Salvatore Silvano Nigro

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Salvatore Silvano Nigro (1946 – vivente), filologo, critico letterario, italianista e francesista italiano.

Citazioni di Salvatore Silvano Nigro[modifica]

  • [Su Lillo Gullo] Abbreviature di realtà, certo. Di paesaggi e di storie. Nella sistole delle rime. E nell'abbrivo delle vicende. Una rimalmezzo, che alle "formiche" associa le "molliche", basta a evocare, e a far crescere attorno, la fiaba vegetale e profumata del giardino della memoria. Nel quale il paesaggio è una cantilena: Alba non è ancora, / buio fondo non è più: / è l'ora blu… Le voci e i suoni, certo. Ma perduti ed evocati. Amorevolmente e disperatamente evocati. [...] Sotto la calura, incalzata dall'arsura, l'isola-giardino di Lillo Gullo è il recinto magico di incantevoli metamorfosi. Saviniane. Se chi zappa “tre tumuli di sodaglie” è Nicàsio Dolcemascolo. Se l'assenza è un sogno goloso, un sollievo di parole. La memoria è pittorica. Più vicina a Rembrandt che a Guttuso. E parla un lessico, che ha l'aroma arcano di un dialetto omerico, e non disdegna la rimemorazione più recente. Da Quasimodo a Brancati. Lillo Gullo è un miniaturista affabile. E la sua, è un'isola portatile. Quella che ogni isolano si porta nella memoria. E fa rivivere per magia e cerimonia di linguaggio. Come giardino dell'infanzia. Animato. Stupendamente animato.[1]
  • [Su Carlo Muscetta] Anche le verità lapalissiane hanno gradi di approssimazione. Dipendono da un suggerimento di pronuncia, da un'appoggiatura di voce. Nel maggio del 1945, Cesare Pavese scriveva: "va da sé che Muscetta è Muscetta". E intendeva una preminenza d'affetto, più volte riconfermata. Fino al desiderio ultimo, quando il suicidio era già all'orizzonte, nell'estate del 1950, di "rivedere il... dolce viso vellutato" dell'amico, mentre gli chiedeva da lontano: "Ti piace la vita?". C'è un assieparsi di memorie, nella lettera; e una strizzatina di bella malinconia, nel sottaciuto rimando a una cerchia complice di amici presso i quali Muscetta era, pur con tutte le sue "mene lupesche" e le vantate "capacità di litigio", il Moneta di "dolce grassezza" e di "vellutata" pelle dell'Orologio di Carlo Levi...[2]
  • [Su Matteo Bandello] Il "caldo d'amore" sapeva rendere astutissimi pure i "semplici". Così la pensava il domenicano Matteo Bandello. E raccontava la novella del "grosso e materiale" don Faustino invaghitosi di una giovane montanara di nome Orsolina. Il prete, pur di imparentare la ragazza con messer Domeneddio, ordì e lanciò dal pulpito la "favola" dello "spaventoso e terribilissimo augel griffone, il quale con un becco tanto duro e forte che smaglierebbe dieci corazze d'acciaio, a tutti quelli che immersi nel peccato sono... beccherà sì fieramente gli occhi che tutti senza speme di mai più poter guarire resteranno cechi" (vol. I, p. 676). Ma il buon sacerdote, pietoso dei propri parrocchiani, farà suonare la campana grossa tutte le volte che il rapace manigoldo di Dio si avvicinerà al villaggio: i montanari avranno così il tempo di coprirsi gli occhi con le mani; e il griffone, che "becca solamente gli occhi e non altrove", non avendo ove beccare "deposta la sua fierezza se n'anderà e più per quel giorno non tornerà" (p. 677). Resterà griffata, peraltro con soddisfazione, l'ingenua Orsolina. Messa sull'avviso dalla campana, la ragazza ficcherà la testa dentro il pagliaio. Don Faustino le si accosterà da dietro e le farà provare nel "debito solco" la potenza del "griffone drizzato" ovvero del "piviolo col quale si sogliono piantar gli uomini": "in guisa che don Gianni di Bortolo a la commar Zita attaccò la coda", nel Decameron (IX, 10).[3]
  • Il "dramma della vita" inscenato nel Novellino, in modo clamante e cruccioso, fremente e agitato, è di funambolica precarietà. In esso nessuna cosa è del tutto se stessa. A parte le agnizioni da commedia, con uomini in abiti femminili e donne in calzoni, è come se il tutto partecipasse di una inaudita diversità.[4]
  • [Su Masuccio Salernitano] Il narratore rinuncia al giardino e preferisce rifugiarsi nell'Arcadia morale di un volontario esilio da pastore "silvano". Il Novellino si apre con una novella dedicata al re Ferrante d'Aragona. Si chiude con una novella intestata al ribelle Del Giudice, datosi a "voluntario" esilio. Il libro “aragonese” si rivela magagnato, rispetto alle apparenze celebrative. Polemico e riluttante, nella rovinosa conclusione. E ancora manoscritto, subito dopo la morte di Masuccio, avvenuta verso la fine del 1475, fu dato alle fiamme.[5]
  • "Le storie distraggono dalle parole", scriverà Manganelli nell'Encomio del tiranno (1990). Sono sole le parole ad accadere in un racconto, aveva sempre sostenuto. La scrittura è lo spazio artefatto, il pentagramma, il luogo delle cerimonie verbali. In essa le parole si spendono e si disseminano; si espandono e divagano. Manganelli era un incantatore di parole, un flautista magico.[6]
  • Oggetto inconsueto nella letteratura, la scarpiera accorda l'adagiamento pigro del contenitore e la vitalità inconsulta di una aspirazione agli itinerari erratici del contenuto; l'ordinata vessazione dello spazio e la folla pressante che in quello spazio scalcia e strepita. La scarpiera è un guardaroba mentito. È, di fatto, un generatore di ludi.[7]
  • [Su Luigi Settembrini e abate Galiani] Molto il Settembrini della maturità deve all'abate Galiani. Anche per le motivazioni (dimostrative) che lo portarono all'approntamento dell'edizione del Novellino di Masuccio: se dagli scritti burleschi si passa al trattatello galianeo Del dialetto napoletano (1779), attuale all'antiquaria filologica dell'editore del novelliere aragonese. [...] Galiani era per la "nazionalizzazione" del dialetto napoletano, che poteva vantare l'ufficialità di un uso illustre nel Quattrocento aragonese: "[...] ben lungi dall'innalzar lo stendardo della ribellione e della discordia tra 'l napoletano e l'italiano, noi crediamo non potersi far meglio quanto il cercare di raddolcire il nostro dialetto, d'italianizzarlo quanto più si può e di renderlo simile a quello che i nostri ultimi re, gli Aragonesi, non sdegnarono usare nelle loro lettere e diplomi e nella legislazione".[8]
  • Una «macchina» che, a pieno diritto, appartiene alla letteratura. A quella di Manganelli, in particolare. E al destino dello scrittore, pure: se una folla di dattiloscritti, di sconvolta animazione, trasvolò e dilagò sul pavimento della casa di Manganelli; quando una scarpiera romita venne aperta, subito dopo la morte dell'insospettato scaffalatore dell'elaborato carico di un laboratorio di scrittura.[7]

