Roland Barthes

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Roland Barthes (1969)

Roland Barthes (1915 – 1980), saggista, critico letterario e semiologo francese.

Citazioni di Roland Barthes[modifica]

  • Ciò che la Pop Art vuole è desimbolizzare l'oggetto, dargli l'opacità e l'ottusa caparbietà d'un fatto.[1]
  • Essendo la lettura una traversata di codici, niente ne può arrestare il viaggio. (da S/Z[2])
  • Il mio fantasma: l'idiorritmia
    Un fantasma (o almeno ciò che io definisco tale): un ritorno di desideri, di immagini, che vagano, si cercano in voi, anche per tutta una vita, e spesso si cristallizzano solo attraverso una parola. La parola, significante maggiore, indotto dal fantasma alla sua esplorazione [...] [È] un fantasma di vita, di regime, di genere di vita, diaita, dieta. Né duale, né plurale (collettivo). Una sorta di solitudine interrotta in un modo definito: il paradosso, la contraddizione, l'aporia di una condivisione delle distanze – l'utopia di un socialismo delle distanze [...].[3]
  • Il testo di godimento è assolutamente intransitivo. Pure, la perversione non basta a definire il godimento; è l'estremo della perversione a definirlo: estremo sempre spostato, estremo vuoto, mobile, imprevedibile. Questo estremo garantisce il godimento: una perversione media si carica ben presto di un gioco di mentalità subalterne: prestigio, ostentazione, rivalità, discorso, parate ecc. (da Testi di godimento)
  • La letteratura non permette di camminare ma permette di respirare. (da Letteratura e significazione, in Saggi critici)
  • La letteratura: un codice che bisogna accettare di decifrare.[4]
  • La sapienza è nessun potere, un po' di sapere, un po' di intelligenza e quanto più sapore possibile.[5]
  • Lo scrittore deve considerare i suoi vecchi testi quali altri testi, che egli riprende, cita o deforma, come farebbe di una moltitudine di altri segni. (da Drame, Poème, Roman, 1968[2] )
  • Lo specchio non capta altro se non altri specchi, e questo infinito riflettere è il vuoto stesso, (che, lo si sa, è la forma). (da L'impero dei segni[2])
  • Ogni amante è pazzo.[6]
  • Per sfuggire all'alienazione della società presente non rimane che questa via: la fuga in avanti.[7]
  • Per «spirituali» che siano, gli Esercizi d'Ignazio sono fondati in scrittura. Non occorre essere gesuiti, né cattolici, né cristiani, né credenti, né umanisti, per esserne interessati.[8]
  • Poiché il mito ruba al linguaggio, perché non rubare al mito?[2]
  • Proust è quello che mi viene, non quello che chiamo; non è un'«autorità»; semplicemente un «ricordo circolare». Ed è questo l'intertesto: l'impossibilità di vivere al di fuori del testo infinito – sia questo testo Proust, o il giornale quotidiano, o lo schermo televisivo: il libro fa il senso, il senso fa la vita. (da Variazioni sulla scrittura)
  • Quali sono i piani che ogni lettura scopre? Come è costruita la cosmogonia che questo semplice sguardo postula? Singolare cosmonauta, eccomi attraversare mondi e mondi, senza fermarmi a nessuno d'essi: il candore della carta, la forma dei segni, la figura delle parole, le regole della lingua, le esigenze del messaggio, la profusione dei sensi che si connettono. E uno stesso infinito viaggio nell'altra direzione, dalla parte di chi scrive: dalla parola scritta potrei risalire alla mano, alla nervatura, al sangue, alla pulsione, alla cultura del corpo, al suo godimento. Da una parte e dall'altra, la scrittura-lettura si dilata all'infinito, impegna l'uomo nella sua interezza, corpo e storia; è un atto panico, del quale la sola definizione certa è che "non potrà fermarsi da nessuna parte".[9]
  • Quelli che trascurano di rileggere si condannano a leggere sempre la stessa storia. (da S/Z[10])
  • Scrivere significa scuotere il senso del mondo, disporvi un'interrogazione indiretta alla quale lo scrittore, con un'ultima sospensione, si astiene dal rispondere. La risposta è data da chiunque vi rechi la propria libertà; ma poiché questa muta la risposta del mondo allo scrittore è infinita: non si smette mai di rispondere a ciò che è stato scritto fuori da ogni risposta: i significati passano, la domanda resta.[11]
  • Vi è un'età in cui si insegna ciò che si sa; ma poi ne viene un'altra in cui si insegna ciò che non si sa: questo si chiama cercare.[5]

L'ovvio e l'ottuso[modifica]

  • [...] lo statuto particolare dell'immagine fotografica: è un messaggio senza codice. (Il messaggio fotografico, p. 7)
  • Che cos'è il colore? Un godimento [...] come una palpebra che si chiude, uno svanire leggero. (Cy Twombly o «Non multa sed multum», pp. 165-166)
  • È cambiato il soggetto umano: l'interiorità, l'intimità, la solitudine hanno perso il loro valore, l'individuo è sempre più diventato gregario, vuole musiche collettive, massicce, spesso parossistiche, espressione del noi, più che dell'io. (Amare Schumann, p. 281)

La camera chiara[modifica]

  • La vita è fatta di piccole solitudini. (da La camera chiara)
  • Davanti all'obiettivo io sono contemporaneamente: quello che io credo di essere, quello che vorrei si creda io sia, quello che il fotografo crede io sia, e quello di cui egli si serve per far mostra della sua arte. (da La camera chiara)
  • [Il colore è] un'intonacatura apposta successivamente sulla verità originaria del Bianco e Nero. Il Colore è per me un belletto, un make-up (come quello fatto ai cadaveri).[12]
  • Ciò che la fotografia riproduce all'infinito ha avuto luogo una sola volta: essa ripete meccanicamente ciò che non potrà mai più a ripetersi esistenzialmente. In essa, l'avvenimento non si trasforma mai in altra cosa: essa riconduce sempre il corpus di cui ho bisogno al corpo che io vedo; è il Particolare assoluto, la Contingenza sovrana, spenta e come ottusa, il Tale, in breve la Tyché, l'Occasione, l'Incontro, il Reale nella sua espressione infaticabile. (da La camera chiara)
  • La società si adopera per far rinsavire la Fotografia, per temperare la follia che minaccia di esplodere in faccia a chi la guarda.[13]

Frammenti di un discorso amoroso[modifica]

