Rainer Maria Rilke

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Rainer Maria Rilke (1900)

René Karl Wilhelm Johann Josef Maria Rilke (1875 – 1926), scrittore, poeta e drammaturgo austriaco di origine boema.

Citazioni di Rainer Maria Rilke[modifica]

Per approfondire, vedi: Incontro con Rilke.
  • A Viareggio era domenica. Le ragazze dei miei Mädchenlieder andavano in fila, tenendosi a braccetto, in mezzo alle larghe strade. Pescatori sedevano davanti alle osterie e cantavano. Dovunque era il fruscio del mare, la presenza del grande mare sublime, udibile dovunque, penetrante anche entro la più piccola parola che fosse pronunciata, intrecciata anche al più piccolo silenzio.[1]
  • Accetta dunque, mia cara mamma, un bacio con tutto il cuore nella solenne ora di Natale, la più pacata dell'anno, la più misteriosa, in cui i desideri ancora ignari si tendono fino all'estremo e vengono per prodigio esauditi: trascorrila nel profondo, grande raccoglimento del Tuo cuore, abbandona ogni dubbio e incomprensione: in quest'ora abbiamo un posticino dentro di noi dove siamo semplicemente bambini, che attende e sta là, fiducioso e mai confuso, nel suo diritto a una grande gioia: questo è il Natale.[2]
  • [...] ancora una volta siamo in mezzo alle tempeste, che spingono la primavera fra la folla numerosa che ormai appartiene a Capri. Strana è stata la notte dell'equinozio di primavera, una notte di luna con innumerevoli ombre di foglie messe in fuga sui sentieri (fatti di luce bianca). Il profumo delle violaciocche non aveva pace sopra i fiori e si ritrovava d'improvviso su cespugli tutti diversi, ai quali non apparteneva, e tutti gli alberi duri, preparati al vento di mare, si facevano di nuovo sentire con la loro durezza, quando le foglie si voltavano e sbattevano l'una contro l'altra. Ma il vento (lo si vedeva) non arrivava più così in alto nella notte, ormai era solo un fiume di vento, una strada di vento, sopra la quale stava immoto, profondo e silenzioso, un cielo in fiore, cielo di primavera con grandi stelle solitarie e aperte.[3]
  • Devi cambiare vita.
Du sollst dein Leben ändern.[4]
  • Grande anima coraggiosa del cavallo a dondolo, tu dondolio sulla bàttima del cuore fanciullesco, ch'eccitava l'aria della camera dei giochi tanto che si rovesciava come nei famosi campi di battaglia della terra, altera, autentica, quasi visibile anima. Come scotevi tu i muri, le crociere delle invetriate, gli orizzonti quotidiani, quasi già le tempeste del futuro battessero a quei labilissimi accordi, che potevano assumere nell'indugio dei pomeriggi qualcosa di tanto incrollabile. Ah! come trascinavi tu, anima del cavallo a dondolo, il tuo cavaliere, nell'irrefrenabile eroico, dove si periva ardenti e gloriosi col più terribile scompiglio nelle chiome.[5]
  • In questi giorni scrivendo alcune piccole note sulle nostre Bambole d'infanzia, quanto mi avrebbe giovato salire un attimo da voi[6] per sapere ciò che voi ne rammentate. Sono giunto a concludere pressappoco che erano creature ben mediocri, queste infelici Bambole, che restavano inerti ed imperturbabili mentre noi ci sfinivamo in manifestazioni d'affetto. Non è sorprendente che noi ci troviamo condannati ad imparare l'esistenza del nostro calore in un commercio così sterile, che noi diamo le primizie dei nostri più teneri sforzi a dei semi-esseri, anzi delle semi-cose che ostentano l'indifferenza più crudele, la più ostinata – l'eterna indifferenza. Poiché mentre si è estasiati di interpretare i due ruoli, di essere l'amore in due, quello che parla e quello che risponde, ci devono essere stati momenti in cui noi ci interrompevamo in questo gioco sdoppiato, per restare un secondo come sorpresi di questa vita parsimoniosa che vi lascia fare tutto permettendo al nostro partner una tale abbondanza di non sentire niente.
    Io mi domando se alcuni non rechino, impresso nella loro materia fondamentale, lungo tutta la vita il sospetto di non poter essere amati, a causa delle esperienze d'insormontabile freddezza che le loro bambole avevano fatto subire ad essi un tempo?...[7]
Ces jours-ci écrivant quelques petites notes sur nos Poupées d'enfance, combien de bien ça m'aurait fait, de monter un instant chez vous pour savoir ce que vous vous en souvenez. Je suis parvenu à peu prés à conclure que c'étaient des créatures bien médiocres, ces malheureuses Poupées, qui restaient inertes et imperturbables pendant que nous nous épuisions en marques d'affection. N'est-il pas étonnant que nous nous trouvons condannée à apprendre l'existence de notre chaleur dans un commerce aussi stérile, que nous donnons les primices de nos plus tendres efforts à des demi-êtres, voire à des demi-choses, qui affichent l'indifférence la plus cruelle, la plus obstinée − l'éternelle indifférence. Car tout en étant ravis de jouer les deux rôles, d'être l'amour en deux, celui qui parle et celui qui répond, il doit y avoir eu des moments où nous nous interrompîmes à ce-jeu doublé, pour rester une seconde comme étonnés de cette vie parsimonieuse qui vous laisse tout faire en permettant à notre partenaire une telle abondance de ne rien sentir.
Je me demande si quelques personnes n'emportent pas, imprimé dans leur matière fondamentale, par toute la vie le soupçon de ne pas pouvoir être aimées, à cause des experiences d'insurmontable froideur que leurs poupées autrefois leur avaient fait soubir?...
  • La bellezza appare come il primo bene del principe, il suo più imponente diritto.[8]
  • La celebrità è solo la summa di tutti i malintesi che si radunano attorno a un nome nuovo.[9]
  • La natura, le cose del nostro ambiente e uso, sono provvisorie, caduche; ma esse sono, finché noi siamo qui, nostro possesso e nostra amicizia, partecipi della nostra miseria e allegrezza, come sono già state le confidenti dei nostri antenati. Così si deve non solo non calunniare e avvilire tutto quanto qui esiste, ma appunto per la sua provvisorietà, che esso divide con noi, devono queste apparizioni e cose esser afferrate da noi in un'intimissima comprensione e trasformate. Trasformate? Sì, perché il nostro compito è di imprimerci questa precaria caduca terra così profondamente così dolorosamente e appassionatamente, che la sua essenza in noi risorga «invisibile». Noi siamo le api dell'Invisibile.[10]
  • [...] Le cose dell'arte sono sempre risultato dell'essere stati in pericolo, dell'essere andati in fondo a un'esperienza, in un luogo oltre il quale nessuno può andare.[11]
[...] Kunstdinge sind ja immer Ergebnisse des In-Gefahr-gewesen-Seins, des in Einer Erfahrung Bins-ans-Ende-gegangen-Seins, bis wo kein mensch mehr weiter kann.[12]
  • Mi figuro che perfino chi gli sia vicino, premuto, per così dire, contro lastre di vetro, avverte queste vedute e queste intenzioni come uno che ne sia escluso; infatti le esperienze di Trakl si svolgono come in visioni riflesse ed empiono tutto il suo spazio che è inaccessibile. (Chi sarà stato mai?). (da una lettera di Rilke a Ludwig von Ficker, mecenate di Trakl, 1915[13])
  • Nasciamo, per così dire provvisoriamente, da qualche parte; soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente.[14]
  • [...] nessun paesaggio può essere più greco, nessun mare più saturo di antiche vastità di quanto non lo siano la terra e il mare che mi si offrono alla vista e ai sensi andando verso Anacapri. Là è la Grecia, senza le cose d'arte del mondo greco, ma quasi come subito prima del loro nascere. Lassù stanno i pendii pietrosi, come se tutto dovesse ancora accadere, come se dovessero ancora sorgere gli dei che la Grecia evocò nei suoi eccessi di brivido e di bellezza.[15]
  • [...] non appena un artista ha trovato il centro vivente della sua attività, nulla è così importante per lui come tenersi in esso e da esso (che è anche il centro della natura e del suo mondo) non allontanarsi mai oltre il confine della parete interiore della sua opera che ha fatto emergere silenziosamente e costantemente; il suo luogo non è, non è mai, nemmeno per un attimo, accanto allo spettatore o al critico.[16]
  • [Ultime parole] Oh vita, vita, poter uscire.[17]
  • Ondava nel volto dell'amata | il mondo; ma d'improvviso è sparso: | fuori è il mondo, il mondo non s'afferra. | Perché, sollevandolo non bevvi | io dal pieno, dall'amato volto | odoroso alla mia bocca il mondo? | Ah, io bevvi. Come a perdifiato | bevvi! Ma, di troppo mondo io stesso | colmo, mentre bevo, traboccai.[18]
  • Respirano lievi gli altissimi abeti | racchiusi nel manto di neve. | Più morbido e folto quel bianco splendore | riveste ogni ramo via via. | Le candide strade si fanno più zitte, | le stanze raccolte più intente.[19]
  • Rosa, oh pura contraddizione, gioia | di non essere il sonno di nessuno sotto tante | palpebre.[20]
  • Signore: è tempo. Grande era l'arsura. | Deponi l'ombra sulle meridiane, | libera il vento sopra la pianura. || Fa' che sia colmo ancora il frutto estremo; | concedi ancora un giorno di tepore, | che il frutto giunga a maturare, e spremi | nel grave vino l'ultimo sapore. || Chi non ha casa adesso, non l'avrà. | Chi è solo a lungo solo dovrà stare, | leggere nelle veglie, e lunghi fogli | scrivere, e incerto sulle vie tornare | dove nell'aria fluttuano le foglie. (Giorno d'autunno, Il libro delle immagini, [21])
  • Ti ricordi ancora di Roma, cara Lou? Com'è nella tua memoria? Nella mia rimarranno un giorno solo le sue acque, queste limpide, stupende, mobili acque che vivono nelle sue piazze; e le sue scale, che sembrano modellate su acque cadenti, tanto stranamente un gradino scivola dall'altro come onda da onda; la festosità dei suoi giardini e la magnificenza delle grandi terrazze; e le sue notti, così lunghe, silenziose e colme di stelle.[22]
  • Un buon matrimonio è quello in cui ciascuno dei due nomina l'altro custode della sua solitudine.[23]
  • Un'alterazione poco nota delle cellule del sangue diventa il punto di partenza dei più crudeli dei fenomeni, diffusi in tutto il corpo. Ed io, che non sono mai riuscito a guardarlo dritto in faccia, imparo ad adattarmi allo smisurato dolore anonimo.[24]

