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Robert Byron

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Robert Byron

Robert Byron (1905 – 1941), scrittore britannico.

Citazioni di Robert Byron

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La via per l'Oxiana

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Incipit

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Venezia, 20 agosto 1933. Qui sto da re. Non c'è confronto con la pensione della Giudecca di due anni fa. Questa mattina siamo andati al Lido, e dal motoscafo il Palazzo Ducale mi è parso più bello di quanto non l'abbia mai visto da una gondola. In una giornata di calma, dev'essere la peggiore località balneare d'Europa: l'acqua pare saliva calda, i mozziconi di sigaro galleggianti ti finiscono in bocca e le meduse sono a frotte.

Citazioni

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  • Gita in macchina alla Malcontenta[1] per il tè. Abbiamo preso la nuova strada costruita sulla laguna a fianco della ferrovia. La famosa villa, magnificata in tutti i libri sul Palladio, stava cadendo in rovina quando la vide Landsberg[2], nove anni fa: senza porte né finestre, era usata come magazzino di svariati prodotti agricoli. Landsberg l'ha resa abitabile. Le proporzioni del grande salone e delle sale di ricevimento sono un peana matematico. Un altro avrebbe riempito le sale di cosiddetti mobili italiani tutti dorature, fondi di antiquario. Landsberg ha fatto fare dei mobili di legno naturale in paese. Non c'è niente «d'epoca», tranne le candele, di cui non si può fare a meno in mancanza dell'elettricità. (p. 26)
  • La bellezza di Gerusalemme, nella sua cornice naturale, può essere paragonata a quella di Toledo. La città sorge in mezzo alle montagne, scenario di cupole e torri racchiuso fra mura merlate, arroccato su una spianata rocciosa alta sulla valle incassata. La vista si estende lontano, fino alle colline del Moab, e la conformazione del paese fa pensare a una carta geografica fisica, con i rilievi che salgono in curve regolari, stratificate, e le valli improvvise segnalate da ombre drammatiche. La terra e la roccia riflettono i bagliori dell'opale di fuoco. Tale saggio di disposizione urbana, casuale o studiato che sia, ha dato origine a un'opera d'arte. (p. 40)
  • Se Tel Aviv fosse in Russia, il mondo esalterebbe il suo piano urbanistico, gli edifici, la sua vita cittadina improntata al sorriso, le sue attività intellettuali, la sensazione di una gioventù al potere. La differenza con la Russia è che invece di essere delle mete per l'avvenire, tutte queste cose sono già realizzate. (p. 48)
  • La moschea degli Omayyadi, molto restaurata dopo l'incendio del 1893, risale all'VIII secolo. Il grandioso porticato, sopra il quale corre una galleria, possiede le belle proporzioni e lo stesso ritmo imponente, nella sua nudità islamica, della Biblioteca del Sansovino a Venezia. Originariamente, questa nudità era rivestita di mosaici scintillanti. Ne rimangono dei frammenti: i primi paesaggi della tradizione europea. Nonostante il loro pittoresco di tipo pompeiano, con i palazzi a colonnati e i castelli sulle rocce, sono veri e propri paesaggi e non semplici decorazioni, come rivela l'attenzione, pur entro costrizioni formali, per l'individualità di un albero o l'energia di un ruscello. La fattura non può essere che greca; preannunciano infatti, molto appropriatamente, le vedute di Toledo dipinte dal Greco. Ancor oggi, nell'istante in cui il sole colpisce un frammento del muro esterno, si può immaginare l'antica magnificenza del verde e dell'oro, quando l'intero cortile splendeva delle magiche scene concepite dalla fantasia degli arabi per compensare le aride eternità del deserto. (p. 52)
  • Baalbek è il trionfo della pietra, una magnificenza lapidaria il cui linguaggio, ancora visivo, riduce New York a una dimora di formiche. È una pietra color pesca, striata di oro rossiccio così come le colonne di St Martin-in-the-Fields sono striate di fuliggine. Ha la consistenza del marmo, senza trasparenza ma con una lieve velatura, come quella delle prugne. L'ora ideale per vederla è l'alba: lo sguardo sale lungo le sei colonne, i cui fusti di pesca e d'oro splendono con la stessa luminosità dell'aria cerulea, e perfino i basamenti privi di colonne hanno un'identità vivente, baciata dal sole, sullo sfondo delle profondità violette del firmamento. Sale ancora lo sguardo lungo questa carne scavata, lungo i fusti tre volte enormi, fino ai capitelli sbrecciati e al cornicione grande come una casa, tutti insieme sospesi nel celeste. Lo sguardo spazia oltre le mura, fino ai ciuffi verdi dei pioppi dai tronchi bianchi; oltre ancora, al Libano scintillante in lontananza di toni violacei, azzurri, oro e rosa. E poi scende seguendo le montagne fino al vuoto: il deserto, solitario mare di pietra. Bevi l'aria vibrante. Accarezza la pietra con mano delicata. Da' il tuo addio all'Occidente, se lo possiedi, quindi volgiti a Oriente, turista. (p. 57)
  • È un magro conforto ricordare che la Mesopotamia fu anticamente un paese di straordinaria ricchezza, fecondo di arti e di invenzioni, patria ospitale ai sumeri, ai seleucidi e ai sasanidi. Il dato fondamentale della storia della regione è la distruzione da parte di Hulagu, nel XIII secolo, del sistema di irrigazione; da quell'epoca fino ai giorni nostri la Mesopotamia è rimasta un paese di fango, ma senza l'unico vantaggio possibile del fango, la fertilità. (p. 62)
  • Il suddetto arco [l'arco di Ctesifonte in Iraq] ha un'altezza di 40 metri e la luce di 27. Costruito di fango, è durato ciò nondimeno quattordici secoli. Esistono delle foto che presentano due lati invece di uno, e anche la facciata dell'arco. Nell'insieme, i mattoni crudi sono di un bellissimo beige biancastro, e risaltano contro il cielo che è di nuovo azzurro, ora che siamo fuori da Baghdad. La base è stata consolidata di recente, probabilmente per la prima volta dalla sua costruzione. (p. 63)
