Aleksandr Goldfarb (biologo)
Aleksandr Davidovič Goldfarb (1947 – vivente), microbiologo, attivista e scrittore russo.
Citazioni di Aleksandr Goldfarb
[modifica]- Il servizio segreto russo è diventato un potere a se stante e in questa rete di gruppi e organizzazioni parallele o deviate non è mai esattamente chiaro chi controlla chi.[1]
- Berezovskij e Zakaev si fidano completamente della polizia britannica, ma per niente di quella russa [...]. Accetterebbero di farsi interrogare dagli agenti del Cremlino, ma a due condizioni. Che l'interrogatorio non avvenga all'ambasciata russa e che Scotland Yard verifichi che non si tratti di un tentativo di avvelenare o assassinare in altro modo anche loro.[2]
- Il Cremlino di Putin ha usato i ceceni per assassinare la Politkovskaya, per gli attentati di Mosca del 1999, per Berezovsky, appunto. Pura manovalanza, come si usa con i killer di Cosa Nostra. Non avrà remore a farlo ancora.[3]
Intervista di Marina Mastroluca, l'Unità, 21 settembre 2007.
- Litvinenko non era pericoloso per quello che avrebbe potuto rivelare. Il suo è stato un omicidio rituale, con un elemento di passionalità non razionale. Putin non poteva semplicemente sopportare che persone che lui considerava nemici [...] si fossero rifugiate a Londra, mettendo nei loro confronti una posizione di impotenza.
- Litvinenko, al contrario di quanto è stato affermato dalle autorità russe, non era un personaggio secondario. Era talmente tanto odiato che la sua immagine veniva usata come bersaglio nelle esercitazioni di tiro a Mosca.
- Il polonio radioattivo è un veleno perfetto, molto difficile da individuare. È stato un caso che i britannici lo abbiano scoperto. Sarebbe bastato che Sascia fosse un po' meno forte o che avesse bevuto un sorso di più del te avvelenato e non ci sarebbe stato il tempo neanche di capire perché era morto. Invece ci ha messo settimane a morire e i britannici hanno potuto dar intervenire esperti militari. Una volta individuate però, le tracce radioattive hanno portato dritti al mittente. Ma anche prima che si scoprisse di che cosa stava morendo, Litvinenko non ha avuto dubbi nell'accusare Putin.
- Tutto questo affannarsi intorno a Lugovoj è un gioco delle parti. Londra chiede la sua estradizione, perché non può nemmeno pronunciare il nome del vero colpevole: se lo facesse dovrebbe riconoscere che è avvenuto un atto di guerra contro un cittadino britannico, quale era Litvinenko. E le conseguenze potrebbero sfuggire al controllo. Non dire nulla, al contrario, sarebbe porgere l'altra guancia. È una situazione di grande difficoltà.
Morte di un dissidente
[modifica]Incipit
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Il cellulare squillò prima dell'alba.
«Salut», disse una voce. «Dove sei?» Era Boris Berezovskij, l'uomo che fino a pochi mesi addietro era uno degli oligarchi più ricchi e potenti della Russia. Ora era un espatriato.
Citazioni
[modifica]- [Su Aleksandr Val'terovič Litvinenko] Tutto quello che mi disse mentre eravamo in auto – sui gangster, sugli oligarchi, sui terroristi e sui politici – lo raccontava come qualcosa accaduto prima di Marina o dopo di lei. Il più importante punto di riferimento della sua vita non era la nascita o il diploma, non il giorno in cui si era arruolato nel KGB e nemmeno la sua fuga dalla Russia. Era invece il giorno dell'estate del 1993 in cui si erano conosciuti. Quello che era successo prima non lo interessava affatto. Incontrarla era stato il tocco magico che aveva trasformato tutto in qualcosa di straordinario. Marina stava alla larga dai suoi affari e lui evitava di raccontarle le troppe cose che per lei sarebbe stato pericoloso sapere. Ma lei era comunque la sua stella polare. (p. 33)
- Saša era un detective operativo, un oper, come si dice nel suo gergo. Teneva schedari segreti sui malavitosi, ne studiava gli affari personali, i collegamenti e i contatti con politici e affaristi. Quello che Saša sapeva e come lo veniva a sapere erano cose che raramente si rivelavano nei tribunali. Ma per gli investigatori ufficiali il materiale da lui raccolto aveva un valore inestimabile. Risolveva i crimini prima ancora che fossero formulate le accuse. Lavorava dietro le quinte. Orecchiava. Reclutava agenti e li coordinava. (p. 35)
- Giunto al potere nel 1991 mentre consegnava la dissoluzione della Russia, Boris Eltsin diede inizio a misure drastiche e decisive: rinunciò al controllo statale dei prezzi, abbatté le barriere doganali e si imbarcò in un dirompente programma di privatizzazioni. In quattro anni di terapia d'urto il suo primo consigliere, Anatolij Čubajs, il trentottenne ragazzo prodigio dell'economia russa, fece l'impossibile: mise all'asta e privatizzò decine di migliaia di imprese, spostò più della metà della forza lavoro nel settore privato e in qualche modo impedì all'economia di scivolare nell'inflazione incontrollata. (p. 44)
- Lo scarso potere d'acquisto della popolazione impoverita e la riduzione dei sussidi statali bloccarono intere branche dell'economia, soprattutto nel complesso industriale-militare, ma anche tra i produttori di beni di consumo, i quali non potevano sostenere la concorrenza delle aziende occidentali che avevano inondato il Paese con tutto quello di cui mancavano – e così a lungo avevano desiderato – i comuni cittadini russi. Abiti, auto ed elettronica occidentale erano richiestissimi da chiunque se li potesse permettere.