Diario di Parigi (1902)[modifica]

  • I viali, non spazzati, affondati nelle foglie. Foglie di pioppo viola scuro, chiare di castagno, colore del miele, e sopra alcune foglie di castagno grandissime, intatte, dorate. (29 ottobre, p. 18)
  • Jardin des plantes. Il cedro del Libano. È come un sogno. Immagina un albero molto grande. In alto il tronco si divide in altri grandi tronchi che si protendono in torsioni stranamente vigorose verso tutti i punti cardinali e hanno all'estremità piatti fasci di rami che si tendono orizzontalmente come mani piatte. Cosí questi rami stanno gli uni sotto gli altri e in alto attorno all'albero e assomigliano a quelle nuvole serali piatte e allungate che a volte, quando il sole è tramontato, stanno profonde contro il cielo che si spegne. (5 novembre, p. 25)
  • La sera ho letto la Bibbia, Levitico. E George Rodenbach. Poi, sfogliando i libri su Rodin, sono andato a dormire presto. Mi è venuto in mente: la brutalità contro il silenzio insita nella prima parola. L'immenso peso della prima parola. Quando la dirò? – I Greci avevano una bellezza leggera, ma la bellezza diventa sempre più pesante! (12 novembre, p. 32)

Elegie duinesi[modifica]

  • Chi mai, s'io grido, m'udrà delle schiere celesti? | E d'improvviso un angelo contro il suo cuore m'afferri, – | io svanirei di quel soffio più forte. Ché il bello | è solo l'inizio del tremendo, che noi sopportiamo, | ancora ammirati perché sicuro disdegna | di sgretolarci. Sono gli angeli tutti tremendi.[25]
  • Scendesse ora l'arcangelo, il pericoloso, dagli astri | solo un passo a noi incontro: – battendo | alto abbatte noi il nostro cuore. Chi siete? || Primi perfetti, favoriti voi del creato, | gioghi di colli, crinali all'aurora purpurei | dell'universo novello – polline della fiorente | divinità, voi membra della luce, scale, ànditi, troni | spazi d'essere, scudi voi di delizia, tumulti | di tempestoso tripudio e d'improvviso | specchi voi, solitari, cui la scaturita bellezza | rifluendo perenne ripullula nel proprio viso.[26]
  • Ma di', chi sono quei randagi eterni, | quei fuggitivi un poco più di noi, | che assilla e torce - e non si sa perché - | sin dall'infanzia prima, | un volere implacabile e tremendo?[27]
  • La nostra vita passa trasformandosi.[28]
  • La creatura è tutta una pupilla | sull'Aperto. Ma noi come riversi | abbiamo gli occhi e tesi come reti | intorno al suo libero varco. A noi | quanto esiste nel mondo si rivela | solo nel calmo volto d'animali; | poi che il fanciullo tenero volgiamo | noi indietro a riguardare le figure, | non l'Aperto, profondo nella faccia | dell'animale. Libero da morte. | La morte solo noi vediamo; | sempre ha l'animale dietro a sé la fine | e a sé davanti Iddio: nel suo cammino | va, come vanno i fonti, nell'eterno.[29]
  • Così viviamo ed è sempre un addio.[30]
  • Qui siamo noi forse per dire: casa, | ponte, fontana, porta, mandorlo, brocca, finestra, | al più: colonna, torre... ma dire, | oh così dire come le cose stesse nell'intimo | mai s'immaginarono. Forse non è l'astuzia segreta | di questa muta terra, quando gli amanti sì preme, | che ogni cosa, nell'animo loro, ogni cosa s'incanta? || Soglia: che è mai per due | innamorati consumare anche un poco | la vecchia soglia di casa, dopo i molti di prima, | anch'essi, e prima di quanti verranno poi, lievemente. || Qui delle cose dicibili è il tempo, è qui la patria.[31]
  • Ma se in noi destano un simbolo, i morti senza mai fine | ai penduli amenti del vuoto avellano | essi accennano, o forse alla pioggia | che nella terra buia precipita di primavera. || E noi, che pensiamo a una felicità saliente, | il tremito commoverebbe, | che quasi ci abbatte, | se cade un evento felice.[32]

I quaderni di Malte Laurids Brigge[modifica]

Incipit[modifica]

Pare che la gente venga qui per vivere. Io direi, piuttosto, che qui si muore[33].
[citato in Fruttero & Lucentini, Íncipit, Mondadori, 1993]

Citazioni[modifica]

