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Garri Kasparov

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Garri Kasparov nel 2010

Garri Kimovič Kasparov, nato Vajnštejn (1963 – vivente), scacchista e attivista politico russo, dal 2014 anche di cittadinanza croata.

Citazioni di Garri Kasparov

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  • [Sull'assassinio di Boris Nemcov] La tragica ironia è che lui non voleva vedere un'altra rivoluzione. Tra i due ero io il radicale e continuavo a dirgli: "È tutto inutile, le elezioni, le piccole cose: non cambieranno questo regime con il voto. Ci sarà bisogno del sangue".[1]
  • Dal mio punto di vista, Karpov ha un'idea abbastanza vaga della forza del gioco di Magnus. Certo, sarebbe interessante confrontarci, ma l'idea è abbastanza assurda. Il Carlsen del 2019 semplicemente sa molto di più sugli scacchi di quanto sapevamo io e Karpov. E per quanto riguarda la comprensione del gioco – non voglio entrare in una disputa a distanza con Karpov, ma ho trascorso abbastanza tempo con Magnus e, in generale, posso dire che capisce gli scacchi non meno di noi.[2]
  • I russi non hanno saputo eguagliare il coraggio di Alexei nel porre fine alla dittatura di Putin.[3]
  • L'ultima barzelletta dall'internet russo: con l'invasione di Kursk, l'Ucraina ha raggiunto i confini del '91. Ovvero, del 1691!
Latest joke on the Russian internet: With the invasion of Kursk, Ukraine has reached the borders of '91. That is, 1691![4]

Intervista di Roberto Saviano, repubblica.it, 13 marzo 2016.

  • Gli scacchi richiedono una strategia trasparente: io so quello che hai tu e tu sai quello che ho io; non so quello che stai pensando, ma almeno so quali sono le tue risorse. Putin, come tutti i dittatori, odia la trasparenza. Preferisce giocare a carte coperte perché solo così, come nel poker, è possibile bluffare. I dittatori possono essere grandi giocatori di carte, ma non saranno mai abili scacchisti perché per vincere devono mentire e intimorire l'avversario. Cosa che negli scacchi non è concessa.
  • Putin costituisce per l'Europa un pericolo maggiore dell'Is, minaccia l'esistenza stessa dell'Europa. Putin ha fisiologicamente bisogno del crollo delle sue istituzioni. La sua strategia è creare e alimentare il caos. Per questo ha puntato sulla guerra in Siria, un conflitto che ha messo in moto un numero impressionante di rifugiati che fanno pressione sui confini dell'Europa mettendone a dura prova la tenuta e la stabilità.
  • La macchina della propaganda sovietica aveva sempre una visione del futuro, proiettava il popolo verso una speranza di crescita e di grandezza, era sempre presente uno scopo pronto a giustificare l'infinità di sacrifici e sofferenze del presente, che un giorno sarebbero stati premiati dalla fratellanza comunista. La propaganda di Putin, invece, parla di nemici, di conflitti, di un mondo avverso alla Russia contro il quale Putin si erge come unico baluardo. Parla esclusivamente al presente. Senza il Boss la Russia non esisterebbe.
  • La Russia di Putin si può in un certo senso considerare il paese più mafioso del mondo, perché tutto il sistema si basa sulla fedeltà: a Putin prima di tutto, e poi in linea verticale verso il basso. Se sei fedele al Boss sei fedele al sistema, e quella è l'unica cosa che conta. Non importa se ti macchi di qualche crimine.

Intervista di Federico Fubini sulla crisi russo-ucraina del 2021-2022, corriere.it, 11 gennaio 2022.

  • Non dico che invaderà l'Ucraina di sicuro, ma Putin può fare qualunque cosa e passarla liscia. Quelli che ora dicono che non invaderà l'Ucraina avevano previsto l'annessione della Crimea? Avevano previsto l'occupazione di fatto del Kazakhstan? Così questi osservatori nascondono la loro impotenza o qualcosa di peggio: l'interesse concreto, materiale nel proseguire in un rapporto con Putin. Gerhard Schröder, l'ex cancelliere tedesco, è a libro paga del dittatore russo: milioni di euro all'anno di salario ufficiale e definisce Putin "chiaramente democratico". Mi sbaglio? Molti in Occidente dicevano che in fondo la Russia era una democrazia. No, è una dittatura fascista. Ha distrutto l'opposizione interna e continua ad attaccare i propri vicini. E ora guardate le richieste alla Nato: in sostanza dice che l'Alleanza atlantica dovrebbe dissolversi. Non credo che Putin si aspetti che ciò accada, ma si sente così potente, così arrogante che può parlare così agli americani.
  • Per ora Putin non ha subito nessuna vera conseguenza per le sue aggressioni. Solo due cose possono impedirgli di invadere l'Ucraina: il prezzo elevato che deve pagare, perché gli ucraini sono pronti a combattere; e il fatto che deve spostare parte delle truppe che aveva mandato in Kazakhstan. A proposito: chi aveva previsto che avrebbe preso il controllo del Kazakhstan, letteralmente dal giorno alla notte?
  • Putin è sempre stato molto coerente nel realizzare il suo programma e il suo programma è di riprendere il pieno controllo dell'ex Unione sovietica. Per questo deve trovare un modo di soggiogare l'Ucraina: se non con un'invasione militare, allora tramite l'influenza politica. Ventiquattr'ore su ventiquattro la propaganda russa parla dell'Ucraina come fosse uno Stato fallito. Sembra quello che disse Molotov nel 1939 dopo il collasso della Polonia: "La Polonia, questo figlio sgraziato del Trattato di Varsavia, ha cessato di esistere". L'Ucraina è per Putin un figlio sgraziato del collasso dell'Urss: non ha diritto di esistere.
  • Non appena vede l'opportunità di intervenire a sostegno di dittatori, è sempre in grado di farlo. Questo ha diminuito la reputazione del mondo libero e in particolare degli Stati Uniti agli occhi di coloro che combattono per la libertà, perché Putin nel difendere i dittatori ha avuto successo. Quelli che lui ha sostenuto sono ancora al potere. Se se l'è cavata in Siria, perché non in Kazakhstan? È un domino. Mi ricordo quando Putin invase la Georgia e l'Unione europea suddivise la colpa in parti uguali. È come dire che quando Stalin attaccò la Finlandia, la Finlandia era una minaccia per Leningrado. Allora dissi che la prossima sarebbe stata l'Ucraina e sa perché?
  • [...] Putin aveva visto che l'America aveva già fatto marcia indietro sulla Siria. Nella crisi siriana del 2013, con l'uso delle armi chimiche, Obama si rimangiò la minaccia di intervenire. Fu un segnale che l'America era debole e indecisa, Putin lo ha capito così. Fu l'inizio del domino, era chiaro che avrebbe avuto delle conseguenze ben oltre la Siria.
  • È incredibile, quando sento dire agli europei che non possono fare niente. Per forza, hanno costruito la loro dipendenza dalla Russia con le loro stesse mani! Questi politici ne sono responsabili, Angela Merkel in primo luogo. Ma l'80% del gas della Russia è diretto all'Europa. Dunque chi avrebbe il coltello dalla parte del manico? Eppure il ceto politico europeo è così corrotto che non vuole fare niente contro Putin. Questa è la ragione: una complessiva corruzione politica e finanziaria.
  • "Russia Today" [è] fra i canali di news meglio finanziati al mondo. Riceve più soldi di Al Jazeera.
  • Non ridurrà la spesa militare, Putin. La spesa nella difesa, nella polizia e nella propaganda cresce ogni anno, mentre tutto il resto viene tagliato: sicurezza sociale, sanità, case popolari, cultura, educazione. Tutto tagliato. E non credo che il Cremlino possa reindirizzare risorse verso la società. La corruzione in Russia è sistemica, dunque anche se Putin cercasse di riportare risorse verso la popolazione i soldi verrebbero rubati. Il sistema è costruito per aspirare risorse verso l'alto, non per distribuirle verso il basso. Danno alla gente giusto abbastanza per sopravvivere. Dunque un ulteriore deterioramento della situazione in Russia porterà a una politica estera ancora più aggressiva.

Da Garry Kasparov, l'ultima mossa del re degli scacchi

Intervista di Enrico Franceschini, la Repubblica, il Venerdì, n. 1714, 22 gennaio 2021, pp. 16-21.

  • Per fare un esempio legato alla realtà, il famoso campione americano Bobby Fischer non impazzì a causa degli scacchi, bensì furono gli scacchi  a mantenerlo sano di mente il più a lungo possibile.
  • Non si eccelle, negli scacchi come in qualunque altra disciplina, senza il talento naturale. Un talento che viene sparso misteriosamente in ogni angolo del mondo. Per farlo crescere, tuttavia, serve l'opportunità di dedicarsi con sacrificio e determinazione a quella disciplina. Talento e opportunità: un elemento senza l'altro non basta.
  • [Sugli scacchi] Sono un gioco su come prendere la decisione giusta al momento giusto, in che modo usare il proprio bagaglio di esperienze, a quale obiettivo dare priorità.
  • [A proposito del gioco d'attacco] È sempre stato il mio stile e penso che sia anche il più vantaggioso. Ma attaccare non funziona in tutte le circostanze, negli scacchi come in altri sport o nella vita. Talvolta un gioco difensivo può essere più appropriato: basti pensare a quante partite di calcio ha vinto l'Italia con il suo celebre catenaccio e il contropiede.
  • Mi sarebbe piaciuto sfidare Fischer. Ma questi confronti non hanno molto senso. Ho scritto biografie di tutti i campioni del passato, rigiocando le loro partite, mettendomi nei loro panni. Ce ne sono stati di formidabili, ma il gioco si evolve così come si evolvono gli strumenti per giocarlo al meglio, con un approccio sempre più scientifico.
  • Oggi la Russia è un Paese in crisi profonda, controllato da una cupola di potere attorno a Putin, praticamente in mano all'erede del Kgb sovietico. Quando Putin se ne andrà, e non succederà attraverso regolari elezioni, ci saranno enormi problemi.

