possibile senz'amore» –. La dipendenza volontaria è appunto l'osservanza stretta della legge, e di leggi severe. Ma non è possibile senza amor di Patria. Ed in Italia ce n'è molta di questa derrata?
    A parole, molto; in fatto, chi ben guardi, poco. (da Passeggiate romane, Aneddoti e ricordi manzoniani, p. 53)
  • La grandezza vera è semplice e figlia del pensiero. Non puoi comprenderla e valutarla senza pensarci su, senza disamina critica: Solo esaminando e scrutando ogni particolare, ogni motivo: vedendo la purezza e la magnificenza di ognuno, si giunge ad afferrare la purezza e la grandezza dello insieme.
    Una grandezza di qualunque genere torna più facilmente comprensibile, quando ha in sé qualcosa di meschina, difettosa, quando claudica in parte. La parte scadente fa risaltare l'eccellente: la parte piccola ti fa capire la grandezza delle colossali: in quel modo appunto in cui la vicinanza d'uno edificio volgare, ti fa subito afferrare la sublimità e le proporzioni del monumento vicino. (da Diaro romano, Basilica di S. Pietro, Giovedì, 30 Novembre 1876, p. 64)
  • Sì, Roma sembra soprattutto bella, non pel suo presente o pel passato prossimo; ma per quel passato remoto, che tutto rammenta. Comprendo benissimo quindi che il soggiorno ne sembri increscevole a' commessi viaggiatori ed a' travetti, per cui la bellezza d'una città consiste ne' caffé, balli pubblici e peggio, che ignorano la storia e non sentono neppur vergogna d'ignorarla. Comprendo che possa increscere a chi non prova simpatia per quel passato; a qualche barbaro discendente d'Arminio e protestante giunta. Ma ad un uomo veramente colto, ad un Italiano soprattutto, il viver qui è un'ebbrezza continua. (da Diaro romano, Il Colosseo, Sabato, 2 Dicembre 1876., p. 72)
  • Dopo mezzo secolo dalla sua visita quanti mutamenti non ritroverebbe il Leopardi! Sant'Onofrio è sgomberato da' monaci; le signore possono entrar liberamente nel convento; non c'è più clausura; anzi dicono di volerci mettere non so che caserma di guardie municipali o simili. Povero convento! Povera cameretta in cui spirò l'autore della Gerusalemme! Povera quercia alla cui ombra egli, e poi, San Filippo Neri si compiacquero di sedere, ammirando la sottoposta Roma, e che, fulminata una quarantina d'anni fa, è risorta vivace e rigogliosa, come la fama di que' due magnanimi che nessun morso d'invidia può oscurare. (da Diaro romano, Sant'Onofrio, Domenica, 3 dicembre 1876, pp. 78-79)
  • Ci volevan proprio le mie padrone, ci voleva l'obbligo di accompagnarle, per indurmi a rimettere il piede nel baraccone di Montecitorio. Sapevo di dover soffrire rientrandovi, come un cristiano che entrando in un celebre santuario, truovi scassinato il ciborio, rubato il calice, sparpagliate e calpeste l'ostie consacrate. Quell'aula, che fu già agli occhi miei il più augusto luogo del mondo ed il più sacro, ora è divenuto un mercato vilissimo, nel quale da barattieri ignoranti si traffica dello Stato, dell'Italia e della Monarchia. Lo Stato è per me quanto v'ha di più sacro. Ma se lo Stato viene amministrato e rappresentato da' Depretis, da' Nicotera, e da simil ribaldaglia, come conservargli l'antica venerazione? Lo schianto ch'io pruovo, può provarsi solo a quello d'un cristiano, che vedesse un malfattore sulla cattedra di Piero, malfattori nel sacro collegio, radunato un Concilio di malfattori, che promulgassero dogmi eretici ed immorali... e forse neppure... (da Diaro romano, Montecitorio, Martedì, 5 dicembre 1876., pp. 81)
  • In Roma il gran pericolo è il disgusto delle cose belle, che viene come conseguenza triste del vederne troppe. I marmi più preziosi, le statue più perfette, dopo alcun poco non ti sollecitano più.
    Altrove dieci statue di quelle, che raccoglie il Vaticano, sarebbero stimate una ricca collezione. Ma in Roma! Ma fra tante!
    Altro guajo: l'attenzione smussata non è più stuzzicata dal bello, anzi solo dallo strano, dallo insolito, dallo stravagante, dal capriccioso. Si comprende la necessità del Barocco qui. Ci volevano statue, che per la bizzarria loro richiamassero gli occhi, si facessero distinguere in mezzo alle altre.