  • "Nell'amorosa quiete delle tue braccia"
    abbraccio Per il soggetto, il gesto dell'abbraccio amoroso sembra realizzare, per un momento, il sogno di unione totale con l'essere amato.
    1. Oltre all'accoppiamento (e al diavolo l'Immaginario), vi è quest'altro abbraccio, che è una stretta immobile: siamo ammaliati, stregati: siamo nel sonno, senza dormire; siamo nella voluttà infantile dell'addormentamento: è il momento delle storie raccontate, della voce che giunge a ipnotizzarmi, a straniarmi, è il ritorno alla madre (nell'amorosa quiete delle tue braccia, dice una poesia musicata da Duparc). In questo incesto rinnovato, tutto rimane sospeso: il tempo, la legge, la proibizione: niente si esaurisce, niente si desidera: tutti i desideri sono aboliti perché sembrano essere definitivamente appagati.
    2. Tuttavia nel mezzo di questo abbraccio infantile, immancabilmente, il genitale si fa sentire; esso viene a spezzare l'indistinta sensualità dell'abbraccio incestuoso; la logica del desiderio si mette in marcia, riemerge il voler prendere, l'adulto si sovrappone al bambino e, a questo punto, io sono contemporaneamente due soggetti in uno: io voglio la maternità e la genitalità. (L'innamorato potrebbe definirsi un bambino con il membro eretto: tale era il giovane Eros).
    3. Momento dell'affermazione, per un po', anche se limitatamente, disordinatamente, qualcosa è andato per il verso giusto: sono stato appagato (tutti i desideri aboliti attraverso la pienezza del loro soddisfacimento): l'appagamento esiste, e io lotterò senza tregua per ottenerlo di nuovo: attraverso tutti i meandri della storia amorosa, mi ostinerò a voler ritrovare, rinnovare, la contraddizione, la contrazione, dei due abbracci. (Nell'amorosa quiete delle tue braccia, pp. 13-14)
  • abito Ogni fenomeno emotivo suscitato o alimentato dal vestito che il soggetto ha indossato in occasione dell'incontro amoroso o che indossa nell'intento di sedurre l'oggetto amato. (Frac turchino e gilet giallo, p. 15)
  • È come se alla fine di ogni toilette, vi fosse sempre, compreso nell'eccitazione che essa suscita, il corpo ucciso, imbalsamato, laccato, imbellito alla maniera di una vittima. Vestendomi, io faccio bello ciò che sta per essere guastato dal desiderio. (Frac turchino e gilet giallo, p. 15)
  • adorabile Non riuscendo a precisare la specialità del suo desiderio per l'essere amato, il soggetto amoroso non trova di meglio che questa parola un po' stupida: adorabile! («Adorabile!», p. 17)
  • 2. Con una logica tutta particolare, il soggetto amoroso sente l’altro come un Tutto (come se si trattasse della Parigi autunnale) e, al tempo stesso, questo Tutto gli sembra comportare un resto, che egli non può esprimere. È soltanto l’altro a produrre in lui una visione estetica: egli lo elogia per il fatto di essere perfetto, si gloria per averlo scelto perfetto; immagina che l’altro voglia essere amato, come vorrebbe esserlo lui stesso, non già per questa o quella sua qualità, ma per tutto, e questo tutto glielo concede sotto forma di una parola vuota, giacché Tutto non potrebbe inventariarsi senza senza sminuirsi: all'infuori del tutto dell’affetto, in Adorabile! non è contenuta nessuna qualità. Tuttavia, esprimendo tutto, adorabile esprime anche ciò che manca al tutto; la parola vuole designare lo spazio dell’altro in cui viene specialmente a innestarsi il mio desiderio, ma questo spazio non è designabile; io non saprò mai niente di lui; il mio linguaggio sarà sempre confuso, esso cincischierà nel tentativo di esprimerlo, ma io non potrò mai produrre altro che una parola vuota, la quale è come il grado zero di tutti gli spazi in cui si forma il desiderio specialissimo che io ho di quell'altro là (e non di un altro). («Adorabile!», p. 18)
  • Adorabile vuol dire: questo è il mio desiderio, in quanto esso è unico: «È questo! È esattamente questo, che io amo!» Tuttavia, più provo la specialità del mio desiderio, meno sono in grado di precisarla; alla precisione di ciò che voglio dire corrisponde uno sfocamento del nome; il proprio del desiderio non può produrre altro che un improprio dell'enunciato. («Adorabile!», p. 19)
  • affermazione Nonostante tutto, il soggetto amoroso afferma l'amore come valore. (L'Intrattabile, p. 20)
  • Mi si dice: questa specie d'amore non da frutti. Ma co- ime poter valutare ciò che fruttifica? Perché ciò che dà frutti è un Bene? Perché durare è meglio che bruciare? (L'Intrattabile, p. 21)
  • 2. Stamattina, devo scrivere con urgenza una lettera “importante” – dalla quale dipende il successo d’una certa iniziativa; scrivo invece una lettera d’amore – che non spedisco. Abbandono allegramente tristi incombenze, ragionevoli scrupoli, comportamenti reattivi imposti dal mondo, a beneficio d’un compito inutile, derivato da un Dovere luminoso: il Dovere amoroso. Con discrezione, faccio delle cose pazze; sono l’unico testimone della mia follia. Quello che l'amore mette a nudo in me è l’energia. Tutto ciò che faccio ha un senso (posso perciò vivere senza lamentarmi), ma questo senso è una finalità inafferrabile: esso non è altro che la coscienza della mia forza. Le inflessioni dolenti, colpevoli, tristi, tutto il reattivo della mia vita d’ogni giorno è sconvolto. (L'Intrattabile, p. 21)
  • alterazione Produzione breve, nel campo amoroso, d'una controimmagine dell'oggetto amato. Sulla base di episodi trascurabili o di minimi connotati, il soggetto vede l'immagine buona alterarsi improvvisamente e rovesciarsi. (Un piccolo punto del naso, p. 23)
  • Sul volto perfetto e come imbalsamato dell'altro (a tal punto esso mi affascina), scorgo tutt'a un tratto un punto di corruzione. Questo punto è minuscolo: un gesto, una parola, un oggetto, un vestito, qualcosa d'insolito che emerge (che prende risalto) da una regione di cui non avevo mai sospettato l'esistenza, e che bruscamente unisce l'oggetto amato a un mondo piatto. L'altro, di cui devotamente lodavo l'eleganza e l'originalità, sarebbe dunque volgare? Egli fa un gesto ed ecco che in lui si disvela un'altra razza. Sono sbigottito: avverto un controritmo: qualcosa come una sincope nella bella frase dell'essere amato, il rumore di uno strappo nel liscio involucro dell'Immagine. (Un piccolo punto del naso, p. 23)
  • angoscia A seconda di tale o talaltra circostanza, il soggetto amoroso si sente trascinato dalla paura di un pericolo, di una ferita, di un abbandono, di un improvviso cambiamento – sentimento che egli esprime con la parola angoscia. (Agony, p. 27)
  • Lo psicotico vive nel timore del crollo (di cui le diverse psicosi non sarebbero altro che le difese). Ma «la paura clinica del crollo è la paura d’un crollo che è già stato subito (primitive agony) [...] e vi sono dei momenti in cui un paziente ha bisogno che gli si dica che il crollo la cui paura mina la sua vita è già avvenuto».[14] Lo stesso avviene, a quanto sembra, per l’angoscia d’amore: essa è la paura di una perdita che è già avvenuta, sin dall’inizio dell’amore, sin dal momento in cui sono stato stregato. Bisognerebbe che qualcuno potesse dirmi: «Non essere più angosciato, tu l’hai già perduto(a)». (Agony, p. 27)
  • annullamento Accesso di linguaggio durante il quale il soggetto giunge ad annullare l'oggetto amato sotto il volume dell'amore stesso: con una perversione propriamente amorosa, il soggetto ama l'amore, non l'oggetto. (Amare l'amore, p. 28)
  • Basta che, in un lampo, io veda l'altro nelle vesti d'un oggetto inerte, come impagliato, perché trasferisca il mio desiderio da questo oggetto annullato al mio stesso desiderio; io desidero il mio desiderio, e l'essere amato non è più che il suo accessorio. Mi esalto al pensiero di una così nobile causa, che non tiene nel minimo conto la persona che ho preso a pretesto (questo è almeno quanto mi dico, felice di potermi innalzare sminuendo l'altro): io sacrifico l'immagine all'Immaginario. E se un giorno dovessi decidermi di rinunciare all'altro, il violento lutto che mi colpirebbe sarebbe il lutto dell'Immaginario: era una struttura cara, e io piangerei la perdita dell'amore, non già la perdita di questa o quella persona. (Amare l'amore, p. 28)
  • appagamento Il soggetto ricerca, con ostinazione, la possibilità di ottenere una totale soddisfazione del desiderio implicito nella relazione amorosa e di conseguire un successo completo e come eterno di questa relazione: immagine paradisiaca del Bene Supremo da dare e da ricevere. («Tutte le voluttà della terra», p. 30)
  • ascesi Sia che si senta colpevole nei confronti dell'essere amato, sia che voglia impressionarlo mostrandogli la sua infelicità, il soggetto amoroso abbozza una condotta ascetica di autopunizione (regime di vita, abiti, ecc.). (Essere ascetici, p. 32)
  • 1. Dato che sono colpevole di questo e di quello (io ho, io trovo cento ragioni per esserlo), io mi punisco, mortifico il mio corpo: mi faccio tagliare i capelli cortissimi, nascondo il mio sguardo dietro a degli occhiali scuri (come se dovessi entrare in convento), mi consacro allo studio di una scienza seria e astratta. Come un monaco, mi alzerò presto per mettermi al lavoro mentre è ancora notte. Sarò molto paziente, un po' triste, in poche parole, degno, come si addice all'uomo risentito. Mostrerò istericamente il mio lutto (il lutto che io m'immagino) attraverso il mio vestito, il taglio dei miei capelli, la regolarità delle mie abitudini. Sarà un piacevole romitaggio, un ritiro spirituale necessario al buon funzionamento di un patetico discreto. (Essere ascetici, p. 32)
  • 2. L'ascesi (la velleità d'ascesi) è rivolta all'altro: voltati, guardami, renditi conto di cosa stai facendo di me. È un ricatto morale: io metto di fronte all'altro la figura della mia propria scomparsa, quale essa sicuramente avrà luogo se lui non cede (a che cosa?). (p. 32, Essere ascetici)
  • assenza Ogni episodio di linguaggio che mette in scena l'assenza dell'oggetto amato – quali che siano la causa e la durata – e tende a trasformare questa assenza in prova d'abbandono. (L'assente, p. 33)
  • Orbene, l'unica assenza è quella dell'altro: è l'altro che parte, sono io che resto. L'altro è in stato di perpetua partenza, sempre sul punto di mettersi in viaggio; egli è, per vocazione, migratore, errante; io che amo sono invece, per vocazione inversa, sedentario, immobile, a disposizione, in attesa, sempre nello stesso posto, in giacenza, come un pacco in un angolo sperduto d'una stazione. L'assenza amorosa è possibile in un solo senso e non può essere espressa che da chi resta - e non da chi parte: io, sempre presente, non si costituisce che di fronte a te, continuamente assente. Esprimere l'assenza equivale a significare di colpo che il posto del soggetto e il posto dell'altro non possono essere permutati; è come dire: «Sono meno amato di quanto io ami». (L'assente, p. 33)
  • 2. Storicamente, il discorso dell'assenza viene fatto dalla Donna: la Donna è sedentaria, l'Uomo è vagabondo, viaggiatore; la Donna è fedele (aspetta), l'uomo è cacciatore (cerca l'avventura, fa la corte). È la Donna che dà forma all'assenza, che ne elabora la finzione, poiché ha il tempo per farlo; essa tesse e canta; le Tessitrici, le Canzoni cantate al telaio esprimono al tempo stesso l'immobilità (attraverso il ronzio dell'Arcolaio) e l'assenza (in lontananza, ritmi di viaggio, onde marine, cavalcate). Ne consegue che in ogni uomo che esprime l'assenza dell'altro si manifesta l'elemento femminino: l'uomo che attende e che soffre è miracolosamente femminizzato. Un uomo è femminizzato non perché è invertito, ma perché è innamorato. (Mito e utopia: come l'origine è appartenuta, così anche l'avvenire apparterrà ai soggetti in cui vi è del femminino). (L'assente, pp. 33-34)
  • 3. Talvolta mi succede di sopportare bene l'assenza. lo sono allora normale: sono in linea col modo in cui tutti sopportano la separazione da una persona cara; mi conformo con cognizione all'addestramento attraverso cui sono stato abituato assai per tempo ad essere separato da mia madre – ciò che tuttavia, in principio, non mancò di essere doloroso (per non dire sconvolgente). Agisco da soggetto ben svezzato: aspettando, so nutrirmi di altre cose che non siano solamente il seno materno.