Intervista di Federico Fubini sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Corriere.it, 25 febbraio 2022.

  • Tutti i dittatori, quando hanno soggiogato il loro popolo e distrutto l’opposizione, guardano fuori. E Putin per vent’anni non ha visto conseguenze per i suoi crimini.
  • A differenza di Hitler negli anni ’30, ha fatto tutto alla luce del sole. Nel 1939 non avevamo tecnologie per controllare come Hitler si preparasse all’attacco sulla Polonia. Stavolta abbiamo visto tutto, Putin non si è mai nascosto. Ha anche costruito la più influente rete di lobbisti e agenti in giro per il mondo. Chamberlain, Daladier e quelli che rifiutarono azioni forti contro Hitler a metà degli anni ‘30 si sbagliarono. Ma Chamberlain non ha mai fatto affari con Hitler. Puoi pensare che sia stato ingenuo. Ma i politici di oggi hanno preferito continuare a fare affari con Putin e molti di loro essere anche nel suo libro paga.
  • Putin non ha mai nascosto le sue intenzioni, è stato sincero come Hitler in Mein Kampf. Sono anni che dice che l’Ucraina non è uno Stato sovrano. Se ne sono lavati tutti le mani. Ha detto che il collasso dell’Urss la più grande catastrofe geopolitica. Ha messo sul tavolo la sua visione strategica molto apertamente almeno da 15 anni. È stato sempre molto coerente nel portare avanti il suo programma. E poiché non ha visto nessuna vera risposta dal mondo libero, si è detto: perché no? Posso fare qualsiasi cosa.
  • Tagliate fuori la Russia dai mercati finanziari globali. Assicuratevi che il sistema finanziario del Paese non sia più sostenibile e non possa generare risorse per la macchina da guerra di Putin. Anche se lui sta seduto su riserve liquide da oltre 600 miliardi di dollari.
  • L’Ucraina è disposta a combattere, ma dall’annessione della Crimea nel 2014 il mondo libero si è rifiutato di armarla. Se oggi avesse un decimo delle armi che gli americani hanno abbandonato in Afghanistan, diventerebbe la tomba dell’esercito russo.
  • Tutte le persone del mondo libero devono dimettersi dalle aziende del sistema putiniano. Se non lo fanno, vanno trattate come complici di crimini di guerra.
  • Se vince, è un segnale a tutti i dittatori del mondo che le sole cose che contano sono la forza dell’esercito e come usi il denaro sporco per corrompere i politici.

Intervista di Giancarlo Loquenzi sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, Ilfoglio.it, 19 maggio 2022.

  • Nessuno ha minacciato la Russia, è Putin che continua ad avere truppe ai confini occidentali, e per fortuna gli stati baltici sono nella Nato, o avremmo già i carri armati nelle loro capitali.
  • Questa aggressione non è stata provocata in alcun modo e mi sorprende sentir parlare di queste sciocchezze visto che c’è già stata tempo fa un’annessione.
  • Noi ascoltiamo il presidente Zelensky quando parla, il più grande eroe dei nostri tempi. Putin invece è un criminale di guerra.
  • Esito ad adoperare una metafora legata agli scacchi in questa tragedia umanitaria. In Ucraina è in corso un vero e proprio genocidio, sono le atrocità commesse dall’esercito invasore. Il gioco degli scacchi merita di più, non possiamo usarlo per fare questi paragoni.
  • La liberazione della Crimea sarà l’inizio della liberazione del mio paese dal fascismo di Putin.
  • È molto difficile nascondere tutti i cadaveri che tornano in Russia, parliamo di venticinquemila soldati russi uccisi, e più di centomila che sono stati comunque feriti. È importante per Putin che non si percepiscano questi sacrifici legati alla guerra nelle grandi città. Non vuole una mobilitazione di massa perché poi Mosca e San Pietroburgo si troverebbero a far parte della guerra e questo porterebbe a sommosse e rivolte. E insieme agli insuccessi militari Putin non avrà le risorse per affrontare la situazione.

Intervista di Federico Fubini sulla ribellione del Gruppo Wagner, Corriere.it, 25 giugno 2023.

  • Putin nel suo video ha detto che la Russia veniva pugnalata alle spalle come nel 1917, ma l’analogia che mi viene in mente è con la presa del potere di Mussolini. Marciò su Roma nel 1922 facendo leva sulle recriminazioni dei reduci di guerra. Così Prigozhin ha cercato di marciare su Mosca per abbattere il potere, anche se poi ha deciso di fermarsi.
  • Putin non può restare al potere a lungo dopo aver perso la sua aura, il suo status di leader supremo. L’immagine che lascia da ieri è quella di un dittatore che scappa per salvarsi la vita. Per qualche ora si è assistito al collasso dell’intera catena di comando russa.
  • La disuguaglianza nella società ha raggiunto livelli superiori a quelli africani. Putin ha mandato in guerra centinaia di migliaia di uomini dalle province più povere. Ha preservato gli abitanti di Mosca e San Pietroburgo, ma nel resto del Paese ci sono duecentomila fra morti o feriti. Ormai tutti hanno legami con qualcuno che è rimasto ucciso o mutilato in Ucraina. In Russia c’è una grande domanda di giustizia sociale, le disparità sono grottesche e la guerra le ha rese ancor più dolorose
  • La Wagner ha con sé gente esperta, che ha combattuto. Molti sono criminali, ma fra loro ci sono alcuni dei migliori guerrieri del mondo. E non hanno paura di morire. Putin forse ha ancora dalla sua i generali, ma non ha più i luogotenenti o i caporali.
  • [«Cos'ha scatenato, per lei, la rivolta di Prigozhin?»] Il decreto che sanciva il passaggio dal primo luglio di tutte le milizie private sotto il controllo del ministero della Difesa. A quel punto Prigozhin non aveva niente da perdere: gli avrebbero tolto il controllo della Wagner e sapeva che sarebbe stato mandato a morire in prima linea.

Intervista di Rbc-Ucraina, Lastampa.it, 17 agosto 2023.

  • Il crollo di Putin sarà inevitabile dopo la liberazione dell'Ucraina proprio perché il regime non dura quando il leader perde la sua legittimità.
  • Lo Stato di Putin, oltre ai segni evidenti di una dittatura fascista, è anche uno Stato mafioso. A questo proposito, non ha analogie dirette con la Germania di Hitler o l'Urss di Stalin, perché non esiste un'ideologia. Da un lato questo lo rende più forte, perché se non c'è ideologia può trattare con chiunque: con l'estrema sinistra, con l'estrema destra. Dall'altro è più debole internamente perché, a differenza di una dittatura ideologica, nessuno vuole morire per un'idea
  • [...] qualsiasi dittatore, specialmente un dittatore mafioso, reagisce alla debolezza. Quando vede la forza, inizia a girare. Ma quando vede la debolezza, continua ad andare avanti. Pertanto, mi sembra che Putin abbia iniziato a formarsi la chiara convinzione che, in linea di principio, può fare tutto ciò che vuole. E, purtroppo, devo dire che aveva effettivamente ragione.
  • [...] non è ovvio che la vittoria dell'Ucraina, la liberazione di tutti i territori ucraini, il pagamento delle riparazioni, il perseguimento dei criminali di guerra equivalgano al completo collasso della Russia. Ma credo che la probabilità di secessione di alcuni territori dalla Russia sia alta.

Sull'attentato al Crocus City Hall, Rightsreporter.org, 25 marzo 2024.

  • Molti fatti chiave non sono ancora chiari, e si può star certi che lo diventeranno sempre meno man mano che il Cremlino si adopererà per sfruttare la crisi all’interno e all’estero.
  • In una delle città più sorvegliate del mondo, dove si può essere arrestati in 30 secondi per aver sussurrato “no alla guerra”, i terroristi hanno continuato il loro attacco per più di un’ora e poi si sono semplicemente allontanati.
  • [...] Biden teme più la sconfitta russa che la vittoria russa. [...] È un nuovo ordine mondiale vigliacco. La Casa Bianca è impegnata a dire all’Ucraina dove non può sparare e a Israele dove non può dare la caccia ai terroristi. Invece di fornire una leadership per unire gli alleati democratici contro i dittatori, l’amministrazione di Biden pone limiti agli alleati dell’America per proteggere i nemici dell’America. Non c’è bisogno di chiedersi cosa ne pensino Taiwan e la Cina della discesa dell’America nella passività.
  • Come tutti i dittatori, Putin eccelle nel creare distrazioni dai suoi crimini. L’attacco di Mosca distoglierà l’attenzione globale dalla sua guerra contro l’Ucraina, ma non lo distrarrà affatto. Piangete per ogni vita innocente persa a Mosca, ma agite anche per salvare la prossima in Ucraina.
  • Se un sospetto serial killer è in libertà, la prima cosa da fare quando c’è un omicidio è controllare il suo alibi. Putin è sotto accusa per crimini di guerra e i suoi sanguinosi precedenti lo rendono il sospetto n. 1. Non ci può essere una causa comune contro il terrorismo con la Russia quando il terrorista più abile del mondo governa il Cremlino.

