Demetrio Volcic

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Demetrio Volcic negli anni novanta

Demetrio Volcic (1931 – 2021), giornalista e politico italiano.

Citazioni di Demetrio Volcic[modifica]

1993[modifica]

  • La verità è che oggi non c'è più una sinistra pronta a scendere in piazza per tutte le buone cause di turno. Il pacifismo è morto, ucciso dalla fine della guerra fredda perché si esercitava contro le grandi potenze, preferibilmente se erano gli Stati Uniti.[1]
  • [Sulla penisola balcanica] Qui la violenza è una maledizione, arriva con tutti i conquistatori. Pensate ai turchi che hanno insegnato la raffinata tecnica dell'impalare. E poi c'è sempre il momento della "revanche": al genocidio praticato dai croati nel '41 segue quello dei serbi nel '45. La memoria storica è lunga, talvolta ha bisogno di cinque secoli, talvolta gli bastano pochi giorni a cui seguono delle decelerazioni. E i Balcani sono un mosaico non ricomponibile, che però per secoli ha svolto il ruolo di cordone sanitario, ha protetto l'Europa dalle invasioni. [...] È una terra che non ha mai conosciuto la pace.[1]

1996[modifica]

Da «A Mosca si lotta sul dopo-Eltsin»

Intervista di Umberto De Giovannangeli, L'Unità, 22 agosto 1996

  • Alexandr Lebed ha compreso che per uscire dalla trappola cecena non basta più riproporre al tavolo delle trattative la consunta formula "soldi per la ricostruzione più una forte autonomia". L'ex generale dei parà potrebbe anche accarezzare l'idea di uno strappo "alla De Gaulle", la Cecenia come l'Algeria, ma deve tenere conto degli orientamenti opposti dei suoi potenti avversari al Cremlino, a cominciare dal premier Viktor Cernomyrdin.
  • La guerra in Cecenia è il riflesso di uno scontro più generale che investe il futuro stesso della Russia, i suoi assetti istitituzionali, economici, gli equilibri tra i poteri.
  • Per un anno e mezzo le pallottole russe hanno «stranamente» evitato Dudaev, salvo poi correggere la mira, ed eliminarlo, quando ciò era divenuto utile per fini elettorali.
  • Eltsin ha sempre governato con il metodo dell'esasperata concorrenzialità tra i suoi collaboratori: tutti avevano le potenzialità, la forza intellettuale per poter fare qualcosa, per «lasciare il segno», ma per poter realizzare i propri disegni dovevano necessariamente invadere il «giardino» altrui. Ma questo avrebbe scatenato, come sempre è avvenuto, una controreazione che, a sua volta, rendeva indispensabile l'arbitrato del numero uno, del Presidente. Su questa sorta di «divide et impera» Eltsin ha costruito le sue fortune politiche, garantendo, sia pur tra mille contraddizioni, una transizione non traumatica per la Russia.

1997[modifica]

Da «Tirana, una miccia per tutti i Balcani»

Intervista di Umberto De Giovannangeli sulla anarchia albanese del 1997, L'Unità, 15 marzo 1997

Squadra antisommossa in Tirana
  • Vi è innanzitutto la sensazione diffusa tra la gente -e questo vale a Tirana, come a Belgrado e Sofia - che con una protesta di vaste dimensioni sia possibile modificare gli equilibri politici. Il dato ideologico e quello religioso sono secondari. Motivo scatenante della rivolta in Albania è il fallimento dell'"illusione del benessere" generata in centinaia di migliaia di persone dalle società finanziare fallite.
  • Queste società finanziarie avevano dato l'illusione agli albanesi di poter vincere ogni mese al Totocalcio, insomma di potersi arricchire tanto e in breve tempo.
  • Ricordiamo [...] che in Albania si era creata una sorta di "società corrotta" nella quale non era più chiaro il limite tra lecito e illecito. A tutto ciò va aggiunto l'elemento regionale e la diversità del dialetto: il regime di Enver Hoxha aveva reclutato i suoi quadri dirigenti nel Sud, mentre tutto l'entourage di Sali Berisha è del Nord. Esiste, infine, un'altra ragione di fondo che sta alla base della crisi albanese: il riemergere di costumi, strutture comunitarie e centri di potere locali "ibernati" nei cinquant'anni di "socialismo scientifico" e che oggi tornano alla ribalta, dominando la scena.
  • La Tv semplifica la realtà, la frantuma, in alcuni casi la sublima. E gli albanesi è attraverso i messaggi televisivi, e non la scuola, che hanno acquisito quello che ritenevano essere l'essenza, il tratto peculiare e più appetibile del modello di vita occidentale: il consumismo. Purtroppo gli albanesi hanno recepito più la pubblicità che il dibattito che si sviluppava, a volte, tra uno spot e l'altro. Insomma, anche loro come gli altri popoli dell'ex impero sovietico hanno introiettato un'idea fasulla dell'Occidente.
  • A Nord e al Sud i prigionieri sono stati liberati e ognuno di loro possiede qualche kalashnikov, persino i "signori della guerra" esporessi dalla rivolta non sono in grado di dominare l'anarchia. Non esistono fronti e si arriva a una conclusione amara: lo scontro bosniaco fu giostrato con le regole europee che qui del tutto mancano.

1999[modifica]

  • [Su Boris Nikolaevič El'cin] Ha saputo inventare un marchingegno, la guerra in Cecenia, con cui unire le forze nazionali. È un fenomeno non nuovo nella storia, intendo dire lo spostamento a destra di una nazione intera, in concomitanza con il verificarsi di certi avvenimenti. Ne sono esempi l'ascesa di Mussolini in Italia, di Hitler in Germania, di Milosevic in Serbia. La specificità russa odierna è che il gioco è riuscito non ad un capo carismatico in ascesa, ma ad una figura al tramonto. Questo dimostra l'esistenza in Russia di un forte senso collettivo di frustrazione nazionale che va in cerca di una rivalsa.[2]
  • Putin è quanto di meno russo si possa immaginare. Conduce vita ritirata, non beve vodka, è un cultore della lotta giapponese. A differenza di Primakov e di Stepashin, che Eltsin designò come successori per poi sbarazzarsene, con Putin il rapporto sembra più serio. Anche perché, non dimentichiamolo, la scelta di Putin ha coinciso con l'affondo delle operazioni belliche in Cecenia. In una situazione economica critica, e con un programma politico carente nei risultati concreti, bisognava inventarsi un nemico. Eltsin puntò su Putin per questa operazione.[2]

2014[modifica]

Da «Il Caucaso è l'Iraq di Vladimir Putin»

Intervista di Umberto De Giovannangeli sulla seconda guerra cecena, L'Unità, 3 settembre 2004