Sfortunatamente, erano sempre meno quelli che avevano i soldi per comprare prodotti occidentali. A milioni scesero sotto il livello della povertà. Funzionari civili – insegnanti, medici, impiegati, poliziotti – non furono pagati per mesi. Non si incassavano imposte, dal momento che il sistema fiscale doveva ancora essere creato (non esistevano imposte nel sistema sovietico). Gli intellettuali delle università e dei laboratori scientifici persero ogni fiducia nella democrazia. Il crimine prosperava. L'esercito si lamentava. Il capitalismo e il libero mercato persero tutto il loro fascino. In numero crescente, i russi cominciarono a rimpiangere i cari e vecchi tempi dell'Unione Sovietica. (pp. 44-45) - [Sulla crisi costituzionale russa del 1993] [...] il principale dilemma di Eltsin durante tutta la sua amministrazione fu stabilire fino a che punto lui stesso intendesse violare la democrazia proprio per salvarla. Nell'autunno 1993 il Soviet Supremo – il parlamento, ancora pieno di apparatčiki sovietici – aveva bloccato le riforme e incitato le regioni federali a ribellarsi. Eltsin sciolse le camere e mandò carri armati ad affumicare i deputati che si erano barricati all'interno: nella mischia ne morirono centoquaranta. Fu una scelta dura, ma le alternative erano apparse peggiori: il completo collasso economico e l'implosione politica. (p. 45)
- [...] il potere di Koržakov andava ben oltre la sicurezza: era il rappresentante de facto di tutti i servizi segreti e dell'intera comunità dell'intelligence del Cremlino. (p. 46)
- Una cosa su cui sia i suoi amici sia i nemici concordano è che Saša aveva una memoria fenomenale. Teneva a mente centinaia di episodi, indirizzi, numeri di telefono e nomi. Insieme, questi offrivano uno spaventoso quadro dell'ondata criminale che a poco a poco stava sommergendo le istituzioni preposte alla difesa della legge della nuova Russia. (pp. 53-54)
- Vestito con jeans e maglione, Berezovskij sembrava ancor più fuori luogo, non essendo né un apparatčik né, all'apparenza, un capitalista. Assomigliava più a un matematico pazzo che stesse spiegando a tutta velocità un teorema di estrema eleganza, mentre i suoi ascoltatori si preoccupavano di meschinità e mondanità di dubbio gusto. Devo dire che in carne e ossa appariva molto più bello che in televisione: la testa calva luccicava al sole, ma non invecchiava il suo volto espressivo e giovanile. Gli occhi fieri e scuri e il suo costante gesticolare trasmettevano un'energia decisamente maggiore di quella che traspariva dallo schermo. (p. 58)
- [Su Anatolij Borisovič Čubajs] [...] in poco più di tre anni, il giovane primo vicepremier aveva completamente ribaltato la rivoluzione bolscevica, la stessa che settant'anni prima aveva versato fiumi di sangue espropriando proprietà private. Čubajs aveva riportato gran parte di quelle proprietà di Stato in mani private, senza quasi spargere una goccia di sangue, se si escludevano l'attacco al Soviet supremo nel 1993 e le centinaia di vittime di tutti i «conflitti d'affari» in tutto il Paese.
Tuttavia, secondo Soros, Čubajs non stava facendo le cose nel modo in cui lui avrebbe voluto. L'arrogante e irritante primo vicepremier non era solo un arcinemico dei comunisti. Era un liberista e pensava che, una volta instaurato il libero mercato, il diritto lo avrebbe seguito automaticamente nella scia della libertà economica. (p. 59) - Čubajs, l'adoratore del libero mercato, continuava a ripetere che alla fine la proprietà privata avrebbe risolto tutti i problemi politici e sociali; che la democrazia e la libertà, la morale sociale, il diritto e un sistema di governo sarebbero sgorgati dal capitalismo con la stessa certezza con cui i prezzi effettivi sgorgavano dalla mano invisibile di Adam Smith. (p. 60)
- Da quando avevo incontrato Berezovskij, non riuscivo a liberarmi dal pensiero che non fosse adatto all'ecosistema dell'establishment del potere russo. Lui era il Grande Gatesby della Rublëvka, il suo temperamento instabile e le sue grandi visioni non erano compatibili con l'atmosfera letargica e letale che permeava i muri del Cremlino. (p. 62)
- Koržakov ricattava chiunque lo aggirasse per arrivare al presidente, anche se era una visita del tutto innocente. (p. 77)
- [Su Boris Nikolaevič El'cin] [...] univa tratti apparentemente incompatibili: personalità decisa in tempo di crisi, aveva crisi di inerzia al limite dell stupor nei periodi intermedi. Era un autocrate che proteggeva la libertà di parola e le libertà civili, un ex boss del Partito comunista che odiava i comunisti, un sovietico al cento per cento che aveva scompaginato in un solo colpo l'intera Unione Sovietica. (p. 77)