Gli scacchi, la vita

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Citazioni

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  • Perdere può portare alla convinzione di dover cambiare qualcosa che era necessario cambiare e vincere può dare l'impressione che tutto vada bene a quando non ci si trova sull'orlo del disastro. (p. 38)
  • Nel mondo del business si dice: «Pianificare senza agire è inutile, agire senza pianificare è fatale», il che richiama quanto scrisse Sun Tzu alcuni secoli fa: «Una strategia senza tattiche è il cammino più lento verso la vittoria. Le tattiche senza una strategia sono il clamore prima della sconfitta». (p. 45)
  • Pensiamo al tempo come a qualcosa da non sprecare, non come a una forma di investimento. (p. 116)
  • Negli scacchi la bigamia è accettabile, ma la monarchia è assoluta. (p. 127)
  • Se già stai combattendo, vuoi che il primo colpo sia anche l'ultimo, ed è meglio che sia tu ad assestarlo. (p. 207)
  • Se vogliamo riuscire dobbiamo mettere in conto il rischio di non riuscire. (p. 282)

L'inverno sta arrivando

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Incipit

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Il 19 agosto 1991 andava in scena, in diretta sulla Cnn, il tentato colpo di Stato contro il presidente sovietico Michail Gorbaciov. Alleatisi con il Kgb, alcuni falchi del regime comunista ormai in disfacimento avevano fatto sequestrare Gorbaciov nella sua dacia in Crimea e dichiarato lo stato di emergenza. La stampa internazionale ospitava i commenti di decine di esperti e di esponenti politici, preoccupati che il golpe segnasse d'un colpo la fine della Perestroika o addirittura l'inizio di una guerra civile, mentre intanto i carri armati sfilavano nel centro di Mosca.