    Questa assenza ben sopportata non è altro che l'oblio. A intermittenza, io sono infedele. È la condizione per la mia sopravvivenza; poiché se io non dimenticassi, morirei. L'innamorato che non dimentica qualche volta, muore per eccesso, fatica e tensione di memoria (come Werther). (L'assente, p. 34)
  • Come! il desiderio non è forse sempre lo stesso, sia che l'oggetto sia presente o assente? L'oggetto non è forse sempre assente? - Non si tratta dello stesso struggimento: vi sono due parole: Póthos, per il desiderio dell'essere assente, e Hímeros, più ardente, per il desiderio dell'essere presente. (L'assente, p. 35)
  • 5. All'assente, io faccio continuamente il discorso della sua assenza; situazione che è tutto sommato strana; l'altro è assente come referente e presente come allocutore. Da tale singolare distorsione, nasce una sorta di presente insostenibile; mi trovo incastrato fra due tempi: il tempo della referenza e il tempo dell'allocuzione: tu te ne sei andato (della qual cosa soffro), tu sei qui (giacché mi rivolgo a te). Io so allora che cos'è il presente, questo tempo difficile: un pezzo di angoscia pura.
    [...] Questa messa in scena di linguaggio allontana la morte dell'altro: un brevissimo momento, si dice, separa il tempo in cui il bambino crede sua madre ancora assente da quel lo in cui la crede già morta. Manipolare l'assenza significa far durare questo momento, ritardare il più a lungo possibile l'istante in cui l'altro potrebbe, dall'assenza, piombare bruscamente nella morte. (p. 35, L'assente)
  • L'Assenza è la figura della privazione; io desidero e ho bisogno simultaneamente. Il desiderio si spegne sul bisogno: questo è il fatto ossessionante del sentimento amoroso. (L'assente, p. 36)
  • L'assenza dell'altro mi tiene la testa sott'acqua; poco a poco, io soffoco, la mia aria si fa più rarefatta: ed è attraverso quest'asfissia che io ricostituisco la mia verità e preparo l'Intrattabile dell'amore. (L'assente, p. 37)
  • atopos Il soggetto amoroso riconosce l'essere amato come «atopos» (qualifica attribuita a Socrate dai suoi interlocutori), cioè inclassificabile, dotato di una originalità sempre imprevedibile. (Atopos, p. 38)
  • L'altro che io amo e che mi affascina è atopos. Io non posso classificarlo, poiché egli è precisamente l'Unico, l'Immagine irripetibile che corrisponde miracolosamente alla specialità dei mio desiderio. È la figura della mia verità; esso non può essere fissato in alcun stereotipo (che è la verità degli altri).
    Tuttavia, durante la mia vita, io ho amato o amerò più volte. Questo significherebbe dunque che il mio desiderio, per quanto speciale, si fissa su un tipo? Il mio desiderio è dunque classificabile? C'è, mi domando, fra tutti gli esseri che ho amato, un solo tratto comune che, per quanto tenue (un naso, una pelle, un qualcosa), mi permetta di dire: ecco il mio tipo! «È esattamente il mio tipo», «Non è affatto il mio tipo»: frase da dongiovanni; l'innamorato è dunque soltanto un dongiovanni più difficile che per tutta la vita cerca il "suo tipo"? In quale parte del corpo avverso devo leggere la mia verità? (Atopos, p. 38)
  • Essendo atopico, l'altro fa tremare il linguaggio: non si può parlare di lui, su lui; qualsiasi attributo è falso, doloroso, goffo, imbarazzante: l'altro è inqualificabile (e questo sarebbe il vero significato di atopos). (Atopos, p. 39)
  • 3. Di fronte alla brillante originalità dell'altro, io non mi sento mai "atopos", ma semmai classificato (come un dossier fin troppo noto). Talvolta, riesco però a sospendere il gioco delle immagini ineguali («Perché mai non posso essere anch'io originale, forte quanto l'altro?»); indovino che la vera originalità non è né in me né nell'altro, ma nella nostra stessa relazione. Ciò che bisogna conquistare è l'originalità della relazione. La maggior parte delle ferite d'amore me le procura lo stereotipo: io sono costretto, come tutti, a far la parte dell'innamorato: ad essere geloso, trascurato, frustrato come gli altri. Ma quando la relazione è originale, lo stereotipo viene sconvolto, superato, evacuato, e la gelosia, ad esempio, non ha più luogo d'essere in questo rapporto senza luogo, senza topos, senza topo - senza discorso. (Atopos, p. 39)
  • attesa Tumulto d'angoscia suscitato dall'attesa dell'essere amato in seguito a piccolissimi ritardi (appuntamenti, telefonate, lettere, ritorni). (L'attesa, p. 40)
  • 1. Sto aspettando un arrivo, un ritorno, un segnale promesso. Ciò può essere futile o infinitamente patetico: in Erwartung (attesa), una donna aspetta, nella foresta, di notte, il suo amante; io sto aspettando solamente una telefonata, ma è la stessa angoscia. Tutto è solenne: non ho il senso delle proporzioni. (L'attesa, p. 40)
  • 2. Vi è una scenografia dell'attesa: io la organizzo, la manipolo, ritaglio un pezzo di tempo in cui mimerò la perdita dell'oggetto amato e provocherò tutti gli effetti di un piccolo lutto. Tutto questo avviene dunque come in una recita. (L'attesa, p. 40)
  • Questa è la recita; essa può essere abbreviata dall'arrivo dell'altro; se arriva in primo, l'accoglienza è calma; se arriva in secondo, avviene una «scenata»; se arriva in terzo, vi è la riconoscenza, l'atto di grazia: io respiro nuovamente a pieni polmoni, come Pelléas allorché, uscendo dal sotterraneo, ritrova la vita, il profumo delle rose. (L'attesa, p. 41)
  • 4. L'essere che io aspetto non è reale. Come il seno materno per il poppante, «io lo creo e lo ricreo continuamente a cominciare dalla mia capacità di amare, a cominciare dal bisogno che io ho di lui»[15]: l'altro viene là dove io lo sto aspettando, là dove io l'ho già creato. E, se lui non viene, io lo allucino: l'attesa è un delirio. (L'attesa, p. 41)
  • E ancora molto tempo dopo che la relazione amorosa si è acquietata, io conservo l'abitudine di allucinare l'essere che ho amato: talora, una telefonata che tarda a venire riesce ancora ad angosciarmi e, in ogni importuno, credo di riconoscere la voce che amavo: io sono un mutilato che continua ad avere male alla gamba amputata. (L'attesa, p. 42)
  • 5. «Sono innamorato? - Sì, poiché sto aspettando». L'altro, invece, non aspetta mai. Talvolta, ho voglia di giocare a quello che non aspetta; cerco allora di tenermi occupato, di arrivare in ritardo; ma a questo gioco io perdo sempre: qualunque cosa io faccia, mi ritrovo sempre sfaccendato, esatto, o per meglio dire in anticipo. La fatale identità dell'innamorato non è altro che: io sono quello che aspetta. (L'attesa, p. 42)
  • 6. Un mandarino era innamorato di una cortigiana. «Sarò vostra, - disse lei, - solo quando voi avrete passato cento notti ad aspettarmi seduto su uno sgabello, nel mio giardino, sotto la mia finestra». Ma, alla novantanovesima notte, il mandarino si alzò, prese il suo sgabello sotto il braccio e se n'andò. (L'attesa, p. 42)
  • capire Sentendo improvvisamente l'episodio amoroso come un groviglio di motivazioni inspiegabili e di situazioni senza vie d'uscita, il soggetto esclama: «Voglio capire (che cosa mi sta capitando)!» («Voglio capire», p. 43)
  • 1. Che cosa penso dell'amore? - In fondo, non penso niente. Certo, vorrei sapere che cos'è, ma, vivendolo dal di dentro, lo vedo in quanto esistenza, non in quanto essenza. [...] Naturalmente, la riflessione mi è consentita, ma, siccome questa riflessione viene subito trascinata nel ribollimento delle immagini, essa non muta mai in riflessività: escluso dalla logica (che presuppone dei linguaggi estranei gli uni agli altri), non posso pretendere di poter pensare con lucidità. E così, se anche continuassi a discettare sull'amore per un anno intero, potrei solamente sperare di riuscire ad afferrarne il concetto «per la coda»: flashes, formule, espressioni a effetto sparse nel copioso fluire dell'Immaginario; io mi trovo nel posto sbagliato dell'amore, che è poi il suo punto più in vista; dice un proverbio cinese: «Il punto più in ombra, si trova sempre sotto la lampada».[16] («Voglio capire», p. 43)
  • catastrofe Crisi violenta durante la quale il soggetto, sentendo la situazione amorosa come un vicolo cieco, una trappola da cui non potrà mai più uscire, si vede destinato a una totale distruzione di sé. (La catastrofe, p. 45)
  • 1. Vi sono due tipi di disperazione: la disperazione pacata, la rassegnazione attiva («lo vi amo come bisogna amare: nella disperazione»), e la disperazione violenta: un bel giorno, in seguito a un incidente qualsiasi, mi chiudo nella mia stanza e scoppio in lacrime: sono in balia di una forza che mi soverchia, asfissiato dal dolore; il mio corpo s'irrigidisce e si contrae: come in un lampo, freddo e tagliente, io vedo la distruzione a cui sono condannato. Tutto ciò non ha niente di paragonabile alla prostrazione insidiosa, ma in fondo molto civile, degli amori difficili; non c'è alcun rapporto con l'annichilimento in cui si viene a trovare il soggetto abbandonato: qui, sono come folgorato, ma lucido. La sensazione che provo è quella di una vera e propria catastrofe: «Ecco, "sono veramente fottuto!» (La catastrofe, p. 45)
  • circoscrivere Per ridurre la propria infelicità, il soggetto ripone la sua speranza in un metodo di controllo che gli dovrebbe permettere di circoscrivere i piaceri che la relazione amorosa gli dà: da una parte, continuare a tenersi questi piaceri, approfittarne pienamente, e, dall'altra, mettere in una parentesi d'impensato le larghe zone depressive che separano questi piaceri: dimenticare l'essere amato al di fuori dei piaceri che esso dà. (Laetitia, p. 47)
  • 1. Cicerone, prima, e Leibniz, poi, hanno contrapposto gaudium e laetitia[17]Gaudium è il «piacere che l'anima prova quando considera sicuro il possesso di un bene presente o futuro, ed un bene è in nostro possesso quando è in nostro potere il poterne godere quando lo vogliamo». Laetitia è un piacere allegro, «uno stato nel quale il piacere predomina in noi» [...]. Gaudium è ciò che io vagheggio: godere di un possesso perpetuo. Ma non potendo ottenere Gaudium, da cui troppi ostacoli mi separano, considero l'eventualità di ripiegare su Laetitia. (Laetitia, p. 47)
  • colpe In un qualsiasi episodio trascurabile della vita d'ogni giorno, il soggetto crede di aver mancato nei confronti dell'essere amato e prova per questo un sentimento di colpevolezza. (Colpe, p. 49)
  • 2. Ogni incrinatura nella Devozione è una colpa: questa è la regola della Cortezia. Questa colpa prende corpo quando io abbozzo un semplice gesto d'indipendenza nei confronti dell'oggetto amato; ogni volta che, per spezzare l'asservimento, cerco di «sganciarmi» (è il consiglio unanime dei mondo), io mi sento colpevole. E perciò, paradossalmente, io sono colpevole di alleggerire il peso, di ridurre l'ingombro esagerato della mia devozione, in poche parole di «riuscire» (secondo il mondo); insomma, ciò che mi fa paura è di essere forte e ciò che mi rende colpevole è la padronanza (o il suo semplice gesto). (Colpe, p. 50)
  • compassione Il soggetto prova un sentimento di compassione nei riguardi dell'oggetto amato ogni volta che lo vede, lo sente o lo sa infelice o minacciato da qualcosa che è estraneo alla relazione amorosa in sé. («Ho male all'altro», p. 51)
  • [compassione] «[...] più giustamente si dovrebbe chiamare unipassione, dolore all'unisono -, noi dovremmo odiarlo se lui, come Pascal, trova se stesso odioso» [...] Ora, per quanto grande sia la forza dell'amore, questo non avviene: sono commosso, angosciato, poiché è terribile veder soffrire le persone a cui si vuol bene, ma, al tempo stesso, rimango asciutto, impenetrabile. La mia, è un'identificazione imperfetta: sono una Madre (l'altro mi dà delle preoccupazioni), ma una Madre carente; [...] Giacché, proprio mentre m'identifico «sinceramente» nell'infelicità dell'altro, ciò che vedo in questa infelicità è che essa si manifesta senza di me e che, essendo infelice di per sé, l'altro mi abbandona: se egli soffre senza che io ne sia la causa, vuol dire che per lui io non conto: la sua sofferenza mi annulla nella misura in cui lo pone fuori della mia portata. («Ho male all'altro», p. 51)
