Tiziano Terzani

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Tiziano Terzani (1938 – 2004), giornalista e scrittore italiano.

Citazioni di Tiziano Terzani[modifica]

  • Anche un manager deve vedere che quello che lui fa è legato a tutto il resto del mondo e forse, in questo modo può avere più soddisfazione, sentirsi meno separato dalla realtà quotidiana.
    Questo tavolo, come abbiamo già detto è qui perché migliaia di fatti sono avvenuti consequenzialmente. Questa è la vera globalizzazione: tutti apparteniamo allo stesso gruppo, questa strana razza umana, siamo tutti su questa piccola palla che abbiamo bucato, bruciato, tagliato. Allora anche un manager se comincia a vedere le cose in questa dimensione non solo ha un più bel senso della propria vita, ma anche del proprio fare, del proprio essere. E poi deve cominciare a pensare più creativamente.
    Io li vedo, si vestono tutti uguali, hanno comportamenti tutti uguali: questa povera gente è costretta a comportamenti che impediscono loro l'esercizio della più bella cosa che anche un manager dovrebbe avere: la fantasia. Un grande manager è qualcuno capace di inventare qualcosa di nuovo, non di ripro­durre qualcosa di stantio, magari semplicemente ridipinto.
    Anche i manager devono riscoprire i mille colori dell'arcobaleno.[1]
  • L'economia è un paradosso di per sé, perché l'economia è fondata su una serie di criteri e di valori che escludono il più importante di tutti: la vita. Tutto lo sforzo economico moderno è fondato sul concetto che lo sviluppo è crescita, crescita, crescita. È un meccanismo tutto inteso a crescere, come se l'uomo, anche fisicamente, avesse l'obiettivo continuo della crescita aumentando con questo la sua umanità. Non viene mai considerato, dalle teorie economiche il numero delle persone felici.[2]
  • L'unico vero maestro non è in nessuna foresta, in nessuna capanna, in nessuna caverna di ghiaccio dell'Himalaya… È dentro di noi! (citato in Dentro di noi. Parlano i lettori di Tiziano Terzani, TEA, a cura di A. Bortolotti e M. De Martino)
  • Oggi l'economia è fatta, per costringere tanta gente, a lavorare a ritmi spaventosi per produrre delle cose per lo più inutili, che altri lavorano a ritmi spaventosi, per poter comprare, perché questo è ciò che da soldi alle società multinazionali, alle grandi aziende, ma non dà felicità alla gente. Io trovo che c'è una bella parola in italiano che è molto più calzante della parola felice, ed è contento, accontentarsi, uno che si accontenta è un uomo felice. (da Anam, il senzanome, Longanesi, 2004)
  • Ma chi erano veramente i Khmer rossi? Assassini sanguinari, accecati dall'ideologia marxista-leninista, dicevano i diplomatici americani e gli agenti della Cia… Ma noi non ci facevamo influenzare… Ricordo benissimo di aver girato in mezzo a quelle decine di cadaveri, sgozzati, impalati, maciullati, cercando di convincermi che non potevano essere stati uccisi dai guerriglieri, che magari quella gente era rimasta vittima dei bombardamenti americani e poi era stata messa lì, usata, per così dire, in modo da farci credere alla storia del massacro comunista. (da C'eravamo sbagliati, pubblicato col titolo Pol Pot, tu non mi piaci più in la Repubblica, 29 marzo 1985, e pubblicato poi in In Asia col titolo originale scritto dall'autore)
  • Per un vero fotografo una storia non è un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate e i filtri giusti. Una storia vuol dire leggere, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è l'immagine di un'idea. (dalla quarta di copertina di Un mondo che non esiste più, Longanesi, 2010)
  • Sono finito in India perché secondo me l'India è l'origine di tutto, è... è il punto di partenza di tutto [...]. L'India è ancora un paese dove il divino è nella quotidianità della gente, nei gesti [...]. Un giorno ho preso i voti, sono entrato in un ashram, e ho fatto la pratica di un indiano, cantando gli inni vedici, pulendo le statue al mattino alle cinque [...]. (da Anam il Senzanome)
  • Tutta la nostra società è fatta per dare spago alla violenza, e allora violenza produce violenza, non c'è niente da fare. Per questo anche il mio essere vegetariano è una scelta morale. Ma come si può allevare la vita per uccidere e mangiarsela? Come si può tenere in delle spaventose, spaventose gabbie, migliaia e migliaia e migliaia di polli a cui si deve tagliare il becco perché non becchino, impazziti come sono, le galline che gli stanno avanti? Come si può allevare un vitello – che è bello, no? – un piccolo vitello, chiuderlo in una scatola di ferro, in una gabbia di ferro, perché cresca anchilosato dentro e la sua carne rimanga bianca? Tutto per ingrassare, tutto perché possiamo avere anche noi parte di questa realtà, ce la possiamo mangiare. Hai mai sentito gli urli di un macello di maiali? E come puoi mangiare il maiale, poi? È impossibile. (da Anam, il senzanome - Film di Mario Zanot (Produzione Mediaset))
  • Tutto è uno. Questa idea della dicotomia è profondamente sbagliata. E niente meglio di un grande simbolo asiatico, in questo caso cinese, questa ruota con lo Yin e lo Yang, rappresenta la vita, l'universo... è l'armonia degli opposti. Perché non c'è acqua senza fuoco, non c'è femminile senza maschile, non c'è notte senza giorno, non c'è sole senza luna, non c'è bene senza male. E questo segno dello Yin e dello Yang è perfetto. Perché il bianco e il nero si abbracciano. E all'interno del nero c'è un punto di bianco e all'interno del bianco c'è un punto di nero.[3]

Buonanotte, signor Lenin[modifica]

Incipit[modifica]

Come spesso capita con le più belle avventure della vita, anche questo viaggio cominciò per caso. Nel febbraio del 1991 ero riuscito a ottenere un visto per andare nelle Curili, le isole alla fine del mondo, l'ultima frontiera dell'impero sovietico, i «Territori del Nord», come li chiama il Giappone che, ostinatamente, li reclama per sé. In quelle isole lontanissime, avvolte in misteriosi, eterni banchi di nebbia, in mezzo all'Oceano Pacifico, avevo passato quasi un mese affascinato da una incredibile, selvaggia natura fatta di montagne ghiacciate e di laghi che ribollono, coinvolto nel destino di quella straordinaria razza di uomini e donne andati laggiù, per lo più dalla Russia, con l'idea di costruirci un avamposto del socialismo e ora, disorientati dalla fine di quel sogno, abbandonati a sé stessi, a fare i conti con le loro vite sprecate, senza più una patria cui tornare, senza una storia di cui vantarsi, ma con sulla pelle tutte le tracce di sacrifici e durezze che nessuno è più disposto a riconoscere loro.