Citazioni

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  • Non solo il golpe fallì ma anzi accelerò il crollo dell'Urss, poiché mise il popolo sovietico dinanzi a una scelta: la dissoluzione e l'indipendenza facevano paura, naturalmente, ma quel futuro non poteva essere certo peggiore del presente totalitario. Come pedine di un domino, una dopo l'altra le repubbliche sovietiche dichiararono l'indipendenza nei mesi successivi. (p. 8)
  • Qualsiasi gelo nei rapporti tra Washington e Mosca, o Pechino, viene immediatamente stigmatizzato da entrambi i fronti come un possibile "ritorno alla Guerra Fredda". Ricorrere a questo cliché è paradossale, dal momento che la strategia con cui fu combattuta e vinta la Guerra Fredda non è stata affatto emulata, anzi è stata del tutto dimenticata. Invece di affidarsi ai principi di bene e male, di giusto e sbagliato, e al valore universale dei diritti umani e della vita umana, si sceglie il compromesso, si sceglie di premere il tasto reset, si sceglie l'equivalenza morale. Insomma, espressioni diverse per definire l'identica strategia della distenzione. (p. 11)
  • Chi di noi ha vissuto dietro la Cortina di ferro sapeva che nel mondo libero c'erano persone che si preoccupavano e lottavano per noi, non contro di noi. E saperlo era importante. Oggi i cosiddetti leader del mondo libero parlano di promuovere la democrazia, ma intanto trattano da eguali i leader dei regimi più repressivi del mondo. La strategia del compromesso con i dittatori ha fallito su tutti i fronti, ed è ormai tempo di riconoscere questo fallimento. (pp. 11-12)
  • Purtroppo Putin, come tutti gli autocrati moderni, disponeva, e dispone ancora oggi, di un'arma che la leadership sovietica non si sarebbe neanche sognata: un profondo legame compromissorio, economico e politico, con il mondo libero. Decenni di scambi commerciali avevano generato una ricchezza mostruosa, che le dittature come quelle russa e cinese usano per edificare sofisticate infrastrutture autoritarie all'interno del paese e per esercitare pressioni in politica estera. Pensavamo, ingenuamente, che il mondo libero avrebbe sfruttato quelle relazioni socioeconomiche per liberalizzare gradualmente gli Stati autoritari. In realtà, sono stati gli Stati autoritari a diffondere il loro sistema corrotto all'estero e inasprire la repressione in patria abusando di quell'apertura e dell'interdipendenza economica. (pp. 14-15)
  • Non è facile battersi per le riforme democratiche quando tutte le televisioni e i giornali mostrano in continuazione i leader delle democrazie più potenti del mondo accogliere un dittatore come fosse un membro della loro famiglia. Quelle immagini fanno pensare o che non è davvero un dittatore oppure che la democrazia oppure che la democrazia e la libertà individuale non sono che una merce di scambio; esattamente quello che sostengono Putin e quelli come lui. (pp. 17-18)
  • Da par suo, Putin sa sfruttare a suo vantaggio la strategia del compromesso senza però fare nessuna concessione. Per anni, mentre i diritti umani in Russia andavano assottigliandosi, i politici e gli strateghi occidentali come Condoleeza Rice ed Henry Kissinger continuavano a difendere la linea morbida con Putin, ricorrendo tra l'altro all'argomentazione secondo cui i russi stavano molto meglio adesso che non sotto l'Unione Sovietica.
    Innanzitutto, un grazie sarcastico a loro per averci condannato al nostro destino con questo approssimativo riconoscimento! Invece di fare raffronti con gli anni Cinquanta o Settanta, perché non parlare degli anni Novanta? Non ci vuole granché a vivere meglio rispetto ai tempi del totalitarismo comunista di Stalin o di Breznev, ma che dire della vita durante l'era Eltsin? Che dire della disintegrazione delle giovani istituzioni democratiche, mentre i Rice e i Kissinger di tutto il mondo restavano a guardare? Se per i leader e i cittadini del mondo libero i diritti umani del popolo sovietico e i prigionieri politici nei gulag erano importanti, e naturalmente lo erano, perché allora i dissidenti del ventunesimo secolo non meritano lo stesso rispetto e attenzione? (p. 20)
  • I nuovi leader occidentali non vogliono accettare l'esistenza del male nel mondo e il fatto che vada combattuto a partire da principi assoluti, senza negoziare. È evidente che le democrazie del ventunesimo secolo non sono pronte per questa battaglia. Resta da vedere se, prima o poi, lo saranno. (p. 21)
  • Fino a pochi anni fa Putin non ha avuto bisogno di ricorrere a nessuna ideologia per depredare la Russia e consolidare il potere. L'unica idea che ispirava la sua cerchia si può riassumere nella frase "Rubiamo insieme": la struttura governativa serviva a far confluire i denari pubblici nelle tasche di chi esercita il potere. Con il deteriorarsi della situazione economica, tuttavia, Putin ha dovuto leggere fino in fondo il manuale del perfetto dittatore alla ricerca di nuovi pretesti con cui giustificare il suo ruolo di leader supremo. (p. 25)
  • [Sul conflitto russo-ucraino] Chi sostiene che il conflitto ucraino in fondo riguardi una regione remota ed è improbabile che possa generare instabilità a livello globale evidentemente non coglie il chiaro avvertimento lanciato da Putin. Non v'è ragione di credere che la visione, da lui più volte espressa, di una "Grande Russia" rimarrà confinata all'Ucraina orientale; anzi, esistono diverse ragioni che portano a pensare il contrario. I dittatori si fermano solo quando è qualcun altro a fermarli, e cercare la distensione con Putin in merito all'Ucraina non farà che alimentare la sua sete di conquista. (pp. 26-27)
  • Non furono [...] istituiti nemmeno processi o commissioni di verità e riconciliazione per l'Urss, né a livello nazionale né a livello internazionale. Dopo decenni di genocidi, trasferimenti e imprigionamenti di massa e di repressione totalitaria, fu semplicemente deciso che quello era il passato e che si sarebbe entrati in un futuro radioso senza nessuna recriminazione. Ovviamente tanti nuovi leader e dirigenti avevano tutto l'interesse a non scavare troppo a fondo quel passato così feroce. [...] "Evitare la caccia alle streghe" era dunque la posizione condivisa, anche se ciò significava lasciare che persone con le mani sporche di sangue occupassero posizioni di potere. Ciò fece sì, peraltro, che le basi del potente apparato di sicurezza russo rimanessero sostanzialmente intatte, seppur con un nuovo nome e con un profilo decisamente più basso, almeno per il momento. Eltsin non voleva processi, cosicché gli archivi del Kgb rimasero secretati. Ai vecchi funzionari furono tacitamente promesse immunità e sicurezza finanziaria se avessero agevolato la transizione del potere. Questa stessa formula fu impiegata da Eltsin quando scelse Putin come suo succesore nel 1999. (p. 38)
  • Il disperato tentativo di Gorbaciov di salvare il socialismo e l'Unione Sovietica alla fine fallì miseramente, mentre lui diventava senza volerlo un eroe dell'Occidente. Io personalmente, al contrario di altri, non gli riconosco il minimo merito per non aver mandato i soliti carri armati a sedare le rivolte anticomuniste scoppiate in tutto il blocco sovietico, anche perché in realtà Gorbaciov inviò militari in Lettonia e in Lituania, dove secondo lui avrebbe potuto agire indisturbato. Gorbaciov non era propriamente un cuor di leone quando c'era in ballo la sua testa, e non voleva fare la fine del rumeno Nicolae Ceaușescu, la cui destituzione e il cui assassinio, nel dicembre del 1989, erano ancora ben impressi nella memoria collettiva. (p. 40)
  • Putin non è un ideologo. Lui e i suoi soldati hanno accumulato ricchezze spaventose e la minaccia di non poterne usufruire liberamente in Occidente sarebbe per loro devastante. A differenza dei loro predecessori sovietici, Putin e i suoi alleati non si accontentano di una limousine ultimo modello e di una bella dacia sul mar Nero. Vogliono governare come Iosif Stalin ma vivere come Roman Abramovič, il caro amico di Putin che ha speso una fortuna per comprare una famosa squadra di calcio inglese e svariati yatch grandi quanto un campo di calcio. Gli oligarchi di Putin viaggiano in tutto il mondo e custodiscono le loro ricchezze all'estero, e questo dà ai governi occidentali una leva di potere consistente, se soltanto avessero il coraggio di usarla. (p. 42)
  • Per quanto si possa dare a questa strategia il nome di "compromesso", essa somiglia troppo al ben noto appeasement. La lezione di Chamberlain e di Daladier, che nel 1938 incontrarono Hitler a Monaco, è valida ancora oggi: dando a un dittatore ciò che vuole, lo si spingerà a pretendere sempre di più, e così si convincerà che gli altri non sono abbastanza forti per impedirgli di prendersi ciò che vuole, altrimenti si sarebbero opposti fin dall'inizio. È così che ragiona un dittatore. (p. 43)
  • [Sulla libertà dei media in Russia] Fin dagli esordi del suo primo mandato, Putin comprese che era fondamentale controllare il Quarto potere per riuscire a controllare gli altri tre. Questa lezione fu appresa quando, nell'agosto del 2000, il pasticciato salvataggio dell'equipaggio del sottomarino nucleare Kursk, affondato a causa di un'esplosione durante un'esercitazione nel mare di Barents, scatenò le proteste dell'opinione pubblica. Invece di strigliare i vertici militari o fare pulizia nella nostra pachidermica burocrazia, Putin se la prese con la stampa indipendente. (pp. 44-45)
  • Poiché da oltre dieci anni faccio di tutto, anche con i miei editoriali, per mettere in guardia dalla vera natura di Putin e dalle sue mire, mi secca non poco constatare che tanti politici americani, e così potenti, giungono alle mie stesse conclusioni solo quando non sono più in carica. Eppure nei loro libri non una riga è dedicata ad analizzare quale diversa strategia avrebbero potuto usare per incidere sulle azioni di Putin, quando ancora avevano il potere per farlo. Non si prende mai in considerazione l'ipotesi che gli Stati Uniti avrebbero potuto minacciare di isolare Putin, di emarginare lui e i suoi amici miliardari, di usare il bastone dopo avergli lasciato pappare tutte le loro carote. (p. 48)
  • [Sul pogrom di Baku] Penso che Gorbaciov volesse che quelle violenze scoppiassero per consolidare il controllo diretto in quelle zone calde dell'impero sovietico. Cosicché lasciò che la violenza facesse il suo corso e solo dopo inviò le truppe perché usassero tolleranza zero nei confronti di chiunque e insediassero con la forza leader leali a Mosca. (p. 62)
  • Persino chi in Occidente critica Gorbaciov per non aver mai voluto seriamente la fine del comunismo e dell'Urss gli riconosce il merito di "non aver inviato le truppe" quando, con lo sgretolarsi della Cortina di ferro, le repubbliche sovietiche si allontanavano via via da Mosca. Io invece gli nego anche questo piccolo onore. In primo luogo perché in realtà Gorbaciov usò la forza militare in diversi luoghi, soprattutto nei paesi baltici. È vero, avrebbe potuto ordinare ai soldati di bloccare le elezioni, arrestare i leader dell'opposizione e sparare sui dissidenti. Il punto, però, è: gli avrebbero dato ascolto? Anche se qualcuno di quei soldati avesse obbedito agli ordini di Mosca e avessero massacrato migliaia di persone, questo avrebbe decretato la fine violenta dello stesso Gorbaciov, e lui era una che ci teneva a rimanere in piedi. [...] Gorbaciov non inviò i carri armati per tenere insieme l'Unione Sovietica semplicemente perché sapeva che era troppo tardi e che così facendo sarebbe stata la sua testa a cadere. (pp. 64-65)
  • Ufficialmente, durante il colpo di Stato, Gorbaciov fu rinchiuso nella sua dacia in Crimea, ma è mia convinzione che il golpe fosse una sua idea, o quantomeno che egli ne fosse un autore consapevole. In questo modo Gorbaciov non avrebbe dovuto assistere impotente al declino della sua autorità, ma avrebbe potuto sperare di tornare in una posizione di forza dopo aver "negoziato" con i falchi, che nel frattempo avrebbero fatto il lavoro sporco sbaragliando gli oppositori politici come Eltsin. (p. 66)
  • La leggenda narra che in seguito al crollo dell'Unione Sovietica la Russia fosse stata umiliata dall'Occidente e che questo avesse scatenato risentimento e diffidenza. Si dice che i vincitori della Guerra Fredda "persero la Russia" innanzitutto perché non fornirono sufficiente assistenza e poi perché allargarono con troppa aggressività i confini della Nato. Entrambe le accuse sono false e lo si può facilmente dimostrare. [...] semmai, l'Occidente fu fin troppo smanioso di perdonare e dimenticare i crimini e ignorare il pericoloso potenziale del suo antico nemico. [...] Non si può certo definirla un'umiliazione, a meno che non si voglia tenere da conto l'imbarazzo di ricevere miliardi in contanti e in altre forme di aiuti da un ex rivale; un rivale che la propaganda sovietica per generazioni aveva dipinto come spietato e feroce. L'Unione Sovietica perse la Guerra Fredda, e la sconfitta fa male. Questo sentirsi dei perdenti scaturiva dall'incapacità di emanciparci da una nazione che andava ormai sgretolandosi. L'Unione sovietica perse la Guerra fredda, ma non fu soltanto una vittoria per gli Stati Uniti e per l'Occidente bensì anche per i russi, i cittadini sovietici e tutti coloro che si trovavano dietro la Cortina di ferro. La vera sconfitta fu non sradicare il sistema Kgb e lasciarci alle spalle i giorni gloriosi, di cui peraltro avevamo un ricordo distorto, come invece avevano fatto quasi tutti i paesi europei del blocco sovietico. Fu in questa crepa che in Russia e in altri Stati dell'ex Urss poté insinuarsi il mito dell'umiliazione, oltre che un uomo come Putin, il quale non aspettava altro che usarlo a suo vantaggio. (p. 68, 70)