- [Su Viktor Stepanovič Černomyrdin] A parte Eltsin, era il principale funzionario dell'epoca sovietica nel governo russo. Quell'eredità era evidente nel suo fisico solido e grosso, nella grande testa da cui sporgeva una mascella quadrata, negli occhi e nella voce profonda di una uomo abituato a dare ordini. (p. 81)
- [Su Achmed Zakaev] Prima del crollo dell'Unione Sovietica, era stato primo attore del Teatro drammatico di Groznyj, aveva interpretato Shakespeare e i classici russi, sognando un rinascimento culturale della Cecenia che avrebbe dovuto seguire la fine del comunismo. Dopo la caduta dell'Unione Sovietica e la dichiarazione d'indipendenza della Cecenia, era diventato presidente della Società nazionale degli attori ceceni, «un mancato Ronald Reagan ceceno», come diceva scherzando. Ma poi era scoppiata la guerra. (p. 97)
- Per diventare un generale sovietico, bisognava essere leali al cento per cento al Partito comunista. Inoltre, un uomo che non fosse di etnia russa doveva farsi assimilare completamente e sposarsi con una donna di nazionalità russa. Dudaev aveva tutte queste caratteristiche. Parlava a stento il ceceno. Ma quando Zakaev lo sentì tenere un discorso a una conferenza sulla rinascita della nazione cecena, ne fu sopraffatto. Ecco un uomo, si disse, che potrebbe portare il suo popolo alla libertà. Da attore, Zakaev aveva apprezzato il carisma di Dudaev. Forse era l'influsso dell'Estonia, una delle repubbliche sovietiche più inquiete. Gli estoni adoravano Dudaev per il fatto di aver ignorato l'ordine di Mosca di chiudere la televisione estone durante i massicci disordini antisovietici. (p. 98)
- [Sulla prima guerra cecena] Come succede in tante guerre, era cominciata come risultato di un errore di calcolo da parte di entrambi i contendenti. Quando l'Unione Sovietica crollò, i ceceni pensarono di essere liberi, come le altre repubbliche sovietiche. [...] Ma la Cecenia non era una repubblica a pieno diritto dell'Unione Sovietica, come l'Estonia o la Georgia. Era solo una delle 86 circoscrizioni della Federazione Russa e una regione ad autonomia etnica. Secondo Mosca, non aveva il diritto alla piena sovranità. I ceceni protestarono e dichiararono l'indipendenza unilateralmente, come aveva fatto il Tatarstan, un'altra regione a prevalenza musulmana, circondata da terre russe. [...] A metà del 1994 [...] Eltsin non poteva permettersi di garantire a un'altra regione nemmeno una sovranità simbolica. Anzi, decise di spodestare Dudaev e di insediare un'amministrazione fedele a Mosca.
Nell'estate del 1994 autorizzò un'operazione segreta in appoggio a forze ostili a Dudaev, comprendenti perlopiù espatriati ceceni con base a Mosca. Dudaev sconfisse gli insorti e catturò un gran numero di soldati russi che si erano camuffati da dissidenti ceceni. Li presentò in televisione, scegliendo l'NTV e denunciò pubblicamente Eltsin come impostore. Eltsin divenne furioso. Nel dicembre 1994 scatenò tutta la forza dell'esercito russo basandosi sulle assicurazioni del suo ministro della Difesa, Pavel Gračev, secondo il quale «un reggimento di paracadutisti avrebbe conquistato Groznyj in due ore». (pp. 99-100) - [Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] Marina non credé alle proprie orecchie quando udì la storia di Saša. Il suo gruppo, un mucchio di oper di città dell'FSB, era stato gettato in mezzo a un'operazione militare senza alcun equipaggiamento, senza giubbotti antiproiettile e senza nemmeno un adeguato rifornimento di cibo e di acqua. Era stato loro ordinato di attaccare il villaggio percorrendo a piedi l'aperta campagna, ma avevano dovuto ritirarsi quando si erano ritrovati esposti al fuoco amico di alcuni lanciarazzi. Avevano dormito in un autobus privo di riscaldamento in un gelido freddo. Avevano del cibo in scatola, ma non cucchiai, forchette né coltelli per aprire i barattoli. Erano rimasti due giorni nell'autobus senza ordini né comunicazioni da nessuno. (p. 101)
- [Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] Saša era tra il pubblico alla conferenza stampa del direttore dell'FSB, Michail Barsukov, trasmessa dal Daghestan il 20 gennaio 1996, a livello nazionale, dall'ORT. Sentì il suo capo dire: «Abbiamo usato lanciarazzi Grad soprattutto per esercitare una pressione psicologica [...] in modo che la popolazione locale, compresi i ceceni, potesse capire [...] C'erano tre lanciarazzi, ma ne usammo uno solo. Bombardavamo un area di un chilometro e mezzo dal villaggio e sull'altra sponda del [fiume] Terek, sul territorio ceceno, laddove i ribelli che erano venuti ad aiutare i banditi avrebbero potuto concentrarsi».