Citazioni[modifica]

  • Le rivoluzioni costano carissime, richiedono immensi sacrifici e perlopiù finiscono in spaventose delusioni.
  • La Storia non esiste. Il passato è solo uno strumento del presente e come tale è raccontato e semplificato per servire gli interessi di oggi.
  • Quando la religione diventa un grande potere all'interno dello Stato, lo Stato di per sé perde potere sui suoi cittadini.
  • Mi perdo a pensare quant'è umanamente particolare questo momento storico dell'Unione Sovietica. Il sistema comunista, che per decenni ha determinato la vita di tutti, e spessissimo anche la loro morte, sta crollando. Ma d'un tratto è come se quel sistema fosse stato imposto da qualcuno venuto dallo spazio, come se nessuno quaggiù avesse contribuito a tenerlo in piedi. La corsa all'«io non c'ero e, se c'ero, ero una vittima» è pateticamente incominciata.

In Asia[modifica]

  • [Phnom Penh nel 1975] «Questa non è una città sulla Terra, è la porta dell'aldilà», dice un vecchio residente francese. Se non fosse per le aggressive miserie di una guerra terribilmente terrestre, che ha affamato la gente e ha spento sulla faccia dei cambogiani il loro mitico «sorriso Khmer», ci sarebbe da crederci.
    Bastano pochi giorni a Phnom Penh per adattarsi a un ritmo diverso di vita, per entrare nella logica di un altro mondo in cui realtà e fantasia, ragione e superstizione si confondono continuamente. Phnom Penh è una città stregata, dove ormai uomini e spiriti coabitano. I soldati che partono per la zona d'operazione con un'immagine di Buddha fra i denti o con la testa fasciata da uno straccio colorato per difendersi dalle pallottole non meravigliano nessuno. E quando corre voce che il presidente della repubblica, il maresciallo Lon Nol, ha intenzione di far rimuovere la collina che si erge, improvvisa, nel centro della città perché, secondo il suo astrologo, fu costruita con un inganno secoli e secoli fa dai cinesi sulla testa del Naga, il serpente a sette teste, spirito della Cambogia, per soggiogare per sempre il popolo khmer, nessuno si scandalizza. (2000, p. 21)
  • Per i cambogiani, un cavallo bianco è il simbolo di un re che viene a governare il Paese e quel re ormai non potrebbe essere che Sihanouk alla testa dei khmer rossi. (2000, p. 22)
  • Per i cambogiani, forse perché da secoli sono contadini, è dal cielo che vengono le disgrazie maggiori e lo stesso Lon Nol crede a quello che un bonzo gli ha detto, che «dal cielo verrà la sua fine». Così, ogni volta che si sposta dal suo palazzo si fa accompagnare da due batterie contraeree. «Non si capisce perché», diceva un diplomatico europeo. «Tutti sanno che i khmer rossi non hanno aviazione.» Qualcuno, più realista, faceva notare che sono stati proprio due piloti delle forze governative a tentare recentemente di mandare il maresciallo nella tomba. Senza successo. (2000, p. 23)
  • La Cambogia, fino a cinque anni fa, per gli standard asiatici, era ricca. Nessuno, a memoria d'uomo, era morto di fame e le risaie, allagate naturalmente dallo straripare del Mekong nella stagione delle piogge, producevano più riso di quanto i sette milioni di cambogiani potessero consumare. Sihanouk governava il Paese come avrebbe fatto un monarca rinascimentale benché avesse rinunciato al suo titolo reale per adattarsi ai tempi. Con grande abilità era riuscito per anni a tenere la Cambogia fuori della guerra. La sua formula era una neutralità che tutti riconoscevano formalmente e tutti violavano nella sostanza. (2000, pp. 30-31)
  • L'aereo che due volte la settimana porta i rari viaggiatori da Pechino a Pyongyang è una macchina del tempo. Uno lascia la Cina di oggi e in un'ora e tre quarti si trova catapultato nel 1984. La Corea del Nord è l'incubo della società totalitaria di Orwell fatto realtà. Qui i bambini non vanno semplicemente a scuola: ci marciano; la gente non lavora: lotta per la produzione. Le biblioteche hanno migliaia e migliaia di volumi, ma sono scritti tutti dalla stessa persona, tutto è pulito, organizzato, previsto. Tutti sono disciplinati, obbedienti e felici. Questo non è semplicemente un Paese. È stato ufficialmente dichiarato «il paradiso», e Kim Il Sung, il presidente, non è semplicemente il suo capo da più di 35 anni, è dio perché lui sa tutto quello che c'è bisogno di sapere, ha trovato le risposte alle domande che i filosofi si sono posti da secoli, e persino gli uccelli cinguettano le sue lodi. Così almeno viene detto al visitatore ed è scritto quasi ogni giorno sui giornali. (2000, pp. 53-54)
  • Non fosse per i giardini pieni di fiori e le acacie sulle colline rigogliose e lungo il fiume, Pyongyang potrebbe apparire una città irreale, artificiale: una sorta di palcoscenico allestito per un film di fantascienza: ricca, coloratissima, ultramoderna, ma inquietantemente vuota. Le strade son larghe, ma con pochissime macchine. Le piazze son vastissime, ma senza gente. Tutto è leziosamente rifinito e curato: i parchi, i campi da gioco, i laghetti, ma nessuno sembra poterseli godere. Monumenti di marmo s'innalzano al cielo assieme a enormi edifici di vetro e cemento, e gioiose fontane zampillano inosservate con variopinti fiotti d'acqua. Ai crocevia i poliziotti in uniforme dirigono, silenziosamente, il traffico che non esiste. Ogni cento metri, nell'ombra di una porta, un agente in borghese scruta attraverso gli occhiali scuri le file perfette di case vuote. [...] L'intera Pyongyang è un monumento dedicato alla grandezza del Presidente, e ogni costruzione è a sua volta una prova del suo amore per il popolo. Stazioni ferroviarie e palazzi pubblici, sproporzionati, prodotti di un'ossessiva megalomania, sono le cattedrali della vera religione di questo Paese, che non è il socialismo, una parola usata sempre più raramente, ma il kimilsunghismo. (2000, pp. 54, 56)
  • «Quanti figli ha il presidente Kim Il Sung?» ho chiesto varie volte. E la risposta standard è stata: «Siamo tutti suoi figli». Per quasi trent'anni i nordcoreani sono vissuti come in una cella d'isolamento, completamente tagliati fuori dal resto del mondo di cui non sanno assolutamente nulla. Le radio che si vedono in ogni casa sono enormi, ma non hanno le onde corte. I giornali sono quelli in cui il nome del «Capo Supremo» è menzionato almeno cinquanta volte al giorno. Il risultato è semplice: la gente è davvero convinta che, per esempio, il muro di 240 chilometri che corre lungo la zona smilitarizzata fra nord e sud sia stato costruito dai terribili americani per impedire ai sudcoreani di andare a vivere nello splendido nord, che Seoul è una città di miseria e corrotta dalla «prostituzione e dal turismo», che i popoli del globo aspirano solo a studiare e a imparare le lezioni del «Capo Supremo», Kim Il Sung. (2000, p. 55)
  • Tetto dopo tetto, in onde d'infinite curve, la città cresce e avanza. Si arrampica sulle colline, scompare e riaffiora nelle valli. Si srotola giù lungo il fiume, si gonfia di lucidi grattacieli e labirinti di appartamenti moderni per perdersi nelle linee verdi e azzurrine dei monti lontani avvolti di brume. Seoul: un corpo gigantesco che respira, si espande, forte, vibrante, sicuro di sé, pieno di vita e di speranze. Ai sudcoreani piace chiamare la loro capitale: «la bellezza allo specchio»: stupenda, ma inafferrabile. (2000, p. 156)