  • 2. Di conseguenza, le cose si rovesciano: dato che l'altro soffre senza di me, perché io dovrei soffrire al suo posto? La sua infelicità lo porta lontano da me e io finirei per sfiancarmi cercando di corrergli dietro, senza poter mai sperare di raggiungerlo, di entrare in coincidenza con lui. Dunque, stacchiamoci un po', impariamo a tenerci a una certa distanza. («Ho male all'altro», pp. 51-52)
  • comportamento Figura deliberativa: il soggetto amoroso si pone con angoscia dei problemi di comportamento che il più delle volte sono futili: che fare davanti a tale alternativa? Come agire? («Che fare?», p. 53)
  • 2. Le mie angosce di comportamento sono ridicole e diventano sempre più ridicole, all'infinito. Se l'altro, incidentalmente o negligentemente mi dà il numero di telefono di un posto in cui posso trovarlo a certe ore, io subito mi agito: devo o non devo telefonargli? (Dirmi che posso telefonargli - questo è il senso obiettivo, logico, del messaggio - non servirebbe a niente, poiché ciò che mi mette in crisi è proprio questo permesso). («Che fare?», p. 53)
  • connivenza Il soggetto s'immagina di stare parlando dell'essere amato con una persona rivale, e questa immagine, curiosamente fa nascere in lui un piacevole senso di complicità. (La connivenza, p. 55)
  • Finalmente posso parlare dell'altro con chi se ne intende; si verifica una parità di sapere, un piacere d'inclusione; parlandone, l'oggetto non viene né estraniato né lacerato; egli resta interno al discorso duale, che anzi lo preserva. Io coincido con l'Immagine e al contempo con questo secondo specchio che riflette ciò che io sono (sul volto del rivale io leggo la mia paura, la mia gelosia). (p. 55, La connivenza)
  • 3. La gelosia è un'equazione a tre termini permutabili (indecidibile): si è sempre gelosi di due persone contemporaneamente: io sono geloso di chi amo e di chi lo ama. L'odiosamato (il «rivale») è anche amato da me: esso m'interessa, m'incuriosisce, mi affascina (vedi L'eterno marito, di Dostoevskij). (La connivenza, p. 56)
  • contatti La figura fa riferimento ad ogni discorso interiore suscitato da un contatto furtivo con il corpo (e più precisamente con la pelle) dell'essere amato. («Quando innavertitamente il mio dito», p. 57)
  • 1. Il dito di Werther sfiora inavvertitamente il dito di Carlotta; i loro piedi, sotto il tavolo, si incontrano.[18] Werther potrebbe astrarsi dal senso di questi episodi casuali; egli potrebbe concentrarsi corporalmente su quelle minuscole zone di contatto e, come un feticista, provare piacere per questo o quel pezzetto di dito o di piede inerte, senza preoccuparsi della risposta (come Dio - è la sua etimologia -, il Feticcio non risponde). Ma, per l'appunto, Werther non è pervertito, ma innamorato: egli dà un senso, sempre, ovunque, a proposito di niente, ed è proprio il senso che lo fa fremere: egli si trova nel braciere del senso. Per l'innamorato, ogni contatto pone il problema della risposta: egli chiede alla pelle di rispondere. («Quando innavertitamente il mio dito», p. 57)
  • contingenze Avvenimenti insignificanti, fatti fortuiti, traversie, inezie, meschinerie, quisquilie, episodi della vita amorosa; qualsiasi nucleo fattuale che ostacoli l'aspirazione alla felicità del soggetto amoroso, come se il caso tramasse contro di lui. (Avvenimenti, traversie, contrarietà, p. 59)
  • 2. L'episodio è trascurabile (esso è sempre trascurabile) ma attirerà tutto il mio linguaggio. Io lo trasformo subito in un avvenimento importante, pensato da qualcosa che assomiglia al destino. È una cappa che mi cade addosso e che trascina con s‚ tutto. Innumerevoli e vaghe circostanze finiscono così col tessere il velo nero della Maya, la tappezzeria delle illusioni, dei significati, delle parole. Io mi metto a classificare quello che mi sta capitando. (Avvenimenti, traversie, contrarietà, p. 59)
  • (Per me, l'episodio è un segno, non un indizio: l'elemento di un sistema, non l'efflorescenza di una causalità). (Avvenimenti, traversie, contrarietà, p. 60)
  • corpo Ogni pensiero, ogni emozione, ogni interesse suscitato nel soggetto amoroso dal corpo amato. (p. 61, Il corpo dell'altro)
  • 1. Il suo corpo era diviso: da una parte, il corpo vero e proprio - la sua pelle, i suoi occhi - tenero, caldo, e, dall'altra, la sua voce, breve, trattenuta, soggetta ad accessi di lontananza, la sua voce, che non dava ciò che dava il suo corpo. O anche: da una parte, il suo corpo morbido, tiepido, languido al punto giusto, con una sottile peluria, fintamente goffo, e, dall'altra, la sua voce - la voce, sempre la voce - sonora, nitida, mondana, ecc. (Il corpo dell'altro, p. 61)
  • Scrutare vuol dire frugare: io frugo il corpo dell'altro, come se volessi vedere cosa c'è dentro, come se la causa meccanica del mio desiderio si trovasse nel corpo antagonista (sono come quei bambini che smontano una sveglia per sapere che cos'è il tempo). Questa operazione viene condotta in maniera fredda e stupita; sono calmo, attento, come se fossi davanti a uno strano insetto di cui improvvisamente non ho più paura. Certe parti del corpo sono particolarmente adatte a questa osservazione: le ciglia, le unghie, l'attaccatura dei capelli, gli oggetti molto particolari. P- evidente che in quel momento io sto feticizzando un morto. La prova è data dal fatto che, se il corpo che sto scrutando si scuote dalla sua inerzia, se si mette a fare qualcosa, il mio desiderio cambia; se, per esempio, vedo l'altro pensare, il mio desiderio cessa di essere perverso e ridiventa immaginario: io ritorno a un'Immagine, a un Tutto: io amo di nuovo. (Il corpo dell'altro, p. 61)
  • (Io guardavo tutto del suo volto, del suo corpo, con distacco: le sue ciglia, l'unghia del suo alluce, la sottigliezza delle sue sopracciglia, delle sue labbra, il colore di smalto dei suoi occhi, un certo neo, un certo modo di tenere le dita fumando; ero affascinato - dato che, alla fin fine, la fascinazione non altro è che il punto estremo del distacco - da quella specie di statuina colorata, smaltata, vetrificata, nella quale potevo leggere, senza capirci nulla, la causa del mio desiderio). (Il corpo dell'altro, p. 62)
  • cuore Questa parola serve per moti e desideri d'ogni genere, ma ciò che è costante è che il cuore - negato o rifiutato che sia - vuole essere un oggetto di dono. (Il cuore, p. 63)
  • 3. Il cuore, è ciò che io credo di donare. Ogni volta che questo dono mi viene restituito, allora non basta dire, come Werther, che una volta tolto tutto l'ingegno che mi si attribuisce e di cui non mi curo, il cuore è ciò che resta di me: il cuore è ciò che mi resta, e questo cuore che mi pesa e il cuore greve: greve per il rigurgito che l'ha riempito (solo gl'innamorati e i bambini hanno il cuore greve). (Il cuore, p. 63)
  • dedica Episodio di linguaggio che accompagna ogni regalo amoroso, sia esso reale o progettato, e, più in generale, ogni gesto, effettivo o interiore, per mezzo del quale il soggetto dedica qualche cosa all'essere amato. (La dedica, p. 65)
  • Il regalo d'amore è solenne; trascinato dall'insaziabile metonimia che disciplina la vita immaginaria, io mi traspongo tutt'intero in esso. Attraverso questo oggetto, io ti do il mio Tutto, io ti tocco con il mio fallo; è per questo che io sono follemente eccitato, che corro da un negozio all'altro, che mi ostino a cercare il feticcio che vada bene, il feticcio splendente, riuscito, che si adatterà perfettamente al tuo desiderio. (La dedica, p. 65)
  • Il regalo è contatto, sensualità: tu stai per toccare ciò che io ho toccato: una terza pelle ci unisce. (La dedica, p. 65)
  • 5. Quantunque sia incapace di enunciarsi, di enunciare, l'amore vuole nondimeno clamarsi, declamarsi, scriversi ovunque: "all'acqua, all'ombra, ai monti, ai fiori, all'erbe, ai fonti, all'eco, all'aria, ai venti..." Basta che il soggetto amoroso crei o costruisca qualcosa, che subito è colto da una pulsione di dedica. Tutto ciò che fa, subito, e ancora prima che sia finito, egli vuole donarlo alla persona che ama, per la quale ha lavorato o lavorerà. La scritta del nome dirà per chi è il dono.[19] (La dedica, p. 67)
  • In Teorema l'«altro» non parla, ma iscrive però qualcosa in tutti coloro che lo desiderano - opera ciò che i matematici chiamano una catastrofe (lo sconvolgimento di un sistema per mezzo di un altro sistema): vero è che quel muto è un angelo. (La dedica, p. 69)
  • demoni Il soggetto amoroso ha talvolta l'impressione di essere posseduto da un demone del linguaggio che lo spinge a farsi del male e a espellersi - secondo le parole di Goethe - dal paradiso che, in altri momenti, la relazione amorosa rappresenta per lui. («Noi siamo i nostri propri demoni», p. 70)
  • 1. Una forza precisa trascina il mio linguaggio verso il male che io posso fare a me stesso: il regime del mio linguaggio è la ruota libera: il linguaggio si morula, senza nessuna idea tattica della realtà. Io cerco di farmi del male, mi espello da solo dal mio paradiso, affannandomi di suscitare in me stesso le immagini (di gelosia, di abbandono, di umiliazione) che possono ferirmi; e quando la ferita è aperta, cerco di mantenerla tale, la alimento con altre immagini, fino a che un'altra ferita non venga a distogliermi da quella. («Noi siamo i nostri propri demoni», p. 70)
  • 2. Il demonio è plurale («Il mio nome è Legione», Luca 8.30). Quando un demone viene respinto, quando finalmente sono riuscito a imporgli il silenzio (per caso o attraverso la lotta), un altro lì vicino solleva la testa e si mette a parlare[20]. La vita demoniaca di un innamorato è simile alla superficie d'una solfatara; delle grandi bolle (roventi e fangose) scoppiano una dopo l'altra; quando una si rompe e s'affloscia, essa ritorna nel magma e subito, più lontano, un'altra si forma, si gonfia. Le bolle «Disperazione», «Gelosia», «Esclusione», «Desiderio», «Incertezza di comportamento», «Terrore di perdere la faccia» (il più malvagio dei demoni) fanno ploc una dopo l'altra, in un ordine indeterminato: è il disordine della Natura. («Noi siamo i nostri propri demoni», p. 70)
  • 3. Come respingere un demone (vecchio problema)? I demoni, specialmente se sono demoni di linguaggio (e sennò di cos'altro sarebbero?), si combattono con il linguaggio. Io posso quindi sperare di esorcizzare la parola demoniaca che mi è suggerita (da me stesso) sostituendola (posto che io possegga il necessario talento linguistico) con un'altra parola più dimessa (procedo per eufemia). Così credevo di essere finalmente uscito dalla crisi, ma ecco che - favorita da un lungo viaggio in automobile - sono colto da una loquela mentre continuo incessantemente ad agitare nella mia testa il desiderio, il rimpianto e l'aggressione dell'altro; e a queste ferite s'aggiunge lo sconforto di dover constatare che io sto avendo una ricaduta; ma il vocabolario è una vera e propria farmacopea (veleno da una parte, rimedio dall'altra): no, non è una ricaduta, è soltanto un ultimo sussulto del demone anteriore. («Noi siamo i nostri propri demoni», p. 71)
  • de-realtà Sensazione di assenza, di riduzione di realtà, provata dal soggetto amoroso nei confronti del mondo. (Il mondo siderato, p. 72)
  • (Il mondo è pieno senza di me, come nella Nausea; esso gioca alla vita dietro un vetro; il mondo è immerso in un acquario; io lo vedo vicinissimo e tuttavia separato, fatto di un'altra sostanza; cado continuamente fuori di me, senza vertigine, senza annebbiamento, nella precisione, come fossi drogato. [...]) (Il mondo siderato, p. 72)
  • [L'Italia] Questo paese perde in tutto: abolisce la differenza dei gusti, ma non la divisione delle classi, ecc. (p. 73, Il mondo siderato)