  • A Qasr-e-Shirin un'altra ora di attesa per farci rilasciare il permesso della polizia per andare a Teheran. Poi si è rivelata la vera magnificenza dell'Iran. Illuminata da tergo dal sole appena tramontato, e di fronte dalla luna nascente, a partire dalle rovine sasanidi si apre una vasta distesa di colline tondeggianti; le luci gialle dei villaggi tremolano qua e là, finché non appare in lontananza un'imponente catena di cime, i veri bastioni. (p. 68)
  • Nelle grotte di Taq-e Bostan hanno lavorato sicuramente diversi scultori. I volti degli angeli sopra l'arco sono di tipo copto, i panneggi hanno la delicatezza e il sottile rilievo delle medaglie bronzee del Rinascimento. Il rilievo è più accentuato nei due pannelli all'interno dell'arco, pur diversi fra di loro: squisitamente finito e modellato quello di sinistra, incompiuto l'altro, che è sbozzato in una serie di superfici piatte che si direbbero aggiunte alla roccia, invece di emergere da essa. Dietro queste scene di caccia e di corte, movimentate e cinematografiche, si erge sul fondo, con violento contrasto, la figura gigantesca di un re a cavallo di una ferocia vacua che fa pensare a un monumento tedesco ai caduti in guerra. È un esempio tipico di arte sasanide. È difficile pensare che gli altri artisti avessero qualcosa di persiano. (p. 69)
Gonbad-e Alaviyan
  • A Hamadan [in Iran] ci siamo risparmiati le tombe di Ester e di Avicenna, abbiamo invece visitato il Gonbad-e-Alaviyan, mausoleo selgiuchide del XII secolo, dove i pannelli di stucco al naturale sfoggiano motivi vegetali lussureggianti, con profusione di rilievi e incavi e tuttavia con solenne splendore, paragonabile a quello di Versailles – anzi, anche superiore, se si considera la loro economia di mezzi, giacché la magnificenza ottenuta semplicemente con un poco di stucco e uno scalpello, invece che con i materiali più preziosi, è la magnificenza del puro disegno. Questo mausoleo, finalmente, purifica la bocca dal gusto dell'Alhambra e del Taj Mahal, per quel che riguarda l'arte islamica. È per liberarmi di quel gusto che sono venuto in Persia. (p. 70)
  • A Ray, a quindici chilometri circa da qui [Teheran], c'è una torre funeraria con grandi scanalature; la parte inferiore è selgiuchide. Ce n'è un'altra più lontano, a Veramin, più aggraziata ma meno imponente. Questa di Ray è sormontata da un tetto; ci vive un oppiomane, che ci ha gettato un'occhiata mentre si faceva da mangiare e ha detto che quella è casa sua e ha tremila anni. La moschea di Veramin risale al XIV secolo. Vista da lontano, ricorda le rovine di un'abbazia, quella di Tintern per esempio; al posto della guglia però ha una cupola, che poggia su un tamburo ottagonale e ricopre la cella quadrata all'estremità occidentale. Il complesso, di mattoni nudi color caffelatte, è solido, semplice e di belle proporzioni; esprime un'idea di serenità, che è assente nelle facciate indiane o moresche. All'interno c'è un mihrab in stucco; la tecnica è la stessa che nel Gonbad-e-Alaviyan di Hamadan, ma i motivi decorativi, di epoca più tarda, sono rozzi e confusi. (p. 75)
  • La cupola di Sultaniya [Soltaniyeh nel nord-ovest dell'Iran] dominava il deserto. Per arrivare fin là abbiamo dovuto percorrere un intero sistema d'irrigazione. Laggiù abbiamo trovato un paese diverso. Anche se la distanza dalla strada principale è soltanto di poche miglia, al posto del moderno copricapo pahlavi si vedevano gli antichi berretti a forma d'elmo, che sono documentati nei bassorilievi di Persepoli. La gente lì parla in maggioranza turco. (p. 77)
Mausoleo di Oljeitu a Soltaniyeh
  • Questo notevole edificio [Il Mausoleo di Oljeitu a Soltaniyeh in Iran] fu terminato dal principe mongolo Uljaitu nel 1313. La cupola ovoidale, di circa 33 metri d'altezza, poggia su un'alta costruzione ottagonale ed è racchiusa in una cinta di otto minareti, che s'innalzano agli angoli del parapetto dell'ottagono. La muratura è rosata, i minareti invece erano originariamente turchese. Dello stesso colore sono i trifogli profilati di lapislazzuli, che scintillano lungo la base della cupola. Situato al centro della pianura desertica, stretto dalle catapecchie di fango, questo gigantesco mausoleo è una testimonianza di quella virilità dell'Asia centrale, che sotto i selgiuchidi, i mongoli e i timuridi ha prodotto le opere più ispirate dell'architettura persiana. Certo, qui la visione è puramente frontale: è il prototipo del Taj Mahal e di tanti altri edifici religiosi. Ma emana ancora forza e serenità, mentre i suoi discendenti si limitano alla raffinatezza scenografica. Possiede l'audacia dell'invenzione autentica; gli abbellimenti sono sacrificati all'idea e il risultato, nonostante le possibili imperfezioni rappresenta il trionfo dell'idea sulle limitazioni tecniche. La grande architettura è in larga misura di questo tipo. Viene in mente Brunelleschi. (p. 78)
  • Le caratteristiche di Tabriz sono un panorama di monti cangianti, preceduti da rilievi giallo limone; un vino bianco discreto e una birra disgustosa; chilometri di bazar, con bellissime volte in mattoni; un nuovo giardino comunale, ornato di una statua bronzea di Marjoribanks avvolto in un mantello. Vi sono due monumenti antichi: le rovine della famosa Moschea Azzurra, con un rivestimento di mosaici del XV secolo; l'arg, o cittadella, una montagna di piccoli mattoni color ruggine, disposti con arte sapiente, che forse un tempo fu una moschea, in questo caso una delle più grandi mai costruite, L'unica lingua che vi si parla, funzionari a parte, è il turco. I mercanti, ricchi in passato, sono stati rovinati dalla fissazione di Marjoribanks per l'economia pianificata. (p. 82-83)
  • I funzionari di Maragheh [città nel nord ovest dell'Iran] avevano sentito parlare del Rasatkhaneh, che significa «casa delle stelle», cioè osservatorio, ma non l'avevano mai visto. Fu eretto da Hulagu nel XIII secolo[3], e le osservazioni che vi furono fatte sono state l'ultimo contributo islamico all'astronomia, fino a Ulugh Beg, che all'inizio del XV secolo riformò il calendario. Ci siamo avviati di buon'ora e, superata una montagna al galoppo, abbiamo trovato un altopiano con diversi tumuli verso i quali convergono, dai quattro punti cardinali, dei sentieri acciottolati che s'intersecano ad angolo retto. Tali sentieri, secondo noi, sono stati tracciati per facilitare i calcoli astronomici, mentre i tumuli sono i resti degli edifici. (p. 85)