  • A undici anni Hirohito ricevette una lezione che lo influenzò per il resto della sua vita: il giorno in cui suo nonno, l'imperatore Meiji, venne sepolto, il giovane principe venne chiamato dal generale Nogi, il suo tutore, cui lui era legatissimo. Per tre lunghissime ore Nogi parlò a Hirohito di quel che l'imperatore era stato per lui e del fatto che, dopo averlo servito per tutta la vita, ora doveva seguirlo nella tomba. Nogi si congedò dal principe, rientrò nella sua residenza e lì, nella maniera tradizionale, si sventrò, dando al ragazzo un'ultima lezione su quel che aveva da essere «la via giapponese».
    La sua fu un'infanzia tristissima. Come futuro dio, al giovane Hirohito furono proibite tutte le relazioni che un ragazzo avrebbe potuto avere con comuni mortali. Crebbe senza amici e fin da allora ogni attimo delle sue giornate venne regolato dall'Agenzia imperiale che, fino alla sua morte, non lo ha lasciato un momento solo. Una delle gioie del giovane Hirohito era giocare a go, una sorta di dama. A 12 anni decise di rinunciarci: s'era accorto che tutti quelli che giocavano con lui lo facevano sempre vincere. (2000, p. 190)
  • I giapponesi son fieri di dire che il pachinko è un gioco puramente giapponese e che gli stranieri non possono capirlo. A ragione. Quel che per uno straniero è l'essenza dell'inferno, per i giapponesi pare sia la porta del paradiso. [...]
    C'è da chiedersi se il pachinko non abbia tanto successo perché il giapponese è più a suo agio con una macchina che in compagnia di un altro uomo. Lo scrittore americano Donald Richie, che vive a Tokyo da oltre quarant'anni, sostiene che «il giapponese vede nella macchina del pachinko il suo amico segreto» e che gomito a gomito con centinaia di altre persone, con le quali però non ha bisogno di parlare, si sente in una sorta di «solitudine comunitaria».
    Frastornati dalle biglie che precipitano, dall'ululare delle macchine «in preda alla febbre», dagli altoparlanti che incitano a giocare di più, dalle musichette militari, avvolti in una fibrillante luce al neon che fa dimenticare se fuori è giorno o notte, i giapponesi sembrano raggiungere uno stato di completo distacco dalla realtà. «Questa del pachinko è la forma più popolare di meditazione», dice Richie. Sempre più grandi e sempre più diffuse, le case del pachinko torreggiano sulle distese grigie delle città come seducenti cattedrali dove si venera la follia. (2000, pp. 232-233)
  • Vista dall'incertezza del mare, una qualunque striscia di terra è sempre apparsa ai naviganti come un sollievo, un rifugio, una speranza. Non così quest'isola. Sakhalin, dinanzi alla costa siberiana, a nord del Giappone, emerge dalla foschia lattiginosa che aleggia sulle onde nere del mare di Ohosk come un'inquietante presenza, una massa scura, costantemente avvolta nella nebbia e nel silenzio.
    Così apparve più di mille anni fa ai cinesi che la considerarono parte del loro impero e la chiamarono «la terra dei diavoli vaganti»; così apparve agli esploratori occidentali che, non osando approdarci, la segnarono nelle loro carte geografiche col nome; «gli scogli neri»; così apparve ai primi russi e ai primi giapponesi quando, due secoli fa, ci si avventurarono per saccheggiarla delle sue immense risorse naturali. (2000, p. 234)
  • A Sakhalin il sentimento di solidarietà che lega la gente non nasce, come avviene in altre regioni dell'URSS, da comuni radici etniche, ma da un comune destino. «È una strana forza che ci unisce», dice Diana Urina, direttrice del quotidiano di Oha. «È la forza che nasce dall'aver condiviso le sofferenza di una vita dura.»
    A Sakhalin sembra che ogni vita abbia un suo segreto. (2000, p. 241)
  • Due giapponesi che s'incontrano per la prima volta devono immediatamente stabilire la rispettiva posizione sociale... se non altro per sapere quanto profondamente debbono inchinarsi l'uno davanti all'altro. Siccome in questo paese uno non è quello che è, ma è il ruolo che ha, l'ossessivo scambio dei biglietti da visita, che descrivono con grande precisione il rango del loro portatore, serve a togliere i giapponesi dall'insopportabile imbarazzo di non sapere dove stanno rispetto al loro interlocutore. (2007, p. 252)
  • [...] la morte è probabilmente quel che i giapponesi hanno sentito da sempre nel Fuji, nel suo vulcano.
    In tutta la loro storia, i giapponesi sono stati affascinati dalla morte ed è più che altro con la morte che si sono sempre confrontati. Le spade sono forse la loro più raffinata espressione artistica, i guerrieri caduti i loro più venerati eroi. Il rapporto particolare che questo popolo ha con il Fuji è certo dovuto a questo suo essere attratto dalla morte di cui il vulcano, con la sua instabilità, è un continuo memento. Non a caso nella mitologia giapponese il Fuji era la porta dell'aldilà; non a caso il desiderio di ogni giapponese è sempre stato quello di morire con gli occhi rivolti a quella montagna. Questo rapporto fra il Fuji e la morte continua ancor oggi. (2000, p. 279)
  • [Le Curili] Se il mondo avesse un principio, la fine non potrebbe esser che qui, dove il fumo dei vulcani si mischia alla nebbia del mare e la natura fa rabbrividire con le sue indomite, terrificanti forze. Dal finestrino del vecchio Antonov a elica, che traballa inquietante in un cielo lattiginoso, la terra che finalmente mi appare sotto l'ala è come la soglia dell'aldilà. Lungo tutta la costa impervia e nera si abbattono onde spumeggianti. Ai piedi d'un improvviso vulcano vedo due laghi: in uno le acque sono bianche e gelate, nell'altro sono motose e ribollono come in un immenso calderone. (2000, p. 301)
  • «Il Mustang è il Paese della completa felicità, dove tutto ciò che è ambito o necessario è a portata di mano, dove i sudditi sfavillano come stelle e lo spirito si diletta nella contemplazione del re», sta scritto nei vecchi manoscritti che oggi si coprono di polvere nei gompa, i monasteri buddhisti di questo regno.
    Che sia questo il paradiso terrestre? Da che mondo è mondo gli uomini sono andati un cerca di un simile luogo mitico che, come una fata morgana, si dileguava non appena credevano d'averlo trovato. [...] In un tempo come il nostro, in cui ogni enigma sembra essere stato risolto, ogni mistero svelato, ogni angolo di terra scoperto, l'idea che un minuscolo regno fosse riuscito a sopravvivere, inaccessibile e intatto fra le montagne più alte del mondo, ha suscitato grandi curiosità e desideri. E il Mustang è diventato una sorta di simbolo dell'ultima aspirazione dell'uomo sempre spinto a seguire quell'anelito di cui Kipling scrive in L'esploratore, una poesia del 1898:
    Qualcosa è nascosto. Vai a cercarlo. Cerca al di là delle vette.
    Qualcosa è stato perso al di là delle vette.
    È stato perso e ti aspetta. Vai!
    (2000, pp. 328-329)
  • La grandezza di Deng è tutta qui: nell'essere riuscito a sopravvivere a Mao, nel suo convincersi che le scelte di quello erano sbagliate e nell'avere il coraggio di disfare tutto ciò che Mao – e in parte lui stesso – aveva messo in piedi.
    La vicenda di quest'uomo che, dopo aver dedicato un'intera vita alla causa comunista, spende i suoi ultimi anni a distruggere il comunismo nel Paese più popoloso del mondo è una delle più straordinarie del nostro secolo. (2000, p. 400)