  • Io imparo a vedere. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada. (1988, pp 2-3)
  • L'ho già detto? Io imparo a vedere. Sì, incomincio. Va ancora male. Ma voglio mettere a profitto il mio tempo.
    Non mi era mai capitato di accorgermi, per esempio, di quanti volti ci siano. C'è un'infinità di uomini, ma i volti sono ancor più numerosi poiché ciascuno ne ha più d'uno. (1988, p. 3)
  • Oggi chi dà ancora valore a una morte ben fatta? Nessuno. (1988, p. 5)
  • Una volta si sapeva (o si sospettava, forse) di avere in sé la morte come il frutto ha il nocciolo. I bambini ne avevano una piccola in sé e gli adulti una grossa. Le donne l'avevano nel grembo e gli uomini nel petto. La si aveva, e questo dava a ciascuno una speciale dignità e un silenzioso orgoglio. (1988, p. 6)
  • E quale bellezza malinconica nelle donne, quand'erano gravide e si reggevano in piedi, e nel loro grosso ventre, su cui giacevano d'istinto le mani esili, c'erano due frutti: un bambino e una morte. Il loro sorriso denso e quasi nutriente nel volto svuotato non scaturiva forse dal loro capire, talvolta, che i due frutti crescevano insieme? (1988, p. 11)
  • Proprio non posso impedirmi di dormire con la finestra aperta. Attraverso la camera si precipitano scampanellando tram elettrici. Automobili mi corrono sopra. L'urto di una porta. (1966, p. 9)
  • Ma non voglio più scrivere lettere. Dire a qualcuno che cambio: perché? Se cambio, non sono più quello di prima, sono qualcosa di diverso da quello che ero: è evidente, così, che non ho più conoscenti. E come scrivere a estranei, a gente che non mi conosce? (1966, p. 10)
  • È possibile che ci sia gente che dice «Dio» e pensa a qualcosa che apparterrebbe a tutti? (1988, p. 17)
  • Oh, ma come si sta bene tra uomini che leggono! Perché non sono sempre così? (1988, p. 28)
  • Non mi sono ancora abituato affatto a stare in questo mondo, che mi sembra buono. Cosa sarebbe di me in un altro? Resterei tanto volentieri tra i significati che mi sono divenuti cari, e se qualcosa deve mutare, vorrei almeno poter vivere tra i cani, che hanno un mondo parente del nostro e le medesime cose.
    Ancora per un poco posso scrivere e dire tutto. Ma verrà il giorno in cui la mia mano sarà lontana da me, e quando le ordinerò di scrivere, scriverà parole che non volevo. (1988, p. 39)
  • [Beethoven] La tua musica: avrebbe dovuto avvolgere il mondo; non noi. Ti avrebbero costruito un pianoforte nella Tebaide; e un angelo ti avrebbe condotto dinanzi allo strumento solitario, attraverso le catene di montagne desertiche in cui riposano re ed etere e anacoreti. E si sarebbe di nuovo slanciato in alto, via, timoroso che tu cominciassi. E allora saresti fluito, o Scorrente, non udito da alcuno; per restituire all'universo ciò che solo l'universo sopporta. I beduini sarebbero fuggiti superstiziosi, lontano; ma i mercanti si sarebbero gettati a terra al limitare della tua musica, come se fossi tu la tempesta. Solo qualche leone si sarebbe aggirato intorno a te, la notte, atterrito di sé, minacciato dal suo sangue eccitato.
    Chi potrà ora sottrarti a orecchie che sono avide? Chi caccerà dalle sale della musica i venali con il loro sterile udito che fornica ma non genera mai? sprizza un seme raggiante, e giocano con esso come puttane, o cade come il seme di Onan fra tutti mentre giacciono nei loro piaceri incompiuti.
    Ma, o sovrano, se un udito vergineo giacesse con il tuo suono: morirebbe di beatitudine o concepirebbe l'infinito e il suo cervello fecondato dovrebbe scoppiare nel parto sonoro. (1988, pp. 59-60)
  • Imparai allora a conoscere la suggestione che può immediatamente derivare da un dato costume. Appena indossato uno di quegli abiti, dovevo confessarmi d'essere in suo potere; quello mi prescriveva movimenti, espressione del viso, persino idee; la mia mano, sulla quale cadevano e ricadevano le trine dei manichini, non era la mia solita mano, si muoveva come un'attrice, direi quasi che si osservava, per quanto esagerato possa sembrare. (1966, p. 72)
  • [...] non è proprio ciò che è più nostro quel che conosciamo di meno? A volte rifletto, come è sorto il cielo e la morte; così: abbiamo allontanato da noi ciò che di più prezioso era nostro, poiché prima avevamo ancora tante altre cose da fare e poiché presso di noi, occupati, non era al sicuro. Epoche sono trascorse, e ora ci siamo abituati a ciò che è più piccolo. Non riconosciamo più la nostra proprietà e inorridiamo dinanzi alla sua grandezza immensa. Non può essere così? (1988, p. 133)
  • Era un poeta e odiava il press'a poco [...] (1988, p. 133)
  • Essere amati significa ardere e consumarsi. Amare è: illuminare con olio inesauribile. Divenire amati è passare, amare è durare.[34] (1988, p. 204)
  • Essere amati, è passare. Amare, è durare.[35]
  • Fa bene dire ad alta voce: «Non è successo niente». Ancora: «Non è successo niente». Ma poi?[36]

[Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, traduzione di Furio Jesi, Garzanti, Milano 1974. ISBN 8811360870]

Le storie del buon Dio[modifica]

  • È sempre male per un maestro che i bambini sappiano d'un tratto una cosa non raccontata da lui. Il maestro deve essere, per così dire, l'unico buco della staccionata, traverso il quale si guarda nell'orto; ma se ci sono altri buchi, i bambini finiscono col passare ogni giorno da uno all'altro, per stancarsi alla fine di tutto quello che vedono.[37]
  • [...] l'abitudine alle carte geografiche ha guastato la gente. Sulla carta tutto è piano e liscio, e quando quei signori hanno indicato i quattro punti cardinali, credono di avere fatto tutto. Ma un paese non è un atlante. Ci sono montagne e precipizi; e deve dunque urtare in qualche cosa, sia nel senso della profondità che in quello dell'altezza.[38]
  • Quello che noi avvertiamo come primavera, Iddio vede trascorrere sulla terra come un fuggevole, lieve sorriso. Come se essa rammentasse qualche cosa che racconterà a tutti nell'estate, sino a quando non sarà divenuta più saggia nel grande silenzio dell'autunno, con cui si confida ai solitari.[39]
  • Mi è sempre parso strano, fin da quando ero bambino, che gli uomini parlino della morte in modo diverso da quello usato per le altre cose, e questo soltanto perché nessuno ha mai rivelato quello che gli è accaduto dopo. Ma in che modo un morto può distinguersi da un uomo che diventa serio, che rinuncia al tempo e si chiude in sé, per riflettere calmo su un problema, la cui soluzione da tempo lo tormenta? Quando si sta in mezzo alla gente, non ci si rammenta neppure del Paternostro; come dunque è possibile ricordare un altro rapporto più oscuro, che forse trova la sua ragione non in parole ma in eventi? Bisogna appartarsi in un silenzio inaccessibile: e forse i morti sono coloro che si sono così isolati per meditare sulla vita.[40]
  • I "kurgan" sono sepolcri di razze scomparse che attraversano tutta la steppa come un'ondata irrigidita in un sonno di pietra; e in questo paese in cui le tombe sono monti, gli uomini rappresentano gli abissi. Sono esseri cupi, oscuri, silenziosi, le loro parole sono soltanto deboli ponti oscillanti sopra la loro vera natura.[41]
  • Qui tutto sembra, in ogni direzione, infinito. Persino le case non possono proteggere da questa immensità: le loro piccole finestre ne sono piene. Solo negli angoli oscuri delle stanze stanno le vecchie icone come pietre miliari di Dio, e lo splendore di un piccolo lume passa attraverso le loro cornici, come un bambino smarrito in una notte stellata. Queste icone rappresentano l'unico punto di riferimento, l'unico segno confortante lungo il cammino; e nessuna casa può esistere senza di loro. È necessario farne sempre di nuove: una cade a pezzi per i tarli e la vecchiezza, oppure c'è chi sposa e si costruisce una capanna, oppure un altro, come il vecchio Abramo, per esempio, esprime morendo il desiderio di portare con sé san Nicola miracoloso nelle mani giunte, probabilmente per paragonare a questa immagine i santi in paradiso e riconoscere prima di ogni altro il suo patrono.[42]
  • Spesso le esperienze che viviamo non si possono esprimere a parole e quindi chi pretende di raccontarle incorre fatalmente in errori.[43]
  • [Un ditale] Brillava quasi fosse d'argento: e grazie appunto alla sua bellezza fu deciso che diventasse il buon Dio.[44]
  • Una siepe, una casa, una fontana, tutte queste cose sono certo in gran parte di origine umana. Ma se rimangono, per un periodo, ferme nel paesaggio in modo da assimilare particolarità degli alberi, dei cespugli, di tutto quanto le circonda, allora esse passano, per così dire, in proprietà di Dio e, in conseguenza, del pittore. Perché Iddio e l'artista hanno in comune povertà e ricchezza, a seconda dei casi.[45]