Saša poté solo imprecare a mezza voce. Quando aveva percorso a passo di corsa i campi fangosi che portavano alla città, quei razzi Grad erano esplosi tutt'intorno a lui, uccidendo due suoi amici. Come poteva il suo capo mentire in quel modo davanti al mondo intero? (pp. 102-103) - [Sulla crisi degli ostaggi in Kizljar-Pervomajskoje] Quell'esperienza scosse la fiducia di Saša nel sistema, ma era ancora perfettamente convinto che si dovesse vincere la guerra. Non odiava i ceceni, ma era un patriota. Non poteva accettare di essere sonfitto da loro. (p. 103)
- Saša apprese che, contrariamente a quanto tutti pensavano, il GRU aveva avuto solo un ruolo di sostegno nell'uccisione [di Džochar Dudaev], fornendo gli aerei che avevano lanciato i missili. Il rapporto suggeriva che l'ideatore dell'operazione fosse il suo collega dell'FSB, generale Evgenij Chocholkov. Inoltre, il rapporto sosteneva che Chocholkov era stato coinvolto in un'altra operazione clandestina in cui era riuscito a ottenere un sistema americano di guida e da cui mancavano grosse somme di denaro. (p. 108)
- Cercai di spiegare a George che la Russia non aveva una tradizione di libertà. Le sue istituzioni democratiche erano ancora fragili. Non c'erano una borghesia o una società civile. Per secoli, i guai della Russia erano venuti dal potere illimitato del Cremlino. In un simile contesto, qualunque centro alternativo di potere in grado di controbilanciare lo Stato – persino gli oligarchi – era un agente del progresso, perché si sostituiva ai controlli e agli equilibri istituzionali che non c'erano. (p. 130)
- All'interno dell'FSB, l'URPO godeva di una notevole autonomia. Comprendeva circa quaranta oper con servizi di trasporto e di supporto tecnico, un'unità di intervento speciale e agenti scelti. Il comando si trovava in un edificio separato e senza contrassegni lontano dal quartier generale della Lubjanka. Saša non impiegò molto a capire che la missione dell'URPO comprendeva l'esecuzione di azioni extragiudiziali contro sospetti criminali. (p. 134)
- La maggior parte dei membri dell'URPO erano veterani della Cecenia e, anzi, il concetto stesso di URPO proveniva dall'esperienza cecena: in circostanze straordinarie l'applicazione della legge poteva avvenire al di fuori della legge stessa. Una cosa che a Saša non piaceva affatto. Forse quegli eccessi potevano essere considerati effetti collaterali di una guerra, ma in Cecenia la Russia non aveva invocato la legge marziale. La presenza dell'esercito era sempre stata considerata come un'operazione per far applicare la legge. (p. 134)
- Come mi disse Saša, i metodi di reclutamento dell'URPO consistevano nel cercare oper con un ruolino di marcia grondante sangue. Per esempio, il suo ufficiale era stato richiamato in servizio dopo un certo periodo di carcere, dov'era rinchiuso per avere ucciso un sospetto di omicidio e stupro che aveva dovuto rilasciare per mancanza di prove. Altri ufficiali superiori dell'URPO avevano fatto scomparire quattro gangster del Daghestan che avevano avuto la sfortuna di cercare di estorcere soldi a un negozio di proprietà del figlio di un ex capo del KGB. (pp. 134-135)
- [Su Michail Trepaškin] Quando un suo superiore disse a Saša: «Dobbiamo occuparci di lui», decise di fingere di non capire.
«Cosa vuol dire con "occuparci"?»
«Be', è una situazione delicata. Capisci, sta per portare in tribunale il direttore e rilascia interviste. Dovremmo farlo tacere, su richiesta personale del direttore.»
«E come lo facciamo tacere?»
«Ficcagli una pistola nella schiena.»
«Nemmeno per sogno. È un oper, conosce tutti i trucchi. Non rinuncerà mai a portare il direttore in tribunale.»
«Be', allora uccidiamolo e basta.» Il superiore stava cominciando a perdere la pazienza. «Di' che abbiamo cercato di portagli via il documento d'identità dell'FSB, che ha resistito e che lo abbiamo abbattuto. Non fare lo scemo con me, Saša. Lo sai o no, che cosa facciamo qui? Siamo una divisione dedita a compiti speciali. Siamo qui per risolvere i problemi, non per fare domande.» (pp. 135-136) - A metà giugno Valentin Jumašev, che discuteva sovente di importanti incarichi amministrativi con Boris, chiese al tycoon la sua opinione su uno dei suoi assisstenti: un uomo di nome Vladimir Putin.
Boris conosceva bene Putin. Si era incontrato con lui quando il futuro presidente era vicesindaco di San Pietroburgo, la seconda più grande città della Russia, e Boris era ancora impegnato nella vendita di automobili. All'epoca Putin godeva della reputazione di incorruttibile, una rara avis tra i funzionari. Più di recente, Putin aveva diretto un gruppo di verifica nell'amministrazione del Cremlino.
«Perché?» chiese Boris.
«Stiamo prendendolo in considerazione per il posto di direttore dell'FSB.»