  • Fino a quando sentirò che il mondo mi è ostile, io gli sarò legato: io non sono pazzo. Ma talvolta, quando ho dato fondo al malumore, mi accorgo di non avere più alcun linguaggio: il mondo non è irreale (se lo fosse potrei esprimerlo: esiste un'arte dell'irreale che è fra le più alte), ma de-reale: il reale lo ha abbandonato, cosicché io non ho più alcun senso (alcun paradigma) a mia disposizione; io non riesco a definire i miei rapporti con Coluche, col ristorante, col pittore, con piazza del Popolo. Quale tipo di rapporto posso io avere con un potere, se non ne sono lo schiavo, né il complice, né il testimone? (Il mondo siderato, p. 74)
  • 6. Talvolta il mondo mi appare irreale (io lo esprimo in un modo diverso), talaltra mi appare dereale (io lo esprimo con difficoltà). Non è (si dice) la stessa riduzione di realtà. Nel primo caso, il rifiuto che io oppongo alla realtà si estrinseca attraverso una fantasia: tutto ciò che mi circonda muta di valore rispetto a una funzione, che è poi l'Immaginario; l'innamorato si separa quindi dal mondo, lo irrealizza perché, su un altro versante, fantasmatizza le peripezie o le utopie del suo amore; si abbandona all'Immagine e, di conseguenza, tutto ciò che è «reale» lo infastidisce. Anche nel secondo caso vi è una perdita di contatto col reale, ma qui nessuna sostituzione immaginaria viene a compensare la perdita. seduto davanti al manifesto di Coluche, io non «sogno» niente (neanche l'altro); anzi, non sono più nemmeno nell'Immaginario. Tutto è cristallizzato, pietrificato, immutabile, cioè insostituibile: l'Immaginario è (temporaneamente) proscritto. Nel primo caso, sono nevrotizzato, io irrealizzo; nel secondo caso, sono pazzo, io de-realizzo. (Il mondo siderato, p. 75)
  • dichiarazione Propensione del soggetto amoroso a intrattenere a lungo, con un'emozione contenuta, l'essere amato, a proposito del suo amore, di lui, di sé, di loro: la dichiarazione non verte sulla confessione dell'amore, ma sulla forma, commentata all'infinito, della relazione amorosa. (Il colloquio, p. 77)
  • (Parlare amorosamente, significa dissipare senza limite, senza soluzione di continuità; vuol dire praticare un rapporto senza orgasmo. Forse esiste una forma letteraria di questo coitus reservatus: il preziosismo). (Il colloquio, p. 77)
  • Nessuno ha voglia di parlare dell'amore, se non è per qualcuno. (Il colloquio, p. 78)
  • dipendenza Figura nella quale l'opinione intravede la condizione stessa del soggetto amoroso, asservito all'oggetto amato. (Domnei, p. 79)
  • 1. La meccanica del vassallaggio amoroso esige una futilità senza fondo[21]. Questo perché, se si vuole che la dipendenza si manifesti nella sua purezza, bisogna che essa si renda palese nelle circostanze più irrilevanti e diventi qua si vergognosa a forza di pusillanimità: aspettare una telefonata è in un certo senso una dipendenza troppo gravosa[22]; bisogna che io la affini, senza limiti: quindi, mi farò il sangue cattivo di fronte allo spettegolare delle comari che, dal farmacista, mi tiene lontano dall'apparecchio a cui sono asservito; e siccome questa telefonata, che io non voglio perdere, mi fornirà qualche nuova occasione di asservimento, si potrebbe dire che io agisco energicamente per preservare proprio lo spazio della dipendenza e per permettere inoltre a questa dipendenza di esercitarsi: io mi smarrisco nella dipendenza ma, ciò che è più - altro tranello -, sono umiliato da questo smarrimento. (Domnei, p. 79)
  • (Se io accetto la mia dipendenza, è perché essa costituisce per me un mezzo per "significare" la mia domanda: nel campo amoroso, la futilità non è una "debolezza" né una "meschinità": essa è un segno di forza: più la cosa è futile, più ha significato e più s'impone come forza). (Domnei, p. 79)
  • disagio Scena a più persone, nella quale l'implicito del rapporto amoroso agisce come una coartazione e suscita un imbarazzo collettivo che non viene esternato. («Con aria imbarazzata», p. 81)
  • dispendio Figura mediante la quale il soggetto amoroso mira e al contempo esita a situare l'amore in un'economia di puro dispendio, di perdita «per niente». (L'esuberanza, p. 83)
  • 1. Alberto, personaggio piatto, morale, conformista, decreta (come chissà quanti prima di lui) che il suicidio è una viltà. Per Werther, al contrario, il suicidio non è una debolezza, dal momento che esso scaturisce da una tensione[23]: «Mio caro, se un eccesso fisico viene considerato come una forza, perché non lo sarà anche l'eccesso dei sentimenti?» L'amore-passione è dunque una forza («questa violenza, questa passione irriducibile»), è qualcosa che ricorda la vecchia nozione di ἰσχύς (ischus: energia, tensione, forza di carattere) e, più vicino a noi, quella di Dispendio.[24] (L'esuberanza, p. 83)
  • (Prima un lord e poi un vescovo inglese, rimproverarono a Goethe l'epidemia di suicidi provocati dal Werther. Goethe rispose in termini propriamente economici: «Il vostro sistema commerciale ha fatto migliaia di vittime; perché non perdonarne qualcuna anche al Werther?»)[25] (L'esuberanza, p. 84)
  • 3. Il discorso amoroso non è proprio privo di calcoli: io ragiono, certe volte calcolo, sia per ottenere una certa soddisfazione, o per evitare un certo dolore, sia per rappresentare interiormente all'altro, in un moto di stizza, i tesori d'ingegnosità che io dilapido per niente in suo favore (cedere, dissimulare, non ferire, divertire, convincere, ecc.). Ma questi calcoli sono soltanto delle impazienze: in essi non vi è alcuna idea di guadagno finale: il Dispendio è aperto, all'infinito, la forza deriva, senza nessuna finalità (l'oggetto amato non è una meta: è un oggetto-cosa, non un oggetto-termine). (L'esuberanza, p. 84)
  • L'esuberanza amorosa è l'esuberanza del fanciullo a cui niente (ancora) viene a contenere l'ostentazione narcisistica, il godimento multiforme. Considerato che il discorso amoroso non è una media di stati d'animo, questa esuberanza può essere rotta a intervalli da tristezze, avvilimenti, impulsi suicidi; ma un tale squilibrio fa parte di quest'economia nera che mi marchia con la sua aberrazione, e per così dire con il suo lusso sfrenato. (L'esuberanza, p. 84)
  • dramma Il soggetto amoroso non può scrivere egli stesso il suo romanzo d'amore. Solo una forma molto arcaica potrebbe raccogliere il fatto che lui declama senza però poterlo raccontare. (Romanzo/dramma, p. 85)
  • Se io tengo un diario, è difficile che questo diario riporti i fatti accaduti. I fatti della vita amorosa sono talmente futili che accedono alla scrittura solo attraverso uno sforzo immenso: ci si scoraggia di scrivere ciò che, nello scriversi, rivela in pieno la propria banalità. (Romanzo/dramma, p. 85)
  • esilio Decidendo di rinunziare allo stato amoroso, il soggetto si vede con tristezza esiliato dal proprio Immaginario. (L'esilio dell'Immaginario, p. 87)
  • (La passione amorosa è un delirio; ma il delirio non è poi così straordinario; tutti ne parlano e ormai non fa più paura. Enigmatica è semmai la perdita di delirio: dove porta?) (L'esilio dell'Immaginario, p. 87)
  • 2. Nel lutto reale, è la «prova di realtà» a mostrarmi che l'oggetto amato ha cessato di esistere. Nel lutto amoroso, l'oggetto non è né morto né lontano. Sono io a decidere che la sua immagine deve morire (e questa morte, io potrò addirittura arrivare a nascondergliela). Per tutto il tempo che durerà questo strano lutto, dovrò portare il peso di due infelicità fra loro contrarie: soffrire per il fatto che l'altro sia presente (e che continui, suo malgrado, a farmi del male) e affliggermi per il fatto che egli sia morto (se non altro, che sia morto quello che io amavo). Cosicché mi angoscio (vecchia abitudine) per una telefonata che non arriva, ma nello stesso tempo devo dirmi che questo silenzio è, in ogni caso, inconseguente, poiché io ho deciso di non aspettarmi più niente: il telefonarmi, dipendeva soltanto dall'immagine amorosa; scomparsa quell'immagine, sia che suoni sia che non suoni, il telefono riprende la sua futile esistenza. (Il punto più sensibile di questo lutto è che mi tocca perdere un linguaggio - il linguaggio amoroso. D'ora innanzi, non ci saranno più i «Ti amo»). (L'esilio dell'Immaginario, pp. 87-88)
  • 3. Per quanto io lo rovini, il lutto dell'immagine mi rende angosciato; ma, d'altro lato, per quanto io riesca a dargli buon esito, esso mi rende triste. Se l'esilio dell'Immaginario è la via obbligata per giungere alla «guarigione», allora bisogna convenire che il progresso è triste. Questa tristezza non è una malinconia - o almeno è una malinconia incompleta (niente affatto clinica), giacché non mi rimprovero niente e non sono prostrato. La mia tristezza appartiene a quella frangia della malinconia in cui la perdita dell'essere amato resta astratta.[26] Qui, la perdita è doppia: non posso neppure investire la mia infelicità, come quando soffrivo per il fatto di essere innamorato. Allora, io desideravo, sognavo, lottavo; un bene prezioso era dinanzi a me, semplicemente ritardato, il suo possesso era ostacolato da alcuni contrattempi. Adesso non c'è più niente; tutto è calmo, e questo è peggio. Sebbene sia giustificato da un'economia - l'immagine muore affinché io viva -, il lutto amoroso ha sempre uno strascico: una frase viene ripetuta in continuazione: «Che peccato!» (p. 88, L'esilio dell'Immaginario)
  • Il vero atto del lutto, non è soffrire per la perdita dell'essere amato; è constatare un giorno, sulla pelle della relazione, simile a una minuscola macchia, il sintomo di una morte sicura: per la prima volta, io faccio del male a chi amo, senza volerlo, certo, ma anche senza darmi eccessiva pena. (L'esilio dell'Immaginario, p. 89)
  • 5. Io cerco di strapparmi all'Immaginario amoroso: ma, come brace non ancora spenta, sotto l'Immaginario cova la fiamma; esso avvampa di nuovo; ciò che era stato ripudiato risorge; ad un tratto, dalla tomba mal sigillata sale un lungo lamento. (Gelosie, angosce, possessi, discorsi, appetiti, segni: ovunque, il desiderio amoroso ardeva nuovamente. Era come se io avessi voluto stringere per l'ultima volta, allo spasimo, qualcuno che stava per morire - che stavo per far morire: il mio, era un rifiuto di separazione).[27][28] (L'esilio dell'Immaginario, p. 89)
  • fading Prova dolorosa con la quale l'essere amato sembra sottrarsi a qualsiasi contatto, senza neppure rivolgere questa indifferenza enigmatica contro il soggetto amoroso o pronunziarla a beneficio di chiunque altro, sia questo il mondo o un rivale. (Fading, p. 90)
  • Il fading dell'altro, quando si manifesta, mi angoscia perché mi sembra senza causa e senza fine. Come un triste miraggio, l'altro s'allontana, insegue l'infinito e io mi logoro nell'attesa del suo ritorno. (Fading, p. 90)
  • Il fading dell'oggetto amato è il terrificante ritorno della Madre Cattiva, l'inspiegabile ritiro d'amore, la sensazione di sentirsi abbandonati ben nota ai Mistici: Dio esiste, la Madre c'è, ma essi non amano più. Non sono distrutto, ma lasciato là, come un rifiuto. (Fading, pp. 90-91)
  • 3. La gelosia fa soffrire meno perché l'altro continua ad essere vivo. Nel fading, l'altro sembra perdere ogni desiderio: egli è preda della Notte. L'altro mi abbandona, ma a questo abbandono fa seguito l'abbandono che a sua volta coglie l'altro[29]; la sua immagine viene in questo modo lavata, disciolta; niente più mi sostiene, neanche il desiderio che l'altro rivolgerebbe altrove; sono in lutto per un oggetto che è già in lutto (da questo si può capire fino a che punto abbiamo bisogno del desiderio dell'altro, anche se questo desiderio non è rivolto a noi). (Fading, p. 91)
  • 7. Sembra che Freud detestasse il telefono: proprio lui che invece amava ascoltare[30] Forse intuiva, presentiva, che la telefonata è sempre una cacofonia e che quello che il telefono lascia filtrare è la voce falsa, la comunicazione fasulla. (Fading, p. 92)