  • Per Vladimir Putin il Caucaso è ciò che per George W. Bush è oggi l'Iraq: un pantano insanguinato da cui è molto difficile uscire indenni. Così come il presidente Usa, anche il leader del Cremlino non ha una strategia di uscita né militare né tanto meno politica.
  • La rivolta cecena dura da molti anni ed è cresciuta, si è rafforzata e a cambiato di tono: da una rivolta nazionale è diventata qualcosa di diverso ma soprattutto ha acquistato questa forma di estremismo islamico e dunque anche è stata copiata in questo contesto la strategia degli estremisti islamici. Pertanto oggi possiamo dire che il modo di combattere dei ceceni, la loro guerriglia oggi è divenuta praticamente uguale a quella che usano Bin Laden e i suoi alleati.
  • Quando i ceceni si opponevano ai russi nelle battaglie frontali perdevano, avevano molti morti; adesso hanno scoperto la strategia nuova, propria del network terrorista di Al Qaeda e dei gruppi radicali mediorientali, e dunque sono molto più pericolosi e difficili da affrontare.

2015[modifica]

Da "In Russia ho incontrato la Storia e ho perso le mie illusioni da ragazzo"

Intervista Antonio Gnoli, Repubblica.it, 6 dicembre 2015

  • La storia è sempre più astuta dei suoi protagonisti. C'era Tito nel suo ardore di partigiano. In seguito illuminato dal gesto di volersi sottrarre al dominio sovietico. Vidi quest'uomo passo dopo passo creare quel potere che nelle dittature mostra il suo lato paranoide. Belgrado era una selva di microfoni nascosti ovunque. A un certo punto il sistema di controllo impazzì. Tutti erano spiati. Perfino Tito e sua moglie Jovanka.
  • Il totalitarismo fu una scorciatoia alla modernità. Lenin intuì che il comunismo erano i soviet più elettricità. Stalin ci aggiunse l'industria pesante. Krusciov esportò l'utopia tecnologica nello spazio e Breznev immobilizzò tutto questo. Congelò l'intero paese come nella migliore tradizione dell'inverno russo.
  • La Russia ha sempre conservato un rapporto speciale con il potere, visto come una sorta di padre collettivo, amato anche quando si mostrava, come spesso accadeva, duro e crudele.
  • La Russia non è un paese lineare. La modernizzazione è avvenuta a tappe forzate. E il sottofondo zarista non è mai stato del tutto cancellato. Questo significa che le menti più sveglie difficilmente sanno adattarsi alla situazione.
  • La vodka scorre nelle vene russe al posto del sangue. Ho sempre pensato che le utopie sbiadiscono nell'alcol. L'Unione Sovietica ne è stato un esempio sommo. E pensare che lì per decenni si era creduto che fosse nata una figura nuova: l'"homo sovieticus".
  • Un paese che è stato grande non rinuncia facilmente ai suoi sogni imperiali. Ho visto e conosciuto bene Gorbaciov e poi Eltsin. Nel periodo della perestrojka divenne di moda tra gli alti dirigenti del partito trovarsi qualche parente che fosse stato perseguitato dalla repressione. La verità è che il potere non muta la sua natura e c'è sempre un nuovo padrone dietro la porta pronto a entrare. Non bussa, non chiede permesso. Sfonda e irrompe.

Sarajevo. Quando la storia uccide[modifica]

Incipit[modifica]

La paura si personalizza. Incontri a Sarajevo persone dal vestito trasandato e dalle scarpe troppo pulite. Con una passione annormale puliscono ogni mattina l'unico paio che possiedono, avvertono ogni tanto dolori nel tallone o sentono un ginocchio che non funziona. Sono coloro che temono di perdere la gamba.
Se trovi per strada uno che corre ingobbito con la testa incassata, sai che soffre della sindrome di prendere un colpo di testa.
La terza paura riguarda una parola con tre lettere che tanta parte ha sempre svolto nei Balcani, nož, il coltello. La gente passeggia tranquillamente per le strade mentre scoppiano intorno le bombe, ma subito si nasconde in cantina se si sparge la voce che alcuni cetnici si sarebbero infiltrati attraverso le linee bosniache a Sarajevo, per consumare vendette personali.

Citazioni[modifica]