  • Tenete bene a mente il Kosovo quando qualcuno verrà a dirvi che un intervento in Ucraina non farebbe che "inasprire il conflitto" o "portare alla Terza guerra mondiale", per citare i pretesti più utilizzati. Ovviamente lo scenario e gli avversari sono molto diversi: la Russia non è la Serbia e Putin non è Milosevic. Ma la lezione da trarne è una sola: l'uso deciso della forza può essere un bene, sia sul momento sia come deterrente, mentre invece la titubanza ha ripercussioni molto gravi e apre il varco a nuove aggressioni. (p. 84)
  • La propaganda sovietica era anche esperta nel cosiddetto whataboutism ["che dire allora"], un neologismo coniato ai tempi della Guerra Fredda per definire il modo in cui i leader sovietici rispondevano alle critiche sui massacri, le deportazioni e i gulag. I sovietici replicavano a quelle critiche dicendo ad esempio: "Che dire allora del trattamento che voi americani avete riservato agli schiavi e agli indigeni?". O qualcosa di simile. Si trattava di un evidente stratagemma retorico per deviare l'attenzione e cambiare argomento. Putin ha poi recuperato le tecniche dell'Unione Sovietica, e il whataboutism è ritornato in auge grazie alle legioni di troll russi che operano nel Web. Ad esempio, non c'è un mio tweet sulla Russia che non sia immediatamente seguito da repliche in cui si dice che gli Stati Uniti (o Israele) hanno agito in modo simile, o peggio, oppure contenenti commenti assolutamente scollegati e anche sgradevoli. Si tratta di metodi molto diffusi tra i leader e i sostenitori delle autocrazie, perché costoro non hanno argomentazioni valide per giustificare i loro crimini. (p. 87)
  • Degli Stati Uniti si dice che siano un "calderone" o un'"insalatiera", per spiegare come le diverse etnie immigrate nel paese si siano poi mescolate per creare il fiero popolo americano. Seguendo una curiosa tradizione che risale almeno alla prima nave giunta alla roccia di Plymouth dopo il Mayflower, ciascuna generazione si lamenta che i migranti arrivati per ultimi sono peggiori di quelli che l'hanno preceduti, che non lavoreranno, non si assimileranno o che comunque sono inferiori per qualche ragione. Eppure, nonostante sia una nazione edificata grazie alla conquista e malgrado tutti i suoi contrasti, l'America è in continua evoluzione e trasforma sempre i nuovi immigrati in fette della sua metaforica "apple pie". [...] L'Unione Sovietica era una creatura completamente diversa, e le metafore alimentari non le si confanno. Essa era piuttosto una specie di Frankenstein con parti anatomiche mal assortite e impiantate a caso a partire dalla testa russa. Invece di assimilarsi e creare un'identità comune, le varie repubbliche, così differenti tra loro, furono assoggettate a un'unica cultura comunista sovietica (sempre che si possa parlare di "cultura") ricorrendo alla forza schiacciante della burocrazia e dei media. A dispetto di tutta la retorica bolscevica sulla superiorità del marxismo-leninismo, gli strumenti per edificare e conservare l'impero sovietico furono il terrore di Stato e la potenza militare. (pp. 88-89)
  • [Sulla crisi costituzionale russa del 1993] Fu una scena incredibile: il 4 ottobre una fila di carri armati sparò sulla Casa Bianca (come noi chiamiamo il palazzo del parlamento) e un incendio scoppiò agli ultimi piani. Le forze speciali assaltarono l'edificio e poi dispersero i rivoltosi in strada. Con la situazione di nuovo sotto controllo, Eltsin non perse tempo e approvò la riforma costituzionale, depotenziando il parlamento e dando vita a quella presidenza forte che è oggi il nostro più grande tormento. Non v'è dubbio che il Soviet supremo fosse un'istutizione antiquata, ma in un paese con una società civile così fragile è di vitale importanza che il potere sia distribuito in modo capillare. (p. 105)
  • Putin [...] non sa che farsene del popolo russo, soprattutto dei giovani istruiti. Lui e la sua giunta hanno trasformato il paese in un petrol-Stato, e le esportazioni di risorse naturali su un mercato globale insaziabile non necessitano di imprenditori o di manager, per non parlare di scrittori e professori. (p. 109)
  • Da anni mi sento ripetere che i russi (o gli arabi o i cinesi) non sono geneticamente predisposti alla democrazia, che hanno bisogno del "pugno di ferro" o che "amano i leader forti". È solo una delle tante teorie con cui chi è nato nel mondo libero maschera i propri privilegi, la propria inerzia e il proprio senso di colpa. Del resto come potrebbe essere vero, visto che Taiwan è abitata dallo stesso identico popolo eppure è una fiorente democrazia? Che dire ancora della Germania orientale rispetto a quella occidentale, o della Corea del Nord rispetto a quella del Sud? (p. 111)
  • Se Milosevic avesse accettato il trattato di pace di Rambouillet mesi prima, non ci sarebbero stati oltre un milione di profughi, migliaia di morti tra i civili e la devastazione della Serbia. Il presidente Milosevic invece silurò quell'accordo grazie all'esplicito appoggio della Russia, che si oppose categoricamente alla presenza di una forza internazionale di polizia in Kosovo. (p. 115)
  • Se è vero che la Russia esercitava una forte influenza sulle decisioni di Belgrado, allora il governo di Eltsin doveva essere ritenuto in parte responsabile della pervicacia con cui Milosevic portò avanti la sanguinosa politica di pulizia etnica. Se invece l'influenza della Russia era sopravvalutata, allora che senso aveva la frenetica diplomazia della spola del vicesegretario di Stato Usa Strobe Talbott? (p. 116)
  • Non è facile comprendere la natura del male incarnato da Milosevic, e non lo è mai stato. Milosevic era raffinato, intelligente e capace di relazionarsi con persone diverse in modo da conquistarle e indurle a fidarsi di lui. A quanto è stato riferito, lo staff di politica estera di Bush padre rimase sconcertato dalla metamorfosi dell'"amico" Milosevic, da cortese banchiere e burocrate a feroce nazionalista autore di pulizie etniche contro i suoi stessi cittadini. (pp. 118-119)
  • [Sull'annessione della Crimea alla Russia] L'invasione di Putin dell'Ucraina non diventa più tollerabile pensando che forse lui si è sentito minacciato dall'espansione della Nato. Dire agli ucraini che hanno provocato Putin perché lo hanno rifiutato e si sono invece avvicinati all'Europa è come dire a una donna violentata che dovrebbe indossare gonne più lunghe. Non perdiamo di vista chi è la vittima e chi è il carnefice! (p. 119)
  • Slobodan Milosevic probabilmente sarebbe stato un capopartito come tanti se le rivoluzioni del 1989 non gli avessero dato la chance di acquisire maggiore potere fomentando l'odio. A Milosevic fu data l'opportunità di crescere a tal punto da diventare il responsabile del primo genocidio in territorio europeo dalla fine della Seconda guerra mondiale. Sarebbe dovuto essere esautorato con la forza nel 1995 e invece gli fu data un'altra chance: lui ovviamente lo lesse come un segno di debolezza dei suoi oppositori e così colpì ancora qualche anno dopo. (p. 121)
  • La domanda di cambiamento che aveva portato milioni di cittadini sovietici in piazza tra il 1989 e il 1991 partiva dalla convinzione che un'alternativa più allettante esisteva davvero: bastava guardare l'Occidente. D'altro canto i miei compatrioti erano altrettanto convinti che i paesi occidentali avessero il dovere di aiutare la Russia. Quell'aiuto, tuttavia, non produsse quel grande balzo nella modernità in cui avevano tanto confidato i russi. La colpa ovviamente fu innanzitutto dei leader russi: sia dei cosiddetti riformatori sia di coloro che manovravano apertamente per creare una nuova élite russa con lo stesso potere e gli stessi privilegi dei predecessori sovietici. (p. 123)
  • [Sulla seconda guerra cecena] In verità quel conflitto fece soffrire tanta gente innocente, e solo in seguito si ebbe la conferma che la Russia aveva fatto un uso eccessivo della forza e compiuto crimini di guerra in Cecenia. La stampa russa, nelle mani degli oligarchi vicini a Eltsin che avevano garantito il loro appoggio anche a Putin, o meglio, che avevano creato Putin, dava una versione molto edulcorata dei fatti. Così l'opinione pubblica russa credette anche alla storia ufficiale secondo cui c'erano i ceceni dietro gli atti terroristici di Mosca e di Volgodonsk a settembre, per quanto mancassero le prove a conferma [...]. Tuttavia, pur alla luce di ciò che sappiamo oggi di quelle vicende, devo precisare che non è per lavaggio del cervello che i russi furono favorevoli all'invio dei soldati in Cecenia. Molti ribelli ceceni erano di fatto dei banditi che operavano anche in territorio russo e i cui metodi erano assolutamente medievali. Peraltro le loro attività non si limitavano al Caucaso e a qualche occasionale attacco terroristico al di fuori della regione. Le bande criminali cecene agivano in tutto il paese, per quanto non sarebbero mai diventate tanto potenti e pericolose senza l'appoggio dei loro affidabili "soci in affari" a Mosca. I russi vedevano dunque l'operazione militare in Cecenia come un mezzo per porre fine alla piaga della corruzione e della criminalità nelle loro città. (pp. 128-129)
  • [Sulle bombe nei palazzi in Russia] Nel 2000, [...] la Duma respinse per due volte la richiesta di un'inchiesta parlamentare sui fatti di Rjazan. Tutte le prove e i documenti interni collegati al caso furono poi secretati per un periodo di settantacinque anni. Per quanto mi renda conto di avere quella sana paranoia tipica di chi è nato negli Stati totalitari, mi sembrano reazioni eccessive per tre sacchi di zucchero. (p. 133)
  • Nonostante le clamorose discrepanze nella versione ufficiale dei fatti di Rjazan fossero ormai note anche in Occidente, nessuno volle ascoltare la verità. Fu un esempio tipico di vigliacco opportunismo: se si guarda in faccia la terribile verità si è obbligati ad agire, quindi è più facile ignorare i fatti, fare finta che sia una questione "controversa" e dire che si è molto "preoccupati" per le "accuse". Ciò si rende ancor più necessario quando si vuole tenere in piedi la farsa che il presunto alleato, in realtà un carnefice, stia operando in buona fede. (p. 134)
  • [Sulla battaglia di Groznyj] Alla fine di quella operazione, i giornalisti inviati lì riferirono di una città in condizioni ancor più gravi di quelle di Berlino nel 1945. Neanche un edificio era stato risparmiato, e nel 2003 le Nazioni Unite assegnarono a Groznyj l'infausto premio di "città più devastata della Terra". (p. 136)
  • [...] credo che Putin scelse deliberatamente di non demolire del tutto la democrazia russa fino alla morte di Eltsin. Malgrado tutti i suoi errori e i suoi scivoloni, Eltsin era un vero combattente per la libertà. Se avesse deciso di criticare pubblicamente le manovre dittatoriali di Putin ciò avrebbe avuto delle forti ripercussioni, che si sarebbero fatte sentire anche alle presidenziali del 2008. Con la sua morte, il 23 aprile 2007, però, Putin non sentiva più vincoli di alcun tipo. (p. 142)
  • Boris Eltsin ha sicuramente avuto la sua buona dose di colpe, ma era una persona vera, con i suoi vizi e le sue virtù. Pensavamo fosse un fantasma che ci avrebbe imprigionato per sempre nelle tenebre, invece le file chilometriche di russi in attesa di rendere omaggio alla bara di Eltsin in una cattedrale di Mosca dimostrarono che malgrado i suoi tanti fallimenti il popolo aveva scorto nelle sue azioni la possibilità di un futuro migliore. Un futuro ben diverso da quello che invece ci è toccato vivere con il suo successore. (p. 146)
  • Probabilmente Putin pensò che Berezovskij fosse troppo potente o sapesse troppe cose per rimanere in circolazione. L'oligarca conosceva troppi scheletri nell'armadio, e li conosceva perché ce li aveva messi lui stesso. Controllava inoltre diverse risorse strategiche, tra cui la compagnia petrolifera Sibneft e il canale televisivo Ort, più tardi ribattezzato Channel One. Putin sapeva che era molto più efficace controllare completamente i media invece di limitarsi a censurarli, così decise di eliminare gli intermediari. (pp. 155-156)
  • [Sull'incidente del K-141 Kursk] I media russi, in particolare la televisione di Boris Berezovskij, criticarono duramente l'intervento del governo, giudicandolo spietato oltre che inadeguato, il che corrispondeva a verità. Le immagini dei familiari in lutto che inveivano contro Putin e gli altri insensibili funzionari fecero capire a Putin quanto potessero essere pericolosi i mezzi d'informazione per la sua popolarità, ancora tutta da costruire. Manifestando istinti totalitari ben più radicati dell'amore per le riforme, Putin perseguitò le testate che avevano seguito la notizia invece di riorganizzare l'apparato militare che aveva causato quel disastro e pasticciato i soccorsi o di punire pubblicamente gli ufficiali incompetenti. (p. 158)