  • [...] il telefono non è un valido oggetto transizionale, non è una funicella inerte; il suo significato non è quello del collegamento, ma bensì quello della distanza; la voce amata, stanca, ascoltata per telefono: è il fading in tutta la sua angoscia. Tanto per cominciare, quando questa voce giunge a me, quando essa è là, quando (con molta fatica) continua ad esserci, io non la riconosco mai completamente; si direbbe che essa provenga da dietro una maschera (si dice che le maschere della tragedia greca avessero una funzione magica: dare alla voce un'origine ctonia, deformarla, straniarla, farla arrivare dall'al di là sotterraneo). E, inoltre, l'altro sembra sempre che stia per partire; egli se ne va due volte: attraverso la sua voce e attraverso il suo silenzio: a chi tocca parlare? Cessiamo insieme di parlare: ingombro di due vuoti. Sto per lasciarti, dice ad ogni istante la voce al telefono. (Fading, pp. 92-93)
  • [...] angosciarsi per il telefono: è il segno inequivocabile dell'amore. (Fading, p. 93)
  • fastidio Sentimento di moderata gelosia che coglie il soggetto amoroso quando vede che l'interesse dell'essere amato è catturato e distolto da persone, oggetti o azioni che ai suoi occhi agiscono come altrettanti rivali secondari. (L'arancia, p. 94)
  • È fastidioso tutto ciò che cancella fugacemente la relazione duale, tutto ciò che altera la complicità e allenta il legame di appartenenza: Tu appartieni anche a me, dice il mondo. (L'arancia, p. 94)
  • festa Il soggetto amoroso vive ogni incontro con l'essere amato come una festa. («Giorni beati», p. 96)
  • gelosia «Sentimento che nasce nell'amore e che è cagionato dal timore che la persona amata preferisca qualcun altro» (Littré).
  • 1. Il geloso del romanzo non è Werther; è il signor Schmidt, il fidanzato di Federica, l'uomo che è sempre di malumore. La gelosia di Werther nasce dalle immagini (vedere Alberto circondare col braccio la vita di Carlotta), non dal pensiero. Ciò si deve al fatto (ed è questa una delle bellezze del libro) che si tratta di una disposizione tragica, e non psicologica. Werther non odia Alberto; è solo che Alberto occupa un posto che lui desidera: Alberto è un avversario (un concorrente, nel senso proprio del termine), non un nemico: egli non è «odioso». Nelle lettere che scrive a Guglielmo, Werther non si dimostra molto geloso. È solo quando dal tono confidenziale della prima parte si passa al racconto finale che la rivalità fra i due diventa acuta, aspra, come se la gelosia prendesse corpo in seguito al semplice passaggio dall'io al lui [...]. (La gelosia, p. 97)
  • [...] se non accetto la spartizione dell'essere amato, io nego la sua perfezione, giacché è proprio della perfezione il fatto di essere condivisa. [...] E così io soffro due volte: prima, per il fatto stesso della spartizione, e poi per la mia incapacità di sopportarne la nobiltà. (La gelosia, p. 98)
  • 3. «Quando amo, sono molto esclusivo», dice Freud (che prenderemo qui come modello della normalità). Essere gelosi è essere conformi alle regole. Rifiutare la gelosia («essere perfetto»), significa quindi trasgredire una legge.[31] (La gelosia, p. 98)
  • (Conformismo in senso inverso: è vietato essere gelosi, l'esclusivismo va condannato, si deve vivere in gruppo, ecc. - Attenzione! -, vediamo come stanno realmente le cose: e se mi obbligassi a non essere più geloso per la vergogna d'esserlo? La gelosia è brutta, è borghese: è un fervore indecoroso, uno zelo - ed è appunto questo zelo che noi rifiutiamo).[32] (La gelosia, p. 98)
  • 4. Come geloso, io soffro quattro volte: perché sono geloso, perché mi rimprovero d'esserlo, perché temo che la mia gelosia finisca col ferire l'altro, perché mi lascio soggiogare da una banalità: soffro di essere escluso, di essere aggressivo, di essere pazzo e di essere come tutti gli altri. (La gelosia, p. 98)
  • gradiva Questo nome, desunto dal libro di Jensen analizzato da Freud, designa l'immagine dell'essere amato che accetta di entrare un po' nel delirio del soggetto amoroso per aiutarlo ad uscirne fuori. (La Gradiva, p. 99)
  • 2. La Gradiva è una figura di salvezza, propiziatrice, una Eumenide, una Benevola. Ma, così come le Eumenidi non sono che delle vecchie Erinni, dee della vendetta, anche nella sfera amorosa esiste una Gradiva malvagia. Anche se inconsciamente e per delle motivazioni che possono aver origine dal suo proprio tornaconto nevrotico, l'essere amato sembra allora volermi spingere sempre più addentro nel mio delirio, sembra voler mantenere viva ed esulcerare la mia ferita d'amore [...]. In poche parole, l'altro mi riporta di continuo davanti alla mia impasse: impasse da cui non posso uscire e in cui non posso restare, proprio come il famoso cardinale Balue chiuso in una gabbia nella quale non poteva né stare in piedi né sdraiarsi. (La Gradiva, pp. 99-100)
  • Amare ed essere innamorato hanno fra loro un rapporto difficile: poiché, se è vero che essere innamorato non assomiglia a niente altro (una goccia di essere-innamorato" diluita in una vaga relazione amichevole la colora vivacemente, la rende incomparabile: io so subito che nel mio rapporto con X.... o con Y.... per quanto prudentemente mi trattenga, c'è dell'essere-innamorato), è anche vero che, nell' essere-innamorato, c'è dell' amare: io voglio prendere, ferocemente, ma so anche dare, attivamente. (La Gradiva, p. 101)
  • identificazione Il soggetto s'identifica dolorosamente con qualsiasi persona (o qualsiasi personaggio) che nella struttura amorosa occupi la sua stessa posizione. (Identificazioni, p. 102)
  • 2. Divoro con lo sguardo ogni intreccio amoroso, individuandovi quella che potrebbe essere la mia posizione, se ne facessi parte. lo colgo non delle analogie, bensì delle omologie [...]. Io sono catturato da uno specchio che si sposta e che mi capta ovunque vi sia una struttura duale. (Identificazioni, p. 102)
  • Io, come lettore, posso identificarmi con Werther. Storicamente, migliaia di soggetti lo hanno fatto, soffrendo, suicidandosi, vestendosi, profumandosi, scrivendo come tanti Werther (canzoni, lamenti, bomboniere, fibbie, ventagli, acqua di toilette alla Werther). Una lunga catena di equivalenze lega tutti gli innamorati del mondo.[33] (Identificazioni, p. 103)
  • [...] leggendo un romanzo d'amore, non è esatto dire che io mi proietto; io aderisco all'immagine dell'innamorato (dell'innamorata), mi rinchiudo con questa immagine nella clausura del libro (tutti sanno che questi romanzi vengono letti in stato di secessione, di reclusione, di assenza e di voluttà: al gabinetto).[34] (Identificazioni, p. 104)
  • immagine Nella sfera amorosa, le ferite più dolorose sono causate più da ciò che si vede che non da ciò che si sa. (Le immagini, p. 105)
  • L'immagine prende risalto, è pura e nitida come una lettera: essa è la lettera di ciò che mi fa male. Precisa, completa, rifinita, definitiva, essa non mi lascia alcuno spazio: io ne sono escluso come lo sono dalla scena primitiva, la quale forse esiste solo in quanto è delineata dal contorno della serratura. E perciò, ecco la definizione dell'immagine, di ogni immagine: l'immagine è ciò da cui io sono escluso. (Le immagini, p. 105)
  • L'immagine è perentoria, essa ha sempre l'ultima parola; nessuna cognizione può contraddirla, trasformarla, affinarla. (Le immagini, p. 105)
  • Esiste un freddo speciale dell'innamorato: la freddolosità del cucciolo (d'uomo, d'animale) che ha bisogno dei calore materno. (Le immagini, p. 106)
  • inconoscibile Sforzi del soggetto amoroso per capire e definire l'essere amato «in sé», come tipo caratteriale, psicologico o nevrotico, indipendentemente dalle peculiari cognizioni del rapporto amoroso. (L'Inconoscibile, p. 107)
  • 1. Io sono prigioniero di questa contraddizione: da una parte, credo di conoscere l'altro meglio di chiunque e glielo dichiaro trionfalmente («Io sì che ti conosco! Solo io ti conosco veramente!»); e, dall'altra, sono spesso colpito da questa evidenza: l'altro è impenetrabile, sgusciante, intrattabile; non posso smontarlo, risalire alla sua origine, sciogliere il suo enigma. Da dove viene? Chi è? Mi esaurisco in sforzi inutili: non lo saprò mai. (L'Inconoscibile, p. 107)
  • Rovesciamento: «Non riesco a capirti» vuol dire: «Non saprò mai che cosa pensi veramente di me». Non posso decifrare te perché non so come tu decifri me. (L'Inconoscibile, p. 107)
  • incontro La figura fa riferimento al periodo felice che è immediatamente seguito al primo smarrimento, quando ancora non erano sorte le difficoltà del rapporto amoroso. («Com'era azzurro, il cielo», p. 109)
  • L'itinerario amoroso sembra allora seguire tre tappe (o tre atti): prima, istantanea, c'è la cattura (io sono rapito da un'immagine); dopo, c'è un susseguirsi d'incontri (appuntamenti, telefonate, lettere, viaggetti), durante i quali «esploro» con trasporto la perfezione dell'essere amato, ossia l'insperato adeguamento di un oggetto al mio desiderio: è la dolcezza dell'inizio, il tempo dell'idillio. Questo periodo felice assume la sua identità (la sua definizione) per il fatto che esso si contrappone (se non altro nel ricordo) al «seguito»: «il seguito» è la lunga sequela di sofferenze, dolori, angosce, sconforti, rancori, impacci e tranelli di cui divento preda e che mi porta a vivere incessantemente sotto la minaccia di un decadimento che coinvolgerebbe contemporaneamente l'altro, me stesso e l'incontro che ci ha scoperti l'uno all'altro. («Com'era azzurro, il cielo», p. 109)
  • induzione L'essere amato è desiderato perché un altro o degli altri hanno segnalato al soggetto che esso è desiderabile: per quanto speciale esso sia, il desiderio amoroso viene scoperto per induzione. («Mostratemi chi devo desiderare», p. 112)
  • La cultura di massa è una macchina che indica quali sono le cose da desiderare: questo è ciò che deve interessarti, dice, come se intuisse che gli uomini sono incapaci di trovare da soli chi devono desiderare. («Mostratemi chi devo desiderare», p. 112)
  • [...] sono innumerevoli gli episodi in cui io m'innamoro di chi è amato dal mio migliore amico: ogni rivale è prima stato maestro, guida, ispiratore, mediatore. («Mostratemi chi devo desiderare», p. 113)
  • Per indicarti dov'è il tuo desiderio, basta proibirtelo un po' (se è vero che non c'è desiderio senza proibizione). [...] Da una parte, bisogna che io sia presente come proibizione (senza la quale non ci sarebbe un vero e proprio desiderio), ma bisogna anche che mi allontani quando, essendosi formato il desiderio, la mia presenza potrebbe inibirlo. («Mostratemi chi devo desiderare», p. 113)
  • informatore Figura amichevole che tuttavia sembra avere la costante funzione di ferire il soggetto amoroso dandogli, come se niente fosse, delle informazioni anodine sull'essere amato, il cui effetto è quello di guastare l'immagine che il soggetto ha di esso. (L'informatore, p. 114)
  • Ciò che voglio, è un piccolo cosmo (con il suo tempo, la sua logica) abitato solo da «noi due» (titolo d'un settimanale rosa). Tutto ciò che proviene dall'esterno costituisce una minaccia, sia sotto forma di seccatura (sono costretto a vivere in un mondo da cui l'altro è assente), sia sotto forma di dolore (se questo mondo mi parla di quell'altro in termini indiscreti). (L'informatore, p. 115)
  • insopportabile La coscienza di un accumulo delle sofferenze amorose trova sfogo con questa frase: «Così non può continuare». («Così non può continuare», p. 116)
  • [...] un aspetto caratteristico della situazione amorosa è infatti quello di essere subito intollerabile, non appena è passato il momento dell'attonimento del primo incontro. Vi è un demone che nega il tempo, la maturazione, la dialettica e che ad ogni istante dice: così non può andare avanti! - Eppure, la cosa va avanti, se non per sempre, almeno per molto tempo. («Così non può continuare», p. 116)
  • Io desidero il mio desiderio, e l'essere amato non è altro che il suo accessorio. (da Frammenti di un discorso amoroso, 1977)
  • Le parole non sono mai pazze (tutt'al più sono perverse): è la sintassi che è pazza.[35]