  • La Bosnia è l'unica delle ex repubbliche jugoslave a non avere una maggioranza etnica. Sembra una miniatura della vecchia jugoslavia. Vi convivono il 43 per cento circa di musulmani, il 32 per cento di serbi e il 17 per cento di croati. Solo in poche zone esiste una netta compattezza etnica. I 4,3 milioni di anime sono sparsi a pelle di leopardo. (pp. 7-8)
  • A Zagabria e Belgrado considerano la nazione bosniaca una delle tante invenzioni di Tito. Che nazione può essere, se non possiede una propria lingua ma è costretta a usare il serbocroato? Solo il machiavellismo comunista poteva inventare un gruppo così; lo faceva anche Stalin. Dando alla Bosnia lo status di una repubblica federale Tito puniva la Serbia senza premiare i croati. Questi durante il nazismo si erano impossessati della regione inventando a loro volta la categoria dei croati-musulmani. (p. 9)
  • [Su Alija Izetbegović] Si piega e si spezza; più che un protagonista è una vittima con le stigmate della sua terra, da sempre definita «triste Bosnia». (p. 12)
  • [Su Radovan Karadžić] Sembra uno di quelli che si mettono a consultare libri per risolvere il proprio caso. Si considera un poeta, un grande poeta. Se leggesse queste righe rimarrebbe offeso da una sola affermazione: i suoi versi sono roboanti e zoppicano. Ha avuto «una visione terribile, con la città che brucia come l'incenso, come le nostre coscienze e consapevolezze che se ne vanno in fumo». Nelle sue poesie compaiono «pioppi come fossero carri blindati e armati». (p. 32)
  • È simpatico, parla e parla, altissimo con una chioma leonina di capelli brizzolati, lineamenti assai regolari, profilo da icona bizantina. Rappresenta quel tipo balcanico che piace in Occidente e che ha acquisito larga fama presso le signore attempate dei salotti di Parigi e di Londra, che in modo non disinteressato promuovevano giovani talenti da lontano. Karadžić si era adeguato all'immagine che gli veniva richiesta. (p. 33)
  • Il generale Radko Mladić è una contraddizione vivente di cento chili, quanti ne pesa. La sua faccia larga, compatta è aperta quasi sempre al sorriso. A prima vista ispira fiducia, ma gli stessi alti funzionari dell'Onu, coloro che più lo hanno frequentato nel '93, sono divisi nel giudizio. (p. 34)
  • Lo stupro di circa 20.000 donne musulmane era sistematico, e fa parte di una politica deliberata, volta a creare attraverso la pulizia etnica lo spazio per la «grande Serbia». Lo stupro è uno strumento cosciente demoralizzazione della gente. (p. 36)
  • La gente muore senza motivo. Non è una guerra, perché non sono colpiti gli obettivi militari, ma non è nemmeno una battaglia di trincea. È soltanto una violenza gratuita e indiscriminata, assassinio. In Bosnia la guerra probabilmente finirà quando saranno finiti i musulmani.
    Il presidente Izetbegović paragona la sua Sarajevo al ghetto di Varsavia, a Leningrado accerchiata dalle truppe naziste, a Madrid repubblicana che si difende dai franchisti. I paragoni storici funzionano come etichette. Fotografano la situazione nuova da mettere a confronto con un'immagine già acquisita; ma non sempre il paragone regge. Gli ebrei del ghetto avrebbero voluto fuggire e così gli abitanti di Leningrado. A Madrid i cannoni di Franco aprivano la strada alla fanteria che voleva conquistare la capitale. I serbi potrebbero occupare la città in poche ore se non avessero preoccupazioni di natura politico-diplomatica. I bosniaci vogliono restare, per non rendersi complici della pulizia etnica. (p. 42)
  • Kossovo è racconto, mito, favola, complesso, spirito, etica dei serbi, soprattutto degli ultimi che puntano le carte sul nazionalismo, che vogliono la terra e le mura senza curarsi della popolazione che nel frattempo è cambiata. La storia è vecchia e lunga. (p. 65)
  • Non è nemmeno del tutto chiaro chi vinse la battaglia di Kossovo. L'impero serbo-bosniaco continuò per altri decenni, ma un numero crescente di dignitari accettarono come vassalli la supremazia di Istanbul.
    La leggenda invece visse una sua vita indipendente.
    In alcune varianti esiste l'elemento biblico dell'ultima cena. Lazar pronunciò le ultime parole, descrisse le virtù dei commensali, la loro signorilità e bellezza e infine consegnò il suo boccale al più grande dei grandi, in cui tuttavia già sospettava il Giuda traditore. Continuando sul versante religioso, Lazar volutamente scelse il regno dei cieli, «perché quello di terra è piccolo e invece il reame dei cieli viene dai secoli e si prolunga in essi».
    La battaglia è recepita come un rito sacrificale, ma non come un suicidio. Il principe avrebbe combattuto fino all'ultimo, fino a uccidere un «drago», Murat I e poi accettare la corona di martire, come racconta la monaca Jefimija. Su questo filone mistico-religioso ha camminato ogni tanto l'esercito serbo. (p. 66)
  • È difficile pensare che da noi qualcuno oggi ricordi il sacco di Costantinopoli. Invece è facile che un contadino serbo sappia ciò che avvenne nel 1204, durante la quarta calata dei crociati. Glielo ricordano i canti epici. L'apparizione di un cantastorie con la sua gusla, strumento monocorde, fino a qualche decennio fa raccoglieva in una piazza serba più spettatori che un incontro di calcio in Tv. (p. 68)
  • La Jugoslavia avrebbe potuto durare ancora per decenni, la sua fine non era inevitabile. Le esperienze, scartate dalla storia, a posteriori sembrano più deboli di quanto non lo fossero in realtà. Tuttavia in settant'anni le radici non hanno attecchito, nonostante l'ideologia, migrazioni e molti matrimoni misti. (p. 85)
  • Per l'Occidente Tito era una garanzia contro la penetrazione del socialismo reale e una fonte di inquinamento ideologico nella stessa direzione. (p. 89)
  • Il totalitarismo raggiunge la sua meta quando non si vede più. Come riguardo alla morte; la gente pensa si tratti di una vicenda che interessa il vicino. (p. 129)
  • Buona parte dei serbi vive la guerra come legittima, perché sentiva la Jugoslavia come il proprio Stato nazionale, senza porsi la domanda se la visione granserba andasse bene anche ai croati, agli sloveni, ai macedoni. Per i serbi si tratta di traditori che hanno colpito alle spalle i fratelli e dunque non meritano che il disonore. Bisogna salvare dai loro artigli gli ostaggi serbi. (p. 133)