Lettere a un giovane poeta[modifica]

  • Anzitutto questo: domandatevi nell'ora più silenziosa della vostra notte: devo io scrivere?[46]
  • Chi crea deve essere un mondo per sé e in sé trovare tutto, e nella natura sua compagna.
  • Come le api raccolgono il miele, così noi estraiamo da tutto la linfa più dolce per edificare Lui.
  • È difficile il nostro compito, quasi tutto ciò che è serio è difficile, e tutto è serio.
  • È questo in fondo l'unico coraggio che si richieda a noi: essere coraggiosi verso quanto di più strano, prodigioso e inesplicabile ci possa accadere.
  • Il futuro entra in noi, per trasformarsi in noi, molto prima che accada.[47]
  • L'amore consiste in questo, che due solitudini si proteggono a vicenda, si toccano, si salutano.
  • L'esperienza artistica è così incredibilmente prossima a quella sessuale, alle sue pene e ai suoi piaceri, che i due fenomeni non sono in realtà che forme diverse di una identica brama e beatitudine.
  • La vita ha ragione, in ogni caso.
  • Le opere d'arte sono di una solitudine infinita, e nulla può raggiungerle meno della critica.

Lettere su Cézanne[modifica]

  • [Paul Cézanne] Essere un buon operaio, far bene il proprio mestiere era per lui la chiave, la base di tutto. Dipingere bene significava vivere bene. Dava tutto se stesso, si calava con tutta la sua forza in ogni colpo di pennello. Bisogna averlo visto dipingere, dolorosamente teso, la preghiera nel volto, per immaginare quanto della sua anima egli mettesse nel lavoro. Tremava tutto. Esitava, la fronte congestionata quasi enfiata da invisibili pensieri, il busto raggomitolato, il collo incassato nelle spalle e le mani frementi fino al momento in cui, solide, volitive, tenere, posavano il tocco, sicure, e sempre da destra a sinistra. Allora indietreggiava un po', e i suoi occhi si posavano di nuovo sugli oggetti.[48] (Lettera a Clara, 9 ottobre 1907)
  • Oggi ti vorrei raccontare un poco di Cézanne. Per quanto riguarda il lavoro, così afferma, ha vissuto da bohémien fino a quarant'anni. Solo più tardi, con la conoscenza di Pissarro, ha preso gusto al lavoro. Ma, allora, fino al punto di passare gli ultimi trent'anni della sua vita non facendo altro che lavorare. Senza gioia invero, come sembra, con una rabbia incessante, in conflitto con ogni sua singola opera, perché nessuna di esse gli sembrava raggiungere ciò che egli riteneva essere la cosa più indispensabile. La chiamava la réalisation, e la trovava nei "veneziani" che aveva visto e rivisto al Louvre e apprezzava incodizionalmente. Il convincente, il farsi cosa. La realtà sublimata fino a divenire indistruttibile attraverso la propria esperienza dell'oggetto, era questo che gli pareva l'intento più intimo del suo lavoro; vecchio, malandato, ogni sera consunto fino allo spasimo dal regolare lavoro giornaliero (tanto che spesso andava a dormire alle sei, all'imbrunire, dopo una cena mandata giù distrattamente), arrabbiato, diffidente, deriso ogni qual volta si recava al suo atelier, schernito, maltrattato… sperava un giorno, di raggiungere quel compimento che egli sentiva come l'unico essenziale. In tal modo [...] egli aveva esacerbato le difficoltà del suo lavoro nella maniera più ostinata… si muoveva avanti e indietro nel suo studio, che aveva la luce sbagliata, in quanto il capomastro non aveva ritenuto necessario dare ascolto a quel vecchio bizzarro che ad Aix erano tutti d'accordo nel non prendere sul serio [...].[48] (Lettera a Clara, 9 ottobre 1907)

Nuove poesie[modifica]

  • Come talvolta in mezzo ai rami ancora | spogli un mattino sorge, e in quel momento | è primavera: così nulla affiora | dal suo capo, che il subito portento || della poesia non ci ferisca; il muro | d'ombra è lontano dal suo sguardo incauto | troppo fresca è la fronte per il lauro, | e solo tardi all'arco delle pure || sue sopracciglia sorgerà il rosaio, | da cui foglie cadute e sparse il lieve | tremito della bocca veleranno, || quella che tace adesso e accenna solo | a un sorriso da cui nitida beve | il canto come un'acqua nella gola. (Apollo primitivo, Einaudi 1984, p. 23)
  • Come potrei trattenerla in me, la mia anima, che la tua non sfiori; come levarla, oltre te, ad altre cose? (da Canto d'amore, in Poesie, vol I , Einaudi-Gallimard, p. 455.)
Wie soll ich meine Seele halten, daß | sie nicht an deine rührt? Wie soll ich sie | hinheben über dich zu andern Dingen?
  • Ma egli ruppe la scorza del dolore | in pezzi e ne distese alte le mani, | come per trattenere il dio fuggente. | Anni chiedeva, solo un anno ancora | di giovinezza, mesi, pochi giorni, | ah, non giorni, ma notti, una soltanto, | solo una notte, questa notte: questa. | Il dio negava. Gridò allora Admeto, | gridò vani richiami a lui, gridò, | come gridò sua madre al nascimento. (da Alcesti, vv. 25-34; pp. 25-27)
  • Lei così amata che più pianto trasse | da una lira che mai da donne in lutto; | così che un mondo fu lamento in cui | tutto ancora appariva: bosco e valle, | villaggio e strada, campo e fiume e belva; | e sul mondo di pianto ardeva un sole | come sopra la terra, e si volgeva | coi suoi pianeti un silenzioso cielo, | un cielo in pianto di deformi stelle –: | lei così amata. || Ma ora seguiva il gesto di quel dio, | turbato il passo dalle bende funebri, | malcerta, mite nella sua pazienza. | Era in se stessa come un alto augurio | e non pensava all'uomo che era innanzi, | non al cammino che saliva ai vivi. | Era in se stessa, e il suo dono di morte | le dava una pienezza. | Come un frutto di dolce oscurità | ella era piena della grande morte | e così nuova da non più comprendere. || Era entrata a una nuova adolescenza | e intoccabile: il suo sesso era chiuso | come i fiori di sera, le sue mani | così schive del gesto delle nozze | che anche il contatto stranamente tenue | della mano del dio, sua lieve guida, | la turbava per troppa intimità. || Ormai non era più la donna bionda | che altre volte nei canti del poeta | era apparsa, non più profumo e isola | dell'ampio letto e proprietà dell'uomo. | Ora era sciolta come un'alta chioma, | diffusa come pioggia sulla terra, | divisa come un'ultima ricchezza. | Era radice ormai. (da Orfeo Euridice Hermes, Einaudi 1984, pp. 33-35)