Jumašev spiegò che la qualità principale che il presidente cercava in un nuovo capo delle spie era la lealtà, ma che non si fidava degli attuali generali dell'FSB. Erano un clan molto chiuso. Se Putin aveva una caratteristica fondamentale, era la sua incrollabile lealtà. Quando il suo ex capo, Anatolij Sobčak, l'ardentemente anticomunista sindaco di San Pietroburgo, non era stato riconfermato alle elezioni, Putin aveva preferito la disoccupazione al tradimento. (pp. 147-148) - Secondo Saša, Putin non aveva mai lasciato davvero il servizio. Era sempre stato fedele al KGB. Poteva anche aver prestato temporaneamente la sua lealtà a Sobčak o a Eltsin, ma quando tornava in seno all'agenzia, non vedeva l'ora di infilarsi di nuovo nei vecchi metodi. (p. 149)
- [Su Evgenij Maksimovič Primakov] Per la prima volta dalla dissoluzione dell'Unione Sovietica, un politico che non era né un democratico né un riformista si trovava a capo del governo. Sessantottenne, ex veterano dei servizi di controspionaggio del KGB, soprannominato derisoriamente, ma solo alle sue spalle, «Primus», era un ideologo tutto d'un pezzo dell'impero russo e considerava l'Occidente come una minaccia geopolitica nel lungo termine. Fin dai tempi del KGB, era stato amico di molti dittatori antiamericani, da Saddam Hussein a Slobodan Milošević. (p. 154)
- [Su Evgenij Maksimovič Primakov] Tendeva a un modello economico dominato dallo Stato. Nell'ambito delle riforme politiche preferiva la legge e l'ordine ai diritti e alla libertà. Con il suo atteggiamento nei confronti del capitalismo russo, fece rabbrividire l'intera comunità affaristica quando annunciò un'amnistia per centomila detenuti russi dicendo di «stare liberando lo spazio per quelli che finiranno in galera, ovvero quella gente che ha commesso crimini economici». (p. 154)
- C'è una strana caratteristica della politica russa, secondo la quale chiunque presieda il Cremlino, che sia uno zar, un segretario generale o un presidente, ha comunque una mistica qualità: la vlast', o «potere», cosa che instilla nel popolo una buona dose di istintiva sottomissione e di rispetto. L'ingrediente regale della suprema autorità unisce tutti i governanti storici della Russia in una singola dinastia virtuale che va dalla casa dei Romanov, a Lenin, Stalin, Chruščëv e Brežnev, fino a Gorbačëv e Eltsin. Da qui deriva il concetto di erede legittimo. In pratica, come Putin e Boris e tanti altri avevano capito perfettamente, chiunque Eltsin avesse indicato come suo erede avrebbe goduto di un automatico vantaggio elettorale, qualcosa come il 20 o addirittura il 40 per cento dei voti. Non faceva alcuna differenza che lo stesso Eltsin avesse sondaggi favorevoli trascurabili: la specifica mitologia di essere l'erede della vlast' funzionava del tutto indipendentemente dalla personalità del titolare dell'eredità. (p. 178)
- Lefortovo è una prigione speciale. È ben costruita, pulita, diretta in maniera efficiente ed è deprimente in modo indicibile. La cosa peggiore, secondo Saša, era il silenzio. Non aveva mai percepito in vita sua una simile devastante immobilità. (p. 184)
- Come prigione dell'FSB, Lefortovo era riservata a una clientela molto seria: spie, capi della mala, criminali economici su vasta scala e così via. Saša aveva il privilegio di essere lì per un crimine da poco: aver picchiato qualcuno. Ma gli fu riservato il trattamento che di solito avevano i clienti più seri. Usarono un'intera gamma di pressioni psicologiche su di lui. (p. 184)
- In otto mesi a Lefortovo Saša cambiò compagno di cella cinque o sei volte. Erano tutte persone con lunghe condanne che, invece di marcire in qualche gulag davvero infernale, si erano guadagnate il soggiorno a Lefortovo facendo la spia per gli sbirri. Il metodo era più o meno lo stesso: stabilire un clima di fiducia parlando della famiglia e degli interessi comuni, condividendo storie di vita ecc. e poi, gradualmente, infondendo nell'«obiettivo» un senso di disperazione, di futilità della propria resistenza al sistema e così via. Oppure, a seconda dei casi, facendo parlare l'«obiettivo» di cose specifiche, quelle insomma che l'investigatore voleva sapere. Saša conosceva benissimo quella routine: gli «sviluppi all'interno della cella» erano stati uno dei suoi argomenti preferiti alla scuola di controspionaggio. (p. 185)
- [Sulle elezioni presidenziali in Russia del 2000] Come mi spiegò Berezovskij anni dopo, l'immagine bellicosa di Putin era stata attivamente promossa dai direttori della sua campagna nel 1999. Era perfettamente in sintonia con la maggioranza dei russi. L'orgoglio nazionale ferito nel periodo immediatamente successivo alla guerra fredda, il desiderio di un «uomo forte» che portasse ordine e stabilità, l'ira per la disparità tra i pochi superricchi e le masse impoverite: erano tutti motivi per cui quell'uomo ascetico, introverso, duro come l'acciaio, il proletario che combatte e vince contro ogni previsione, fu accolto calorosamente dal popolo russo. Putin era l'uomo che ci voleva per liberarsi di tutte le frustrazioni di cui soffriva il Paese. (p. 194)
- [Sulle bombe nei palazzi in Russia] Quelle bombe vanificarono ogni speranza di evitare una nuova guerra. Boris era profondamente stupito, come lo erano d'altronde molti osservatori. Non c'era alcun senso in tutto ciò. Basaev e Udugov erano cattivi, ma non pazzi. Volevano il potere e, a conti fatti, volevano trattare con il Cremlino. Se erano stati loro a farlo, era un suicidio. (p. 204)
- Putin non gli era mai piaciuto, era un agente in sonno della Kontora che era stato richiamato e poi mandato a dirigere l'FSB nel 1998, o forse, a ben pensarci, non aveva mai abbandonato il suo posto. Non era mai stato né leale né sincero e aveva ingannato tutti, compreso Boris. (p. 216)
- [Sulle elezioni parlamentari in Russia del 2003] Un pomeriggio di metà maggio andai a correre in un faggeto attorno all'Holiday Inn in un frondoso sobborgo di Mosca. Avevo il cellulare alla cintura. All'improvviso squillò: era Boris, dalla Francia.
«Dimmi una cosa: in America il presidente può licenziare un governatore?»
«No», dissi, «assolutamente no. È il perno di tutto il sistema federale.»
«Hai sentito cosa vogliono fare? Vogliono liquidare i governatori!»