  • Ci sono due Slobodan Milošević. Il primo è un uomo politico realista, capo del partito nazionale, già alto dirigente del partito comunista serbo. Una delegazione di studenti di Belgrado voleva incontrare questo primo Milošević, tra l'altro per chiedergli di mettersi da parte dopo una sparatoria contro i giovani scesi in strada. Si è trovata davanti il secondo Milošević, dal comportamento sfasato: come se vivesse in un mondo tutto suo; una figura di stampo folkloristico, popolar-religioso. (pp. 133-134)
  • Il politico Milošević prima o poi lascerà la scena. Il Milošević del mito avrà un posto molto più profondo nella coscienza collettiva, checché ne dicano gli intellettuali. (p. 135)
  • Se Tito avesse ceduto nel 1970 alle pressioni di Zagabria, Lubiana, Belgrado, forse avrebbe salvato qualcosa, ma forse avrebbe solo accelerato i processi in corso. Patriarca ottantenne, più simbolo che realtà, ritirato nella sua isola di Brioni, non poteva invece operare una nuova virata. E forse né lui, né altri avevano ulteriori conigli nel cilindro. È morto al momento giusto, senza dover assistere ancora in vita alla demolizione della propria opera. (p. 166)
  • Tito credeva fino in fondo all'amicizia fra i suoi popoli, usciti da una guerra di liberazione ma anche da una guerra civile? Sfogliando gli appunti di allora, ho l'impressione che avesse sempre risposto brevemente e con retorica sbrigativa, dando per scontata la pace conquistata con la guerra partigiana. Su altre questioni meno controverse era capace di attaccare bottoni interminabili.
    L'equilibrio tra etnie era il risultato di debolezze compensate. Per raggiungerlo, bisognava frenare la componente più forte, quella serba. Su che vulcano Tito stesse seduto si capisce oggi. (p. 167)
  • [Sulla Guerra dei dieci giorni] Nessuno Stato al mondo è nato in questo modo e a un prezzo così basso. Meno di trecento fra morti e feriti. (p. 169)
  • La Slovenia rappresenta un campo di osservazione utile. Tutte le crisi del postcomunismo sono presenti, ma in forma attenuata. Negli ultimi decenni la Slovenia era considerata la baracca più ordinata del lager socialista; oggi è una delle poche realtà a cui potrebbe riuscire il salto nell'Europa. (pp. 178-179)
  • Una certa dose di nazionalismo è sottintesa nella battaglia per l'indipendenza, basata sulla sensazione che gli sloveni sarebbero vissuti meglio da soli che legati ai Balcani. Il nazionalismo spinto per il momento è un fenomeno minoritario. L'orgoglio di avercela fatta non è sfociato in un'esaltazione collettiva come tra i vicini croati, né ha prodotto punte di fanatismo come in alcune repubbliche ex sovietiche. La Slovenia razionale rassomiglia piuttosto ai tre popoli baltici. (pp. 181-182)
  • Se si parla di uno Stato provvisorio, sospeso tra una possibile guerra con i vicini e una guerra civile, un Paese a lungo senza un nome, definito spesso dai giornali polveriera europea, è subito chiaro per tutti che ci si riferisce alla Macedonia. (p. 197)
  • Quando Tito non sapeva a chi affidare un posto delicato, tra un serbo e un croato spesso sceglieva un macedone e non sbagliava quasi mai. (p. 197)
  • La Macedonia, come tante altre realtà non solo dei Balcani, starebbe meglio in un piccolo o medio impero multinazionale, ma ormai è troppo tardi. Una creazione artificiale? La sua invenzione fa parte della politica nazionale comunista. Tito, non desiderando una Serbia troppo estesa inventò la nazione macedone, la cui lingua, almeno questo è un dato incontrovertibile, rassomiglia a quella che si parla nei sobborghi di Sofia.
    Esisteva tuttavia un'identità, una specificità macedone. Tito fece codificare ai suoi linguisti l'idioma scritto, forgiato sul dialetto locale e invitò i macedoni a cercarsi anche un passato. Dal grande magazzino della storia presero ciò che più faceva loro comodo, anche Alessandro Magno e suo padre Filippo, entrando così in rotta di collisione con la Grecia. (p. 198)
  • Ai macedoni slavi non sono simpatici gli albanesi. Sono cordialmente contraccambiati. Malvisti i turchi e cacciati via gli zingari se si avvicinano troppo ai tavoli dei caffè. Per il resto tutto bene. (p. 199)
  • [Sulla Macedonia del Nord] Negli anni Venti, un geografo positivista, camminò per le vallate chiedendo alla gente se si considerasse serba, bulgara, greca, albanese. Nella maggior parte dei casi ricevette la risposta: siamo macedoni.
    Qualche vecchio prete dalla barba bianca, in uno degli innumerevoli monasteri, avrà nostalgie bulgare. Un giovane di Skopje, specie se di ceppo slavo, non avrà difficoltà a definirsi macedone. Che l'invenzione comunista di creare una nazione separata, dove prima esistevano soltanto serbi e bulgari, non sia artificiale è dimostrato da un caso analogo sui confini con la Russia.
    Per sottrarre la Bessarabia ai romeni, Stalin inventò una repubblica moldava. Promosse, come fece Tito con la Macedonia, il dialetto locale a lingua scritta, esaltò la diversità fra Bucarest e Kišinev diventata capitale.
    La differenza sta in questo: scomparsa l'Urss naturalmente si ricompongono i legami con Bucarest e l'unificazione è solo una questione di tempo. Scomparsa la Jugoslavia nessuno in Macedonia sogna un futuro bulgaro. (pp. 202-203)
  • [Su Ibrahim Rugova] Ha dimestichezza con la semiotica acquisita a Parigi girando intorno a Roland Barthes; fisicamente potrebbe essere un barbiere o un professore (nei Balcani si rassomigliano) condannato alla fama eterna. Occhi lucidi e cinquanta chili di peso. Auspica, e per il momento riesce ancora a imporre, la resistenza passiva contro l'esercito serbo e il potere federale sul Kossovo. Ormai ha scartato la pura e semplice «autonomia». (p. 205)
  • La Nato ha speso miliardi di miliardi senza sparare un solo colpo nei suoi quarantaquattro anni di esistenza. Un militare, probabilmente, prova qualche frustrazione, un senso di inutilità, benché sappia che la guerra non scoppia anche perché lui fa la guardia al bidone. La Nato fu attrezzata come contrappeso al Patto di Varsavia, ora deve cambiare obiettivi e sarà impiegata nell'azione in Bosnia, per la prima volta fuori dai confini dei Paesi membri. (pp. 218-219)
  • In Bosnia si consuma una guerra che ha insieme elementi di secessione e di scontro tra gruppi etnici.
    La Bosnia si trova in una situazione estrema per altre dimensioni che possono attenuare o inasprire un conflitto: popolazioni estremamente battagliere, memorie storiche pesanti, una configurazione sfavorevole del terreno con lunghe esperienze di guerriglia. (p. 221)