  • [Sull'Inno della Federazione Russa] Per quanto sicuramente preferisca il verso "la nostra fedeltà alla Patria ci dà forza" a "sconfiggeremo i barbari invasori" del 1944 o alla versione del 1977, "il sogno imperituro della vittoria del comunismo", è evidente e al tempo stesso sconcertanti il significato simbolico del ritorno alla melodia sovietica: le parole cambiano, ma la musica rimane la stessa. (p. 161)
  • Sacharov era il nostro Mandela, e senza di lui potemmo fingere di metterci i crimini dell'Unione sovietica alle spalle senza mai affrontarli veramente. (p. 178)
  • [Sulla crisi del teatro Dubrovka] L'unica conclusione certa da trarre da quella terribile tragedia era che la guerra in Cecenia non era cessata, malgrado i proclami di Putin, e che il suo regime non aveva un rispetto per la vita umana molto più elevato di quello dei terroristi: un punto che a quanto pare il governo voleva mettere in chiaro. (p. 188)
  • La Russia di Putin evidentemente non considera la morte dei suoi cittadini un reato grave del quale le autorità coinvolte debbano rendere conto. Il regime putiniano non soltanto decorò e promosse, nel silenzio generale, gli artefici dell'irruzione al Dubrovka ma previde anche una immunità sine die per chiunque eseguisse i suoi ordini immorali. Non esistendo un'opposizione organizzata nella società russa, nel decennio successivo l'autoritarismo dolce assunse gradualmente i tratti sinistri di una dittatura fascista. (p. 189)
  • Non sono sicuro se sia casuale o solo disgustoso il fatto che dall'inizio della guerra di Putin in Ucraina, nel 2014, il coro antisemita abbia ricominciato a farsi sentire anche al di fuori della spazzatura internettiana. Stando alla propaganda del Cremlino il nuovo governo democratico di Kiev era pieno di fascisti e nazisti, com'è bollato qualsiasi nemico dichiarato della Russia, e la Russia aveva quindi il dovere di intervenire per proteggere non soltanto quelli di etnia russa, ma anche i poveri ebrei! Per tutta risposta, l'Associazione delle comunità e organizzazioni ebraiche d'Ucraina scrisse una lettera aperta in cui si affermava che le dichiarazioni del presidente Putin sulla presunta ascesa dell'antisemitismo nel loro paese "non trovano riscontro nella realtà" e che "forse Putin ha confuso l'Ucraina con la Russia, dove le organizzazioni ebraiche hanno registrato un aumento dell'antisemitismo lo scorso anno". In Ucraina, peraltro, il tasso di violenze di matrice antisemita è più basso rispetto a quasi tutti i paesi europei in cui si effettua questo tipo di rilevazioni statistiche, tra cui Francia e Germania. Anche le leggende sugli oligarchi ebraici che "dirigono l'Ucraina" fanno parte della guerra di disinformazione del Cremlino, con l'intento evidente di spingere gli slavi russi presenti in Ucraina a levarsi contro di loro, o forse di lasciar fare il lavoro a Putin. (p. 191)
  • Con il caso Chodorokovskij-Yukos il regime putiniano istituzionalizzò il legame inscindibile tra diritti di proprietà e potere: se non sei al potere non puoi controllare le tue proprietà. Questo decretò, naturalmente, la fine della democrazia. Le elezioni dovevano essere truccate da chi deteneva il potere perché altrimenti, perdendo l'autorità politica, avrebbe perso automaticamente i propri beni. Quando giunse il momento delle presidenziali del 2004, Putin e i suoi sodali non vollero rischiare di essere sbattuti fuori dal Cremlino per colpa di una cosa tanto gestibile come un'elezione. (p. 196)
  • Le dittature avvertono l'esigenza perversa di seguire le procedure, di celebrare elezioni e processi anche se i risultati sono scontati. Il mondo libero tende a reagire a queste messinscene con una sorta di sospensione dell'incredulità: la Russia finge di avere un sistema elettorale e giudiziario e insieme a lei anche il mondo finge, occasionalmente esprimendo preoccupazioni di circostanza, facendo cenno a qualche irregolarità e tentando inutilmente di far provare vergogna a chi è senza vergogna. I dittatori prendono questi rumori di fondo per quello che sono, ossia patetiche tattiche di distensione, e vanno avanti per la loro strada. (p. 197)
  • [Sulla strage di Beslan] Due settimane dopo Beslan, Putin riunì tutti e ventinove i governatori della Russia insieme al suo esecutivo e parlò con loro per molte ore. Dopo qualche commento introduttivo su Beslan, Putin disse che la risposta a quell'accaduto doveeva essere una maggiore efficienza e unità a livello di governo e nel paese intero. Quelle parole hanno un significato ben preciso per chiunque studi i regimi dittatoriali, e questa volta non faceva eccezione. A parte le misure più prevedibili, come l'inasprimento delle leggi antiterrorismo e maggiori poteri alle forze dell'ordine, quelle riforme erano finalizzate a indebolire ulteriormente le istituzioni democratiche russe. Putin d'ora in poi avrebbe nominato direttamente i governatori: niente più elezioni. Le elezioni della Duma non sarebbero state più dirette ma si sarebbe votato per i partiti, assicurando così il seggio perpetuo ad alcuni personaggi già al potere. Altre leggi attaccavano le fondamenta stesse del sistema democratico in quanto rendevano più complessa la procedura di registrazione per i partiti. Naturalmente tutti questi provvedimenti non avevano nulla a che fare con Beslan, con la lotta al terrorismo o con null'altro che non fosse la volontà di Putin di centralizzare ulteriormente il potere al Cremlino. (pp. 212-213)
  • La risposta del governo agli attacchi terroristici del teatro Dubrovka e di Beslan e a ciò che ne seguì dimostra che il regime di Putin non era interessato alla fiducia o alla sicurezza del popolo russo. Putin non aveva bisogno del popolo né della sua fiducia: aveva il petrolio, il gas, il controllo totale dei media e del governo e un apparato di sicurezza in rapida espansione. A differenza che in una democrazia, dove la perdita di fiducia del popolo per l'amministrazione le costerà presto il posto, essere un dittatore significa non dover mai dire mi dispiace, e non dover mai nemmeno affrontare la questione. (p. 218)
  • Aiuti nucleari all'Iran, tecnologia missilistica alla Corea del Nord, equipaggiamento militare a Sudan, Myanmar e Venezuela, amicizia con Hamas: così Putin ripagava l'Occidente per aver taciuto per otto anni sulla questione dei diritti umani in Russia. (p. 233)
  • Il governo di Putin nel periodo di transizione dalla fragile democrazia alla dittatura vera e propria fu un caso unico nella storia. In parte era un'oligarchia, con la sua cricca di ricchi governanti uniti da solidi legami. In parte era un sistema feudale, ripartito in feudi semiautonomi in cui le gabelle erano racimolate tra i servi, totalmente privi di diritti, e in cui i vassalli pagavano i nobili di più alto rango. Su questo sistema era stata data una mano di vernice democratica, abbastanza spessa da far entrare la Russia nel G7 e da conservare il denaro dell'oligarchia al sicuro nelle banche occidentale. (p. 235)
  • L'ascesa di Vladimir Putin e del suo clan di San Pietroburgo è stata definita machiavellica, ma se ne trova una raffigurazione migliore nelle imprese di don Vito Corleone. La tela di tradimenti, i segreti, il confine indistinto tra affari, governo e crimine: è tutto descritto alla perfezione nei libri di Puzo. [...] leggendo Puzo si ha una visione più precisa del governo Putin: una rigida gerarchia, estorsioni, intimidazioni, un'immagine da duro, una sfilza di provvidenziali decessi tra gli oppositori, l'eliminazione dei traditori, il codice d'onore e di omertà e, soprattutto, la missione di far fluire i ricavi in continuazione. In altre parole: una mafia. (p. 236)
  • Per sette anni, dall'elezione di Putin fino al momento dell'assassinio di Litvinenko, i leader occidentali provarono a cambiare il Cremlino con parole gentili e condiscendenza. Pensavano di poter integrare Putin e il suo clan nel sistema di mercato regolare e onesta diplomazia del mondo libero. Invece accadde il contrario. Il Cremlino non avrebbe cambiato i suoi standard, ma li avrebbe imposti al resto del mondo. La mafia corrompe tutto ciò che tocca e barattare i diritti umani oggi comincia a sembrare accettabile. Come beneficio aggiuntivo, Putin e i sui compari ricevettero il marchio di legittimità dai leader e dalle aziende occidentali rendendo quegli stessi leader e aziende complici dei loro crimini. (p. 237)
  • I regime totalitari di ogni latitudine amano far credere ai loro cittadini che americani ed europei, per quanto si spaccino per paladini della democrazia e dei diritti umani, sono in realtà corrotti come i loro stessi leader. È dunque un danno enorme per la causa filo-democratica in Russia e altrove che una figura come Schröder, ex leader della terza democrazia industrializzata, si allei con tanto entusiasmo a dei tirannici masnadieri. (p. 240)
  • Medvedev, in quanto essere umano, era ed è assolutamente irrilevante. Ciò che serviva era l'idea di un Medvedev qualsiasi, ossia l'idea di un presidente giovane e liberale che avrebbe riportato il paese sulla strada della modernità. Possiamo quasi immaginarci Putin e la sua cerchia in un laboratorio a progettare il Medvedev ideale. Doveva avere la faccia pulita e lo sguardo brillante, parlare un gergo riformista a uso e consumo dell'intellighenzia e mantenere un'espressione impassibile mentre ammetteva garbatamente che le cose in Russia non erano perfette ma che sarebbero migliorate. Questo Medvedev, d'altra parte, non doveva avere una base di potere, idee o ambizioni sue proprie. Infine, doveva essere più basso di Putin e con ancor meno carisma. In effetti, un'alchimia rara da trovare. (p. 248)
  • Quando qualcuno che vive in una nazione democratica mi parla di sondaggi, programmi, campagne elettorali e altri elementi tipici delle elezioni in un paese libero, sono costretto a interromperlo subito. Nessuna di queste cose è mai esistita in Russia: non nel 2008 e ancor meno adesso. In Russia l'opposizione non cerca di vincere le elezioni: noi cerchiamo di avere delle elezioni. (p. 256)
  • Se Putin gode di tanto consenso popolare, perché non ci sono elezioni libere e regolari e una stampa indipendente? Perseguitare blogger e arrestare un manifestante che ne sta in piazza con un cartello anti-Putin non mi pare sia il comportamento tipico di un governante popolare. (p. 262)
  • Che i Nazarbaev, i Putin e i Khamenei di tutto il mondo si prendano ancora il fastidio di tenere delle elezioni è un enigma su cui vale la pena meditare. I dittatori di oggi hanno imparato la lezione dei loro predecessori e l'hanno integrata con le moderne tecniche di informazione e gestione dell'immagine. Comprendono l'alto valore simbolico del voto ma non hanno nessuna intenzione di rimettersi al suo giudizio. Il fatto che avvertano l'esigenza di indire le elezioni, per quanto spudoratamente truccate, dimostra tuttavia che le pressioni dall'esterno un loro peso ce l'hanno, e tradisce anche un forte desiderio di legittimazione, di essere considerati membri dei club dei leader legittimi. (p. 264)
  • Anna era una militante e partigiana almeno quanto era una giornalista, su questo non v'è dubbio, e non ne ha mai fatto mistero. La sua passione ha reso il suo lavoro ancor più prezioso e indimenticabile. (p. 266)
  • Le inchieste della Politkovskaja sulle atrocità in Cecenia di solito consistevano in conversazioni con le famiglie distrutte dalla guerra. La giornalista era anche una specie di confessore per i soldati russi, persino per alcuni ufficiali, che si vergognavano per quanto veniva fatto in Cecenia nel nome della Russia. Furono queste attività a fare di lei il nemico numero uno per parecchie persone e diversi gruppi di potere che avevano già dato prova svariate volte della loro spietatezza. (p. 266)
  • Quando Putin divenne presidente nel 2000 non figurava nessun russo nella lista di Forbes dei miliardari di tutto il mondo. Nel 2005 ce n'erano trentasei e nel 2008 erano saliti a ottantasette, più di Germania e Giappone messi insieme, in un paese in cui il 13% dei cittadini vive al di sotto della soglia di povertà, con 150 dollari al mese. Putin e i suoi simpatizzanti all'estero usavano quelle cifre per pubblicizzare la crescita del Pil russo, ma era come calcolare la temperatura media di tutti i pazienti di un ospedale. (p. 268)
  • [...] sarei pronto a scommettere che nell'universo in cui McCain è presidente Putin non invade l'Ucraina. McCain è spesso dipinto negli Stati Uniti come un guerrafondaio, ma la mano tesa in segno di amicizia non ferma una persona come Vladimir Putin, anzi la incoraggia. È tragico che migliaia di ucraini, come pure molti russi, stiano soffrendo oggi perché l'amministrazione Obama non ha ancora imparato quella lezione. (p. 285)
  • L'Europa non ha mai perso occasione per condannare Alexandr Lukashenko, bollandolo come "l'ultimo dittatore d'Europa": un'espressione che sicuramente susciterà l'ilarità del Cremlino. Le azioni repressive di Lukashenko, infatti, sono nulla in confronto di quelle di Vladimir Putin, ma immagino che immense riserve di petrolio, gas e denaro possono facilmente ripulire l'immagine di un individuo. Se fosse stato scoperto un grosso giacimento petrolifero nei pressi di Minsk, forse anche Lukashenko, come Putin, sarebbe stato invitato a cantare al karaoke con le star di Hollywood e ad andare alle feste con Silvio Berlusconi. (p. 297)