Poesie francesi[modifica]

  • Ninfa, sempre ti rivesti | con quanto ti denuda, | ed il tuo corpo esalti | per l'onda tenera e cruda. || Muti il tuo abito sovente, | cambi l'acconciatura; | la vita in te sfuggente | resta presenza pura. (Piccola cascata, Le quartine vallesane, p. 58)
  • Un dio, se lo canti, | restituisce il suo silenzio in dono. | Ognuno avanza | verso un dio silenzioso. || L'impercettibile scambio | che ci fa fremere | è retaggio di un angelo | senza che ci appartenga. (Verzieri, p. 107)
  • Non la giustizia regge la bilancia esatta, | sei tu, Dio dal desiderio indiviso, | che misuri i nostri errori, | che di due cuori feriti e dilaniati | fai un cuore immenso, innaturale | che ancora crescere || vorrebbe... Tu, indifferente e superbo, | umiliata la bocca innalzi al verbo | verso un cielo ignaro... | Tu che mutili gli esseri e li aggiungi | all'ultima essenza di cui sono frammenti. (Eros, IV, Verzieri, p. 123)

Sonetti a Orfeo[modifica]

  • Lì si levò un albero. Oh puro sovrastare! | Orfeo canta! Grandezza dell'albero in ascolto! E tutto tacque. Ma proprio in quel tacere | avvenne un nuovo inizio, cenno e mutamemto.[49]
  • I dolori sono ignoti, | l'amore non si impara, l'ingiunzione che ci chiama ad entrare nella morte | rimane oscura. | Solo il canto sulla terra consacra e celebra.[50]
  • Filo di seta, t'intrecciasti nell'ordito. || A qualunque immagine tu ti sia intimamente unito | (fosse pure un momento da vita di pena generato), | senti che tutto il tappeto di lode vi è significato.[51]

Incipit di alcune opere[modifica]

Danze macabre[modifica]

Pierre Dumont[modifica]

La locomotiva lanciò un fischio senza fine nell'aria azzurra del mezzogiorno di agosto afoso e scintillante di luce. Pierre sedeva con sua madre in uno scompartimento di seconda classe. La madre, una donna minuta, vivace, con un modesto vestito di panno nero, con un viso pallido, buono e occhi spenti e afflitti – la vedova di un ufficiale. Suo figlio, un bamboccio di appena undici anni con l'uniforme del collegio militare.

La cucitrice[modifica]

... Era il mese d'aprile dell'anno 188... Ero costretto a cambiare appartamento. Il padrone di casa aveva venduto l'edificio e il nuovo padrone aveva deciso di affittare il piano in cui si trovava la mia modesta cameretta ad un'unica persona. Ne cercai a lungo un altro, ma invano. Stanco di cercare presi finalmente una cameretta, quasi senza vederla, al terzo piano di un edificio, il cui lato più lungo occupava una parte non piccola del minuscolo vicolo laterale.

La cassa dorata[modifica]

Era primavera. Il sole sorrideva beato nel cielo limpido e profondamente azzurro, ma raramente i raggi si perdevano sino a raggiungere il mezzanino di quel palazzo nello stretto vicolo laterale. Se mai vi giungeva un chiarore, spuntando dalle piccole finestre, e gettava cerchi guizzanti sulla parete imbiancata della misera stanza, era certamente di seconda mano, era infatti riflesso da qualche finestra dell'alto palazzo di fronte. Il bambino che, giorno dopo giorno, giocava presso la finestra del mezzanino, si rallegrava sempre più della macchia di luce guizzante sulla parete e subito la inseguiva e cercava di afferlarla e rideva di tutto cuore, tanto che anche sul volto triste della madre risplendeva un riflesso di questo riso.

Una morta. Bozzetto psicologico[modifica]

San Remo, marzo 189...

Mio buon Alfredo,
Lungo è stato il mio silenzio. Scusami. Oggi rispondo in una sola volta alle tue tre care lettere. Ti ringrazio. Mi hanno fatto così bene. La preoccupazione interiore e delicata che c'è nelle tue righe è un vero balsamo. Sono così solo e così stanco. Il mio dolore è strano. Sono spossato, le mie membra sono a pezzi; ma ci sono dei momenti in cui scatta di nuovo questa scintilla che chiamano vita. E diventa fiamma. Improvvisamente divampa con ardore e sento forza, salute, fiducia... Stupidaggini. Il medico... Ma non voglio parlare dei medici. Ma a volte è molto brutto. La difficoltà di respiro, sai, la... A volte sono in grado di sentire come l'aria preme. È terribilmente pesante, ti confesso. E questa tosse. Esce fuori così lentamente dal petto e poi improvvisamente accelera e mi prende alla gola...

Un uomo di carattere. Schizzo[modifica]

Una giornata adatta a un funerale. Piovosa, buia, pesante. Il carro, tirato da quattro cavalli, rotolava pesantemente sui ciottoli rotondi e lisci, che alla luce dell'autunno risplendevano come nudi crani, e le sue ruote avevano paura del loro grigio e sporco ridere. Gli inservienti dell'agenzia di pompe funebri camminavano imbronciati accanto ai lumi accesi. Li seguiva la massa delle persone in lutto. Dal gruppo delle donne usciva solo una fitta serie di veli neri, che si spandevano come una tela di ragno fuligginosa tra il carro da morto e i lucidi cappelli a cilindro degli uomini venuti al funerale. L'occupazione preferita di tutta quella gente afflitta consisteva nel proteggersi vestiti e pantaloni dagli spruzzi di mota; con commovente attenzione cercavano di camminare lungo quelle pietre che, come isole, emergevano di più dalla marea inarrestabile di fango; e su qualche viso si poteva leggere il forte desiderio che il defunto avrebbe potuto aspettare un tempo migliore per il suo gravoso viaggio. Solo due signori, che camminavano in terza fila, stavano chiaccherando in maniera animata. Dall'espressione del viso si poteva capire che stavano, con umanità e comprensione, passando in rassegna le azioni e le esperienze del defunto. L'esito finale sembrava molto soddisfacente. Annuirono a vicenda con quel primo sgardo che costituisce il contrassegno segreto di due uomini alla sepoltura di un morto o in qualche altra occasione ufficiale. Quindi uno si passò le mani sulle rughe del viso e mormorò, con un pensante movimento del guanto nero dalla mano destra: «Un uomo di carattere». Il vicino trovò quest'espressione così azzeccata, che fu in grado solo di ripeterla con un tono più accentuato: «Un uomo di carattere!». E a questo punto ancora lo sguardo d'intesa dei due galantuomini; nel mentre uno dei due mise il piede in una pozzanghera con tanta violenza che quello che lo seguiva lasciò partire un involontario ruggito. Quindi nessuno dei due proferì più parola. Ci fu silenzio. Solo le ruote del carro da morto cigolavano e le pozzanghere toccate sussultavano piano.