    In mezzo a questi monumenti dell'antichità vetusta e bellissima a poco a poco uno si sente trasportato in un altro mondo. (da Diaro romano, I Musei, Mercoledì, 6 Decembre1876, p. 84)
  • [Su Raffaello Sanzio] [...] l'affresco di San Pietro incarcerato e liberato è stato una rivelazione per me. Nessun pittore, che abbia fatto studio esclusivo degli effetti di luce, è mai giunto ad un tanto effetto, ad una tanta potenza d'illusione. Altro che Gherado delle notti! Eppure, si badi, qui si tratta d'un affresco enorme, non d'una pittura ad olio, nella quale le bravure sono assai più facili ed i colori più vividi. Dunque il Sanzio sapeva e poteva gareggiare con chicchessia nelle cose difficili, negli sforzi, negli scherzi; ma non volle: preferì quel modo suo sereno ed agevole. Non volle, perché? Debbe aver giudicato l'arte esser tutt'altro. (da Diaro romano, Vaticano, 14. XII. 77, p. 113)
  • Salutammo Marc'Aurelio.[...] Salutammo la povera lupa, scendendo la cordonata; quella povera lupa, che tengon barbaramente chiusa in una gabbia, mentre facendovi una cancellata intorno si potrebbe lasciar liberamente gironzolare per quelle ajuole.
    Notammo l'assenza delle oche. Un campidoglio senza oche è cosa inconcepibile. L'oca è lo animale repubblicano per eccellenza. Chi la surroga in Campidoglio? I consiglieri comunali. (da Diaro romano, Il Campidoglio, p. 115)
  • Quel che indispone, è la maniera; quella non posso digerirla, per quanto graziose apparenze abbia. Quando lavorano di maniera, aborro del pari Raffaello ed il Camuccini. Proprio? Via, poniamoci un quasi, quasi del pari.
    Nell'arte ci abbiamo la ingenua riproduzione del vero; ci abbiamo la creazione dell'Ideale; ci abbiamo la Maniera. Tre stadi, tre indirizzi.
    Il Vero, ancorché scelto male e senza criterio, ingenuamente riprodotto, piace sempre. Dal vero, scelto intelligentemente, studiato, sviscerato, può astrarsi lo ideale. Ma per maniera s'intende un ideale di strapazzo e di convenzione; una figura eseguita, senza che le serva di sustrato una propria impressione naturale. (da Diaro romano, Galleria Rospigliosi, Sabato, 16. XII.77, p. 118)
  • Dopo il carnevale, vien la quaresima; dopo lo scherzo, la riflessione. Sta bene di ridere, e sta bene anche di pensare; perché ogni cosa al mondo ha due facce come Giano bifronte. Non vi ha nulla di più straziante che i soliti temi da comedia, purché si guardino sotto un dato aspetto; non vi ha nulla di più buffo che i soliti argomenti di tragedia, se si considerano in un dato modo. (da La fama di Capri, A. Stahr risponde, p. 173)
  • [Il francobollo] sta alla moneta, come la pittura alla scultura: la moneta è fra i segni espressivi del valore il classico ed il francobollo il romantico [...] (da Francobolli, medaglie, monete..., A proposito d'un libro «Essais de philosophie hégélienne» par A. Vera, p. 180) [proporzione]
  • Felici! tre volte felici! cui nessuna linea, nessun colore offende l'occhio! nessuna vanità o sproposito la mente. Io v'invidio, come invidio al contadino i calli che gli permettono di abbrancar le ortiche senza pungersi; come invidio a certi palati di gustare l'acquavite senza rimanerci impiagati; come invidio i giudici di poter ascoltare certi legulei senza imbecillire! Invideo quia quiescunt, diceva Lutero passeggiando tra le fosse di un camposanto! È un fatto, la delicatezza è un grande incommodo, ed hanno ragione i babbi che chiamano viziosi i figliuoli quando questi non sanno risolversi a trangugiar la minestra in cui è caduta una mosca. Felici cui un organo speciale fa trovare tutto bello, tutto gustoso! (da Francobolli, medaglie, monete..., A proposito d'un libro «Essais de philosophie hégélienne» par A. Vera, pp. 183-184)