  • [Su 1984] L'aspetto più inquietante del romanzo orwelliano non è tanto l'onniscienza del Grande Fratello, quanto il controllo e la distorsione della lingua, in particolare mediante l'invenzione della "neolingua". Le parole assumono significati completamente opposti, quelle che esprimono idee non approvate vengono eliminate e il pensiero stesso viene ottenebrato dalla riduzione e semplificazione del vocabolario. Questa volontà di deformare la realtà attraverso il controllo dell'informazione non è fantascienza per chi è cresciuto leggendo la Pravda in Unione Sovietica o per chiunque viva oggi nella Russia di Putin. (p. 303)
  • [Su Edward Snowden] Non ne so molto delle sue rivelazioni, ma sicuramente avrei su di lui un'impressione diversa se non si fosse rifugiato in Russia, poiché con la sua richiesta di asilo tacitamente approvava il regime dittatoriale del suo gentile ospite, Vladimir Putin.
    La mia reazione non è dovuta soltanto alla prima dichiarazione di Snowden dalla Russia, mentre si trovava ancora in un limbo giuridico all'aeroporto Šeremetevo: in quella dichiarazione includeva la Russia di Putin – uno Stato di polizia, protettore degli autocrati di tutto il mondo – tra le nazioni che "prendono posizione contro le violazioni dei diritti umani perpetrate dai potenti, non da chi il potere non ce l'ha". Pardon? Sono sicuro che i tanti prigionieri politici di Putin non sono per niente d'accordo, come pure i tanti esponenti dell'opposizione le cui mail vengono violate e le telefonate registrate dal Kgb allo scopo di screditarli. Snowden avrebbe potuto mostrare un po' più di rispetto per tutti i giornalisti e gli informatori come lui che sono rimasti feriti o sono morti in Russia. (pp. 316-317)
  • Ciò che l'Europa ha da offrire sono piuttosto commissioni e tempistiche indefinite, pretendendo in cambio trasparenza e riforme dolorose. Putin offre denaro sonante e tutto ciò che vuole in cambio è la tua libertà e la tua anima. (p. 325)
  • A giudicare dai suoi ansiosi voltafaccia, Janukovyč voleva vivere come Putin ma non morire come Gheddafi. (p. 327)
  • Per tutta la durata delle proteste di Euromaidan, le autorità russe lanciarono accuse sempre più isteriche circa l'ingerenza di "agenti stranieri". Benché mancasse il minimo straccio di prova, il Cremlino accusò più volte i cittadini ucraini di essere stati addestrati e armati dall'America e di aver pianificato un golpe violento. Questo atteggiamento ricordava ciò che l'Unione sovietica pensava dei dissidenti: se eri contro di loro era soltanto perché eri una spia straniera, oppure perché eri pazzo. Il Cremlino non poteva accettare che gli ucraini, il popolo più vicino ai russi, stessero combattendo per la libertà. Come per la Georgia, sarebbe stato un cattivo esempio, che avrebbe potuto dare ai russi degli spunti pericolosi. (pp. 327-328)
  • [Sui XXII Giochi olimpici invernali] Come temevo, l'emittente che seguiva le Olimpiadi, la Nbc, e il Comitato olimpico internazionale si attennero al copione di Putin e presentarono i Giochi di Sochi come un passo in avanti verso la liberalizzazione della Russia. Per Putin i giochi furono dunque un mezzo per far dimenticare non soltanto i processi-farsa che si celebravano in Russia ma anche le virulente campagne antiamericane e antisemite degli ultimi decenni. Come potevano quelle notizie competere con atleti che pattinavano sul ghiaccio o con le partite di hockey? Il popolo ucraino, però, non volle recitare la parte che gli era stata assegnata e continuò a lottare per la propria libertà e la propria vita. Il suo coraggio è encomiabile, e le proteste di Euromaidan ci ricordano che, indipendentemente dalla deferenza che i leader stranieri possono mostrare verso un dittatore, il suo destino è segnato: egli è condannato a cadere in disgrazia presso il suo popolo. (pp. 329-330)
  • Putin voleva che le Olimpiadi di Sochi fossero per lui un'impresa modello Pietro il Grande, e che la sua amata località turistica diventasse un gioiello internazionale allo stesso modo in cui San Pietroburgo era stata trasformata in una capitale imperiale praticamente dal nulla. Putin sperava anche di risvegliare un po' di orgoglio patriottico con quel grande circo, da servire con lo spesso pane nero russo. È il genere di miraggio che si produce quando un despota confonde se stesso con lo Stato dopo essere stato per troppo tempo al potere. Mancanco i meccanismi di confronto di una stampa indipendente e di elezioni autentiche, il tiranno comincia a credere che la sua gloria personale equivalga alla gloria del suo paese e che ciò che rende felice lui renda felice anche il suo popolo. (pp. 331-332)
  • Non è a cuor leggero [...] che paragono una moderna dittatura personalistica, promotrice di una propaganda fascista, con una più antica, nel momento in cui annette pezzi di un vicino paese europeo ricorrendo al medesimo preteso di "proteggere i nostri fratelli di sangue". Non è per ingoranza o con un intento provocatorio conciliante dei moderni leader del mondo libero verso Putin al disperato, futile e in definitiva disastroso tentativo di distensione con Hitler negli anni Trenta. Sono schemi analoghi e similmente pericolosi; non si tratta di futili parallelismi tra due dittatorelli ciascuno con un deble per l'empietà. (p. 333)
  • La tattica di Putin si può facilmente equiparare a quella dell'Anschluss austriaca e dell'occupazione e annessione nazista del territorio dei Sudeti in Cecoslovacchia nel 1938. La retorica basata sulla difesa di una popolazione minacciata è la stessa, la stessa propaganda zeppa di calunnie, pretesti e accuse. Putin seguì altresì il modello di Stalin per la Polonia a Jalta: prima invadere, poi negoziare. (p. 335)
  • Il difetto fondamentale delle argomentazioni occidentali, che noi dell'opposizione chiamiamo "Putin non farebbe mai...", è che partono dal presupposto che Putin e la sua classe dirigente abbiano a cuore gli interessi nazionali. Non è così, ad eccezione solo di quegli ambiti in cui quegli interessi coincidono con il loro obiettivo, ossia depredare il paese di quanto più denaro e risorse possibile. È tempo di smetterla di farci propinare dai professori di Harvard e dagli esperti del think tank la lezioncina su cosa Putin non farebbe mai e di reagire invece a quello che sta facendo davvero. (p. 337)
  • Un conto è che accademici e analisti solidarizzino con Putin e il suo diritto di difendere i suoi "interessi vitali" nella "sfera di influenza" russa, dimenticando che magari cinquanta milioni di ucraini hanno qualcosa da dire al riguardo. Un altro è che Barack Obama, David Cameron e Angela Merkel si preoccupino per l'"instabilità" e i "costi elevati" delle sanzioni contro la Russia, come se questo scenario potesse essere peggiore dell'instabilità provocata dalla parziale annessione di un paese europeo da parte di una dittatura atomica, portata a termine nella totale impunità. (p. 341)
  • La tesi secondo cui l'unica alternativa alla capitulazione a Putin è la Terza guerra mondiale è da ingenui. Si poteva reagire, e si può sempre reagire, in cento modi diversi. Certo, le restrizioni finanziarie e di espatrio a carico dei solidali di Putin e delle loro famiglie e le pesanti sanzioni contro settori economici russi strategici possono procurare qualche danno alle economie europee. Tuttavia, se fino alla tragedia del volo malaysiano l'Europa si chiedeva quanto denaro valessero i suoi principi, adesso, dopo quella tragedia, è costretta a chiedersi quanto denaro valgono 298 vite umane. (p. 344)
  • [Sugli accordi di Minsk] L'umiliante fallimento dei due accordi di pace siglati a Minsk ha dimostrato che i leader del mondo libero non ammettono di non poter avere con Putin lo stesso rapporto che hanno tra di loro. Non può esistere una relazione normale e vantaggiosa per entrambe le parti. Egli sfrutta e abusa di qualsiasi gesto di apertura e non si sente in dovere di agire in base allo stato di diritto o ai diritti umani, dentro o fuori dalla Russia. Putin è una causa persa e anche la Russia lo sarà fino a quando lui non sarà andato via. È stato un errore fin dall'inizio trattare Putin come un leader come tutti gli altri, ma adesso non ci sono più scuse. (p. 347)
  • Come sempre Putin mente sulle piccole cose e intanto porta a compimento piani ben più ampi. Per un anno ha negato che ci fossero soldati russi in Crimea, poi in un documentario mandato in onda il 16 marzo 2015 egli stesso ha raccontato di aver dispiegato migliaia di uomini delle forze speciali nella penisola ucraina. Ovviamente nessuno ha potuto simulare stupore, dal momento che quella presenza era nota fin dall'inizio, grazie alle foto satellitari e alle immagini di soldati e armamenti russi postate da reporter, blogger e residenti locali sui social network. Questo dovrebbe insegnarci che razza di uomo è. Se Putin ha in mente un obiettivo, qualsiasi bugia, crimine o violenza sono accettabili pur di raggiungerlo, oltre che prevedibili. Dopotutto, lo aveva detto a chiare lettere cosa aveva intenzione di fare. Non bisogna poi lamentarsi di come si comporta. Del resto, è così che Putin ha gestito la Rusia per quindici anni. (p. 349)
  • Come sempre quando si tratta di fermare un dittatore, ad ogni esistazione aumenta il prezzo da pagare. I leader occidentali non perdono occasione per denunciare i costi che potrebbero derivare da un intervento in Ucraina ma non possono ignorare una verità storica incontrovertibile, e cioè che i costi reali dell'inerzia sono sempre più elevati. Ormai le uniche strade rimaste sono rischiose e complicate, eppure devono essere tentate. L'unico motivo serio per entrare in azione e fermare Putin oggi è brutalmente semplice: domani potrà solo andare peggio. (p. 350)
  • Il drammaturgo Havel – l'artista, il sognatore – aveva trascorso due terzi della propria vita sotto un regime comunista e sapeva bene che occorre lottare per la libertà con ogni arma e su ogni fronte. [...] In varie occasioni, durante e dopo il suo mandato, Havel fu criticato per non essere un governante efficace, per non essere riuscito a diventare un politico e un riformatore. Tuttavia, se diamo uno sguardo a ciò che ha realizzato, soprattutto avendo un occhio su Mosca, ci rendiamo conto che quelle critiche mancano il punto fondamentale. Havel fu presidente durante il crollo della Cecoslovacchia senza che fosse versata una sola goccia di sangue, e questo in un momento in cui la Jugoslavia era nel pieno di una spaventosa guerra civile. Egli aveva gettato le fondamenta per un sistema democratico libero dai legami con il passato comunista e il Kgb, mentre Boris Eltsin non era riuscito a sradicare la sclerotica burocrazia russa, la nomenklatura, lasciandosi dietro quindi un successore proveniente dal Kgb. Oggi, la Repubblica ceca e la Slovacchia sono democrazie prospere, mentre i russi stanno ancora lottando per la propria libertà individuale. I principi contano, i risultati contano e Havel ha avuto successo come pochi altri. (pp. 352-353)
  • Boris Nemtsov era un infaticabile militante e uno dei più esperti oppositori del governo di Putin, un ruolo che non era certo l'unico destino per lui possibile. Sindaco di successo a Nižnij Novgorod e abile membro del gabinetto e parlamentare, egli avrebbe potuto condurre una vita confortevole nella verticale del potere come una voce liberale di riforma puramente simbolica. Ma Boris non era fatto per lavorare per il regime di Putin. Aveva dei principi, eccome se ne aveva, e non poteva sopportare di vedere il nostro paese ripiombare negli abissi del totalitarismo. (p. 362)
  • Non possiamo sapere con esattezza quali orrori ci attendono, ma solo che ve ne saranno uno e poi un altro finché Putin resterà al potere. L'unico modo in cui potrà avere fine il suo dominio sarà se il popolo russo e le élite di Putin comprenderanno di non avere futuro finché egli resterà dove si trova. (p. 363)
  • Se [i leaders occidentali] desideranno realmente onorare il mio impavido amico [Boris Nemcov], allora dovranno dichiarare nei termini più netti che la Russia verrà trattata come il regime canaglia che è fino a quando Putin resterà al potere. Annullare la finta dei negoziati. Vendere armi all'Ucraina, che comporterebbe un prezzo politico insostenibile per l'aggressione di Putin. Dire a ogni oligarca russo che non vi sarà luogo sicuro per il suo denaro in Occidente finché egli continuerà a servire questo presidente. (p. 364)
  • L'Ucraina dovrebbe essere difesa come se condividesse una frontiera con ogni nazione libera del mondo. Questo significa munirla di armamenti con cui possa difendere i propri confini e di aiuti finanziari con cui possa stabilizzare l'economia che Putin sta provando a distruggere. Osservate più da vicino ciò che l'America e l'Europa ottengono dalla Russia – petrolio, gas, linee di rifornimento – e cercate dei sostituti. Ecco perché Putin teme il fracking e altre tecnologie che possano rendere l'Occidente meno dipendente dalle sue esportazioni energetiche. (p. 368)