Si riferiva a un pacchetto di «riforme» costituzionali proposto da Putin. Era il suo primo importante intervento legislativo. Lo aveva definito un rafforzamento dell'«asse verticale del potere». In realtà era una decisa retromarcia rispetto alla rivoluzione di Eltsin, che per la prima volta nella storia della Russia aveva garantito alle 86 province il diritto all'autogoverno. (p. 218) - [Sull'incidente del K-141 Kursk] Quando Boris venne a sapere del Kursk, era in Francia, nella sua residenza di Cap d'Antibes. Cominciò subito a telefonare a Putin, ma riuscì a raggiungerlo solo il 16 agosto, il quinto giorno dello sviluppo della tragedia.
«Volodja, perché sei a Soči? Dovresti interrompere le tue vacanze e andare alla base dei sommergibili o almeno a Mosca. Tu non capisci come vanno le cose e questo ti danneggerà.»
«E tu, perché sei in Francia? Te la sei meritata la vacanza o no?» Putin era sarcastico.
«Prima di tutto, non sono il padre della nazione e a nessuno importa niente di dove sia. Secondo, in mattinata volo a Mosca.»
«Bene, Boris, grazie per il consiglio.»
Quando il 17 Boris atterrò a Mosca, Putin era ancora in vacanza. (pp. 223-224) - Gordievskij era una vera spia. Per anni, in quanto capo della stazione di Londra del KGB, aveva lavorato come agente doppio per i britannici. Tradito nel 1985 dalla talpa della CIA Aldrich Ames, Gordievskij era stato richiamato a Mosca. Lo avrebbero sicuramente giustiziato, insieme con altre vittime del tradimento di Ames, se i britannici non fossero riusciti a farlo estradare all'ultimo momento. Fu un'operazione degna di un romanzo di John Le Carré che comportò travestimenti e tranelli. (p. 257)
- [Su Russia. Il complotto del KGB] Purtroppo il libro non forniva alcuna prova definitiva sulla responsabilità degli attentati del 1999, ma conteneva una gran quantità di nuove prove circostanziate. Raccontava nei particolari varie operazioni terroristiche eseguite da gruppi creati dall'FSB o a essa affiliati, suggerendo una modalità che corrispondeva agli attentati ai condomini. (p. 261)
- [Su Russia. Il complotto del KGB] Per entrambi [Aleksandr Litvinenko e Boris Berezovskij] il libro non era destinato al pubblico in genere. Era un messaggio personale alla loro nemesi, l'FSB per Saša e Putin per Boris. Erano le loro rispettive dichiarazioni di guerra: pensiamo che l'hai fatto tu e stiamo per venirti a prendere. Pensai che ovviamente a nessuno importasse che il libro non fosse un bestseller: se l'FSB aveva davvero fatto saltare quei condomini, il libro sarebbe stata la rovina del Cremlino, magari provocando una reazione che, di per sé, avrebbe rappresentato una prova. (p. 263)
- È diventato un cliché dire che l'11 settembre 2001 cambiò tutto, ma per la Russia, che non aveva nulla a che vedere con Osama bin Laden, il cliché regge perfettamente. In cambio dell'appoggio nella guerra al terrorismo, Putin ottenne ciò che avrebbe potuto salvare la sua presidenza: la condiscendenza degli Stati Uniti per la guerra in Cecenia e lo smantellamento della democrazia russa. (p. 263)
- Al contrario di Saša, che si era unito al KGB nel periodo in cui stava scomparendo, Trepaškin vantava quindici anni di eccellente servizio come investigatore della Lubjanka nell'era sovietica. La sua specialità era il commercio clandestino di opere d'arte e antichità. Nel periodo immediatamente successivo al crollo dell'Unione Sovietica, era stato spostato agli affari interni e aveva lavorato alle dipendenze dirette di Nikolaj Patrušev, succeduto a Putin come direttore dell'FSB. Aveva indagato sulla corruzione all'interno della Kontora e sui collegamenti di alcuni dei suoi agenti con gruppi di criminali ceceni a Mosca. Gli agenti fornivano «protezione» ai ceceni e in più si presentavano come mercanti d'armi per i separatisti. Una volta Trepaškin intercettò un carico di armi venduto da qualche ufficiale disonesto dell'FSB ai ribelli, cosa che gli fruttò una medaglia. Ma nel 1996 ruppe con la Kontora, quando fece pubbliche accuse di corruzione. E questo fu anche il motivo per cui finì nell'elenco dei bersagli dell'URPO. (p. 283)
- [Sulla seconda guerra cecena] La Cecenia fu la tomba della democrazia russa e la causa definitiva dell'allontanamento della Russia dall'Occidente. La lotta di Boris contro il Partito della guerra e i suoi conflitti con l'FSB, che avevano trascinato Saša nel vortice delle lotte di potere del Cremlino, erano cominciati con la Cecenia. Per Putin, la Cecenia divenne l'interminabile incontro di judo e il collante che cementava la reciproca dipendenza da George Bush in una distruttiva relazione. (p. 303)
- Era impossibile che una delle due parti vincesse quel conflitto. Le forze russe controllavano la maggior parte del Paese, ma solo durante le ore di luce. Di notte la campagna era nelle mani della resistenza, che aveva cellule clandestine in ogni cittadina e in ogni villaggio. I guerriglieri erano soliti minare le strade e attaccare rapidamente per sparire poi altrettanto in fretta allo scopo di tormentare le truppe russe. In tutto il Caucaso settentrionale, la forza dei seguaci di Šamil Basaev aumentava con il passare delle settimane e questo si traduceva in una minacciosa tendenza a trasformare la regione in un terreno di coltura per l'estremismo islamico. Nel frattempo, dal suo nascondiglio di montagna, il presidente Aslan Maschadov chiese di negoziare e lasciò trapelare in privato che non avrebbe più insistito sulla piena indipendenza. All'interno dell'esercito russo e attraverso l'intero spettro politico di Mosca, serpeggiava il malcontento per la guerra in Cecenia. (p. 304)
- [...] la posizione di Putin si faceva sempre più dura e intransigente. Fin dal primissimo giorno era stata la sua guerra e non poteva permettersi il costo politico di perderla (per non parlare delle rivelazioni sui crimini di guerra dei suoi generali che inevitabilmente ne sarebbero derivate). Un accordo con Maschadov avrebbe rappresentato un umiliante fallimento per lui e perciò insisteva sulla resa incondizionata. Putin aveva affrontato la guerra con molta emotività e la dirigeva di persona. I giornalisti che lo intervistavano sapevano che la Cecenia era l'unica cosa che riusciva a farlo arrabbiare sul serio. (pp. 304-305)
- [Sulla crisi del teatro Dubrovka] Saša non esitò un istante a dirsi sicuro che l'assedio del teatro fosse un'altra cospirazione mirante a rafforzare la politica bellicosa di Putin e a etichettare come terrorista il governo di Aslan Maschadov, in sostanza «una nuova versione degli attentati ai condomini». Quando Saša mi raccontò la sua teoria, io non gli diedi molto retta. Ma lui la sostenne con una vivace spiegazione.