Est. Andata e ritorni nei paesi ex comunisti[modifica]

Incipit[modifica]

I Balcani sembravano una Brutta addormentata in attesa che il principe tornasse dai giochi della guerra e la baciasse, o che la svegliassero le trombe e i fischietti usati dagli studenti di Belgrado e di Sofia. A quanto pare, l'operazione è riuscita. Ora la bruttina malvestita, talvolta affamata, abituata a tristi vicende - le tre «m» del transito faticoso: mafia, miseria e malessere -, cerca una cosa chiamata Europa.
Nel centro dell'ex impero governa un re, quasi uno zar, al quale un tempo faceva male il cuore, ora i polmoni. La sua gente, che sperava che la situazione si fosse aggiustata con qualche by-pass, dimostra ormai di aver perso la fiducia, ma non dispera.

Citazioni[modifica]

  • In Serbia si è rotto un incantesimo. Una nazione che sembrava partita per un viaggio collettivo verso il nazionalismo all'improvviso scopre di non poterne più e questa sensazione si precisa in mesi di manifestazioni quotidiane nelle piazze della capitale. E poi si scarica questa tensione sul nemico esterno-interno, sugli albanesi del Kosovo. (p. 8)
  • In Albania la febbre della ricchezza ha indotto i contadini a vendere i poderi, convinti della possibilità di condurre una vita migliore grazie ai proventi dei depositi bancari. Ora spetta al nuovo governo di organizzare qualche salvataggio mentre la gente fugge. (p. 9)
  • Nei racconti dei russi figurano nonni ammazzati, spostamenti dall'Europa alla Siberia e ritorno, padri internati nei lager, parenti scomparsi durante la guerra, altri lager, fame, separazioni e ricongiungimenti dopo decenni. Questo è il loro mondo, da cui si impara forse solo un po' di modestia e di misura. (p. 18)
  • Nel momento della felicità si dimentica che congiure e misteri continueranno finché esisterà il Cremlino. Quasi fosse un luogo maledetto. La montagna di mattoni rossi, che suggerisce un'idea di forza più che di bellezza, suscita pensieri cupi. Le porte sembrano destinate ad aprirsi raramente e restare socchiuse, buone giusto per lasciar passare gli spiriti degli antenati finiti male. Da sempre il Cremlino sprigiona una particolare energia, è il perno intorno a cui ruotano i continenti. Sopra il Cremlino, soltanto il cielo. Era così in passato, ora forse non più, domani si vedrà. Gli antichi viaggiatori lo descrivevano come il sogno di un tiranno, baluardo contro lo straniero ma anche contro il popolo che mormora invece di gridare. Un autentico pantheon slavo, monumento all'orgoglio della terza Roma, voluttuoso e se vogliamo anche vanitoso. (p. 35)
  • Per i serbi il Kosovo è la culla della nazione, la terra prediletta dopo la caduta di Bisanzio. Il patriarca serbo nel XII-XIII secolo si spostava tra i duecento monasteri della regione, di cui solo dodici ancora in piedi. Un luogo sacro, mitico, fonte dell'etica nazionale, l'unica Grande Serbia mai esistita nella storia. (p. 70)
  • Il dato patologico è che in Serbia la battaglia del Kosovo è sentita come se fosse avvenuta l'altro ieri, e che persino le squadre di calcio sono viste come espressione di opposte etnie. (p. 71)
  • Enver Hoxha ha sempre coltivato la tesi che più un paese è lontano, più si dimostrerà amico. (p. 233)
  • [Sulla Repubblica Popolare Socialista d'Albania] La vita è una lotta continua. Sulle pareti delle case, con la vernice rossa si invocava: «lotta contro i burocrati; lotta contro la dolce vita; lotta contro le credenze religiose; lotta contro gli imperialisti e i revisionisti; lotta contro Tito». Per lottare tanto bisognava avere testa fredda e corpo gagliardo. Al mattino giovani e vecchi facevano ginnastica all'aperto. Questa passione era una novità importata dalla Cina.
    È l'unica immagine che conservo dell'Albania, ormai sbiadita nei ricordi. (p. 234)
  • [Sul Regno di Romania] A suo tempo la Romania fu un paese allegro, spensierato, pronto a molti compromessi. Tutte le capitali dell'Est con orgoglio si autodefinivano delle piccole Parigi, ma solo Bucarest lo fu davvero. I viaggiatori del tempo passato raccontano di donne stupende finiti nei letti miliardari. Una certa Lupescu, che già con il solo nome aveva turbato i nostri sogni di adolescenti, persino in quello del re. Le donne romene sarebbero state più matte e ben più imprevidibili del solito genere russo o polacco: donne da gioielli, duelli e cento rose al giorno, e già circondate da un alone di harem orientale. Giravano per i salotti i ruffiani di grido e in strada sfilavano con destrezza i portafogli gli zingari che non toccavano i poveri. (p. 238)
  • Ormai gli standardi di bellezza li stabiliva quella megera di Elena Ceausescu, presuntuosa quanto vanitosa, che da maestrina divenne membro dell'Accademia delle scienze e arbitro di tutto lo scibile, ivi compreso il marito. (p. 239)
  • Ai tempi del socialismo «scientifico», inventato da Ceausescu e descritto in decine di libri, tradotti a sue spese in tutte le lingue, un regalo terribile e soprattutto pesante per chi lo riceveva, il dittatore aveva la mania di Mussolini, il desiderio di cambiare la razza. I contadini romeni, calati nelle città per favorire l'industrializzazione del paese, mettevano pancia intorno alla trentina e preferivano muoversi poco. Avrebbero dovuto trasformarsi in membri di una falange, maschia, slanciata e magari bionda. (p. 240)

Il piccolo zar[modifica]

Incipit[modifica]

Con il suo modello di democrazia controllata Putin vuole unire le diverse identità storiche della Russia. Lo si vede dai simboli che sceglie. Lo stemma ha il sapore zarista; la bandiera ricorda un breve periodo democratico; è stata ripresa la musica dell'inno sovietico ma le parole sono di un vecchio letterato, già autore dell'inno precedente; la bandiera rossa dell'esercito ricorda la seconda guerra mondiale, vinta sotto questo vessillo. Questa sintesi di valori contrastanti dovrebbe accellerare la strada all'ammodernamento.

Citazioni[modifica]