  • A Qadamgah, dopo circa venticinque chilometri, l'autista si è gentilmente fermato per permettermi di visitare il santuario. Questo grazioso ottagono di piccole dimensioni, con una cupola a bulbo, fu costruito a metà del XVII secolo in ricordo di un luogo dove l'Imam Reza veniva a riposare. Sorge su un rialzo sovrastato da una parete rocciosa, ed è circondato da alti pini mediterranei e da ruscelli argentini. Il sole batteva sul rivestimento di piastrelle con uno scintillio di azzurro, di rosa e di giallo sullo sfondo delle fronde scure e del cielo basso. Un seyyid dal turbante nero e la barba ha chiesto l'elemosina. Si sono radunati con incredibile rapidità a saltelli e ticchettii di bastone tutti i ciechi e gli zoppi del posto. Sono scappato via, al torpedone. (pp. 110-111)
  • Tus, patria di Firdusi, è di origine più antica di Mashhad, che si è ingrandita intorno alle spoglie dell'Imam Reza. Si trova a trenta chilometri in direzione nord-ovest, a poca distanza dalla strada per Ashkhabad, alla frontiera con la Russia. (p. 115)
  • Una serie di terrapieni e di linee in rilievo rivelano il perimetro della città antica. Un vecchio ponte a otto arcate attraversa il fiume; un massiccio mausoleo sormontato da una cupola in mattoni del colore di petali di rosa appassiti si erge sullo sfondo delle montagne azzurre. Nessuno sa dire alla memoria di quale personaggio sia dedicato, per quanto la somiglianza con il mausoleo del sultano Sanjar a Merv faccia pensare che sia stato costruito nel XII secolo. È tutto quanto sopravvive dello splendore di Tus. (p. 115)
  • I turkmeni portano alti stivali neri, cappotti rossi e lunghi e colbacchi neri di lucido pelo di capra. Ma il costume più singolare è quello degli abitanti delle vicine montagne, che si vedono avanzare maestosi nelle strade nei loro rigidi soprabiti serge bianco, dondolando le finte maniche, sorta di ali che arrivano fin dietro al ginocchio e sono ornate di intagli. Di tanto in tanto passa fugacemente sulla scena una specie di bozzolo conico di mussola, con una fessura in alto. Si tratta di una donna. (p. 120)
  • [Sui turkmeni] Gli uomini olivastri, dal corpo agile e dagli occhi di falco, con il naso aquilino, avanzano a passo ritmico e con sicurezza spavalda nell'oscurità del bazar. Vanno a fare acquisti con il fucile, come i londinesi ci vanno con l'ombrello. È una ferocia parzialmente istrionica, e quei fucili forse non spareranno mai. I militari nelle loro uniformi attillate perdono non poco del loro aspetto marziale. Perfino il lampeggiare degli occhi è spesso una recita. (p. 120)
  • La strada che dalla Persia porta a Herat segue da presso le montagne fino all'incrocio con la strada di Kushk, e di qui comincia a scendere verso la città. Siamo arrivati in una notte buia, anche se c'erano le stelle. E sempre misterioso, questo tipo di notte; in un paese sconosciuto, dopo l'incontro con le selvagge guardie di frontiera, ha prodotto in me un'eccitazione come raramente ho provato. La strada si è addentrata di colpo in una foresta di ciminiere giganti, i cui contorni neri cambiavano posizione sul cielo stellato al nostro passaggio. (p. 121)
  • Sono famose le miniature di Herat del XV secolo, sia per sé, sia come fonte della successiva pittura persiana e moghul. Ma gli artisti che le hanno prodotte, e questi edifici, occupano uno spazio esiguo nella memoria del mondo. (p. 122)
  • Per la maggioranza delle persone i Timuridi sono troppo remoti per fantasticarci sopra. Ma per me è questa la ricompensa del mio viaggio. Indubbiamente, questi Medici d'Oriente furono una razza straordinaria. Con l'eccezione di Shah Rukh, figlio di Tamerlano, e di Babur, il conquistatore dell'India, sacrificarono la sicurezza pubblica alle ambizioni personali; politicamente, ognuno di essi rimase quello che Tamerlano era stato, ossia un avventuriero alla ricerca di un regno. (p. 122)
  • Con la fondazione del suo impero, Tamerlano aveva liberato l'Oxiana di nomadi e aveva portato i turchi dell'Asia centrale nell'orbita della civiltà persiana. Per la medesima voglia di avventura, i suoi discendenti smantellarono la sua opera e causarono la propria rovina. Non riconoscevano nessuna legge di successione. Si assassinavano fra cugini e tra loro possono vantare un parricida. Furono stroncati uno dopo l'altro dall'eccesso del bere. (pp. 122-123)
  • Secondo i criteri europei, era un umanesimo limitato. Come il nostro, il rinascimento timuride ebbe luogo nel XV secolo, dipese dal mecenatismo dei principi e precedette l'affermazione degli stati nazionali. Vi fu però una differenza fra i due movimenti. Mentre il rinascimento europeo fu in larga misura una reazione contro la fede a beneficio della ragione, il rinascimento timuride coincise con un nuovo consolidamento del potere della fede. (pp. 123-124)
  • Geograficamente parlando, Herat era dunque più adatta di Samarcanda al ruolo di capitale, e tale divenne per volere di Shah Rukh alla morte di Tamerlano nel 1405. (p. 125)
Il mausoleo di Gohar Shad a Herat
  • Se la si osserva nei particolari, la decorazione del mausoleo[4] è inferiore a quella dei due minareti. Il tamburo della cupola è cinto di alte lastre coperte di esagoni di mosaico lilla, combinati con triangoli di stucco rilevato. La cupola invece è turchese, e le nervature, come quelle del mausoleo di Tamerlano a Samarcanda, sono cosparse di rombi bianchi e neri e ogni nervatura è a tre quarti di tondo, con il diametro di una canna d'organo di venti metri. Le pareti del mausoleo sono spoglie, a parte pochi mattoni invetriati e un curioso bow-window a tre finestre, che fa pensare a una villa di Clapham. Ma una certa rozzezza di questi elementi presi separatamente è superata dall'armonia delle proporzioni e dalla solidità della concezione. È difficile, in architettura, battere il modulo della cupola a nervature in quanto a effetti di cieca e monumentale ostentazione. (pp. 133-134)