Il Principe fulvo[modifica]

  • Nel Gattopardo è il Principe ad avvertire, fino al turbamento, i sortilegi degli scrosci e sciacquii delle acque, le loro proposte di ebbrezze incorruttibili. Don Fabrizio Corbèra, Principe di Salina, percorre il viale principale del giardino di Donnafugata. Raggiunge, "avido" di rivederla, la fontana di Anfitrite: "[...] dall'intera fontana, dalle acque tiepide, dalle pietre rivestite di muschi vellutati emanava la promessa di un piacere che non avrebbe mai potuto volgersi in dolore". La fontana è abitata da divinità marine, che fanno parte del corteggio della regina del mare, Anfitrite. […] La fontana d'acqua dolce finge se stessa come spazio marino. È un'abbreviatura d'oceano. (Da Il mare, la morte, l'immortalità, pp. 56-57)
  • Le braci attizzate dai "garibaldesi" avevano accompagnato l'agonia dell'antico ordine aristocratico. Si erano disposte come lumini accesi attorno a un "ornatissimo catafalco": in quell'isola a tre punte, nella quale il barocco era un ornamento alla morte; e il paesaggio arcaico e inesorabile, di "asprezza dannata", rantolava, confortato dalle nenie delle cicale, sotto l'assolutismo di un "sole violento" e "narcotizzante". Il barocco delle città e il fasto degli aranceti ricamavano "fronzoli trascurabili" per ornare la "campagna funerea" e le dure ondulazioni di un mare pietrificato. Il lutto del paesaggio siciliano era il lutto stesso della storia: quella di una "immobilità servile" sotto il dispotismo del sole, come sotto le dominazioni "straniere". (Da Il mare, la morte, l'immortalità, p. 66)
  • La dote di Angelica era copiosa. Quella di Tancredi era quasi inesistente. Del patrimonio disperso del nipote, il Principe era riuscito a salvare le quattro pietre di un rudere. Le farà pesare nel contratto di matrimonio: "È una bella villa. La scala è disegnata da Marvuglia, i saloni erano stati decorati dal Serenario; ma, per ora, l'ambiente in miglior stato può appena servire da stalla per le capre". Sedàra aprirà le braccia. Poi butterà sul tappeto venti sacchetti sonanti di monete. E concluderà l'affare: "con questo si possono rifare tutte le scale di Marruggia e tutti i soffitti di Sorcionero che esistono al mondo. Angelica deve essere alloggiata bene". Lo smottamento di lingua e di classe sarà rovinoso. Nella faglia sprofonderà un frescante di tendenza rocaille; e con lui, l'architetto che aveva promosso a Palermo il trapasso dal barocco, e dal rococò, allo stile neoclassico che era stato fatto proprio dalla borghesia in ascesa. (Da L'Ercole Farnese, pp. 82-83)
  • Nel Gattopardo, l'ascesa dei parvenu incide sull'equilibrio fra etica ed estetica sul quale è fondata la civiltà delle buone maniere. Non è in questione solamente un frac malmesso. Cambia il vocabolario della civiltà. Nel senso che le stesse parole acquistano significati diversi se non opposti. La parola "pudicizia" era legata, nel mondo aristocratico, all'idea di "sprezzatura": all'arte del "nascondere". Il rococò delle case patrizie prediligeva, tra rosati "nodi di fiori", modanature e decori color oro che però andavano castigati: "Non era la doratura sfacciata che adesso i decoratori sfoggiano, ma un oro consunto, pallido come i capelli di certe bambine del Nord, impegnato a nascondere il proprio valore sotto una pudicizia ormai perduta di materia preziosa che voleva mostrare la propria bellezza e far dimenticare il loro costo". (Da L'Ercole Farnese, pp. 85-86)
  • Don Fabrizio incarna il Gattopardo danzante del suo stemma gentilizio. Ha gli occhi azzurri, è roseo di colorito, fulvo per il pelame color miele. Sembra un leone, e ha zampacce che stritolano e "unghiette sensibili". Altissimo, signoreggia "su uomini e fabbricati". Il suo peso da gigante, la sua "massa", fa tremare impiantiti e vetrate; fa vacillare le carrozze e gemere i divani. La sua ombra, quando si corica, proietta sulla seta del parato "il profilo di una giogaia montana su un orizzonte ceruleo". Lampedusa lo disegna, e soprattutto lo scolpisce. Ne fa un colosso, una montagna di marmo come l'Ercole di Ovidio, tutto un paesaggio, una berniniana Fontana dei Fiumi. (Da L'Ercole Farnese, p. 87)