  • Putin ha un progetto, ampolloso nel disegno e concreto nei fatti. Come un maestro di scuola vuole educare i suoi concittadini e per farlo occorre che essi accettino la sua visione. Quando si sente incompreso appare amareggiato. Dispone di reti televisive con cento milioni di contatti giornalieri. La sua condotta in campo economico è un impasto di liberismo controllato. Pragmatico nella gestione della vita quotidiana, rispetto alle vicende del mondo si mostra flessibile ma vuole si sappia che la Russia persegue i suoi interessi nazionali da protagonista, come del resto fanno le altre potenze. (pp. 3-4)
  • La stampa straniera presenta Putin e il suo principale nemico, l'oligarca Boris Berezovskij, come portatori di valori contrapposti in una battaglia tra il bene e il male. La storia sarebbe questa: Berezovskij raccomanda la promozione del giovane Putin al suo anziano amico presidente, Boris Eltsin. Quando quest'ultimo cede lo scettro a Putin, il successore ingrato caccia il benefattore, perché sospetta di essere stato spinto in alto solo come mezza figura di passaggio. Da qui congiure, sospetti, tentativi di farsi del male, squalifiche. Oggi il peso dei due, uno ai vertici del potere e l'altro profugo, non è comparabile. Berezovskij dall'esilio londinese coltiva pensieri di vendetta contro Putin. La vicenda è oscura, provoca vittime e anche una crisi nei rapporti diplomatici tra Mosca e Londra, nonché forse qualche piccolo danno all'immagine di Putin. Si ripropone lo stesso interrogativo che si presenta in tutti i casi di strategia della tensione. Però, lo scenario di un Putin regista del terrorismo, non persuade i suoi interlocutori internazionali. Infatti nessun vertice nel 2007 è stato sospeso. (pp. 4-5)
  • In Russia gli scacchi non sono un passatempo d'élite come in Occidente ma uno dei divertimenti principali della popolazione e Kasparov, che a ventidue anni è diventato il migliore del mondo, è qualcosa di più di un campione: è un modello da imitare. Egli ha la capacità di ricordare migliaia di partite dei maestri del passato, fantasia nelle combinazioni, sa prevedere cinque o sei varianti della propria risposta, immaginare gli sviluppi della partita, elaborare piani e sorprese. (p. 9)
  • [Su Garri Kasparov] È convinto che un regime come quello di Putin non potrà resistere alla prova dell'ammodernamento perché si basa su valori negativi: la menzogna, l'ipocrisia, l'ingiustizia. Da uomo intelligente, però, sa che il suo movimento è all'insegna della testimonianza. (p. 10)
  • [Sui XXII Giochi olimpici invernali] I motivi che stanno alla base della determinazione di Putin nel volere le Olimpiadi non sono solo di ordine economico e di prestigio. Soči non è lontana dalla provincia ribelle dell'Abcasia che da anni si batte per staccarsi dalla Georgia ed entrare in Russia. La Georgia si sta legando all'America e alla Nato. Mosca fa il possibile per disturbare l'idillio e risponde con il mastodontico investimento olimpico. Tutti i disoccupati dell'Abcasia potranno essere assorbiti come forza lavoro. Sarà chiaro che è Mosca, e non Washington, a dare da mangiare ai poveri abcasi. (p. 15)
  • Fino all'ultimo Eltsin sorprese tutti per la forza fisica e per l'energia vitale che lo sosteneva, anche dopo un periodo di abulia o dopo le gravi malattie. Da popolano russo non fu mai frenato né dall'educazione, né dalle formalità protocollari e proprio per questo divenne un vero zar. Poteva addormentarsi nel bel mezzo di un ricevimento o mettersi a dirigere una banda musicale di tromboni senza suscitare alcuna disapprovazione. Ma in fondo queste sono cose che da secoli succedono tra le mura del Cremlino. (p. 17)
  • [Su Vladimir Putin] La sua è una storia molto sovietica. Con la maturità, e con la fine del comunismo, ha abbandonato qualsiasi ideologia, sostituendola con un forte sentimento nazionale. Le notizie sulla sua infanzia e sulla difficile adolescenza già contengono elementi che lo distingueranno: solitudine e tendenza ad appartarsi, una certa malinconia, capacità di lavorare, serietà, passione per lo sport, adattabilità, pragmatismo. Nei gruppi di bambini non è mai il capobanda, ma sempre il suo consigliere: il che è tipico dei futuri uomini politici. (p. 19)
  • [Su Aleksandr Ivanovič Lebed'] Questi aveva dimostrato un certo senso politico quando nel 1991 si era schierato con Eltsin contro i golpisti; ora, in vista del secondo turno, gli promette i suoi voti, si fida delle promesse, ma non otterrà nulla, salvo un posto in provincia come governatore. Avrà poi la sfortuna di morire a bordo di un elicottero che tocca il suolo in malo modo. È sepolto al cimitero delle glorie di Novodievici a Mosca: tra le statue funebri di marescialli e generali proprio la sua è quella che possiede il maggior numero di medaglie, casellate nella pietra, dalle spalle fino alla cintola. In un certo momento la Nato e l'Occidente l'hanno considerato come il futuro presidente della Russia. (p. 32)
  • L'ideologia non è mai stata un'idea fissa per Eltsin. Gli ho chiesto una volta se si considerasse comunista e mi ha risposto: «Non sono né comunista né anticomunista». Eppure è stato lui a scogliere il partito comunista, unica forza politica al mondo che abbia dominato su undici meridiani. La sua è stata una risposta spontanea, non dettata dalla prudenza o dall'opportunismo. Mi ha dato anche una pacca sulla spalla destra. (p. 35)
  • Le due guerre cecene hanno alcune caratteristiche in comune con il Vietnam americano. Quando le grandi potenze pensano di sconfiggere il nemico in poche settimane, e di stabilire un regime favorevole ai propri interessi politici e strategici, spesso finiscono invischiate in conflitti lunghi anni. (p. 63)
  • [Sulla seconda guerra cecena] Qualcuno al Cremlino dice che Vladimir Vladimirovič Putin, i cui indici di gradimento sono molto bassi appena assunta la presidenza del Consiglio, potrebbe divenire l'idolo della gente se fosse il promotore, e il vincitore, di una piccola guerra. In questo contesto, più di un giornale raccoglie a Mosca la tesi che siano stati i servizi segreti russi, o parte di essi, a montare il conflitto o almeno a partecipare ad alcune sue fasi per offrire all'opinione pubblica la figura del nemico della patria. (p. 64)
  • [Sulla seconda guerra cecena] È una guerra asimmetrica, che vede lo scontro tra un esercito regolare e i guerriglieri. Ma piccoli gruppi mobili, specie se si muovono sul territorio amico, possono tenere in scacco forze a loro molto superiori. Di solito chi promuove uno scontro di questo tipo, in questo caso i russi, si fa illusioni sulla facilità del compito. Può insediare governi fantoccio, ma non avrà mai il consenso, al massimo qualche occasionale compagno di strada. (p. 66)
  • Il 22 novembre 2003, dalle finestre della mia stanza d'albergo a Tblisi, ho visto l'anziano presidente della Repubblica Shevardnadze, già emerito ministro degli Esteri dell'Unione Sovietica, mentre veniva cacciato dal Parlamento, che si trova proprio di fronte all'hotel. Lo spingeva un gruppo di energumeni di mezza età, arrivati lì a bordo di alcuni camion da una provincia che ricattava il fragile governo centrale. Uno dei registi di quel putsch era il primo ministro Žvanja. Alcuni mesi dopo questi muore a causa delle esalazioni di una stufa in un'anonima soffitta della capitale in cui si trova con un amico. Nessuno ha mai fatto luce sulla dinamica di un incidente che forse non è stato casuale e che ha provocato la fine di uno dei più intelligenti politici del paese. (p. 75)