«Senti», disse, «immagina di essere un agente dell'FSB di nome Movsar Baraev. Il tuo oper viene da te e ti offre un affare molto vantaggioso. La tua banda andrà a Mosca senza che la polizia intervenga, garantito; poi t'impadronirai del teatro e lo minerai con esplosivi finti. I russi negozieranno e accetteranno di aderire a un cessate il fuoco in Cecenia. Tu torni a casa da eroe e sarai anche tonto, non ci vedi alcuna trappola. Pensi che negozieranno davvero per la pace. Non capisci che stanno attirando la tua banda nei mirini dei loro fucili. Perciò accetti. Dopotutto, hai già fatto affari con l'FSB.
Poi l'FSB usa gas che si presume non siano letali e spara a tutti i tuoi uomini. Ma sbagliano con il gas e un sacco di persone muoiono. E tra l'altro, il fatto di darne la colpa a Zakaev e Maschadov è il loro modo di reagire all'incontro che hai combinato tra Rybkin e Zakaev a Zurigo.» (p. 307) - L'assedio del teatro danneggiò spaventosamente la causa dei ceceni e degli oppositori della guerra in Russia e divenne una vera pacchia per il Cremlino. Per caso o per un progetto preciso, offrì a Putin la possibilità di riaprire il dialogo con l'Occidente. Ora il governo era in grado di sostenere che i ceceni si erano finalmente dimostrati dei veri e propri terroristi e che la Russia doveva essere considerata come la vera vittima del terrore. La guerra in Cecenia doveva essere ritenuta giusta e onorevole. (p. 308)
- Se c'era un ceceno che si era sempre duramente opposto al terrorismo, questo era Zakaev. Ma il suo caso divenne un banco di prova di una serie di eventi per diverse persone: la legittimità dell'azione russa in Cecenia, l'idea che la Russia fosse fallita come democrazia e fino a che punto la guerra contro il terrore giustificava la compromissione dei diritti umani. Per i ceceni delle montagne e per quelli della vasta diaspora in Europa e, ovviamente, per i musulmani moderati di tutto il mondo, il caso Zakaev servì a collaudare la lealtà dell'Occidente. Per Putin, fu un modo di valutare la reciprocità dei suoi partner occidentali: in Afghanistan vi abbiamo aiutato a combattere i vostri terroristi ora dovete aiutarci a combattere i nostri. (p. 309)
- [Sulla strage di Beslan] Le spaventose notizie da Beslan, con i terroristi che riuniscono innocenti scolaretti in una palestra e tendono una corda ai due cesti da pallacanestro per poi appendervi degli esplosivi, percorsero il mondo intero facendolo rabbrividire. In seguito l'attacco e la carneficina sollevarono nuove questioni sui metodi di applicazione della legge da parte dei russi, ma lo sdegno fu generale per i crimini morali degli uomini che avevano occupato la scuola. Tuttavia, il presidente Putin, appena rieletto, dovette considerare estremamente fastidiosa la grande massa dei commenti provenienti dall'Occidente, perché si metteva in evidenza il fallimento della sua politica cecena. Sembrava che alcuni occidentali lo ritenessero responsabile dell'attacco alla scuola. Ogni espressione di sdegno veniva accompagnata dal suggerimento che sarebbe stato meglio se avesse imparato la lezione e avesse cominciato a trattare con Maschadov. (pp. 327-328)
- In Ucraina, alla fine del 2004 e nei primi giorni del 2005, il rovesciamento non violento del regime totalitario appoggiato da Mosca, grazie alla folla accampata in piazza Indipendenza a Kiev, fu una grave disfatta per Putin. Annullò il suo impulso di reinventare l'Unione Sovietica installando amministrazioni fantoccio negli Stati satelliti. Ma c'era dell'altro: la rivoluzione arancione fornì un modello per un cambiamento di regime nella stessa Russia. (p. 332)
- Prima del funerale la nostra ristretta cerchia fu quasi lacerata da un'ennesima controversia, l'ultima sorpresa di Saša. Mentre discutevamo la sistemazione del corpo, Achmed Zakaev dichiarò che Saša doveva essere sepolto in un cimitero musulmano, perché si era convertito all'Islam il giorno prima di morire. Risultò che il 22 novembre, poco prima che Saša perdesse conoscenza, Achmed aveva portato un mullah all'ospedale perché dicesse una preghiera di circostanza. Per quello che riguardava Achmed, Saša era morto da musulmano.