L'orologio di Pontormo. Invenzione di un pittore manierista[modifica]

  • Si apra il giornale di Jacopo da Pontormo, maestro del Bronzino, alle date 19 gennaio e 15 marzo 1556: "La mattina di san Piero e la sera al tardi Bronzino e Attaviano passorno, e fu aperto loro l'uscio dal fattore, senza fermarsi: solo disse "ch'è di Jacopo?". Poi in su le hore Attaviano venne a pichiare domandando di me, dicendo che l'Alessandra mi voleva, dice el fattore"; "domenica, fu pichiato da Bronzino e poi el dì da Daniello: non so quello che si volessino". "Picchiarono." Ma il maestro, in allerta, non rispose; o si fece negare dal fattore. (Da Il naso di Bronzino, p. 14)
  • In casa Pontormo, il cibo veniva pesato. Il prezzo ne definiva la squisitezza e la qualità. Si mangiucchiavano e mangiottavano mangiarini; economici: "arnioncino d'agnello", "meza testa di cavretto", "Fegato fritto d'agnello", "cuore d'agnello", "lingua di porco", "coglioni", "una curatella", migliacci, "pipioni" e colombacci; "uno fico seco e dua meluze cotte", "zucha lessa", "un poco di minestraccia", "oncia una di mandorle", insalate tante; e "pesce d'uovo" senza fine. Non mancano piatti d'autore nella letteratura: le polpette di Manzoni, il risotto con tartufi di Fogazzaro, le salsicce con i crauti di Stendhal, lo stufato con legumi di Dickens, la zuppa di pesce di Dostoevskji, la trippa di Collodi. Pontormo ha firmato il "pesce d'uovo". E "gran doglie di corpo" e "budella". (Da Il naso di Bronzino, p. 29)
  • A sessant'anni, nel 1554, Pontormo si sentì addosso il cielo degli anni. Sensibile alle inclemenze della stagione fredda, agli stemperamenti, agli estremi ardori, alle lune cattive; alle secrezioni, al fegato, allo stomaco: Si scoprì in lite con il proprio corpo, candidato alle commorienze. Era arrivato alle "giornate" segnate dalla letteratura sulla vecchiaia, mentre gli servivano forze per le "giornate" ultime e per la "gloria" dell'affresco nel coro di San Lorenzo. Sessanta: gli anni della strategia preventiva e del regime dietetico; dell'autosorveglianza istigata dalla letteratura e dalla cultura della sobrietà. (Da Il naso di Bronzino, pp. 30-31)
  • Pontormo abitava un "casamento da uomo fantastico e solitario". Nel quale uccellescamente si chiudeva. In alto. In una torre impraticabile, che solo una scala di legno metteva in comunicazione con il mondo. E che il più delle volte al mondo negava accesso. Dentro questo nido d'aquila, Pontormo lavorava. Ma stava anche acquattato. Vi ruminava il mondo, e vi faceva ragioniera computazione delle quotidiane spicciolature. Né disattendeva a un faticoso colloquio con le voci e i suoni che salivano dalla strada: dalla porta da basso. Li recensiva, anzi. E li interrogava: "domenica fu pichiato...: non so quello che volessino". Era un'interrogazione all'interrogazione degli amici. Alla loro congiura. Al loro complotto affettivo. Lui era invisibile ascoltatore. Un collezionista di rumori: di picchi e cigolii. E di voci, delle quali certificava la qualità interrogativa in un breviarietto segreto: accanto ai raschi di gola, all'iroso gorgoglio della bile agitata e al rugghio delle viscere digiune. (Da L'orologio di Pontorno, p. 40)
  • Un deposito di materia carognosa, una teca di pondo animale, è il libricino del Pontormo impropriamente detto "diario". Chè "diario" era, nel Cinquecento, una registrazione di eventi pubblici. [...] Il libro mio è preferibile chiamare il giornale di Pontormo ("de man in mano ho tenuto notato al libro mio", nel marzo del 1532 aveva scritto Lorenzo Lotto in una lettera alla Confraternita della misericordia di Bergamo). Il possessivo "mio" è sufficiente a da senso di privata registrazione e di intestina interiorità, senza intimismo. Il libro mio del Pontormo è un discorso sulla salute e sulla malattia. E va dal 1554 al 1556. Il pittore già da otto-nove anni lavorava all'affrescatura del cosiddetto Giudizio nel coro della chiesa di San Lorenzo. Ora però è alle prese soprattutto con il diluvio universale, la resurrezione e l'ascensione degli eletti, il martirio di San Lorenzo. Granuli di questo lavoro sono anche nel Libro: nelle figure puere che schizzano in margine alla scrittura. Il libro mio è un horologium. Un breviario che in giorni, settimane e mesi, scandisce il tempo: quello del destino animale del pittore, e quello metaforico-apocalittico della tetraggine corporale che nel Giudizio (disteso tra Legge e Grazia, generazione umana e rigenerazione cristiana, peccato e redenzione) trova pietà e salvezza nel "beneficio" di Cristo. (Da L'orologio di Pontormo, pp. 46-47)