La fine è il mio inizio[modifica]

Incipit[modifica]

Folco, Folco, corri, vieni qua! C'è un cuculo nel castagno. Non lo vedo, ma è lì che canta la sua canzone:

Cucù, cucù, l'inverno non c'è più
È ritornato il maggio col canto del cucù

Bellissimo, senti!
Che gioia, figlio mio. Ho sessantasei anni e questo grande viaggio della mia vita è arrivato alla fine. Sono al capolinea. Ma ci sono senza alcuna tristezza, anzi, quasi con un po' di divertimento. L'altro giorno la Mamma mi ha chiesto «Se qualcuno telefonasse e ci dicesse d'aver scoperto una pillola che ti farebbe campare altri dieci anni, la prenderesti?» E io istintivamente ho risposto «No!» Perché non la vorrei, perché non vorrei vivere altri dieci anni. Per rifare tutto quello che ho già fatto? Sono stato nell'Himalaya, mi sono preparato a salpare per il grande oceano di pace e non vedo perché ora dovrei rimettermi su una barchetta a pescare, a far la vela. Non mi interessa.
Guarda la natura da questo prato, guardala bene e ascoltala. Là, il cuculo; negli alberi tanti uccellini – chi sa chi sono? – coi loro gridi e il loro pigolio, i grilli nell'erba, il vento che passa tra le foglie. Un grande concerto che vive di vita sua, completamente indifferente, distaccato da quel che mi succede, dalla morte che aspetto. Le formicole continuano a camminare, gli uccelli cantano al loro dio, il vento soffia.