  • Alla fine del secolo sopraggiunse dall'Asia un'altra ondata di popoli; gli eserciti di Tamerlano abbatterono i Kart e il loro castello. Più tardi, Shah Rukh capì che gli occorreva una fortezza. Nel 1415 diede ordine che settemila uomini fossero adibiti a riedificare l'antico forte, e da allora esso è stato il centro della storia politica di Herat. (p. 137)
  • Il prospetto settentrionale [della cittadella fortificata di Herat] consiste di un massiccio bastione lungo circa quattrocento metri, intervallato dalle sporgenze delle torri semicircolari. Di queste, quella all'estremità occidentale ha un motivo di mattoni azzurri inseriti nella superficie di terra secca, una combinazione di materiali insolita, che autorizza a pensare che almeno questa torre risalga alla ricostruzione di Shah Rukh. Dopo averla esaminata, sono ritornato all'angolo più distante della piazza d'armi cintata che separa la cittadella dalla città nuova per fare una fotografia. Mi sono così trovato nei pressi di un parco d'artiglieria di una ventina di pezzi, che a distanza poteva sembrare una discarica di vecchi carrozzini per bambini. (p. 137)
  • Khoja Abdullah Ansari morì nel 1088 all'età di ottantaquattro anni, colpito dalle pietre lanciategli da alcuni ragazzini mentre faceva penitenza. La nostra comprensione va a quei ragazzi: anche fra i santi egli fu un esimio seccatore. Cominciò a parlare nella culla: a quattordici anni si mise a predicare; nel corso della sua esistenza fu in relazione con mille sceicchi, imparò a memoria centomila versi (oppure oltre un milione, secondo alcune fonti) e ne compose altrettanti. Aveva una predilezione per i gatti. (p. 139)
  • [Sulla Grande moschea di Herat] È qui che per sette secoli ha pregato la gente di Herat, e qui viene ancora per pregare. La storia della moschea è la storia di questa gente. Attraversati i bui labirinti della città vecchia, mi sono trovato in una corte lastricata di circa cento metri per sessantacinque. Quattro iwan, che sono degli ambienti a volta aperti sul lato frontale, interrompono i portici lungo i lati. L'iwan occidentale, il più importante, è fiancheggiato da due torri massicce sormontate da cupole azzurre. Queste ultime, insieme a un pino mediterraneo dal tronco inclinato che sorge in un angolo, sono le uniche note di colore nel complesso dominato dal bianco della calce e dai mattoni sbrecciati, con qualche frammento di mosaico. Una vasca quadrata riflette un mullah e i suoi alunni che stanno passando, tutti vestiti di bianco. Il silenzio e la luce solare trasmettono pace al lastricato consunto. (pp. 142-143)
  • Il 21 febbraio 1427, un venerdì, in questa moschea Shah Rukh subì un attentato, ma ne uscì incolume e l'impero sopravvisse per altri vent'anni. (p. 145)
  • Oltre a costoro è arrivato un gruppo di turkmeni; le loro donne portano delle acconciature con pendagli d'argento dorato costellati di corniole. (p. 157)
  • Senza contare i turkmeni, di cui non meno di 25.000 hanno passato la frontiera in un solo anno, fuggono in Persia dalla Russia circa mille persone all'anno. Di queste, la maggioranza non è antibolscevica ma fugge per non morire di fame. (p. 181)
  • [Sulla Piazza Naqsh-e jahàn di Isfahan] Due piani di arcate cieche imbiancate racchiudono uno spazio rettangolare di quattrocento metri circa per centocinquanta. Sul lato vicino a me si vedono le rovine della Porta del Bazar; di fronte, sul lato opposto, si apre il portale azzurro della moschea dello Shah, dietro il quale sono raggruppati in linea obliqua, orientata verso la Mecca, la cupola, l'iwan e i minareti; davanti a ciascuno sono piantati due segnaporta di marmo per il gioco del polo. A destra è situato l'Ali Qapu, una sorta di scatola da scarpe in mattoni, con di fronte la cupola fiorita della moschea di Sheikh Lutfullah, che si scorge di sghembo sopra una nicchia azzurra. C'è simmetria, ma non troppa. La bellezza risiede nel contrasto fra lo spazio rigoroso e la libera diversità degli edifici. A sciupare l'effetto, e a indicare che i nobili bakhtiyari non possono più giocare a polo o far passeggiare i cavalli in questo luogo, il progresso ha collocato al centro uno specchio d'acqua, cinto da una ringhiera di ferro in stile gotico e di nuove aiuole di petunie. (pp. 187-188)
  • Nel cuore della città [di Esfahan], la Moschea del Venerdì è più antica, essendo stata costruita nell'XI secolo. Qui, come nella moschea del Venerdì di Herat, in un solo edificio e nei suoi restauri è illustrata tutta la storia della città. La grazia del colore dei Safawidi, come già quello dei Timuridi, impallidisce davanti alla sua venerabile grandiosità. Molte parti sono rozze, alcune sono brutte. Ma la grande cupola ovoidale di mattoni disadorni, costruita dal selgiuchide Malek Shah, ha poche rivali in quanto a espressione di assoluta serenità che è prerogativa delle cupole islamiche. (p. 188)
  • [Riferendosi a Shiraz] Il Sud, benedetto Sud! Mi dà la stessa ebbrezza di una prima mattina sulle rive del Mediterraneo. Il cielo splende terso. Le guglie nere dei cipressi si stagliano sulle colline biancastre come gusci d'uovo e sul viola sormontato di neve dei monti lontani. Cupole turchese a forma di porro, sui loro lunghi fusti, sovrastano un mare di piatti tetti di fango. Nel giardino dell'albergo gli alberi di mandarino sono carichi di frutti. Sto scrivendo a letto, con le finestre aperte: la dolce aria primaverile reca un alito di paradiso nello stambugio senz'aria della sera prima. (p. 191)
  • Venendo da Abadeh ci siamo fermati per pochi minuti a Persepoli, facendo di corsa la grande scalinata del salone da ballo fino alla piattaforma. Mi ha sempre incuriosito la pietra che hanno usato qui. Le colonne sono di marmo bianco, che il tempo ha reso ora color crema, ora marrone, ora nere; ha una luce rosata, ma è più gessoso e meno traslucido del marmo del Pentelico poiché gli manca quel suggello del sole che costituisce la bellezza del Partenone. I bassorilievi sono scolpiti in una pietra grigia, opaca e di grana molto fine, che le intemperie hanno reso di un nero screziato. (pp. 191-192)