L'apostolo[modifica]

Tavolo degli ospiti del migliore albergo di N. Il rumore di fondo delle posate e il brusio delle voci s'infrange contro le pareti di marmo della grande sala illuminata a giorno. I camerieri in frac nero guizzano qua e là indaffarati come ombre silenziose con i loro vassoi d'argento. Dai lucidi secchielli di ghiaccio dal lungo piede le bottiglie di spumante sembrano ammiccare ai bicchieri poco profondi. Tutto brilla e riluce ai raggi delle lampade elettriche. Gli occhi e i gioielli delle signore, i crani calvi dei signori e persino le parole saltellano qua e là come le scintille. Quando si accendono dalla gola di una donna talvolta lontana talvolta vicina irrompe la chiara fiamma di un breve riso. Quindi le signore sono impegnate a bere il brodo fumante dalle tazze raffinate e trasparenti, mentre i giovin signori con gli occhiali sulla punta del naso passano in rassegna con sguardo critico la tavolata variopinta.

E tuttavia la morte[modifica]

Stavo trascorrendo un'assolata mattina d'agosto nel bosco. Stavo disteso nel muschio increspato e scintillante e lo stavo osservando. Osservavo come proiettava riflessi verdi sulla ghiaia bianco-argentea come se proiettasse attorno a sé cristalli di malachite. E percepivo il suo lento e lieve progredire, che svegliava i fiori stupiti dal lungo e soave torpore.

L'avvenimento. Una storia senza avvenimenti[modifica]

Si stava seduti per il tè a casa della signora von S... Sulla tovaglia di un bianco accecante stava il grande samovar russo e accompagnava i discorsi con un melodico ronzio. Gli avvenimenti del giorno erano stati girati e rigirati da tutte le parti, le mostre e i teatri non offrivano molto materiale di conversazione all'inizio dell'autunno. C'era il rischio che iniziasse una di quelle pause, in cui l'aria pesante opprime e spaventa tutti, e in cui poi i cucchiaini da caffè e le tazze risuonano acutamente.

La vittima[modifica]

Di'! Hai mai camminato per una strada di campagna della Boemia centrale in una mattinata di fine settembre? Il cielo basso, pieno di nuvole, opprimente, sembra il tetto grigio sporco di una tenda, montata sui castagni spogli e ingialliti, che limitano la strada color noce, segnata dai solchi profondi delle ruote. Il sole rosso ha nascosto il suo volto vaporoso in uno spesso velo; un paio di raggi sghembi guizzano al di là dello strato di nuvole e adornano la mota della strada con sottili striature gialle. Un vento malevolo fa voltolare qua e là le foglie ingiallite e fa mulinare in lontananza il fumo sottile che proviene dai tetti del villaggio, – questa è un'immagine di una malinconia indicibile, indescrivibile, disperata. Se penso a quest'immagine provo un grande dolore vicino al mio cuore. Lì qualcosa palpita – e si strazia, si strazia, finché mi scoppiano le lacrime agli occhi...

Nel giardino davanti casa. Uno schizzo[modifica]

Che genere di pensieri passano talvolta per la testa...
Ieri, per esempio. Me ne sto seduto ancora una volta accanto alla signora Lucy nel piccolo giardino davanti alla sua casa di campagna. La giovane signora dagli occhi grandi e profondi tace. Guarda in alto verso il cielo della sera lucido come il raso e si ripara dal fresco con uno scialle di pizzo di Bruxelles. E quel profumo, che mi eccita così vivamente, proviene dallo scialle frusciante oppure dai fiori di lillà?

Primavera incantata. Uno schizzo[modifica]

«Il signore Dio nostro ha strani ospiti.» Questa era la frase preferita dallo studente Vinzenz Viktor Karsky che la pronunciava in momenti più o meno opportuni con un certo tono di superiorità, forse perché tacitamente credeva di far parte di quella categoria. I suoi compagni lo chiamavano da tempo un tipo originale; apprezzavano la sua cordialità, che spesso sfiorava il sentimentalismo, si rallegravano della sua gaiezza, lo lasciavano solo se era triste, e tolleravano benevolmente la sua «superiorità».

Accompagnamento in sordina[modifica]

La madre sedé accanto alla finestra e ricama. Ieri e oggi e anche domani – ogni giorno. Solo metà della passatoia è finita ed è già tutta sciupata. In fondo nulla spinge a finirla; non è prevista nessuna festa, da nessuna parte. Spesso le sue mani sognano, e lei le guarda e pensa: cosa faranno? È solo un'attesa, la bionda signora. Ma le mani sono semplicemente stanche e si fermano a metà strada. Così non succede mai nulla. Tutt'al più che si trascinino di nuovo lungo il canovaccio giallo. Sono come cavalli che tirano un battello controcorrente in un canale. Ma le navi dovrebbero navigare in libertà per molti fiumi fino al mare, in tutti i mari.

Generazioni[modifica]

Nelle nostre stanze di giovedì c'è odore di pomodoro, di domenica c'è odore di oca arrosto e ogni lunedì di bucato. Così sono i giorni: quello rosso, quello grasso e quello insaponato. Inoltre vi sono i giorni dietro la porta di vetro; o in particolare un unico giorno di fresco, di seta e di legno di sandalo. La luce là dentro è filtrata, delicata, argentea e placida; fuliggine, tempesta, rumore e moscerini non entrano là dentro come nelle altre stanze. Eppure è separata solo da una porta a vetri; ma è come se ci fossero venti porte di bronzo, o come un ponte che non finisce mai, o come un fiume con un traghetto malsicuro da riva a riva.

Nella vita[modifica]

Il signor revisore è curvo sulla scrivania come il braccio di un lampione a gas con una palla di vetro opaca all'estremità.
È diligente, e non è cosa da poco conto essere diligenti quando si ha di fronte uno simile.

Diavoleria[modifica]

Il conte Paolo aveva fama d'essere iracondo. Quando la morte ghermì prima del tempo la sua giovane consorte, le gettò dietro tutto: i suoi beni, il suo denaro e persino le sue amanti. Era ancora tra i dragoni di Windischgrätz. Allora il barone Sterowitz occasionalmente disse: «La tua bocca è quasi simile a quella della povera contessa». Il vedovo fu commosso. Da allora aveva sempre vicino da qualche parte un bicchiere di vino; gli sembrava infatti l'unica possibilità di vedersi venire incontro continuamente quella bocca amata – così dicono. Il fatto è che due anni dopo il conte Paolo non possedeva più nemmeno un centesimo di tutti i suoi averi.

L'ora di ginnastica[modifica]

Nella scuola militare di San Severino. Palestra. La classe sta in piedi con le camicie chiare di traliccio, in fila per due, sotto le grandi lampade a gas. L'insegnante di ginnastica, un giovane ufficiale dal viso duro e abbronzato e dagli occhi beffardi, ha ordinato gli esercizi liberi e divide ora le squadre. «Prima squadra trapezio, seconda squadra sbarra, terza squadra cavallina, quarta squadra pertica! Muoversi!» E rapidamente i ragazzi si disperdono sulle scarpe leggere isolate con la colofonia. Alcuni rimangono in piedi in mezzo alla sala, indugiando quasi svogliati. Sono la quarta squadra, scarsi in ginnastica, che non provano nessuna gioia nel movimento agli attrezzi e sono già stanchi dei venti piegamenti sulle ginocchia e un po' confusi e senza fiato.