Citazioni[modifica]

  • Amare, non volere. Bagnare, non asciugare. Ecco il segreto delle cose. L'intelletto solidifica, la ragione diluisce.
  • A volte bisogna rischiar, fare altre cose. Occorre rinunziare ad alcune garanzie perché sono anche delle condizioni.
  • Che cos'è che ci fa così spavento della morte? Quello che ci fa paura, che ci congela davanti a quel momento è l'idea che scomparirà in quell'attimo tutto quello a cui noi siamo tanto attaccati. Prima di tutto il corpo. Del corpo ne abbiamo fatto un'ossessione.
  • E ricordati, io ci sarò. Ci sarò su nell'aria. Allora ogni tanto, se mi vuoi parlare, mettiti da una parte, chiudi gli occhi e cercami. Ci si parla. Ma non nel linguaggio delle parole. Nel silenzio.
  • Ho fatto questo mio mestiere proprio come una missione religiosa, se vuoi, non cedendo a trappole facili. La più facile, te ne volevo parlare da tempo, è il Potere. Perché il potere corrompe, il potere ti fagocita, il potere ti tira dentro di sé! Capisci? Se ti metti accanto a un candidato alla presidenza in una campagna elettorale, se vai a cena con lui e parli con lui diventi un suo scagnozzo, no? Un suo operatore. Non mi è mai piaciuto. Il mio istinto è sempre stato di starne lontano. Proprio starne lontano, mentre oggi vedo tanti giovani che godono, che fioriscono all'idea di essere vicini al Potere, di dare del "tu" al Potere, di andarci a letto col Potere, di andarci a cena col Potere, per trarne lustro, gloria, informazioni magari. Io questo non lo ho mai fatto. Lo puoi chiamare anche una forma di moralità. Ho sempre avuto questo senso di orgoglio che io al potere gli stavo di faccia, lo guardavo, e lo mandavo a fanculo. Aprivo la porta, ci mettevo il piede, entravo dentro, ma quando ero nella sua stanza, invece di compiacerlo controllavo che cosa non andava, facevo le domande. Questo è il giornalismo.
  • Ora bisogna capire che il comunismo, il marxismo-leninismo, in Vietnam ancora più che in Cina, è un'arma ideologica che i nazionalisti usano per combattere per la loro liberazione. Ho Chi Minh diventa comunista a Parigi quando capisce che il marxismo-leninismo, praticato nell'Unione Sovietica nel suo periodo migliore – pieno di idealismi, subito dopo la rivoluzione – fornisce una disciplina, una durezza e una struttura ideologica di cui il suo paese e il suo movimento nazionalista hanno bisogno. Chiamare i vietnamiti comunisti è quindi un errore. I vietnamiti sono sempre stati nazionalisti. Questo è un fatto storico che molti miei colleghi non hanno capito, perché vedevano la guerra come una guerra fra comunisti e anticomunisti. Non era solo questo. Era l'ultima grande lotta per l'indipendenza del popolo vietnamita.
  • Ho sempre sentito che avevo delle responsabilità. Quel senso del dovere, poi, che avevo sempre addosso, quel senso che, insomma, era giusto fare certe cose o non farle. Ma non ero io... era che non c'era niente di più importante nella mia vita, non c'era niente di più grande, sai... sono uno che non ha mai fatto compromessi. Non ne ho avuto forse un grande bisogno, ma avevo una ripulsione per i compromessi e se questa la vuoi chiamare moralità, sì.
  • Il coraggio è il superamento della paura.
  • L'inizio è la mia fine e la fine è il mio inizio. Perché sono sempre più convinto che è un'illusione tipicamente occidentale che il tempo è diritto e che si va avanti, che c'è progresso. Non c'è. Il tempo non è direzionale, non va avanti, sempre avanti. Si ripete, gira intorno a sé. Il tempo è circolare. Lo vedi anche nei fatti, nella banalità dei fatti, nelle guerre che si ripetono.
  • La regola secondo me è: quando sei a un bivio e trovi una strada che va in su e una che va in giù, piglia quella che va in su. È più facile andare in discesa, ma alla fine ti trovi in un buco. A salire c'è più speranza. È difficile, è un altro modo di vedere le cose, è una sfida, ti tiene all'erta.
  • La vera comprensione è quella che va al di là della ragione e che si fonda sull'istinto, sul cuore.
  • No, non c'è futuro. Il futuro è una scatola vuota in cui metti tutte le tue illusioni.
  • Questo mondo è una meraviglia. Non c'è niente da fare, è una meraviglia. E se riesci a sentirti parte di questa meraviglia – ma non tu, con i tuoi due occhi e i tuoi due piedi; se Tu, questa essenza di te, sente d'essere parte di questa meraviglia – ma che vuoi di più, che vuoi di più? Una macchina nuova?
  • Una strada c'è nella vita. La cosa buffa è che te ne accorgi solo quando è finita. Ti volti indietro e dici "oh, guarda, c'è un filo". Quando vivi non lo vedi il filo, eppure c'è. Perché tutte le decisioni che prendi, tutte le scelte che fai sono determinate, si crede, dal libero arbitrio, ma anche questa è una balla. Sono determinate da qualcosa dentro di te che è innanzitutto il tuo istinto, e poi da qualcosa che gli indiani chiamano il karma accumulato fino ad allora.
  • La verità è una terra senza sentieri.
  • Bisogna capire cosa c'è dietro i fatti per poterli rappresentare. La fotografia – clic! – quella la sanno fare tutti. (p. 115)
  • I libri. Sono stati i miei grandi amici, perché non c'è di meglio che viaggiare con qualcuno che ha fatto già la stessa strada, che ti racconta com'era per paragonare, per sentire un odore che non c'è più, o che c'è ancora. (p. 200)
  • L'educazione dovrebbe cominciare con l'insegnare il valore della non violenza, che ha a che fare poi con tutto: con l'essere vegetariano, col rispettare il mondo, col pensare che questa terra non te l'han data a te, che è di tutti e tu non puoi impunemente metterti a tagliare e fare buchi. (p. 399)

Lettere contro la guerra[modifica]

Incipit[modifica]

Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c'è più.