Il palazzo di Ardashir
  • Il palazzo di Ardeshir fondato al principio del III secolo d.C., è una pietra miliare nell'evoluzione dell'edilizia. Ha introdotto il pennacchio, un semplice arco che abbraccia l'angolo fra due pareti, negli stessi anni in cui in Siria appariva il pendentif, volta a forma di aquilone sorretta da un solo pilastro; da queste due invenzioni derivano due stili architettonici fondamentali, sulla scia di due religioni: lo stile medioevale persiano, che si diffonde nella Mesopotamia, nel Levante e in India; e lo stile romanico-bizantino, che si è diffuso fino ai limiti dell'Europa settentrionale. Anteriormente, non si sapeva come posare una cupola su quattro muri ad angolo retto, o su un edificio di una forma qualunque, la cui superficie interna superasse largamente quella della cupola. Da allora in poi, con lo sviluppo dei pennacchi e dei pendentifs, e con il moltiplicarsi dei primi fino a formare intere zone di stalattiti e ali di pipistrello, è diventato possibile costruire cupole su edifici di qualsiasi forma e dimensione. Lo sviluppo di questa possibilità nel mondo cristiano ha raggiunto il suo culmine in Santa Sofia a Costantinopoli, e ha cominciato una seconda vita con la cupola del Brunelleschi a Firenze. Quello islamico attende di essere documentato, se c'è qualcuno capace di non perdere le staffe tra le rivalità della moderna archeologia. Una cosa è certa: senza questi due princìpi, uno dei quali ha qui il suo prototipo, l'architettura che conosciamo sarebbe diversa e molti edifici noti nel mondo intero, come San Pietro, il Campidoglio di Washington e il Taj Mahal, non esisterebbero. (pp. 210-211)*Visto da tergo, il castello sorge su un promontorio ed è difeso su tre lati dai precipizi, che scendono quasi a filo dei muri esterni. L'ultimo tratto dell'ascensione passava per una sella che unisce il promontorio alla parete rocciosa. Questa conduce alla parte posteriore dell'edificio, rivolta a nord, un bastione possente privo di porte e finestre, ricurvo come se contenesse uno stadio. È sostenuto da contrafforti alti e sottili, assai ravvicinati e collegati in alto da archi tondi. (p. 211)
  • Il castello è costruito su tre livelli. Dal basso, nella gola, è visibile l'apertura nera di un arco che dà accesso al piano interrato, sul lato est. Non ci sono potuto arrivare, perché la rampa a spirale che conduce giù era interrotta e non avevo nessuna voglia di scendere dall'esterno. Le rampe sono due, all'interno di torrette quadrangolari, e originariamente conducevano dalla parte inferiore dell'edificio, passando per gli angoli orientali della sala in cui mi trovavo, fino al terzo livello. (p. 212)
  • [Sul Dezh Dokhtar] L'arco dirimpetto, nel lato sud, si apre su una piattaforma erbosa fra alte pareti, che arrivano sull'orlo della gola una ventina di metri più in là. Queste pareti, come si può vedere dalla sommità semicircolare della parete arretrata, reggevano una volta a botte di una dozzina di metri di diametro. La quarta parete è sempre stata aperta. Dunque il Qala-ye-Dukhtar di Firuzabad presenta un altro prototipo sasanide dell'altro grande contributo persiano all'architettura islamica, dopo la cupola su pennacchi: l'iwan, o sala aperta sul lato frontale. Questo elemento ha modificato più di ogni altro la natura delle antiche moschee. In principio era usato su un solo lato, per indicare il santuario e la direzione della Mecca. In seguito è stato usato pure sugli altri lati, per spezzarne la monotonia. È diventato sempre più alto; la sua cornice piatta, una sorta di schermo, è diventata il terreno delle più varie ornamentazioni e iscrizioni. Si è arricchito di minareti ai lati, di arcate e cupole in alto. Le sue stravaganze hanno cambiato il volto di ogni città dell'Islam, ed è stata una bella soddisfazione, mi sono detto, trovarmi a mangiare un'arancia addossato a un vecchio noce nel luogo preciso dove quell'idea ha preso corpo. (pp. 212-213)
Il bassorilievo
  • [A proposito di un bassorilievo nei pressi del castello di Qala-ye-Dukhtar] Rappresenta il solito dio con un re, in questo caso Ormazd e di nuovo Ardeshir, che stringono un anello; il re ha un'acconciatura a palloncino, che per certi autori sarebbe un sacchetto per i capelli, è accompagnato da numeroso seguito ed è ritratto in atteggiamento di difesa (secondo l'artista, di deferenza), come usa nel pugilato moderno. Scolpita su un tratto di cupa roccia violacea, piccola e sperduta fra quelle immense rupi dove l'unica vita e data dal fiume, dagli alberi e dal martin pescatore, quella teoria di antiche figure commemorava non tanto il trionfo dei Sasanidi, quanto l'epoca oscura che avevano sconfitto. Né le sculture, né il luogo sono cambiati, a parte il fatto che i viaggiatori sono più scarsi e la strada e più ardua; una volta infatti c'era un ponte vicino al bassorilievo e il fiume è ancora spartito dalle macerie di un pilone di pietre squadrate, in cui la malta ha resistito tredici secoli di intemperie. (p. 216)
  • La statua a tutto tondo di Sapore, tre volte più grande del naturale, è superiore ai bassorilievi soltanto per la sua posizione, che si trova all'entrata di una caverna[5], a qualche chilometro nella valle situata dietro la gola. Per arrivarci bisogna arrampicarsi per duecento metri circa, che terminano con un tratto verticale. Non riuscivo a salire, e la valle ai miei piedi sembrava che ondeggiasse. Ma prima che potessi oppormi, gli abitanti del villaggio mi hanno tirato su come un fagotto, così come avevano fatto con la colazione al sacco e il vino. La statua doveva essere alta sei metri circa, dunque da terra fino al tetto della caverna. Attualmente, in una cavità giace una testa incoronata con una barba alla Velazquez e i riccioli di un'infanta spagnola, sulla quale è appoggiato un torso infiocchettato di nappine di mussola. Il signor Hyde vi ha inciso il proprio nome nel 1821, e noi abbiamo fermato appena in tempo Jamshid Taroporevala, il nostro autista indiano, che voleva aggiungerci il suo. Due piedi calzati di scarpe a punta quadrata occupano tuttora il piedestallo. (pp. 218-219)