Miti d'oggi[modifica]

  • Pretendo di vivere pienamente la contraddizione del mio tempo, che di un sarcasmo può fare la condizione della verità. (Premessa, p. X)
  • È probabile che se a nostra volta sbarcassimo su Marte quale l'abbiamo costruito non vi troveremmo altro che la Terra stessa, e tra questi due prodotti di una medesima Storia non sapremmo risolvere qual è il nostro. Infatti perché Marte sia giunto al sapere geografico bisogna pure che abbia avuto anche lui il suo Strabone, il suo Michelet, il suo Vidal de la Blanche, e, facendoci sempre più vicini, le stesse nazioni, le stesse guerre, gli stessi scienziati e gli stessi uomini che abbiamo avuto noi. (Marziani, p. 34)
  • La Garbo appartiene ancora a quel momento del cinema in cui la sola cattura del volto umano provocava nelle folle il massimo turbamento, in cui ci si perdeva letteralmente in un'immagine umana come in un filtro, in cui il viso costituiva una specie di stato assoluto della carne, che non si poteva raggiungere né abbandonare. [...] La Garbo offriva una specie di idea platonica della creatura [...]. Il suo appellativo di Divina mirava indubbiamente a rendere, più che uno stato superlativo della bellezza, l'essenza della sua persona corporea, scesa da un cielo dove le cose sono formate e finite nella massima chiarezza. (pp. 63-64)
  • Il viso della Garbo è Idea, quello della Hepburn è Evento. (p. 64)
  • Credo che oggi l'automobile sia l'equivalente abbastanza esatto delle grandi cattedrali gotiche: voglio dire una creazione d'epoca, concepita appassionatamente da artisti ignoti, consumata nella sua immagine, se non nel suo uso, da tutto un popolo che si appropria con essa di un oggetto perfettamente magico. (p. 147)
  • Il mito è una parola. (p. 191)
  • Mi si obietteranno mille altri sensi del termine mito. Io ho però cercato di definire delle cose, non delle parole. (nota, p. 191)
  • È la storia umana che fa passare il reale allo stato di parola. (p. 192)
  • Ciò che disgusta nel mito è il ricorso a una falsa natura, il lusso delle forme significative, come in quegli oggetti che ornano la loro utilità con una apparenza naturale. La volontà di appesantire la significazione di tutte le cauzioni della natura provoca una specie di nausea: il mito è troppo ricco, e di troppo ha appunto la sua motivazione. (nota, p. 207)
  • La provocazione di un immaginario collettivo è sempre impresa inumana, non solo perché il sogno essenzializza la vita come destino, ma anche perché il sogno è povero ed è la cauzione di un'assenza. (nota, p. 221)
  • [Riferendosi ai "miti dell'Ordine (sociale)"] Statisticamente il mito è a destra. Qui esso è essenziale; ben nutrito, lucente, espansivo, loquace, s'inventa senza tregua. S'impadronisce di tutto: le giustizie, le morali, le estetiche, le diplomazie, le arti domestiche, la Letteratura, gli spettacoli. [...] L'oppresso non è niente, ha in sé una parola sola, quella della propria emancipazione; l'oppressore è tutto, la sua parola è ricca, multiforme, duttile, padrona di tutti i gradi possibili della dignità [...]. L'oppresso fa il mondo, ha solo un linguaggio attivo, transitivo (politico); l'oppressore lo conserva, la sua parola è plenaria, intransitiva, gestuale, teatrale: è il Mito; il linguaggio del primo tende a trasformare, il linguaggio dell'altro a eternare. (pp. 228-229)
  • Ogni ripudio del linguaggio è una morte. (p. 232)