  • Or bene, in fatto di visibilità, appunto i Monumenti Numismatici hanno un vantaggio sugli architettonici, questi se ne stanno immobili, duri, saldi, che non li scuoterebbe il tremuoto, e quelli fanno il miracolo d'andarti a trovare sino in casa. (da Francobolli, medaglie, monete..., A proposito d'un libro «Essais de philosophie hégélienne» par A. Vera, p. 188)
  • Gli eroi ed i fàcini, i grandi uomini ed i gran fatti hanno due vite: l'una breve, univoca, effettiva nella materialità delle cose; l'altra inesauribile, immortale, ideale nella coscienza de' posteri: e quest'ultima è il mito, ed ha, ripetiamolo, più vicissitudini della prima, che sta lì immobile nella sua grettezza. Il doppio lavoro della fantasia e della critica è immenso, potentissimo.[...] L'objetto (eroe, fàcino) è il metallo prezioso che ogni secolo foggia diversamente nel mito: dal minerale informe si fondono verghe, s'intagliano coppe ornate di figurine; le coppe profane si distruggono da' devoti per formare de' brutti santi; i santi si manomettono da' bisognosi increduli per coniar marenghi; i marenghi si buttano nel crogiuolo dell'orafo per ricavarne pendagli e fermagli. Il valore intrinseco del metallo è sempre il medesimo, però quelle trasformazioni che lo adattano a' bisogni di ogni tempo quanto non importano! si può affermare che il vero pregio dell'oro consiste nella suscettibilità d'assumere quelle forme. (da Arte e morale, A proposito del centenario dantesco, p. 195)
  • Questo gran popolo artistico ch'è l'Italiano non è stato ancora capace di concepire l'Arte come Arte, tutt'Arte, null'altro che Arte; di ravvisare ed affermare che essa come ogni altra cosa al mondo, ha in se medesima la propria necessità, le proprie determinazioni, la sua ragion d'essere. Anzi noi, affatto subjettivamente le presupponiamo e le apponiamo mille scopi e mille qualità estrinseche, contraddittorie, tali insomma che non possono ritrovarsi in nessun lavoro d'Arte; e se talvolta qualcuno vi dice che pur vi sono, e voi siate pur certi che non istanno nell'objetto, bensì nell'occhiale, come quel topolino che pensarono di scoprire nella luna e che in verità s'appiattava fra le lenti del telescopio. (Arte e morale, A proposito del centenario dantesco, p. 197)
  • Tutto ciò che non è sentito, che non è spontaneo, che rinserra una contraddizione fra il contenuto e la forma, volere o non volere è comico. (da Arte e morale, A proposito del centenario dantesco, p. 201)
  • Dante è tal poeta che non sarà mai popolare, né potrà mai destare entusiasmo nelle masse. La natura schiva del suo ingegno lo apparta, lo segrega, e se lo rende più caro a chi s'interna nelle latebre del suo carattere, fa sì però che pel volgo rimanga sempre un libro chiuso con sette suggelli. (da Arte e morale, A proposito del centenario dantesco, pp. 201-202)
  • Tutto ciò che serve a mantener viva la memoria del passato, si vuol rispettare. I nomi delle strade, i monumenti, per quanto sia vergognoso il fatto che ricordano, vanno conservati con zelo. Le pazzie, le insanie, le vergogne, i delitti d'una nazione non vanno dimenticati neppure essi: ed oso affermare che il volerglieli far dimenticare, che il cancellarne le vestigia è pazzia, vergogna e delitto maggiore, è l'aprire più facile il varco a nuove pazzie, a vergogne nuove ad altri delitti. (da Toledo o Via Roma?, p. 224)
  • Epoca di pappagalli, sta bene il sapere come gli altri la pensano, ma sta bene anche di pensare un po' di quando in quando. Si legge tanto assai e si riflette tanto poco! siamo un po' come quei suoli i quali, sterili di per sé, non sanno produrre che la pianta che vi semini concimi ed annaffi ogni giorno. (da Mare piano, p 230)
  • [...] non è la pugna, non è la disfatta che si deplora, quando s'è avuto a fare con un nimico ma rompersi le corna contro un muro! Così accade al mare che batte e batte le immobili sponde. Così accade tante volte in amore: tu soffri, e non ti si bada; tu parli, e si pensa ad altro; tu deliri, e si passa oltre. Ed ogni tuo dire e fare e soffrire è indarno, non perché vi sia altri più gradito, non perché sii sgradito, ma perché ami un sasso. (da Crociata accademica, p. 236)