Citazioni[modifica]

  • Solo se riusciremo a vedere l'universo come un tutt'uno in cui ogni parte riflette la totalità e in cui la grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire chi siamo e dove stiamo. (2004, p. 33)
  • Per le popolazioni di qui la frontiera – anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni fa da un funzionario inglese – non esiste. Dall'una e dall’altra parte di quella innaturale divisione politica fra identiche montagne vive una identica gente: i pashtun (detti anche pathan) che in Afghanistan sono la maggioranza, in Pakistan una minoranza. I pashtun, prima che afghani o pakistani, si sentono pashtun ed il sogno di un Pashtunstan, uno Stato che aggreghi tutti i pashtun, non è mai completamente tramontato. (2004, p. 66)
  • Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo i soli protagonisti e i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni e i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. Il mondo degli altri non viene mai rappresentato. (2004, p.42)
  • L'Europa non può seguire, senza una pausa di riflessione, l'America su questa strada. L’Europa deve rifarsi alla propria storia, alla propria esperienza di diversità al fine di trovare la forza per un dialogo e non per uno scontro di civiltà. (2004, p.95)
  • Ma così è diventato il nostro mondo: la pubblicità ha preso il posto della letteratura, gli slogan ci colpiscono ormai più della poesia e dei suoi versi.
  • Mi pare che i fatti sono solo un'apparenza e che la verità dentro di loro è al massimo come una bambola russa: appena la si apre se ne trova una più piccola e ancora una più piccola, e ancora una più piccola fino a che si resta solo con un minuscolo seme. (2004, p. 78)
  • Frastornati dai dettagli dei fatti, perdiamo sempre di più il senso dell’insieme. (2004, p. 78)
  • L'unico modo di resistere è ostinarsi a pensare con la propria testa e soprattutto a sentire col proprio cuore. (2004, p. 79)
  • Dall'oblò di un piccolo aereo a nove posti delle Nazioni Unite in rotta da Islamabad a Kabul, il mondo appariva come se l'uomo non fosse mai esistito e non ci avesse lasciato alcuna traccia di sé. Da lassù il mondo era semplicemente meraviglioso: senza frontiere, senza conflitti, senza bandiere per cui morire, senza patrie de difendere. (2004, p. 119)
  • "In tutta la storia ci sono sempre state delle guerre. Per cui continueranno ad esserci", si dice. "Ma perché ripetere la vecchia storia? Perché non cercare di cominciarne una nuova?" rispose Gandhi a chi gli faceva questa solita, banale obiezione.
  • A volte mi chiedo se il senso di frustrazione, d'impotenza che molti, specie fra i giovani, hanno dinanzi al mondo moderno è dovuto al fatto che esso appare loro così complicato, così difficile da capire che la sola reazione possibile è crederlo il mondo di qualcun altro: un mondo in cui non si può mettere le mani, un mondo che non si può cambiare. Ma non è così: il mondo è di tutti.
  • Facciamo più quello che è giusto, invece di quello che ci conviene. Educhiamo i figli ad essere onesti, non furbi.
  • Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d'aver davanti prima dell'11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all'inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.
    Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove –, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un'altra nostra e così via. [Lettera a Oriana Fallaci]
  • Guarda un filo d'erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia. Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte. [Lettera a Oriana Fallaci]
  • Il mondo è cambiato. Dobbiamo cambiare noi. Innanzitutto non facendo più finta che tutto è come prima, che possiamo continuare a vivere vigliaccamente una vita normale. Con quel che sta succedendo nel mondo la nostra vita non può, non deve, essere normale. Di questa normalità dovremmo avere vergogna.
  • [Riferendosi all'11 settembre 2001] Il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite sono definitivamente cambiate. Forse questa è l'occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, l'occasione per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato all'oggi e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza dell'umanità è stata in gioco.
  • Le montagne, come il mare, ricordano una misura di grandezza dalla quale l'uomo si sente ispirato, sollevato. Quella stessa grandezza è anche in ognuno di noi, ma lì ci è difficile riconoscerla. Per questo siamo attratti dalle montagne. Per questo, attraverso i secoli, tantissimi uomini e donne sono venuti quassù nell'Himalaya, sperando di trovare in queste altezze le risposte che sfuggivano loro restando nelle pianure. Continuano a venire.
  • Le montagne sono sempre generose. Mi regalano albe e tramonti irripetibili; il silenzio è rotto solo dai suoni della natura che lo rendono ancora più vivo.
  • Vogliamo eliminare le armi? Bene: non perdiamoci a discutere sul fatto che chiudere le fabbriche di fucili, di munizioni, di mine anti-uomo o di bombe atomiche creerà dei disoccupati. Prima risolviamo la questione morale. Quella economica l'affronteremo dopo. O vogliamo, prima ancora di provare, arrenderci al fatto che l'economia determina tutto, che ci interessa solo quel che ci è utile?

Un altro giro di giostra[modifica]

Incipit[modifica]

Si sa, capita a tanta gente, ma non si pensa mai che potrebbe capitare a noi. Questo era sempre stato anche il mio atteggiamento.
Così, quando capitò a me, ero impreparato come tutti e in un primo momento fu come se davvero succedesse a qualcun altro.
«Signor Terzani, lei ha il cancro», disse il medico, ma era come non parlasse a me, tanto è vero — e me ne accorsi subito, meravigliandomi — che non mi disperai, non mi commossi: come se in fondo la cosa non mi riguardasse.
Forse quella prima indifferenza fu solo un'istintiva forma di difesa, un modo per mantenere, un contegno, per prendere le distanze, ma mi aiutò. Riuscire a guardarsi con gli occhi di un sé fuori da sé serve sempre. Ed è un esercizio, questo, che si può imparare. Passai ancora una notte in ospedale, da solo, a riflettere.