Sul teatro[modifica]

  • Amo gli attori che recitano tutti i loro ruoli nello stesso modo, se questo modo è al contempo caldo e chiaro. Non amo che un attore si travesta, ed è forse questa l'origine del mio dissidio con il teatro. (Testimonianza sul teatro)
  • Ho sempre amato molto il teatro, eppure non ci vado quasi più. È un voltafaccia che insospettisce anche me. Cos'è accaduto? Quando è accaduto? Sono cambiato io o è cambiato il teatro? Non lo amo più o lo amo troppo? (Testimonianza sul teatro)
  • Le complicità generali di cui gode attualmente il teatro borghese sono tali che il nostro compito, all'inizio, può solo essere distruttivo. Non possiamo pretendere di definire il Teatro popolare se non come un teatro purificato dalle strutture borghesi, liberato dal denaro e dalle sue maschere. È quindi della nostra opposizione che si deve in primo luogo prendere coscienza. Questa opposizione non va per il sottile, non si preoccupa delle sfumature. (Editoriale, «Théâtre populaire», 5)

Citazioni su Roland Barthes[modifica]

  • La posizione di Barthes nel corso dei suoi lavori ricorda quello di Azdak ne Il Cerchio di gesso del Caucaso, opera brechtiana che pare Barthes abbia amato molto. Vi è qualcosa di spostato, di irregolare: Azdak, furfante divenuto giudice, non è all'altezza del suo posto e, improvvisamente tutto si mette a girare e devia schivando il riconoscimento, la verità stessa. (Stephen Heath)
  • Per Barthes, il mito, o per lo meno quello moderno (quello di cui egli si occupa), "è una parola": quindi "può essere mito tutto ciò che subisce le leggi di un discorso", ma d'altra parte "non è qualsiasi parola". (Massimo Corsale)
  • Variare porta a modificare, a trasportare, a cambiare di ritmo; il che costituisce un piccolo manuale della pratica di Barthes. Si pensi ad esempio al cambiamento di ritmo di lettura che interviene in modo così decisivo in S/Z e che dà l'avvio a tutte le variazioni — la pluralità colta in ogni momento — sul testo di Balzac. (Stephen Heath)
  • Viaggiare, spostarsi: questo è il percorso dei lavori di Barthes. Questa è l'attività del testo, e dei suoi testi. Il testo viaggia, sposta, va alla deriva. Così i testi di Barthes sono accesso, non accesso, movimento a spirale, asse avvolgentesi senza sosta ad ogni impero dei segni; senso, soggetto in processo, giro di scrittura, vertigine dello spostamento: «la vertigine è ciò che non finisce: stacca il senso, lo rimanda a più tardi» (Réquichot, p. 18). (Stephen Heath)

Note[modifica]

  1. Da L'arte, questa vecchia cosa, in AA. VV., PopArt: evoluzione di una generazione, Electa, Milano, 1980, p. 167.
  2. a b c d Citato in Stephen Heath, L'analisi Sregolata: Lettura Di Roland Barthes, traduzione di Patrizia Lombardo, Edizioni Dedalo, Bari, 1977.
  3. Citato in Gianfranco Marrone e Marco Consolini, Roland Barthes l'immagine, il visibile, Marcos y Marcos, Milano, 2010, p. 30 [1] [2]
  4. Da Letteratura e discontinuità, in Saggi critici, traduzione di Lidia Lonzi, Einaudi.
  5. a b Da una lectio inaugurale all'Institut de France; citato in Ravasi, p. 106.
  6. Citato in AA.VV., Il libro della filosofia, traduzione di Daniele Ballarini e Anna Carbone, Gribaudo, 2018, p. 291. ISBN 9788858014165
  7. Da Il piacere del testo, traduzione di Lidia Lonzi, Einaudi, Torino, 1980, p. 40.
  8. Da Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, traduzione di Lidia Lonzi, Einaudi, Torino, 1977, p. 30.
  9. Da Variazioni sulla scrittura, traduzione di Carlo Ossola, Lidia Lonzi, Einaudi, Torino, 1999.
  10. Citato in Elena Spagnol, Citazioni, Garzanti, 2003.
  11. Da Scritti critici, traduzione di Lidia Lonzi, Torino, Einaudi, 1966, p. 11.
  12. Da La camera chiara. Nota sulla fotografia, traduzione di R. Guidieri, Einaudi, Torino, 1998, p. 82; citato in David Batchelor, Cromofobia. Storia della paura del colore, traduzione di M. Sampaolo, Mondadori, Milano, 2001, p. 59. ISBN 9788842497684
  13. Da La camera chiara. Nota sulla fotografia, Torino, Einaudi, p. 117.
  14. Winnicott: La crainte de l'effrondement, p. 75.
  15. Winnicott: Jeu et Réalité, 34 e 21.
  16. Reik: Proverbio citato da Reik, 184.
  17. Leibniz: Nuovi saggi sull'intelletto umano, XX e 296.
  18. Werther: p. 57.
  19. Le nozze di Figaro: aria di Cherubino (atto I)
  20. Goethe: «Noi siamo i nostri propri demoni, noi ci espelliamo dal nostro paradiso» (Werther, nota 93 dell'ed. Aubier-Montaigne)]
  21. Cortezia: l'amore cortese è fondato sul vassallaggio amoroso (Domnei o Donnoi)
  22. Simposio: 166.
  23. Werther: 59, 133.
  24. GRECO: nozione stoica (Les Stoïciens).
  25. Werther: furor wertherinus, Introduzione, XIX. Risposta di Goethe: Introduzione, XXXII (ed. Aubier-Montaigne).
  26. Freud: «In altre circostanze si può invece riscontrare che la perdita è di natura più ideale, Può darsi che l'oggetto non sia morto davvero, ma sia andato perduto come oggetto d'amore...» (Ibid., 104).
  27. Freud: «Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento dalla realtà e in una pertinace adesione all'oggetto, consentita dall'instaurarsi di una psicosi allucinatoria di desiderio» (ibid.)
  28. Winnicott: «Poco prima che la perdita si faccia sentire, si può discernere nel bambino, nella eccessiva utilizzazione dell'oggetto transizionale, il rifiuto del timore che questo oggetto perda il suo significato» (Jeu et Réalité, 26 sgg.).
  29. Juan De La Cruz: «Diciamo Notte la privazione del gusto nell'appetito di tutte le cose» (citato da Baruzi, 408).
  30. Freud: Martin Freud, Freud, mon père, 45.
  31. Freud: Lettere 1873-1939.
  32. etimologia: Ζῆλος (zễlos), zelosus, geloso.
  33. Werther: Introduzione storica (edizione Aubier-Montaigne).
  34. Proust: (il gabinetto odoroso d'iris, a Combray) «Destinata ad un uso più particolare e più volgare, quella stanza [...] mi servi per lungo tempo di rifugio, senza dubbio perché era la sola che mi fosse permesso chiudere a chiave, in tutte le occupazioni che invocano un'inviolabile solitudine: la lettura, la fantasticheria, le lagrime e la voluttà».
  35. Da Frammenti di un discorso amoroso, traduzione di R. Guidieri, Einaudi, Torino, 1979.

Bibliografia[modifica]

  • Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso, traduzione di Renzo Guidieri, Einaudi, Torino, 1979.
  • Roland Barthes, L'ovvio e l'ottuso. Saggi critici III, traduzione di Carmine Benincasa, Giovanni Bottiroli, Gian Paolo Caprettini, Daniele De Agostini, Lidia Lonzi, Giovanni Mariotti, Einaudi, Torino, 1995.
  • Roland Barthes, La camera chiara. Nota sulla fotografia, traduzione di Renzo Guidieri, Einaudi, Torino, 1980.
  • Roland Barthes, Miti d'oggi, traduzione di Lidia Lonzi, Einaudi, Torino, 1974.
  • Roland Barthes, Sul teatro, a cura di Marco Consolini, traduzione di Laura Santi, Meltemi, Sesto San Giovanni, 2017. ISBN 978-88-83-53887-2
  • Gianfranco Ravasi, L'incontro. Ritrovarsi nella preghiera, Oscar Mondadori, Milano, 2014. ISBN 978-88-04-63591-8

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