La funesta docilità[modifica]

  • Manzoni aveva un deficiente senso degli affari. S'era convinto di riuscire a scoraggiare le contraffazioni e le speculazioni degli editori, con la proposta di un'edizione illustrata del romanzo che fosse di difficile riproduzione. Ci rimise gran parte del patrimonio. In compenso si concesse un'originalissima ristrutturazione testuale dell'opera. Si occupò dell'impaginazione tipografica. Decise la sceneggiatura illustrativa. Dettò le vignette ai disegnatori, e le corresse. I soggetti «furono tutti scelti e fissati da lui», scrisse l'illustratore Gonin a Stefano Stampa, in una lettera del 9 marzo 1885: «dovendosi intercalare nel testo, ebbe la pazienza di calcolare quante righe occuperebbe quel tal disegno onde capitasse nella pagina dove c'era il fatto, e scelto il bosso della dovuta grandezza lo avvolgeva in carta bianca sulla quale scriveva il testo del soggetto, pagina tale, cosicché il disegnatore trovavasi fissata grandezza e soggetto». (pp. 14-15)
  • La percezione di parole e immagini è sempre sincronica, nella Quarantana. Non è per niente divaricata. E le vignette non sono inerti. Fanno parte del testo, con il quale interagiscono. Sono un'altra forma (ineliminabile) della scrittura manzoniana. A chiusura del capitolo XXVI, Manzoni vuole una illustrazione. Dà le necessarie istruzioni a Gonin: «parte di figura coll'indice d'una mano sotto un occhio; quell'atto cioè con cui si burla facilmente uno che, credendo d'averla indovinata, s'inganna». (p. 108)
  • Manzoni sapeva che i costumi non sono semplice indumenteria. Hanno una loro necessità sociale e morale. Quando sulla soglia del romanzo, nel frontespizio cosiddetto «morto», dovette presentare la compagnia degli attori, per vestire don Rodrigo additò al disegnatore, come modelli, due ritratti (del negoziante di sete Francesco Camisano e di Silvestro de Mattanza) custoditi nella Quadreria della Ca' Granda di Milano), entrambi di pittori anonimi del Seicento lombardo. E fece attribuire al personaggio una posa spavalda alla maniera dei ritratti di Van Dyck. Da questa misura screziata di connotazioni borghesi e aristocratiche formò il carattere del persecutore. (p. 109)
  • La traversata dell'Adda era un motivo agiografico e pittorico. Un altro santo, Giovanni Buono, era andato di là dal fiume, camminando sulle acque senza bagnarsi. Lo attestano due dipinti secenteschi (attribuiti interamente o in parte a Gian Giacomo Barbelli: S. Giovanni Buono attraversa l'Adda a piedi asciutti), un tempo esposti nel transetto meridionale del Duomo di Milano, dove era collocato l'altare del santo. Manzoni riprese il motivo. Lo laicizzò. Fece in modo che Renzo passasse per l'Adda in «barchetta». Ma dentro un miracolo di paesaggio: piccolo uomo in fuga. visto dall'alto delle vignette, a testimoniare il primato della natura; ad ascoltare la voce liquida del fiume. (p. 111)
  • Leone Leoni era un artista di successo. Ma aveva anche una violenta propensione a delinquere. Organizzava agguati, maneggiava i pugnali a tradimento: li faceva volare nell'ombra; li lanciava da dentro il segreto di un travestimento. Non risparmiava i nemici. E neppure gli amici. Tentò persino di assassinare il pittore Orazio Vecellio, figlio del suo amico Tiziano. Voleva derubarlo dei quadri del padre. (p. 115)
  • [Su Leone Leoni] Era un personaggio da romanzo. Dovette accontentarsi di entrare in una raccolta di novelle del suo compare Clelio Malespini, falsario e spia di professione. Indossò nome e cognome come una divisa. Ne fece anche un cartello di sfida. Lo espose in alto, sotto la grondaia di casa sua. Era un bassorilievo. Vi comparivano due leoni (Leone Leoni, come in una declinazione). Sbranavano un essere semiferino che, nel suo soccombere, era compendio da bestiario di avversari e nemici. (p. 115)
  • Un altro dei «capricci» di Leone Leoni. I telamoni non guardavano tutti nella stessa direzione. Si giravano, chi a sinistra, chi a destra. E chi vi camminava davanti li percepiva in movimento, privi della staticità delle cariatidi. (p. 116)
  • Il caso di Sant'Eligio, ricordato da Ernesto Rossi a proposito di La Pira, cioè un cattolico italiano di cui né Rossi né noi possiamo mettere in dubbio la buona volontà, era questo: che sant'Eligio si era messo a riscattare schiavi, pagandone il prezzo a chi in schiavitù li teneva e una tale, insperata richiesta ovviamente procurò un rialzo dei prezzi e fu incentivo all'attività piratesca. Ci furono insomma più schiavi e a prezzo maggiorato. (p. 133)
  • Dopo aver vissuto un matrimonio in tre, con la madre e con Enrichetta, Manzoni sposa Teresa Stampa: una donna bizzarra, che indossa il marito come divisa e inaugura il culto dei suoi oggetti. Teresa contribuisce molto ad allontanare da casa i figli del marito. È poco sopportata dalla servitù. Gli amici non la tollerano. (p. 161)

La tabacchiera di don Lisander[modifica]