  • [A proposito dei bassorilievi di Naqsh-e-Rostam in Iran] In quell'unica frase di giganteschi ideogrammi essi hanno fissato un momento decisivo nella storia delle idee umane, l'emergere dalla preistoria all'era moderna del diritto divino dei re. (p. 221)
  • [Descrizione dell'Investitura di Narsete a Naqsh-e-Rostam] Il re, vestito di pantaloni di mussola da mandriano, con le scarpe a punta quadra da cui sventolano lunghi nastri e l'acconciatura a palloncino, si oppone a una figura allegorica la cui corona municipale, su un alto strato di riccioli a salamino, potrebbe essere un bozzetto di Bernard Partridge. Questa creatura, il cui sesso è controverso, tiene un anello indicante il patto stipulato con il re. Tra i due si vede la figura di un bambino, dietro il re c'è invece un uomo con il berretto frigio. Questo pannello si trova ora sotto il livello del terreno, ed è stato messo in luce da uno scavo. (p. 222)
  • [Descrizione de Il trionfo di Sapore I a Naqsh-e-Rostam] La scena, in grandezza tre volte il naturale, mostra Sapore I a cavallo in atto di ricevere l'omaggio di Valeriano inginocchiato. L'atteggiamento del cavallo è tipicamente romano, tuttavia manca di forza. Come tutte le sculture sasanidi, è priva di muscolatura: un manichino impagliato. Una delle teste sul lato est ha l'aria achemenide. È possibile che ci fosse qui una scultura più antica, che i Sasanidi distrussero per fare posto alla loro propaganda? (pp. 222-223)
  • [Riguardo alla cosiddetta ka'ba di Zoroastro a Naqsh-e-Rostam] Se appartenesse a un paese mediterraneo, sarebbe salutata come la fonte originale dell'architettura domestica nell'Italia del Quattrocento e nell'Inghilterra georgiana. A differenza del tempio greco, che si è sviluppato da una forma lignea e dalla necessità di risolvere il problema del carico di punta, questa cappella funeraria deriva da una forma di mattoni crudi o cotti, esprimente un'idea di serenità; la sua bellezza consiste nella disposizione degli elementi ornamentali sulle pareti lisce. Si è stupiti di vedere questo principio, su cui si è basata tutta l'edilizia domestica di qualità a partire dal Rinascimento, pienamente affermato nella Persia del VI secolo a.C. È altrettanto sorprendente che i visitatori di Naqsh-e-Rustam le abbiano dedicato così scarsa attenzione, da questo punto di vista. (pp. 224-225)
  • [a proposito della tomba di Ciro il Grande] [...] un sarcofago di marmo bianco su un alto zoccolo appoggiato alcuni gradini, che sorge isolato fra i campi arati. E carico d'anni': ogni pietra è stata singolarmente baciata, ogni giuntura incavata da innumerevoli mani, come attraverso l'azione del mare. Nessun ornamento, nessun richiamo all'attenzione disturba la sua serenità solitaria. È sufficiente che Alessandro ne sia stato il primo turista. Anticamente si trovava all'interno di un tempio, di cui ci si può ancora fare un'idea dai basamenti delle colonne. (p. 233)
  • Secondo l'iscrizione che corre lungo la cupola [descrive la moschea del venerdì di Esfahan], la torre funeraria fu costruita nel 1088 da Abu al-Ghanaym Marzuban, ministro di Malek Shah. Ci si domanda quale occasione abbia prodotto in quel momento un'opera di tale genialità. Fu l'influenza di una nuova mente originaria dell'Asia centrale sull'antica civiltà dell'altopiano, il frutto dell'unione di vigore nomadico e di estetismo persiano? I Selgiuchidi non furono gli unici conquistatori della Persia che produssero tale effetto. La dinastia ghaznavide prima di loro, quelle dei mongoli e dei Timuridi dopo, vennero tutte dalle regioni a nord del fiume Oxus e ciascuna produsse un nuovo rinascimento in suolo persiano. Perfino i Safawidi, che ispirarono l'ultima e più languida fase dell'arte persiana, erano originariamente turchi. (p. 241)
La moschea di Sheikh Lutfullah
  • Se la piccola stanza a cupola, infatti, è pura forma, non ha colore, e annulla la sua ornamentazione nella serietà della costruzione, la moschea di Sheikh Lutfullah nasconde qualsiasi traccia di costruzione o di forma dinamica sotto una fantasmagoria di superfici delicatamente curve, la variegata progenie del pennacchio originario. La forma c'è, e deve esserci; ma come sia creata, e che cosa la sostenga sono problemi di cui l'occhio superficiale non è consapevole, e così si vuole che sia, perché non si distolga dalla festa del colore e del disegno, Questi ultimi sono elementi normali nell'architettura persiana. Qui però raggiungono una qualità che deve sbalordire l'osservatore europeo, non perché infrangano quello che egli considerava il suo monopolio, ma perché prima di vedere quest'opera non avrebbe potuto immaginare che il disegno astratto potesse avere uno splendore così vertiginoso. (p. 242)
  • [Sulla Moschea dello sceicco Lotfollah] La cupola è suddivisa a spicchi in forma di limone, che partendo da un pavone stilizzato al vertice via via si allargano, e sono circondati da mattoni opachi; contengono intarsi di fogliame sull'intonaco unito. Le pareti, che lungo i contorni presentano larghe fasce di iscrizioni bianche su fondo turchino, sono similmente intarsiate di ricchi arabeschi o di quadrati baroccheggianti sull'intonaco ocra scuro. Gli intarsi sono di tre colori: turchino, verdazzurro pallido, e una sfumatura molto ricca e indefinibile, come il vino. Ogni arco è incorniciato da un torciglione turchese. Il mihrab della parete occidentale è smaltato di fiorellini su sfondo turchino cupo. Ogni elemento del disegno, ogni piano, ripetizione, singolo ramo o fiore ha la sua severa bellezza. Ma la bellezza dell'insieme appare quando l'osservatore si muove. Anche qui la luce diretta è spezzata dall'azione reciproca di superfici opache e invetriate, sicché a ogni passo queste si ridispongono secondo infinite nuove figure; senza contare che anche il disegno della luce filtrata dai larghi trafori delle finestre è incostante, per effetto dei trafori esterni situati a una certa distanza, che raddoppiano la varietà di ciascuna mutevole sagoma. (pp. 243-244)