Non sapevo del mullah ed ero furioso con Achmed. Saša non era mai stato in nessun senso religioso. Anzi, mi aveva detto di non capire quelli che lo erano. La sua unica passione era vincere le battaglie e affermare le proprie idee. È vero che spesso diceva: «Sono un ceceno», ma lo dicevo anch'io e questo non faceva di me un musulmano. Era una dichiarazione di solidarietà, non una manifestazione di fede. Oltretutto, negli ultimi giorni Saša non aveva certamente le idee chiare.
«So perché l'ha fatto», dissi ad Achmed. «Si sentiva colpevole per quello che la Russia aveva fatto ai ceceni e voleva fare solo un gesto. Come un tedesco magari avrebbe voluto diventare ebreo dopo l'Olocausto. Ma è stato un errore. Non aiuterà la nostra causa. Con quello che sta succedendo nel mondo, diciamocelo francamente, la propaganda russa farà di tutto per spostare l'attenzione dall'assassinio alla conversione. Gli hai fatto un gran favore.»
«Non ho fatto un favore a nessuno», rispose Achmed. «Tutto è stato fatto correttamente, perciò Saša è un musulmano».
Achmed era ostinato. Ma quell'ostinazione è il motivo per cui i russi non vinceranno mai la guerra in Cecenia, a meno di non ucciderne l'intera ostinata popolazione.
«Non sono un esperto di conversioni», continuai, «ma sono un esperto di biochimica. Con la quantità di sedativi che gli avevano dato quel giorno, non sono affatto sicuro che potesse comportarsi razionalmente».
«Gli atti di fede non sono razionali», obiettò Achmed. (pp. 349-350) - La morte circonda la vita come una cornice un dipinto: significa limite e dispone una definizione. Una vita conclusasi di recente è un quadro appena dipinto e incorniciato per una mostra, non più un soggetto da cambiare, a arricchire o da ritoccare. Non ci sono più nemmeno i tocchi finali. La vita è completa e firmata. Ma questo insieme congelato di forme e colori è per sempre alla mercé degli spettatori. Appeso a una parete è argomento di discussioni e di critiche. (p. 351)
- Mentre cercavo di farmi una ragione della sua morte, capii che avevo assistito a una miracolosa trasformazione di Saša, del genere in cui il nero diventa bianco, il giusto e l'ingiusto si scambiano di posto, morte e salvezza si sostituiscono alla punizione e alla ricompensa. In sei brevi anni dal momento in cui era uggito dalla Russia, membro spaventato e confuso di una cricca di assassini corrotti, era diventato un crociato e poi, a causa di questo, aveva avuto una morte dolorosa. In un diverso tipo di testimonianza, forse la sua conversione avrebbe potuto evocare riferimenti ecclesiali. Posso solo dire che Saša si rivelò un uomo più grande di molti altri. (p. 351)
Explicit
[modifica]Saša, un oper per eccellenza, risolse il suo omicidio facendo i nomi dei sicari e dell'uomo che li aveva mandati a fare quel lavoro ancora prima che apparissero importanti prove o fosse scoperta l'arma del delitto. Vecchio e accanito teorico della cospirazione, non solo offrì una delle più incredibili teorie tra tutte, ma alla sua morte riuscì a offrire la prova più convincente. Così facendo, rese convincenti anche tutte le sue precedenti teorie, offrendo un atto di giustizia agli abitanti uccisi dagli attentati nei condomini, alle vittime del teatro di Mosca, a Jušenkov, a Ščekočichin, ad Anna Politkovskaja e al popolo ormai mezzo sterminato dei ceceni, accusando i loro killer affinché tutto il mondo li vedesse.
Citazioni su Morte di un dissidente
[modifica]- Costruito con il passo narrativo di un thriller politico-spionistico, Morte di un dissidente non lo è. Né pretende di essere un lavoro di inchiesta. Perché le domande poste dalla fine di Litvinenko trovano risposta, sin dalle prime pagine, in quel che il libro dichiara di essere. Un atto di accusa nei confronti del presidente russo Vladimir Putin. (Carlo Bonini)
Citazioni su Alexandr Goldfarb
[modifica]- Alex Goldfarb è un personaggio cardine nella storia di Litvinenko. Fu lui a tentare l'ultimo approccio con gli americani per portare i Litvinenko in America, fu lui a introdurre i Litvinenko in Inghilterra, fu lui a proteggere Sasha ovunque e comunque potesse e infine fu lui, quando Litvinenko moriva, a prendere in mano stampa e pubbliche relazioni per trasformare la morte di Sasha in un grande evento che ponesse Putin in stato d'accusa e che facesse apparire l'attacco a Litvinenko come un attacco a Berezovsky. (Paolo Guzzanti)
Note
[modifica]- ↑ Citato in Lo squadrone della morte del Kgb, La Repubblica, 3 dicembre 2006.
- ↑ Citato in La vedova di Litvinenko. Cercate l'assassino a Mosca, La Repubblica, 11 dicembre 2006.
- ↑ Citato in La guerra sporca tra Londra e Mosca, La Repubblica, 11 luglio 2008.
Bibliografia
[modifica]- Alex Goldfarb con Marina Litvinenko, Morte di un dissidente. La vicenda Litvinenko e il ritorno del KGB nel racconto di due testimoni d'eccezione, traduzione di Sergio Mancini, Longanesi, 2007, ISBN 978-88-304-2482-1 .
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