Citazioni[modifica]

  • E la vita passa – pensai – senza senso, fuori o dentro l'ashram. Passa in una sequela di attese, di riti il cui unico significato sta nel fatto che paiono dare un qualche senso all'inutile passare della vita. Dentro e fuori l'asharm, senza grande differenza. Fuori si va al lavoro, si dicono parole di circostanza, si gioca con cose che definiamo necessarie; lì si ripete migliaia e migliaia di volte una frase in onore di una dea che simboleggia la conoscenza. [...] Se invece di recitare quel mantra centomila volte avessimo investito il tempo a scavare un pozzo, forse l'India non avrebbe due terzi della sua gente senza acqua potabile. Ma questa era anche la follia dell'India che a me piaceva tanto!
  • È sempre così difficile giudicare il senso di quel che ci capita nel momento in cui ci capita e bisognerebbe imparare, una volta per tutte, a dare meno peso a quella distinzione – bene o male, piacere o dispiacere – visto che il giudizio cambia col tempo e spesso il giudizio stesso finisce per non avere alcuno valore.
  • Finirai per trovarla la Via... se prima hai il coraggio di perderti.
  • [...] i libri sono come i figli, che bisogna almeno essere incinta per pensare di farli [...].
  • Guardavo quei bei pesci muoversi nell'acqua, guardavo i maialini appesi agli uncini e pensavo a come, a parte la miseria e la fame, l'uomo ha sempre trovato strane giustificazioni per la sua violenza carnivora nei confronti degli altri esseri viventi. Uno degli argomenti che vengono ancora usati in Occidente per giustificare il massacro annuo di centinaia di milioni di polli, agnelli, maiali e bovi è che per vivere si ha bisogno di proteine. E gli elefanti? Da dove prendono le proteine gli elefanti?
  • Curarsi non vuol dire ingoiare una pillola ogni sei ore. Vuol dire purificare la propria mente e usarla per sostenere il processo di guarigione [...] Vuol dire orientarsi verso un giusto stile di vita. Curarsi è prevenire le malattie vivendo una vita in cui il corpo è in armonia e la mente è in pace.
  • I miracoli esistono e sono miracoli perché capitano una volta ogni tanto, perché sono qualcosa di insolito, qualcosa che non capiamo, perché sono un'eccezione alla regola del non-miracolo.
  • "Io chi sono?". La risposta sta nel porsi la domanda, nel rendersi conto che io non sono il mio corpo, non sono quello che faccio, non sono quello che posseggo, non sono i rapporti che ho, non sono neppure i miei pensieri, non le mie esperienze, non quell'Io a cui teniamo così tanto. La risposta è senza parole. È nell'immergersi silenzioso dell'Io nel Sé.
  • La vera conoscenza non viene dai libri, neppure da quelli sacri, ma dall'esperienza. Il miglior modo per capire la realtà è attraverso i sentimenti, l'intuizione, non attraverso l'intelletto. L'intelletto è limitato.
  • L'ultimo pezzo del cammino, quella scaletta che conduce sul tetto da cui si vede il mondo o sul quale ci si può distendere a diventare una nuvola, quel'ultimo pezzo va fatto a piedi, da soli.
  • Quella che chiamiamo eufemisticamente "carne" sono in verità pezzi di cadaveri, di animali morti, morti ammazzati. Perché fare del proprio stomaco un cimitero?
  • Questo è un altro aspetto rasserenante della natura: la sua immensa bellezza è lì per tutti. Nessuno può pensare di portarsi a casa un'alba o un tramonto.
  • Viaggiare era sempre stato per me un modo di vivere e ora avevo preso la malattia come un altro viaggio: un viaggio involontario, non previsto, per il quale non avevo carte geografiche, per il quale non mi ero in alcun modo preparato, ma che di tutti i viaggi fatti fino ad allora era il più impegnativo, il più intenso.
  • Questa non è un'apologia del male o della sofferenza. È un invito a guardare il mondo da un diverso punto di vista e a non pensare solo in termini di ciò che ci piace o meno. E poi: se la vita fosse tutto un letto di rose sarebbe una benedizione o una condanna? Forse una condanna, perché se uno vive senza mai chiedersi perché vive, spreca una grande occasione. E solo il dolore spinge a porsi questa domanda.
  • Vivo ora, qui, con la sensazione che l'universo è straordinario, che niente ci succede per caso e che la vita è una continua scoperta. E io sono particolarmente fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro giro di giostra.

Un indovino mi disse[modifica]

Incipit[modifica]

Una buona occasione nella vita si presenta sempre. Il problema è saperla riconoscere e a volte non è facile. La mia, per esempio, aveva tutta l'aria di essere una maledizione. "Attento! Nel 1993 corri un gran rischio di morire. In quell'anno non volare. Non volare mai", m'aveva detto un indovino. Era successo a Hong Kong. Avevo incontrato quel vecchio cinese per caso. Sul momento quelle parole m'avevano ovviamente colpito, ma non me ne ero fatto un gran cruccio. Era la primavera del 1976, e il 1993 pareva ancora lontanissimo. Quella scadenza però non l'avevo dimenticata. M'era rimasta in mente, un po' come la data di un appuntamento cui non si è ancora deciso se andare o no.

Citazioni[modifica]