  • Ma don Lisander non era tipo da cedere e assecondare senza una sua convinzione. Nel progetto della moglie e del figliastro, lo allettava il proposito di un ritratto "conversato". Il quadro di Hayez (oltre che far coppia con quello della seconda moglie) doveva infatti risultare in dialogo correttivo con l'immagine che dello scrittore in piedi sullo sfondo del lago di Como, nell'atto di stringere un libro e di guardare in alto assorto, un decennio prima avevano fissato su tela il Molteni e il d'Azeglio: «Non vollero ch'ei fosse ritratto con un libro in mano né coll'aria ispirata (come se non si fosse saputo ch'ei sapeva leggere e scrivere e ch'era un poeta ispirato), ma coll'aria calma di chi ascolta per poi parlare», precisava memorando il solito Stefano Stampa. Per donna Teresa e per il figliastro, quindi, la tabacchiera doveva stare al posto del libro. Però il sorriso dissimulato del Manzoni secondo Hayez, sembra dire altro a proposito dell'utensile. (p. 4)
  • Era stata donna Teresa Stampa, dirigista come sempre a volere che si effigiasse quella tabacchiera. Al pittore non restò che assecondarla. E l'assecondò pure il marito che, per quanto riluttante ai ritratti, acconsentì a posare nello studio di Hayez: facendosi ritrarre – senza mai uso di manichino – seduto, con in mano la familiare tabacchiera accarezzata più che stretta. Donna Teresa, dopo che il venerato consorte aveva portato a termine la risciacquatura in Arno dei Promessi sposi, lavorava già per i posteri e pensava al museo degli oggetti domestici da conservare a futura memoria. Per questo aveva imposto l'umile accessorio. Voleva che «si facesse nota di una di quelle familiari abitudini, che poi appunto in grazia della loro familiarità sfuggono, o sono dimenticate dalla Storia», scriveva d'accordo con lei il figlio Stefano. (p. 4)
  • La "scatola" di fra Cristoforo è un'acquisizione dei Promessi sposi. Nel Fermo e Lucia il «pezzo di pane» sortisce da una «sporta». E viene consegnato a Fermo. Solo a lui; che ancora non si è ricongiunto con la sua Lucia. Diversa è la scena che i Promessi sposi raccontano. Renzo e Lucia si sono ormai ritrovati. E a loro due, congiunti nel «voi» e nel «figliuoli» delle allocuzioni del frate, viene dato «il resto del pane»: tolto sì dalla «sporta»; ma offerto dentro «una scatola». L'edizione illustrata del romanzo indugia sull'episodio ripensato. Con una silografia di Francesco Gonin (cfr. fig. 3). E si sa che la mano dell'artista fu costantemente guidata e controllata dallo stesso Manzoni. La vignetta è fedele alla nuova situazione narrativa. (pp. 9 e 11)
  • Solo nei Promessi sposi la dannazione degli scarsi lettori si qualifica nella discussa misura: «Pensino ora i miei venticinque lettori..» [...] Su questa scena si esibiscono i «venticinque» già visti in visione (con l'approssimazione di un circa) dal profeta Ezechiele (8,16) e riproposti (in cifra piena) dall'incandescente oratoria del Memoriale ai milanesi di Carlo Borromeo: «Ezechiele vide quei venticinque uomini, che avevano voltato le spalle al tempio e la faccia ad oriente e adoravano il sole. Non vi pare, o figlioli, che in un certo modo a guisa di questi siano tutti coloro che, voltate le spalle a Dio, si daranno a godere il mondo...?» [...] Ch'era un modo, in estremo, per strizzare l'occhio e dar di gomito al Bartoli della Geografia trasportata al morale. Il gesuita aveva tenuto il conto delle ore che in un anno un «pazzo» investe in sonno, giochi, cicalecci, commedie, novelle, romanzi, poesie, ozi, e «fatiche peggiori dell'ozio». Fatta la somma, e calcolato il resto, aveva concluso: «D'ottomile settecento sessantase' ore che compongono un anno, inorridirà al non vedercene rimanere, delle spese utilmente (che sole può dir sue), voglialo Iddio, che venticinque». Venticinque ore sante. Venticinque lettori «pazzi». E ancora, dentro la favola del romanzo: le venticinque berlinghe di un debito con il curato; i venticinque scudi di una multa; i venticinque giorni di un contagio di peste; i venticinque anni di una monaca giunta al punto. (pp. 35-37)