Incipit di alcune opere[modifica]

Fame usurpate[modifica]

Discuto il poeta, non l'uomo. Osservazioni, epiteti, giudizî s'hanno a riferire, alla personalità dello scrittore Aleardo Aleardi, ente astratto; non allo Aleardi, uomo in carne ed ossa, che, da taluni, mi si afferma essere una cara persona. Se questo è, debbo rimpiangere di non aver avuto seco relazione di sorta, tranne una sola stretta di mano e momentanea.

Il vivicomburio e altre novelle[modifica]

Mastr'Impicca[modifica]

C'era una volta un Re di Scaricabarili, vedovo e padre di figliuola unigenita, bella quanto il sole. E, dicendo bella quanto il sole, par che si dica quel più che può dirsi. La Rosmunda, ereda presunta del trono scaricabarilese, portava due grandi occhi bruni in fronte, che innamoravano; ed in capo una chioma lunga e folta tanto, che avrebbe potuto vestirsene. La voce di lei sembrava una musica, ammaliava. Sebbene andasse appena pe' sedici anni, le sue movenze eran tutta grazia e disinvoltura, non aveva il solito fare impacciato delle giovanette. Né poteva rinvergarsi od immaginarsi la più colta ed assennata principessina in tutto l'universo mondo.

Le tre maruzze (Novella troiana da non mostrarsi alle signore)[modifica]

C'era una volta un Re, che possedeva il più bel giardino del mondo. Non s'è mai visto e non si vedrà mai un giardino simile. Tutte le piante della terra raccolte insieme vi facevano bella mostra di sé: ed anche quanti vegetali allignan solo nella flora fantastica dei poeti e de' novellatori, tranne uno, cioè quella varietà di cedro dal cui frutto tagliato esce una bella donna ignuda (Citrus virginifera pentameronalis Johannis Alexii Abbattutis. Vedi: Lo cunto de li cunti, Trattenemiento de li peccerille).

Guglielmo Tell e Federigo Schiller[modifica]

La razza germanica parmi senza dubbio, checché dicano i tedescomani odierni, la più vendereccia e servile tra le schiatte europee. Giova al tedesco farsi volontariamente schiavo, darsi a nolo, trafficar di sé. In Francia ed in Italia abbiamo ora ne' postriboli una immigrazione continua di meretrici della Magna: lì nascon femmine, che riescono esimie nel mestiere; che l'esercitano con disinvoltura, con virtuosità, alla quale le altre non aggiungono; che si profferiscono spontanee a turpitudini, cui rado prestansi le puttane indigene, sebben tentate con molt'oro; buggerone, fellatrici e peggio, se peggio è possibile.