  • Ci sono alcuni posti al mondo in cui uno si sente orgoglioso di essere membro della razza umana. Uno di questi è certo Angkor. Dietro la sofisticata e intellettuale bellezza di Angkor c'è qualcosa di profondamente semplice, di archetipico, di naturale che arriva al petto senza dover passar per la testa. In ogni pietra c'è un'intrinseca grandezza di cui uno finisce per portarsi dietro la misura.
    Non occorre sapere che ogni particolare aveva per i costruttori un suo significato, che ogni pietra, ogni scultura, ogni cortile, ogni pinnacolo erano tasselli nell'immenso mosaico che doveva raffigurare i vari mondi, compreso quello superiore, con al centro il mitico monte Mehru. Non occorre essere buddhisti o hindu per capire. Basta lasciarsi andare per sentire che ad Angkor, in qualche modo, ci si è già stati. (da «Nagarose», p. 284)
  • È un aspetto, questo, dello strano mestiere di cronista che non cessa di affascinarmi e, al tempo stesso, di inquietarmi: i fatti non registrati non esistono. Quanti massacri, quanti terremoti avvengono nel mondo, quante navi affondano, quanti vulcani esplodono e quanta, quanta gente viene perseguitata, torturata e uccisa! Eppure, se non c'è qualcuno che raccoglie una testimonianza, che ne scrive, qualcuno che fa una foto, che ne lascia traccia in un libro, è come se quei fatti non fossero mai avvenuti! Sofferenze senza conseguenza, senza storia. Perché la storia esiste solo se qualcuno la racconta. (da Birmania, addio!, 1997, pp. 60-61)
  • Ho scoperto prestissimo che i migliori compagni di viaggio sono i libri: parlano quando si ha bisogno, tacciono quando si vuole silenzio. Fanno compagnia senza essere invadenti. Danno moltissimo, senza chiedere nulla.
  • In apparenza tutto va bene, oggigiorno in Asia. Le guerre sono finite, la pace, anche quella ideologica, regna, con pochissime eccezioni, sull'intero continente e ovunque non si fa che parlare di crescita economica. Eppure proprio ora questo antico, grande mondo di diversità sta per soccombere. Il cavallo di Troia è la «modernizzazione».
    Invece di continuare sulla propria strada e cercare soluzioni asiatiche ai suoi problemi, l'Asia importa adesso, senza alcuna discriminazione, le formule del successo altrui e quindi rinuncia progressivamente alla propria diversità. Il rapido sviluppo strangola la sua cultura, mentre la pressione del nuovo materialismo spezza i legami tradizionali, distrugge i vecchi schemi di valori e toglie la fiducia in tutto ciò che non è riconducibile ad denaro. Modernizzazione non vuol dire occidentalizzazione e con questo l'Asia perde definitivamente la coscienza di sé.
    C'è per me qualcosa di tragico in questo continente che, così gioiosamente, uccide se stesso. (da Birmania, addio!, 1997, p. 68)
  • Ogni posto è una miniera. Basta lasciarcisi andare. Darsi tempo, stare seduti in una casa da tè a osservare la gente che passa, mettersi in un angolo del mercato, andare a farsi i capelli e poi seguire il bandolo di una matassa che può cominciare con una parola, con un incontro, con l'amico di un amico di una persona che si è appena incontrata e il posto più scialbo, più insignificante della terra diventa uno specchio del mondo, una finestra sulla vita, un teatro di umanità dinanzi al quale ci si potrebbe fermare senza più il bisogno di andare altrove. La miniera è esattamente là dove si è: basta scavare. (da Il missionario e lo stregone, 1997, p. 239)
  • La formula che fa funzionare questi gruppi [totalitari] è sempre la stessa: un'ideologia semplice, un capo carismatico, un'uniforme, rigide regole di comportamento e in compenso la promessa di una qualche salvazione... anzitutto dalla noia e dalla routine della vita quotidiana. (da Piaghe sotto i veli, 1997, p. 167)
  • [Sulle suore della missione cattolica di Kengtung] La loro, e quella della missione cattolica di Kengtung[4] è una di quelle belle storie che si è persa l'abitudine di raccontare. Specie sui giornali. Forse è perché i protagonisti sono gente fuori dall'ordinario e il mondo d'oggi sembra più interessato a glorificare il banale e ad esaltare personaggi comuni con cui tutti si possono identificare. (da Birmania, addio!, pp. 75-76)
  • Per qualche strana ragione uno è abituato a pensare alle vicende umane come avvenimenti sulla terra, a vedere il passato nella fisicità dei monumenti, in quel che è stato costruito, nei resti di quel che è stato distrutto e nelle tombe; eppure gran parte della storia, e spesso proprio quella più drammatica, è stata scritta sui mari dove gli uomini non hanno lasciato traccia di sé, dove tutto è stato inghiottito dall'acqua che è oggi come era mille o centomila anni fa: illeggibile. Il mare ha ispirato i grandi sogni di conquista dell'uomo; sul mare si sono giocate le sorti di civiltà e di imperi. È la promessa di terre sconosciute al di là dell'orizzonte che ha spinto i grandi navigatori ad affidare le proprie vite al mare. (da Meglio che lavorare in banca, p. 372)
  • Tutti dobbiamo chiederci – e sempre – se quel che stiamo facendo migliora e arricchisce la nostra esistenza. O abbiamo tutti, per una qualche innaturale deformazione, perso l'istinto per quel che la vita dovrebbe essere, e cioè soprattutto un'occasione di felicità? (da Birmania, addio!, 1997, p. 70)

Bibliografia[modifica]

  • Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, Edizioni Longanesi & C., 2002.
  • Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra, TEA, Milano, 2004. ISBN 9788850235889
  • Tiziano Terzani, Buonanotte, signor Lenin, TEA, 2004.
  • Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, Superpocket, Milano, 1997. ISBN 88-462-0022-5
  • Tiziano Terzani, Un indovino mi disse, TEA, 2004.
  • Tiziano Terzani, Un altro giro di giostra. Viaggio nel male e nel bene del nostro tempo, Edizioni Longanesi & C., 2004
  • Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio. Un padre racconta al figlio il grande viaggio della vita, a cura di Folco Terzani, Edizioni Longanesi & C., 2006.
  • Tiziano Terzani, In Asia, Superpocket, Milano, 2000. ISBN 88-462-00149-3
  • Tiziano Terzani, In Asia, TEA, Milano, 200713. ISBN 978-88-502-0617-9
  • Tiziano Terzani, In Asia, TEA, 2014.

Note[modifica]

  1. Dall'intervista di Francesco Bertolini, Il manager e l'arcobaleno, riportato in Antonio Simeone, Visioni e illusioni di una nuova economia globale, Gump, Campobasso, 2012, cap. V, Approfondimenti, pp. 281-282. ISBN 978-88-906769-1-8
  2. Dall'intervista di Francesco Bertolini, Il manager e l'arcobaleno, riportato in Antonio Simeone, Visioni e illusioni di una nuova economia globale; in Tiziano Terzani e i nuovi managers, lettera43.it, 7 marzo 2013.
  3. Citato in Piero Verni, Tiziano Terzani e il Tibet, italiatibet.org.
  4. Fondata agli inizi del XX secolo da Padre Erminio Bonetta sacerdote del PIME. Cfr. Un indovino mi disse, p. 76.

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