  • Il Seicento del Fermo e Lucia ha una forte rilevatura barbarica. Di tipo tragico. E ancora nella lettera del Discorso sur alcuni punti della storia longobardica in Italia (1822): "[...] salvare una moltitudine dalle ugne atroci delle fiere barbariche". Di "unghie" e "sozzi artigli", che graffiano l'aria, il romanzo è stipato; come pure di varie "fiere": tanto che la stessa Lucia è "bella fera". La società è divisa in "facinorosi" e in "circospetti": bracchi e pernici; in cacciatori (talvolta leggiadri) e lepri; in uccellacci e uccellini; in diavoli incarnati e prede. Tutto il romanzo è una caccia all'uomo, crudele e barbarica. Che in parte sopravvive nei Promessi sposi, ma nella superiore dimensione del "patire" dell'adelchiano "[...] far torto o patirlo [...]" (V,7,52); e di una feroce forza che "il mondo possiede" (V,7,52-53). La morale della Chiesa “comanda di patire piuttosto che di farsi colpevole", dice Manzoni. E il principio viene indegnamente tradotto da don Abbondio, nel suo idioletto della paura: "Non si tratta di torto o di ragione; si tratta di forza". (pp. 51-52)
  • La scrittura è un metter nero su bianco, che impegna "così... dalla vita alla morte". Con la "gestuosa arte de' cenni" (ampiamente frequentata dalla trattatistica del Seicento, ed evocata da Manzoni nell'apertura del capitolo VI del primo tomo del Fermo e Lucia) condivide la qualità visibile della "muta favella": altro non è infatti, la scrittura, che un conversar "sulla carta [...] con parole mute, fatte d'inchiostro". Carta, penna e calamaio sono gli emblemi dell'"applicazione studiosa". Sono gli strumenti "del miglioramento umano" e della "coltura pubblica"; se per loro tramite si riversa nella società la scienza attiva di una biblioteca, come quella ambrosiana fondata da Federico Borromeo per confondere l'"ignorantaggine" e l'"inerzia" di un secolo capzioso agitato da malestri e turpitudini... (p. 68)
  • Il paradigma lavora dentro i I promessi sposi. Borsieri aveva presentato il Duomo di Milano come un'"artificiale montagna di sasso". La similmontagna si biblicizza subito in Manzoni, che le "pietre" di Dio contrappone ai "mattoni" dell'uomo; e la grandiosità della natura oppone alla "superbia" dell'ingegneria umana. L'occhio del montanaro Renzo si è educato alla contemplazione delle "alture di Dio"; ma a Milano è costretto a confrontarsi con l'"ottava meraviglia". Isola quindi la "macchina" dell'uomo. E la città diventa una scena vuota, ampia di solitudine. Dentro il metafisico deserto del perimetro urbano si alza l'umana superfetazione, fronteggiata, sulla linea dell'orizzonte, dalle dentaie del Resegone... (p. 78)
  • La storia è un "immenso pelago di errori". La denuncia veniva dall'illuminismo giuridico. E da Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria, in particolare. Tutti gli errori, Manzoni compendia nella storia morale e politica del Seicento: l'incertezza del diritto, la legislazione eccessivamente proliferante che a colpi di gride sopporta l'arbitrio dei potenti e la manipolazione dei causidici, l'impunità organizzata delle classi e delle consorterie (e persino della Chiesa), la cultura economica irresponsabile e monopolistica (che blocca la libera concorrenza e impone la demagogia del prezzo politico), la persecuzione dell'onestà disarmata. Il romanzo di Manzoni aggredisce l'errore nei suoi punti di perversione. Con sdegno, senz'altro. Ma anche con compassione: "[...] la morale cattolica rimuove le cagioni che rendono difficile l'adempimento di questi due doveri, odio all'errore, amore agli uomini". (p. 80)
  • Per l'"errore" di don Abbondio, Manzoni ha umana comprensione. Quando Federico Borromeo arringa il confuso e ammutolito curato sul coraggio intrepido dell'esercizio pastorale, sul «timore» e sull'«amore» che esso comporta, Manzoni si fa partecipe delle realistiche «ragioni» del pavido di fronte alla facile magniloquenza di un "santo" [...]. La pusillanimità di don Abbondio, è una «debolezza della carne», per Federico Borromeo; che ad essa oppone la virtù di «fortezza». (p. 98)