La novella del vivicomburio[modifica]

A' tempi del calavrese abate Gioacchino, campava in Guascogna una poncella a nome Scolastica, ereditiera del Marchesato d'Isolagiordana, donna di grandi aderenze ed attinenze, e, giunta, ricchissima, bellissima e castissima, se credo a' cronicografi comprovinciali contemporanei. Relato rotolo. Veramente, un proverbio c'insegna: Denari e santità, metà della metà; ed il ruffiano Lúcramo della Cassaria il parafrasa così:

Quando si sente lodar troppo e mettere,
Come si dice, in ciel, beltà di femina;
O liberalitade d'alcun Principe;
O santità di frate; o gran pecunia
Di mercatante; o bello e buono vivere,
Che sia 'n una cittade; o cose simili:
Non si potrebbe mai fallir a credere
Poco. E talvolta, credere il contrario
Di quel, ch'apporta la fama, è stato utile.

Per questo Cristo, ebbi a farmi turco[modifica]

Dirò: io, cotesti vostri raccontini, cotesti bozzettucoli, cotesti sentimentuzzi lambiccati e raffinati, cotest'articciuola tisichetta da stufa anzi da infermeria, non mi garbano: io ci sbadiglio su.
Mi giova e mi conferisce, invece, la grossolana facezia e plebea, la fragorosa risata e schietta. Oh le novelle de' nostri bisnonni e del volgo! specie, quando le han per protagonista il frataccio mangione e beone, giocatore e bestemmiatore, accattabrighe e scansafatiche, femminiero e mariuolo, asino e bue, tipo della belva umana non mansuefatta, che sommette la ragione al talento, per cui è sprecato ogni ammaestramento di savio, ogni rivelazion divina, cieco ad ogni ideale, curante solo del piacer presente e della soddisfazion momentanea...

L'impietratrice: panzana[modifica]

Verseggiando a meraviglia ed anche poetando stupendamente, si può spropositare in politica, anzi non capirne un acca. Gli esempli abbondano. Fra i contemporanei il più splendido ed ovvio è quello del besanzonese Vittor Hugo, il quale divulgò un volume di giambi archilochei contro la Maestà di Napoleone III, tanto belli ed ingiusti che, resi inoffensivi dalla esagerazione stessa, venivan declamati per ischerzo ed isvago ed ispasso ed iscapricciamento dalla Imperatrice Eugenia e dagl'intimi della corte, durante le prosperità del magnanimo alleato nostro e benefattore. Jacopo Sannazzaro ci offre un'altra istanza più remota di valore epigrammatico unito ad insipienza politica.

Merope IV[modifica]

Non oso scommettere ma giurerei d'esserci più caos, molto più, sul mio tavolino che nell'amministrazione italiana: carte scritte, da scrivere e geografiche; armi bianche e da fuoco; oggetti di scrittoio; capi di vestiario; libri e libercoli; occhiali e cannocchiali; mille cosette stravaganti vi sono confusissimamente frammischiate: e quantunque volte mi accade di cercare o questo o quello, travolgo ogni cosa in guisa da far maggiore il disordine, se fosse possibile. Altrimenti, se tutto fosse ordinato, sistemato e classificato, non saprei lavorare, non mi verrebbe un pensiero. Quando, dopo un viaggetto, un'assenza, riprendo il mio solito posto, per due o tre giorni non mi riesce di combinar nulla, finché a furia di scartabellar libri, di scarabocchiar cartuscelle, di scaricar le tasche e soprattutto di rimuginare l'accumulato non abbia ristabilito l'amico scompiglio.

XII conti pomiglianesi[modifica]

'Na[8] vota nce steva 'na mamma e teneva[9] 'nu figlio, ca ssi chiammava Giuseppe; e pecche nu' diceva nisciuna[10] buscìa 'o[11] mettette nomme Giuseppe 'a Veretà. 'Nu juorno, ammente 'o stava chiammanno, ssi truvò a passa' 'o Re; e, verenno, ca chella mamma 'o chiammava accussì,[12] li spiava:[13]
- «Neh, pecchè 'o chiammi Giuseppe 'a Veretà?»
- «Pecchè nu' dice nisciuna buscìa.»