  • La dinamica dell'assassinio di Litvinenko probabilmente non sarà mai svelata. Le complicazioni diplomatiche sorte intorno alla vicenda, tuttavia, danno l'impressione che la Russia non sia il paese autoritario e ordinato che i russi vorrebbero, ma piuttosto uno Stato in balìa di forze e di dinamiche irruenti e spontanee, difficilmente controllabili. (p. 80)
  • Oggi, in Russia, un benestante è quindici volte più ricco di un povero e a Mosca il rapporto tra le due categorie è di quaranta a uno. Una società di questo tipo produce invidia sociale.
    Ai tempi sovietici la differenza tra ricchi e poveri era molto minore. Un appartenente alla nomenclatura, un membro del Comitato centrale, l'élite del potere, con le prebende legate all'incarico guadagnava quanto un piccolissimo oligarca oggi.
    Il burocrate di livello medio (non si parla dei primi mille membri della nomenclatura) usufruiva degli stessi servizi sociali di altri cittadini. Il suo status di appartenente alla casta consisteva nel diritto a servirsi di negozi preclusi al resto della popolazione e non era poco perché ciò permetteva di evitare le code e la penuria. Scrittori, artisti del teatro e del cinema, architetti, i grandi benemeriti della società frequentavano ristoranti e case di vacanza al mare e in campagna, ovvero le strutture della propria casta.
    Un ricco si comprava un cappotto all'anno, i poveri uno ogni cinque anni. Ma la qualità della merce targata Urss era identica per tutti e i privilegiati non ostentavano come fanno quelli di oggi la loro opulenza. (pp. 90-91)
  • Il regime di Putin si è distinto per l'autoritarismo nelle vicende politiche. Per molti l'ammodernamento autoritario era quasi la via obbligata, a patto che Putin fosse riuscito a raddrizzare il paese. Ora si vive meglio, afferma la propaganda, l'opposizione aggiunge: forse meglio, ma in modo più sgradevole. (pp. 91-92)
  • Nonostante alcuni oligarchi siano stati spinti all'esilio e qualcuno in prigione, la categoria continua ad arricchirsi, con la connivenza di Putin. Dopo i primi miliardari arricchitisi grazie alla propria furbizia e intelligenza, nasce una nuova generazione di oligarchi. Si tratta di quarantenni che non avevano conosciuto il vecchio regime, entrati nella vita produttiva già nel postcomunismo, salvo alcuni che avevano cominciato a lavorare nei servizi segreti nell'ultimo scorcio dell'impero. Molti di loro, quasi tutti, hanno avuto sia la fortuna di nascere a Leningrado-San Pietroburgo, sia quella di sfruttare la scia del professor Sobčak e del suo vice Putin. (p. 92)
  • Le grandi contraddizioni che convivono nella Russia di oggi non sono immediatamente visibili per chi visita le grandi città. Le megalopoli russe sono globalizzate e nelle vetrine si trovano le stesse merci di una qualsiasi grande città del mondo occidentale. In quattro-cinque regioni russe la gente non vive peggio che nei paesi sviluppati dell'Occidente, in altre ottantaquattro il tenore di vita è paragonabile a quello del Messico, secondo l'opposizione liberale russa. In parte ciò dipende anche dalla divisione delle risorse. Ancora nel 2000 la spesa governativa era divisa in egual misura tra il centro e le regioni. Oggi al centro resta il sessantacinque per cento e il trentacinque al resto del paese. Il numero delle piccole aziende non è aumentato e sono in tutto un milione, cioè sette imprese per mille abitanti, mentre la media europea è di quarantacinque per mille, e negli Stati Uniti di settantacinque per mille. In Giappone nelle piccole imprese lavora l'ottanta per cento della popolazione, in Russia solo il dodici per cento. I russi si arricchiscono quando sono impegnati nei settori che sfruttano le materia prime. (p. 95)
  • Pochi sognano di far ritornare la Russia al periodo 1840-1870, quando si stava completando il processo della formazione nazionale e si fissavano le nuove frontiere. Il ripetersi oggi di alcune situazioni di allora non giustifica il paragone con il passato. In realtà la Russia non sta nascendo, c'era sempre stata, da secoli. Esiste così com'è e bisogna accettare il dato. (pp. 99-100)
  • L'intellighenzia non ha più ideologie, politicamente è scomparsa fin dalle elezioni del 2000, quando i due partiti liberaldemocratici non sono riusciti a entrare in Parlamento dopo aver diretto il paese con il liberismo per quasi un decennio. In pratica aveva già abdicato al suo ruolo: l'ultima volta che gli intellettuali si erano visti in pubblico era stato in difesa di Gorbačëv durante il golpe dell'estate 1991. Un diplomatico russo racconta così l'evento: «Ci siamo riuniti sotto la Casa Bianca, abbiamo cantato le nostre canzoni patriottiche, abbiamo gridato "evviva Eltsin, evviva Gorbačëv, evviva la libertà", poi ha cominciato a piovere, non avevamo gli ombrelli perché uno non va a difendere il suo destino con l'ombrello a meno che non sia un inglese; bagnandosi abbiamo preso l'influenza, siamo rimasti a casa, il paese ha preso un'altra via e nessuno ci ha più visto». (pp. 100-101)
  • Gli oligarchi sono ex impiegati dell'amministrazione pubblica, ex direttori di fabbrica, oppure giovani intellettuali che spesso provengono da studi di legge e che sono giunti al termine dell'università senza molte prospettive. Li accomuna la giovane età: nessuno che non abbia l'entusiasmo della gioventù avrebbe l'incoscienza di tentare vie tanto spregiudicate per gli affari. Per pochi dollari si sono impadroniti di un continente al quale i governanti per più di mezzo secolo avevano imposto la virtù del risparmio forzato per potere dare vita all'enorme complesso dell'industria pesante. (p. 117)
  • [Sull'incidente del K-141 Kursk] In una normale cancelleria della presidenza di uno Stato, il minuto dopo l'arrivo della notizia sarebbero cominciati i preparativi per la visita di cordoglio del presidente. Il giorno stesso dell'incidente, Putin parte per una vacanza a Soči. Dirà poi di essere stato informato della tragedia soltanto il giorno dopo. Facile immaginare l'impatto emotivo provocato dalle immagini trasmesse dalla televisione russa: da una parte la comunità internazionale che si mobilita nel tentativo di salvare ventitré uomini, dall'altra la famiglia presidenziale che a Soči si diverte con lo sci acquatico. (p. 123)
  • [Sull'incidente del K-141 Kursk] In altre sciagure Putin sarà al suo posto, ma in questo caso è costretto a difendersi e lo fa dicendo che la sua presenza non sarebbe stata d'aiuto. Ha ragione, ma un presidente a volte deve esserci perché deve esserci. (p. 123)
  • [Sull'omicidio di Anna Stepanovna Politkovskaja] Il procuratore accusa i terroristi ceceni ma fa cenno anche a contatti con alcuni agenti dei servizi speciali dell'Fsb. Senonché, a un'attenta lettura si scopre un fatto curioso: gli agenti in questione sono tutti in via di pensionamento e la loro incriminazione coincide con la fine del loro impiego. (p. 155)