  • Quel tiranno di don Rodrigo si era incapricciato di Lucia. E su di essa aveva fatto scommessa col cugino Attilio, suo «spensierato» complice nelle soverchierie. Cominciano le traversíe dei due operai. (p. 99)
  • C'è molta affinità tra lo "studiolo" manierista descritto da Galileo e la cultura che si respira nella biblioteca di don Ferrante (passata dai quasi cento volumi del Fermo e Lucia ai quasi trecento dei Promessi sposi). L'aristotelico manzoniano, che si ostinerà a negare l'epidemia di peste (né «sostanza» né «accidente») pur mentre ne moriva «prendendosela con le stelle», melodrammaticamente, e in un aggiornamento del motivo antico del filosofo di proverbiale inettitudine nella vita pratica [...]. (pp. 101-102)
  • Fra Cristoforo, evocatore di santini, è un attore nel teatro della fede. Predilige le pose sceniche. Incantatorie. E profetiche, soprattutto; alla Nathan: il profeta che Dio mandò a David per annunciargli la punizione. (p. 121)
  • La dimensione comica salva donna Prassede dalla perdita del nome. Ma non dalla sottile insinuazione del tartufismo. Donna Prassede è personaggio molieriano. Fa professione di devozione. Laddove i «devoti nel cuore» non «[...] veulent point prendre, avec zèle extrême, les intérêts du Ciel plus que'il ne veut lui-même».[9] La malignaccia morirà di peste. E «di Donna Prassede, quando si dice ch'era morta, è detto tutto». Non servono addii. (p. 138)
  • Fra Cristoforo si pone in mezzo, tra vessatori e vittime: i primi esorta, riprende e cerca di correggere con drastiche restrizioni morali; agli altri insegna a non «affrontare», a non «provocare» e a farsi «guidare» da lui. Il carattere del frate è di qualità ignea. Il cappuccino ha «indole focosa». Il suo volto è «infocato». Le parole dell'abuso gli fanno «venir le fiamme sul viso». E lo mandano in combustione: «Tutti que' bei proponimenti di prudenza e di pazienza andarono in fumo». (pp. 145-146)
  • Fra Cristoforo crede di aiutare i giovani promessi, costretti alla fuga dal borgo, con due lettere di presentazione. Li spedisce in due conventi, a Monza e a Milano. E finisce per consegnarli, sprovveduti, a due sconvolgenti romanzi: Lucia inciampa nelle trame di sangue della Monaca e dell'innominato; e nell'allegra follia di una «coppia d'alto affare» (don Ferrante e donna Prassede); Renzo si dissipa, tra strade e osterie, nel «grosse Welt della storia»: da Milano a Bergamo, andata-ritorno-andata, via carestia e peste [...]. (p. 150)
  • Ma se Renzo ha imparato e continua a imparare, nulla ha imparato e nulla può imparare Lucia; per lei la verità sapienziale non è una conquista, è una dote da trasmettere. Ma se Renzo era andato di parole, temperamentoso e affettatuzzo: troppo alla propria esperienza attribuendo. In una vana persuasione d'orgoglio, aveva creduto che il suo decalogo di quietitudine poggiasse sul granito; e fosse un «monumento» di conclusiva saggezza. Fu l'ultima sua mattería; quasi una fanfaronata, spiantata e scavezzata dall'umile rigore di Lucia. Ché ogni appoggio è dirupante nel ritmo vicissitudinale della storia: della storia vera e di quella supposta, che si svolge e nuovamente s'involge; e insolentisce, inconcludibile. (pp. 154-155)
  • Felicità. Cos'è la felicità, per Renzo Tramaglino? Si tenti l'avventura di entrare nel suo romanzo. Non in quello che uno scrittore di nome Alessandro Manzoni dice di trascrivere e riscrivere. Ma in quello autobiografico che, all'interno del romanzo manzoniano, Renzo ama raccontare a se stesso. E agli altri, incontenibile. E, fra essi, all'anonimo romanzatore: suo improvvisato e incontrollabile segretario, nell'occasione. La propensione narrativa di Renzo imbocca dapprima, «nella sua fantasia», la strada di un romanzo precocemente operaio; ma poi l'abbandona, per assecondare un più disponibile e idillico romanzo familiare [...]. (p. 163)
  • Lucia è «acqua cheta». Tuttavia è lei ad avere sempre ragione. Su tutti. Su don Rodrigo, su suor Gertrude e sull'innominato; come sul marito e sul suo romanzo. (p. 167)