Note[modifica]

  1. Da Giovanni Berchet ed il romanticismo italiano, in "Nuova Antologia", vol. VIII, 1868, p. 278.
  2. Da Misteri di Napoli: studi storico-sociali, Stabilimento Tipografico del Commend. G. Nobile, Napoli, 1869, vol. I, cap. VV, p. 170.
  3. Da Il gran Basile, Giorn. Napol. di Fil. e Lett., Sc. Mor. e Pol., Vol. I e II, Napoli, 1875-76; Vol. II, p. 448. Citato in I classici italiani nella storia della critica, opera diretta da Walter Binni, vol. I, da Dante a Marino, La Nuova Italia, Firenze, 1974, p. 679.
  4. Da Naufragazia. Frammento, con un’avvertenza di Gino Doria, in «Nuova Antologia», CC-CLXXIV (1934), pp. 369-381: p. 369.
  5. Da Misteri di Napoli, vol. I, cap. XXIX, pp. 731-732.
  6. Da Mastr'Impicca.
  7. Citato in Alessandro Poerio, Vittorio Imbriani, Alessandro Poerio a Venezia: lettere e documenti del 1848 illustrati da Vittorio Imbriani, Morano, 1884 p. 430.
  8. Notevole è la tendenza, che hanno i dialetti nostri, a distinguere uno ed una, articoli, da uno ed una, numerali. I milanesi han fatto dei primi on ed ona e de' secondi vun e vunna, (voeunna). I napoletani adoperano come articoli 'no (nu) e 'na; ed uno ed una per numerali).
  9. Teneva, alla spagnuola, per avere. Ad una napolitana, che diceva: – «Tengo un gran mal di capo;» – rispondeva un fiorentino: – «O s'io non glielo veggo in mano? Me lo mostri un po' per vedere». – A Bertrando S...., che porgeva un francescone ad una cambiamoneta, dicendole: – «Tieni la moneta?» – venne risposto: – «O che me l'ho a tener davvero, la moneta?». – La prima e di teneva, le due di veretà e generalmente tutte le e disaccentate non finali sono così tenui e strette, da confondersi quasi, come da alcuni effettivamente si confondono con l'i.
  10. Nisciuna, nessuna. Giordano Bruno adopera spesso questo napoletanesimo.
  11. 'O mettette nomme, gli (lo) mise nome; Giuseppe 'a Veretà, Giuseppe la Verità. Il De Ritis scrive sub LA: – «Spesso, nella pronunzia, la L viene totalmente abolita, e talvolta benanche nella scrittura, comunque i buoni autori se ne guardino, specialmente nella prosa; e se accade, che l'usino in poesia, a mera licenza o (a dir meglio) poltroneria, vuole attribuirsi. Pure, non mancano scrittori, che di questa aferesi si compiacciono, la quale il dialetto napoletano col comune italico potrebbe mettere a paragone, come il portoghese col castigliano; e, nella veneranda archeologia, come l'attico col comun greco. Checché ne sia, il Del Piano non altramente elaborava le sue canzoncine spirituali, se non con questo sistema:
    «Chi p' 'a famme ss'allamenta,
    Chi p' 'a sete e chi p' 'o fuoco...
    Che seccà' ve pozza 'a lengua...