Una mattina[modifica]

Tra i castelli di Arco e di Dosso di Romarzolo, una dorsale di un monte che, come un drago che si risveglia assetato, si protende verso il lago di Garda, ci sono tre località. Hanno lo stesso nome; sono talmente povere che nessuna di queste ha avuto abbastanza forza da distinguersi durevolmente da quelle vicine. Ai margini di queste località c'è una chiesa, bianca e nuova, ma nel primo terzo delle sue mura sporca come un vestito trascinato appresso. È stata costruita per volontà di tutte e tre le località, sebbene gli abitanti del villaggio più lontano preferiscano andare a pregare e a confessarsi dai frati mendicanti nel convento molto antico di Santa Maria delle Grazie. Ai margini del secondo villaggio c'è una locanda che di pomeriggio viene preferibilmente frequentata dagli ospiti di Arco e che per questo è influenzata dai forestieri: un edificio chiaro, con insegne, terrazza e un piccolo vaso di oleandri, talvolta persino addobbata con una bandiera. E vicino s'erge un'enorme macina a vapore dalle molte finestre e copre le casette e il loro cielo. Appartiene all'oste e non è null'altro che lo sporco denaro dei clienti delle terme di Arco, con cui gli pagano a caro prezzo il vino santo che sa d'aceto. E ognuno che arriva là, beve, scrive una spiritosaggine sul libro degli ospiti tutto imbrattato e chiede alla cameriera come si chiama, porta senza saperlo una pietra a quell'enorme macina, che per questo ogni anno s'ingrandisce di un edificio.

La cameriera della signora Blaha[modifica]

Quell'estate la signora Blaha, che era sposata con un piccolo impiegato delle ferrovie, Wenzel Blaha, tornò per alcune settimane al suo paesello natio. Questo villaggio si trova nella pianeggiante e paludosa Boemia, dalle parti di Nimburg, ed è veramente povero e insignificante. Quando la signora Blaha, che si considerava già in un certo senso una cittadina, rivide tutte quelle case piccole e misere, credette di star per compiere una buona azione. Si recò da una contadina, sua conoscente, poiché sapeva che aveva una figlia, e le propose di portarla con sé in città come cameriera. Le avrebbe dato un piccolo, modesto salario, e inoltre la ragazza avrebbe avuto il vantaggio di vivere in città e lì di imparare qualcosa. (Cosa dovesse in effetti imparare non era del tutto chiaro nemmeno alla signora Blaha.) La contadina discusse la questione con suo marito, che strizzava continuamente gli occhi, e dapprima sputò soltanto. Ma dopo mezz'ora tornò nella stanza e chiese: «Ma la signora lo sa che Anna è così così?», e così dicendo oscillava la sua mano scura e grinzosa come una foglia di castagno su e giù davanti alla sua fronte. «Scema», fece la contadina, «certo che no!»

Il testamento[modifica]

Per rendere comprensibile la sua situazione sul finire di quell'inverno, bisogna volgere lo sguardo fino all'estate dell'anno '14. Lo scoppio della terribile guerra che deformò il mondo per sempre falcidiando molte vite umane, gli impedì di tornare in quella città incomparabile cui egli doveva gran parte delle sue possibilità.[52]

Citazioni su Rainer Maria Rilke[modifica]

  • In quanto poeta egli accetta e traduce in parola tutto, anche le cose e gli eventi più infimi e impercettibili, anche l'orribile e il terribile, cogliendo ed esprimendo tutto con finezza e nobiltà, con un entusiasmo e una partecipazione come in pochi poeti prima di lui. Ma dall'oggetto più insignificante, o meglio dal modo rilkiano di cogliere l'oggetto più insignificante, echeggia sempre di nuovo – più puro nella più matura stagione del poeta – questo lamento dell'uomo smarrito in un mondo fondamentalmente estraneo, anzi ostile:
    [...] denn das Schöne ist nichts
    als des Schrecklichen Anfang, den wir noch gerade ertragen,
    und wir bewundern es so, weil es gelassen verschmäht,
    uns zu zerstören.
    [53]
    Che «sicurezza[54]» è questa che così risuna nel più puro dei suoi cantori? (György Lukács)

Note[modifica]