  • Non ho mai trovato prima d'ora uno splendore di questo genere. Mi sono tornati alla mente altri interni a cui paragonarlo, mentre ero là: Versailles, oppure il Gabinetto di porcellana di Schônbrunn, il Palazzo Ducale, San Pietro. Tutti sono fastosi, ma nessuno altrettanto fastoso. La loro fastosità è tridimensionale ed è ottenuta con tutto lo sforzo dell'ombra. Nella moschea di Sheikh Lutfullah si tratta di una fastosità unicamente di luce e di superficie, di disegno e di colore. La forma architettonica è secondaria. (p. 244)
  • Yazd si distingue dalle altre città della Persia. Non possiede, per proteggersi dalle impervie terre desertiche che la circondano, una cintura di giardini o di fresche cupole azzurre. Città e deserto hanno in comune il colore e la sostanza: la prima è il frutto del secondo, e le alte torri di ventilazione, che attestano il calore che vi domina, sono il genere di foresta che può crescere naturalmente nel deserto. Esse conferiscono alla città un profilo irreale [...] Le torri di Yazd sono quadrangolari e prendono il vento dai quattro lati mediante profonde scanalature, che lo spingono in basso verso i vani sottostanti. Due vani di questo tipo alle due estremità di una casa creano una corrente che la percorre tutta. (p. 247)
  • [sulla Torre di Gonbad-e Kavus in Iran] Un cilindro affusolato in muratura color caffelatte balza da uno zoccolo circolare fino a un tetto a punta grigio-verdastro, simile a uno spegnitoio per candele. Il diametro alla base è di quindici metri, l'altezza complessiva di circa quarantacinque. Tra zoccolo e tetto corrono lungo il cilindro dieci contrafforti triangolari, che intersecano due basse fasce di iscrizioni in caratteri cufici, una in alto sotto il cornicione, l'altra in basso sopra la stretta apertura nera. I mattoni usati sono lunghi, sottili e con gli spigoli ancora integri come quando sono usciti dalla fornace, per cui dividono ombra e sole su ogni contrafforte con la precisione di un coltello. Di mano in mano che i contrafforti retrocedono dalla direzione del sole, le ombre si allargano sulla parete curva del cilindro, di modo che le strisce di luce e ombra, mutando di ampiezza, raggiungono un effetto straordinario. E il contrasto fra questo effetto verticale e l'abbraccio orizzontale delle fasce a caratteri cufici a conferire all'edificio il suo aspetto particolare, che non ha riscontri in architettura. [...] si chiede come abbia potuto l'uso del mattone, all'inizio del secondo millennio dopo Cristo, produrre un monumento più eroico, con un più geniale rapporto tra superfici e ornamentazione, di quanti se ne siano visti da allora in quel materiale. (pp. 275-276)
  • Gohar Shad, figlia di un nobile jakatay, si valse delle usanze mongole per dedicarsi a interessi più elevati. Suo padre fu l'emiro Ghiyas ad-Din, il cui antenato aveva salvato la via a Genghiz Khan. Fu data in moglie a Shah Rukh, probabilmente nel 1388, comunque prima del 1394, quando nacque il loro primo figlio Ulugh Beg. Secondo le ballate di Herat, che cantano l'amore di Shah Rukh per Gohar Shad, fu un matrimonio felice. Poco si sa, tuttavia, dei primi quarant'anni della loro vita in comune, tranne le notizie sugli edifici da lei costruiti. Ad esempio, essa fondò la moschea di Mashhad nel 1405, e nell'agosto del 1419 portò il marito a visitarla. In quell'occasione egli lodò i disegni e l'abilità degli artigiani, e donò una lampada d'oro alla tomba del santo. (p. 300)
  • Shah Rukh ebbe otto figli, di cui il primo, Ulugh Beg, e il quinto, Baysonghor, da Gohar Shad. Intellettualmente parlando, questi due tennero fede alle promesse dei genitori e divennero, con la loro madre, le figure di spicco del rinascimento timuride. Ulugh Beg lasciò la scena di Herat per quella della Transoxiana. Nel 1410 suo padre lo nominò viceré di Samarcanda e dieci anni più tardi sua madre gli fece visita per vedere l'osservatorio che aveva fatto erigere. I suoi calcoli astronomici lo portarono a riformare il calendario, procurandogli onori postumi a Oxford, dove furono pubblicati nel 1665. (pp. 301-302)
  • Gohar Shad si avviava ormai ai sessant'anni, e aveva ancora un quarto di secolo da vivere. Fu l'affetto per il figlio di Baysonghor, Ala ad-Daula, che la indusse a immischiarsi in politica. Si adoperò dunque per garantire i diritti del nipote alla successione, e questo la portò alla rovina finale. La sua parzialità le inimicò coloro che tendeva a escludere, in particolare l'altro nipote, Abdullatif, il figlio di Ulugh Beg, che era stato allevato a Herat, alla corte dei suoi avi. (p. 303)
  • Due anni dopo avvenne la sciagura per la quale Gohar Shad si era preparata. Aveva convinto il marito, nonostante il declinare delle sue forze, a invadere la Persia con un esercito, e lo aveva accompagnato in questa spedizione. Dopo essersi spinto a Shiraz, Shah Rukh si era acquartierato per l'inverno a Ray, la località dove ora sorge Teheran. Qui egli spirò il 12 marzo 1447, all'età di sessantanove anni. Così si chiuse il primo periodo del rinascimento timuride , poiché le arti non possono fiorire senza stabilità politica. Nei dodici anni che seguirono, Herat passò successivamente sotto il potere di dieci diversi sovrani. (p. 303)
  • Aveva ormai più di ottant'anni. In quel mese di luglio arrivò davanti a Herat Abu Said, pronipote di Tamerlano e antenato di Babur. Soltanto la cittadella gli oppose resistenza, sostenendo Ibrahim. Sebbene conducesse l'attacco di persona, Abu Said non riuscì a espugnarla. Furioso per questo ostacolo ai suoi piani, e persuaso che la resistenza fosse segretamente appoggiata da Gohar Shad, egli fece uccidere la vecchia sovrana. Questa fu seppellita nel suo mausoleo e sulla lapide tombale fu scritto: «La Bilqis del nostro tempo». Bilqis è il nome arabo della regina di Saba. (p. 305)
  • Dopo un'ora di strada siamo arrivati al robat di Moghor. La parola è l'equivalente afghano di caravanserraglio, ed è anche usata come misura di lunghezza, poiché lungo le strade principali essi si trovano ogni quattro farsakh, ossia ogni ventisei chilometri. Il robat di Moghor consiste del solito cortile, con le stalle a pianterreno e le stanze sopra l'entrata. I parapetti però sono merlati, indicazione che qui si fa sul serio, e il portone chiude più presto che in Persia. (p. 313)