    «E così sempre. Egli è chiaro, che gli articoli, così attenuati alla semplice vocale, esigono uno strascico e quasi una duplicazione di pronunzia». – Il cavaliere Raffaele D'Ambra scrive poi: – «L'a, in luogo dell'articolo la, si tollera nel dialetto parlato; ma è un errore nella scrittura, dove si ha a segnare tutto intero». – «Grecamente del la articolo, mangiasi l'l nella pronunzia plebea. Esempii: A mamma, la mamma; a scuffia, la cuffia. Ciò sarebbe errore nella scrittura». – Sarebbe errore, è errore! perché? Se così si dice, e non altrimenti? E che c'entra la Grecia? Ci avevamo la lingua scritta e la parlata: ora, il D'Ambra ci vuol regalare anche il dialetto scritto ed il parlato, tanto per aumentar la confusione. Questo dialetto scritto, diverso dal parlato, non altro sarebbe se non un gergo convenzionale: e tale è pur troppo; giacché piace al più gli scrittori vernacoli di storpiar del pari la lingua aulica e lo idioma domestico. In Napolitano si dice quasi sempre 'a e non la; 'o (oppure 'u) anziché lo e la, sempreché la parola seguente cominci per consonante. Se ne' canti popolari si usasse lo e la, i versi zoppicherebbero quasi tutti. Così pure si dice 'e bacche e non le bacche (le vacche); 'e bitelle e non le bitelle (le vitelle).

  12. Accussì, così.
  13. Li spiava, le chiedeva. Spià', chiedere, domandare, interrogare. Vedi Varie Poesie | di | Niccolò Capassi | Primario Professore di Leggi | nella R. Università di Napoli || In Napoli MDCCLXI | Nella stamperia Simoniana | Con permesso de' Superiori. Achille dice a Grammegnone (Agamennone):
    Spia un a uno (e bide che te dice):
    Sì li trojane l'erano nemmice?

    Gregorio De Micillis scrive: – «Nell'edizione Simoniana delle Poesie varie di questo autore, e ne' suoi Sonetti in dialetto patrio, da me pubblicati l'anno 1789, leggesi Capassi, e non Capasso, e male; perché in tutte le sue lettere, ed in altre scritture di sua mano, egli sottoscrisse sempre il suo cognome coll'o in fine e nommai coll'i, come, affettando un certo fiorentinismo, sogliono praticare i moderni. Il nostro Grandi, nell'eccellente trattato dell'Origine de' cognomi gentilizî, condanna questo abuso e ne fa vedere l'irragionevolezza con pruove, che non ammettono risposta. Vedilo alla pag. 284 e seguenti della detta Opera.» – Così può leggersi ne Le opere | di | Niccolò Capasso | la maggior parte inedite | Ora per la prima volta con somma diligenza raccolte, | disposte con miglior ordine | e di Note | ed Osservazioni arricchite | da Carlo Mormile |. Si è aggiunta in questa prima compiuta edizione | la vita dell'autore nuovamente scritta | da Gregorio De Micillis. | Volume Primo. || In Napoli MDCCCXI. | Presso Domenico Sangiacomo | Con licenza de' Superiori. Pure, malgrado la disapprovazione del Grandi e malgrado tutte le buone ragioni, che consiglierebbero a mantenere inalterati i cognomi, li vediamo continuamente alterati da noi e nella scrittura e nella pronunzia, o per fuggire equivoci osceni, o per ingentilirli e per ravvicinarli al tipo aulico, o per altre cagioni. Così, per esempio, il sommo storico Carlo Troya, voleva il suo scritto con l'y anziché con l'i o con la j. Le famiglie Culosporco, Stracazzi, Figarotta, si fanno ora chiamare Colosporco, Stragazi, Fecarròta. Il commendator Marvasi, era figliuolo e fratello di Marvaso. Un Torelli, di origine albanese, giornalista, padre di un noto commediografo, è fratello e zio e figliuolo di tanti Turiello. Conosco un Rossi, ch'era fino a pochi anni fa semplicemente Russo. Gl'illustri Silvio e Bertrando Spaventa appartengono ad una famiglia De Laurentiis, la quale cominciò a farsi chiamare De Laurentiis-Spaventa, quando entrò in essa l'ereditiera della famiglia Spaventa; in poche generazioni il cognome originario s'è obliterato ed è stato surrogato del tutto dallo avventizio. Mille altri casi simili potrei citare.

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