Explicit

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L'anti-modernità è un virus pericoloso e per debellare un virus non bastano un riavvio e un reset. Dobbiamo costruire un sistema fondato su valori che sia abbastanza forte da resistere al virus dentro casa, abbastanza intelligente da arrestarlo prima che si diffonda e abbastanza coraggioso da estirparlo lì dove prolifera.

Citazioni su Garri Kasparov

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  • È convinto che un regime come quello di Putin non potrà resistere alla prova dell'ammodernamento perché si basa su valori negativi: la menzogna, l'ipocrisia, l'ingiustizia. Da uomo intelligente, però, sa che il suo movimento è all'insegna della testimonianza. (Demetrio Volcic)
  • In Russia gli scacchi non sono un passatempo d'élite come in Occidente ma uno dei divertimenti principali della popolazione e Kasparov, che a ventidue anni è diventato il migliore del mondo, è qualcosa di più di un campione: è un modello da imitare. Egli ha la capacità di ricordare migliaia di partite dei maestri del passato, fantasia nelle combinazioni, sa prevedere cinque o sei varianti della propria risposta, immaginare gli sviluppi della partita, elaborare piani e sorprese. (Demetrio Volcic)
  • Kasparov è un giocatore geometrico, ma allo stesso tempo, e a differenza di molti altri, non inizia una partita con una tattica prefissata. [...] Kasparov è un giocatore duttile, sa essere solido nello schieramento del suo esercito riuscendo a ottenere attacchi fulminei e letali. Giocare con lui significa provare a perdere gustandosi il proprio macello scacchistico o – ma solo se lui vorrà – lasciarsi guidare nel gioco come una novizia viene iniziata al tango da un ballerino professionista. Non danzerà bene ma almeno si divertirà. (Roberto Saviano)
  • L'unico che mi piace proprio per la mancanza di evidenti ambizioni politiche è Garri Kasparov. Di coloro la cui voce si è fatta sentire dopo Beslan, è stato l'unico che ha reagito in modo adeguato e dignitoso. (Elena Tregubova)
  • Non ha paura di niente, è un uomo pulito, e il potere lo sa, tanto che gli hanno fatto capire chi comanda quando lo hanno trattenuto per due ore al controllo passaporti dell'aeroporto. Era un modo per dirgli che non vale niente, anche se tutto il mondo conosce la sua faccia. Spero solo che non gli facciano fare una brutta fine. (Elena Tregubova)
  • Sicuramente il ruolo di Kasparov ha perso d'importanza dopo la sua emigrazione. Ma sono felice del fatto che stia, come prima, cercando di influenzare la politica russa, seppure dall'estero sia più complicato. Spero che sarà possibile per Garri tornare a casa un giorno. Il suo intelletto, la sua esperienza politica e di vita sono senza dubbio necessarie. (Il'ja Jašin)
  • Aveva un modo di giocare politico. Un grande campione, con colossali conoscenze. Uno scacchista aggressivo, d'attacco. Ha sempre giocato prendendo l'iniziativa e non può giocare senza farlo. Una mentalità certamente politica ma che per lui, sulla scacchiera, ha anche significato una certa unilateralità.
  • La politica, secondo me, non è affare per lui. E poi la politica vuol dire divisione, non unione. Un uomo politico è uomo di gruppo, di partito. Ed è questa la contraddizione perché Kasparov avrebbe potuto essere un ottimo re ma non lo è mai stato, pur essendo uno scacchista meraviglioso.
  • Una volta che si è diventati re degli scacchi ci si deve comportare in maniera adeguata e Kasparov non è mai diventato veramente un re. Per il monarca scacchistico diventare un politico è un fatto talmente meschino e umiliante.

Note

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  1. Citato in Davide Maria De Luca, Chi era Boris Nemtsov, Il Post.it, 28 febbraio 2015.
  2. Citato in Karpov: “Io e Kasparov eravamo più forti di Carlsen”, unoscacchista.com, 7 settembre 2019.
  3. Tweet del 16 febbraio 2024; citato in La scelta consapevole di morire per la libertà, ilgiornale.it, 17 febbraio 2024.
  4. Tweet del 20 agosto 2024

Bibliografia

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  • Garry Kasparov, Gli scacchi, la vita. Lezioni di strategia dal campione che è diventato il principale oppositore di Putin, traduzione di Maria Cristina Bitti, Mondadori Libri S.p.A., Milano, 2020, ISBN 978-88-04-73239-6
  • Garry Kasparov, L'inverno sta arrivando. Perché Vladimir Putin e i nemici del mondo libero devono essere fermati, traduzione di Valentina Nicolì, Fandango Libri s.r.l., 2016, ISBN ISBN 978-88-6044-481-3

Voci correlate

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Altri progetti

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