  • Sull'altro fianco della valle, mentre ci preparavamo per una nuova salita, si è cominciato a vedere un fiume che scorreva direttamente incontro alla parete montagnosa, con nostro grande stupore. Il fenomeno è stato spiegato da due bocche rocciose, ciascuna coronata da una torre di guardia, attraverso le quali il fiume entrava nella montagna. L'abbiamo seguito, passando dalla sponda occidentale a quella orientale su un ponte in cattive condizioni, formato un tempo da due arcate di pietra, di cui una sola rimaneva al suo posto e l'altra era sostituita da una passerella sospesa di legno. Passa su questo ponte anche la strada carrozzabile, che evidentemente ha ripreso a seguire il fiume più a sud. Secondo il russo che abbiamo conosciuto a Moghor, sia il ponte sia le torri sono stati costruiti da Alessandro. Si trattava del fiume Murghab, che nasce nello Hindu-Kush e poi si disperde nel deserto intorno a Merv. Qui era largo all'incirca come il Tamigi a Windsor, ma con una corrente più forte, e scorreva fra sponde basse ed erbose su cui crescevano le canne e la spirea rosa. Dalla parte opposta si scorgevano gruppi di tende nere sulle pendici verdi delle colline. (pp. 315-316)
  • Da tre giorni sto leggendo Proust (e comincio a notare che il contagio dell'eccesso di particolari si sta infiltrando in questo diario). Quando descrive come egli sia stato affascinato dal nome Guermantes, penso a come sono stato affascinato io dal nome Turkestan. (p. 318)
  • I mercanti sono in massima parte uzbeki con profili d'aquila e barbe di ferro, e portano tutti lunghe vesti di cotone o di seta stampate a fiorami, a righe, o a grandi zigzag rossi, viola, bianchi e gialli, che una volta erano fabbricate a Bukhara e adesso sono considerate antiquate. Gli alti stivali di cuoio hanno le punte come canoe, i tacchi alti e sono ricamati intorno all'orlo. (p. 327)
  • Gli hazara, che sono di stirpe mongola, discendono dai soldati di Tamerlano e vivono per lo più sulle montagne in grande povertà, a quanto si crede. Quelli che si vedono qui splendono di prosperità, sono gente di bella corporatura con volti ovali regolari, di colorito e di stampo cinese, e indossano delle giacchette ricamate abbastanza simili a quelle che portavano i levantini cent'anni fa. (p. 327)
  • Si è spalancato un orizzonte piatto, mentre ci arrivava una brezza calda e sinistra e il cielo si colorava di grigio piombo. Eravamo arrivati alla pianura dell'Oxus e sentivamo la presenza del fiume a ottanta chilometri di distanza, come si sente la presenza del mare prima di vederlo. (p. 328)
  • Dopo Akcha, il colore del paesaggio è passato dal piombo all'alluminio, pallido e mortifero, come se per migliaia d'anni il sole gli avesse succhiato ogni gioiosità; era cominciata infatti la pianura di Balkh, la più antica città del mondo, a quanto si dice. [...] Eppure la campagna è gradatamente rinverdita, i pascoli hanno coperto la terra dura come il cristallo, gli alberi si sono moltiplicati e improvvisamente è spuntata una linea di mura diroccate e calcinate, che hanno invaso l'orizzonte. Entrati al loro interno, ci siamo trovati in una vasta metropoli di rovine che si estendeva verso nord; a sud della strada invece il verde lucente dei gelsi, dei pioppi e di qualche maestoso platano isolato era un balsamo per gli occhi affaticati dalla mostruosa antichità nel sito di Balkh, la Madre delle città. (pp. 334-335)
  • [Lettera a Mohammad Gul, Ministro dell'Interno del Turkestan] Eccellenza, la nostra meta principale era quella di contemplare con i nostri occhi le acque dell'Amu Darya, noto nella storia e nella leggenda come fiume Oxus, e ispiratore di una celebre poesia dovuta alla sacra penna di Matthew Arnold. Dopo sette mesi di attesa, ci troviamo ormai a sessanta chilometri dalle sue sponde. (p. 343)
  • Il nazionalismo afghano non è smaccato come quello persiani, perché i governanti hanno imparato [...] che il popolo a cui cercano di instillarlo è ancora pronto a lottare, prima di rinunciare alle sue tradizioni per un piatto di lenticchie tecnologiche. (p. 347)
  • Non mi piacerebbe fermarmi a lungo a Bamiyan. La sua arte è stantia. Quando venne qui Xuan-zang i Buddha erano dorati, a imitazione del bronzo, e nei labirinti adiacenti vivevano cinquemila monaci. Correva l'anno 632 d.C., lo stesso della morte di Maometto; e prima che finisse il secolo arrivarono gli arabi. Ci vollero però centocinquant'anni prima della definitiva cacciata dei monaci. È facile immaginare che cosa pensassero gli arabi di loro e dei loro idoli, in questa valle rossa come il sangue. Mille anni più tardi, Nadir Shah deve aver pensato nello stesso modo quando spezzò le gambe del Buddha maggiore. Quest'ultimo misura 53 metri d'altezza, il minore 35, e si trovano a quattrocento metri di distanza l'uno dall'altro. (p. 369)
  • [Sui Buddha di Bamiyan in Afghanistan] I soggetti inducono a pensare che idee persiane, indiane, cinesi ed ellenistiche siano confluite a Bamiyan fra il V e il VI secolo, E interessante avere una prova di questo incontro, ma il frutto che ha prodotto non è gradevole. L'unica eccezione sta nella fila più bassa di Bodhisattva, che secondo Hackin sono più antichi di tutto il resto. Esprimono quel sentimento di calma aggraziata, ma inespressiva, che è quanto di meglio possa offrire l'iconografia buddhista. (p. 370)

Note

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  1. Si tratta della villa palladiana Villa Foscari a Mira in Veneto
  2. Alberto Clinton Landsberg che la acquistò nel 1925 ristrutturandola.
  3. Hulagu Khan è stato un condottiero mongolo che conquistò gran parte dell'Asia sud-occidentale giungendo sino all'Iran
  4. Il mausoleo di Gohar Shad a Herat in Afghanistan è la tomba di Goharshad moglie del sovrano timuride Shah Rukh.
  5. La cosiddetta grotta di Sapore I nei pressi di Bishapur in Iran.

Bibliografia

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