  1. Citato in Bonaventura Tecchi, Scrittori tedeschi moderni, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1959, p. 38.
  2. Da Lettere di Natale alla madre, 1900-1925; citato in Aa.Vv., Pensieri di Natale, a cura di Luigi La Rosa, BUR, Milano, 2005, p. 46. ISBN 88-17-00896-6
  3. Dalla lettera a Clara Westhoff del 25 marzo 1907. Citato in Poesie, vol I (1895-1908), a cura di Giuliano Baioni, commento di Andreina Lavagetto, introduzioni, commenti e note di Andreina Lavagetto, traduzione di Anna Maria Carpi (Prime poesie, Le poesie giovanili, Canzone d'amore e di morte dell'alfiere Cristoph Rilke), Cesare Lievi (Il libro d'ore), Giacomo Cacciapaglia (Il libro delle immagini, Nuove poesie), Einaudi-Gallimard, Torino, 1994, p. 991. ISBN 88-446-0021-8
  4. Citato in George Steiner, Una certa idea di Europa, traduzione di Oliviero Ponte di Pino, Garzanti, Milano, 2006, pp. 17 sgg. ISBN 88-11-59777-3: "La caratteristica dei capolavori è che ci interrogano, ci impongono di reagire. L'antico busto di Apollo nel celebre poema di Rilke ce lo dice in termini chiari: «Du sollst dein Leben ändern». («Devi cambiare vita.»)"
  5. Da Bambole, in Rainer Maria Rilke, Charles Baudelaire e Heinrich von Kleist, Bambole, giocattoli e marionette, a cura di Leone Traverso, Passigli Editore, 1998, p. 31. ISBN 88-368-0577-9
  6. La contessa P.d.V. che era solita ospitare Rilke nei suoi soggiorni a Venezia. Cfr.Bambole, giocattoli e marionette, a cura di Leone Traverso, nota a p. 8.
  7. Da una lettera di Rilke alla contessa P.d.V. dell'11 febbraio 1914 da Parigi; citata da Leone Traverso nella prefazione di Rainer Maria Rilke, Charles Baudelaire e Heinrich von Kleist, Bambole, giocattoli e marionette, nota 1, pp. 8-9.
  8. Citato in I luoghi dell'arte, vol. 1.
  9. Da Auguste Rodin, in Tutti gli scritti sull'arte e sulla letteratura, p. 641.
  10. Dalla Lettera al Sig. Witold von Hulewicz a proposito delle Elegie duinesi , timbro postale di Sierre, 13 novembre 1925. In Elegie duinesi, introduzione e traduzione di Leone Traverso, Vallecchi, Firenze 1959, p. 149.
  11. Dalla Lettera a Clara Westhof del 24 giugno 1907. Citato in Poesie, vol I , Einaudi-Gallimard, p. 944.
  12. (DE) Da Über Dichtung und Kunst. Edition und Nachwort von Hartmut Engelhardt., Suhrkamp, Francoforte sul Meno, 1974, p. 39.
  13. Citato in Georg Trakl Poesie, introduzione, traduzione e note di Ervino Pocar, Rizzoli, Milano, 1974, p. 154.
  14. Da Lettere milanesi, 1956 (postume). Citato in Robert Musil, L'uomo tedesco come sintomo, traduzione di Antonello Scicchitano, Polimnia Digital Editions, Sacile (PN), nota 13 p. 59. ISBN 978-88-99193-04-1
  15. Dalla lettera a Clara Westhoff del 1 marzo 1907. Citato in Poesie, vol I , Einaudi-Gallimard, p. 959.
  16. Da Lettera a Robert Heinz Heygrodt, Château de Muzot, 24 dicembre 1921. Da Verso l'estremo. Lettere su Cézanne e sull'arte come destino, a cura di Franco Rella, Pendragon, Bologna, 2007, p.99. ISBN 9788883425530
  17. Citato in Umberto Veronesi, L'ombra e la luce: La mia lotta contro il male, Einaudi, Torino, 2008, p. 83. ISBN 978-88-06-19501-0
  18. Citato in Leone Traverso, Sul "Torquato Tasso" di Goethe e altre note di letteratura tedesca. Pubblicazioni dell'Università di Urbino, serie di Lettere e Filosofia, vol. XIX, Argalìa Editore, Urbino, 1964, p. 281.
  19. Da Liriche e prose, Sansoni.
  20. Versi composti da Rilke come suo epitaffio. Citato nella prefazione a Poesie francesi, p. 10.
  21. In Einaudi 1984, p. 19.
  22. Dalla lettera a Lou Salomé, 3 novembre 1903. Citato in Piera Mattei, I Poeti e la Città, traduzione di Piera Mattei, Il Bisonte, Firenze, 2009, p. 36.
  23. Da Lettere; citato in Elena Spagnol, Enciclopedia delle citazioni, Garzanti, Milano, 2009. ISBN 9788811504894
  24. Dalla lettera a Rudolf Kassner del 15 novembre 1926. Citato in Claude Aveline, Le parole della fine, traduzione di Claudia Liberale; in Le parole della fine – a cura di Laura Liberale e Giovanna Zulian – Rainer Maria Rilke, carteggiletterari.it, 24 settembre 2015.
  25. Da Prima elegia, 1959, p. 39.
  26. Da Seconda elegia, 1959, p. 51.
  27. Da Quinta elegia, 1942, p. 395.
  28. Da Settima elegia, 2014, v. 53.
  29. Da Ottava elegia, 1959, p. 115.
  30. Da Ottava elegia, 2014.
  31. Da Nona elegia, 1959, p. 125.
  32. Da Decima elegia, 1959, p. 143.
  33. Quest'incipit si ispira probabilmente a una sentenza della Religio Medici (1642) di Thomas Browne: «Il mondo io lo considero un ospedale, non una locanda; un posto per morire, non per viverci».
  34. Scritto da Rilke in margine al manoscritto. Cfr. 1988, nota 1, p. 204
  35. Citato in Vincenzo Errante, Rilke: storia di un'anima e di una poesia, Sansoni, 1947.
  36. Da I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di Giorgio Zampa, Adelphi, Milano, 2020. ISBN 9788845981326
  37. Da Perché il buon Dio vuole che esistano i poveri, 1995, p. 26.
  38. Da Come il tradimento arrivò in Russia, 1995, pp. 30-31.
  39. Da L'uomo che ascoltava le pietre, 1995, p. 55.
  40. Da La canzone della Giustizia, 1995, pp. 42-43.
  41. Da La canzone della Giustizia, 1995, p. 44.
  42. Da La canzone della Giustizia, p. 44.
  43. Con diversa traduzione in 1995, p. 87.
  44. Da Come avvenne che il ditale..., 1995, p. 62.
  45. Da Un'associazione nata da un sentito bisogno, 1995, p. 74.
  46. Da una lettera del 17 febbraio 1903. Citato in Stefano Lanuzza, Non è mai troppo presto. Antimanuale di scrittura e lettura, Stampalternativa.
  47. Da Lettera del 12 agosto 1904; in Lettere a un giovane poeta, traduzione di Leone Traverso, Adelphi, 1980, p. 55.
  48. a b Citato in Stefania Lapenta, Cézanne, I Classici dell'arte, Rizzoli – Skira, Milano, 2003, pp. 183-188 e frontespizio. ISBN 88-7624-186-8
  49. Da sonetto I, I, Feltrinelli, p. 19.
  50. Da I sonetti a Orfeo, sonetto XIX, I, traduzione di Raffaello Prati, Cederna, Milano, 1986, p. 63. Citato in Umberto Galimberti, La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Feltrinelli, Milano, 2008, p. 271. ISBN 978-88-07-72019-2
  51. Da sonetto XXI, II, Feltrinelli, p. 113.
  52. Citato in Giacomo Papi, Federica Presutto, Riccardo Renzi, Antonio Stella, Incipit, Skira, 2018. ISBN 9788857238937
  53. [...] Ché il bello | è solo l'inizio del tremendo, che noi sopportiamo, | ancora ammirati perché tranquillo disdegna | di sgretolarci. Traduzione di Leone Traverso. Citato in György Lukács, Breve storia della letteratura tedesca. Dal Settecento ad oggi, traduzione di Cesare Cases, Einaudi, Torino, Piccola Biblioteca Einaudi, edizione4, p. 149, nota 1.
  54. L'"epoca della sicurezza": l'epoca guglielmina, "come la chiamerà più tardi la critica reazionaria". Cfr. Breve storia della letteratura tedesca, p. 146.

Bibliografia[modifica]

  • Rainer Maria Rilke, Danze macabre, traduzione di Mauro Ponzi, Newton Compton, Roma 1994. ISBN 8879835726
  • Rainer Maria Rilke, Diario di Parigi (1902), a cura di Andreina Lavagetto, Einaudi, Torino, 2003. ISBN 88-06-16107-5
  • Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, introduzione e traduzione di Leone Traverso, Vallecchi, Firenze, 1959.
  • Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, a cura di Michele Ranchetti, traduzione di Michele Ranchetti e Jutta Leskien, Feltrinelli, Milano, 2014.
  • Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, traduzione di Giorgio Zampa, De Donato editore, 1966.
  • Rainer Maria Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, traduzione di Furio Jesi, Garzanti, Milano, 1988. ISBN 88-11-58087-0
  • Carl Jacob Burckhardt, Incontro con Rilke, a cura di Antonio Gnoli, traduzione di Ervino Pocar Sellerio, Palermo, 1990.
  • Rainer Maria Rilke, Le storie del buon Dio, traduzione di Vincenzo Errante, Tea, Milano 1989. ISBN 8878191035
  • Rainer Maria Rilke, Le storie del buon Dio, a cura di Marilena Salvarezza, Opportunity Book, Milano, 1995. ISBN 88-8111-122-5
  • Rainer Maria Rilke, Lettere a un giovane poeta, a cura di Marina Bistolfi, Mondadori, Milano 1994. ISBN 8804390360
  • Rainer Maria Rilke, Lettere su Cézanne, a cura di Mario Specchio, Passigli, Firenze, 2001. ISBN 8836806201
  • Rainer Maria Rilke, Nuove poesie, in Poesie, traduzione di Giaime Pintor, Einaudi, Torino 1989. ISBN 8806026755
  • Rainer Maria Rilke, Nuove poesie, in Poesie, traduzione di Giaime Pintor, Einaudi, Torino 1984. ISBN 8806026755
  • Rainer Maria Rilke, Opere di Rainer Maria Rilke, vol. I, a cura di Vincenzo Errante, Sansoni, Firenze, 1942.
  • Rainer Maria Rilke, Poesie francesi, a cura di Roberto Carifi, Crocetti Editore, Milano, 1989.
  • Rainer Maria Rilke, Sonetti a Orfeo, traduzione e cura di Franco Rella, Feltrinelli, Milano, 1991. ISBN 88-07-82025-0
  • Rainer Maria Rilke, Tutti gli scritti sull'arte e sulla letteratura, a cura di Elena Polledri, Bompiani, Milano, 2008.

Voci correlate[modifica]

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