  • Le inchieste della Politkovskaja riguardano molti aspetti della società russa: dalla guerra in Cecenia alla vicenda degli oligarchi, dalle prepotenze dell'esercito alla corruzione dei politici. Per questo è immaginabile che i suoi nemici siano dappertutto. (p. 161)
  • Nell'esercito russo l'usanza di maltrattare oltre ogni limite i soldati semplici è talmente consolidata che in ogni città è nata un'associazione delle madri che cerca di proteggere le reclute dalle prepotenze degli ufficiali. (p. 161)
  • Alla domanda se il mandante dell'omicidio della Politkovskaja possa essere stato un militare, la risposta è: in linea di principio è possibile. Alla domanda se può essere stata uccisa dai ceceni collaborazionisti, la risposta è: in linea di principio è possibile. Alla domanda se i servizi segreti abbiano approvato questo e altri gesti simili, la risposta è: in linea di principio è possibile. Alla domanda se la morte della giornalista abbia qualche legame con l'assassinio di Litvinenko a Londra, la risposta è: in linea di principio è possibile. Alla domandase queste cose succedano alla vigilia delle elezioni per squalificare Putin, la risposta è: in linea di principio è possibile.
    Molta parte della storia recente russa ha come unica risposta credibile: v principe vožmožno, in linea di principio è possibile. (p. 162)
  • Spesso si parla di una finestra sulla libertà che sarebbe rimasta aperta per un decennio, più o meno al tempo di Eltsin. In quegli anni le probabilità di un gioco a tutto campo apparivano maggiori, tuttavia in Russia non è mai accaduto che il potere abbia lasciato completa libertà agli organi d'informazione ed è difficile pensare che debba accadere ora. Ieri la linea era imposta dalle lobby miliardarie che davano un'idea di pluralismo in quanto erano parecchie e si combattevano tra di loro. Oggi questo ruolo è stato assunto dal gruppo monopolistico al potere, compatto e – da quanto si può vedere dall'esterno – abbastanza omogeneo. (p. 162)
  • In epoca postcomunista, ma oramai in declino grazie alla fine delle battaglie intestine tra i protagonisti miliardari, un modo di fare giornalismo è quello di cercare, trovare e piazzare il «kompromat». Si chiamano così gli articoli che discreditano e compromettono gli avversari. I creatori dei «kompromat» sono sempre i benvenuti nelle redazioni. Si tratta spesso di personaggi un po' loschi che sembrano trarre godimento, olre che guadagno, nel fare del male al prossimo. Si chiudono nella stanza del direttore per raccontare l'ultimo gossip, offrendo prove, vere o costruite, a conferma di quanto sostenuto. Il conto del dare-avere non è semplice, con stime complesse su chi ci guadagna, quanto e con quali rischi. (p. 167)
  • Nonostante Reagan, il papa polcacco e il malessere nei paesi dell'Est, senza Gorbačëv e la sua rivoluzione il declino dell'Urss sarebbe durato decenni, come del resto aveva previsto tutta la cremlinologia qualificata. Il crollo dell'impero è avvenuto perché il centro non finanziava più gli alleati, si disinteressava del Patto di Varsavia e non avrebbe più usato i suoi carri armati per difendere regimi impopolari. Le riforme sovietiche hanno messo in moto un processo dinamico che ha portato all'implosione. Di conseguenza, anche i russi si sentono vincitori, e non vinti, della Guerra Fredda. (p. 171)
  • [Su Bill Clinton] [...] aveva una retorica assurda. Ha paragonato la decisione di Eltsin di far scatenare il conflitto in Cecenia al comportamento di Abraham Lincoln nella guerra civile americana: sembrava troppo anche allo stesso Eltsin. (p. 171)
  • Mosca non può salutare con piacere il diffondersi dell'influenza americana nel cortile di casa. Sarebbe ingenuo offrire l'energia a prezzi stracciati a paesi ex amici che si mettono sotto l'ombrello protettivo americano. (p. 172)
  • I serbi sostengono che il complesso dei monasteri ortodossi sia la culla della loro cultura e basano il loro diritto di non perdere il Kosovo soprattutto sulla storia. La storia nei Balcani è sempre gonfiata ed è difficile sostenere diritti su un territorio in base alla situazione etnica di otto secoli fa, quando oggi gli albanesi sono il novanta per cento. (p. 173)
  • [Sull'Albania etnica] Con un certo ritardo rispetto alle nazioni europee è probabile che si faccia strada una tendenza all'unificazione. Forse vale per gli albanesi quanto si diceva dei tedeschi prima del 1990: pensarci sempre e non parlare mai. (p. 173)
  • L'Albania è l'unico Stato con una popolazione in parte musulmana ma laicizzata che esprime un forte sentimento filoamericano. (p. 173)
  • Tra i capi del paese non si parla di politica. Una frase finita sarebbe troppo, è meglio il silenzio condiviso, il tono di voce, il modo di far passare la sillaba attraverso le labbra. Nella cultura russa esiste la capacità di comunicare in questo modo tra le piccole comunità d'élite e andava benissimo per i dissidenti. Nessuno chiede chiarimenti, perché sarebbe banale; o si capisce, o non si capisce, e spesso si può anche stracapire. (p. 181)
  • Medvedev deve tutto a Putin e speriamo che glielo perdoni. Questo è il suo lato debole che potrebbe però anche essere uno dei vantaggi, in quanto ci sarà una copertura paterna. Medvedev dà del «voi» a Putin ancora oggi, forse non in privato (anche se in russo l'uso del «tu» e del «lei» ha infinite sfumature sulle quali lo straniero poco ci capisce anche quando russofono). (p. 183)
  • Molti dei nuovi abitanti del Cremlino, Putin in testa, sostengono che il Kgb sia stato un qualificato ufficio studi dei rapporti sociali; preferiscono trattare il mestiere dal lato sociologico invece che da quello del terrore. Ora ricoprono i massimi incarichi di governo e sono in grado di decidere non solo delle sorti politiche ma anche di quelle economiche del paese. (pp. 183-184)
  • I suoi compagni di gioventù già raccontano come Medvedev fosse stato un buon amico, disponibile e con un forte senso dell'umorismo; ci sono testimonianze sul suo lavoro volontario durante l'estate in un'azienda agricola come raccoglitore di patate. Con tutto ciò, non suscita una simpatia immediata e non ha l'abilità di Putin nel conquistare la gente. (p. 186)

Explicit[modifica]

Nel definire i rapporti tra la coppia al potere, Putin parla di chimica interpersonale, un concetto che poco si adatta alla cultura politica russa e fa parte del modo di esprimersi dei manager e dei politici dei paesi anglosassoni. Lentamente Medvedev assumerà una propria personalità, soprattutto se ricorderà la vecchia massima del suo professore Sobčak: «Il Signore vuol bene ai prudenti».

Note[modifica]

  1. a b Da Testimone dell'Est, intervista di Domenico Quirico, La Stampa, 14 agosto 1993
  2. a b Da «Nel paese c'è un forte desiderio di rivalsa», intervista di Gabriel Bertinetto, L'Unità, 20 dicembre 1999

Bibliografia[modifica]

  • Demetrio Volcic, Sarajevo. Quando la storia uccide, Arnoldo Mondadori Editore, 1993, ISBN 88-04-36871-3
  • Demetrio Volcic, Est. Andata e ritorni nei paesi ex comunisti, Milano, A. Mondadori, 1998. ISBN 88-04-44890-3
  • Demetrio Volcic, Il piccolo zar, Roma, Laterza, 2008. ISBN 978-88-420-8544-7

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