Le brache di San Griffone. Novellistica e predicazione tra '400 e '500[modifica]

Incipit[modifica]

Da un controevangelio sembra sortire la novella II del Novellino di Masuccio [10], che vulga l'apocrifa annunciazione (o "doloso annuncio") e la maculata concezione del quinto evangelista: "Barbara, tu conciperai del giusto e farai il quinto evangelista, che supplirà a quello che gli altri mancarno; resterai incorrutta, e beata sarai nel cospetto di Dio"; "La Barbara... piacendogli... il gioco, fin che de la certa concezione de l'evangelista fossero firmi, ogni notte a l'amorosa battaglia più freschi si ritrovrarno". È il "divino misterio" della seduzione di una nobile e pia monachella, "Barbara nominata", da parte del proprio confessore "domenichino". Il frate, "con grandissima arte de cerretano", ha infatti convinto la santolina di essere stata prescelta da Dio come "vasello" entro cui – per suo tramite carnale – si sarebbe sciolto il creator Spirito.

Citazioni[modifica]

  • Veri religiosi e santi sono tutti coloro che per libera scelta sono morti al mondo, rinunciando a qualsiasi presenza sociale che snatura e falsa la vera religione. La santità è solitaria o cenobitica, anacoretica e ad esclusivo "servicio de Dio". Non i predicatori sono le "colonne" della "cristiana religione e fede", come voleva la letteratura pietistica e agiografica dell'epoca, bensì i santi (stiliti) che si sono assentati dal mondo. (Da Capitolo primo. Le Brache di San Griffone. 2. Novella contro predica, p 31)
  • Leonardo da Vinci lesse e spillettò il Novellino Ne estrasse un manipolo di lemmi per suo privato dizionario, e li fece fruttare in nuove associazioni. La voracità vocabolistica, da “omo sanza lettere”, era pari alla congenialità con un testo di polemica anticlericale. Un pensiero quale "Farisei frati santi vol dire" era di Leonardo, ma avrebbe potuto essere benissimo di Masuccio. (Da Capitolo primo. Le brache di San Griffone. 5. Fra Roberto da Lecce e la buccina di san Gangulfo, p. 48)
  • Il predicatore ha dimenticato le mutande nel letto di Agata, moglie troppo giovane del medico catanese Rogero Campisciano. Il compagno lo rassicura, confidando nella prontezza della fantesca con la quale aveva attaccato "chiodo" mentre il maestro scatenava il suo "levriero" nella caccia con la padrona. E nel motteggiare rispetta la gerarchia: continua a riservare al superiore le metafore venatorie che il narratore gli aveva destinato per distinguerlo dal più artigianale amplesso ancillare. Le battute s'inseriscono nella tradizionale aneddotica fratesca sulle brache, elevate a sconcio pomo di discordia e di orgoglio fallico tra gli ordini religiosi da quando san Benedetto le aveva dichiarate indumento superfluo. Avevano cominciato i cluniacensi, che accusavano i cistercensi di non portar mutande per essere sempre pronti al coito; e continuarono i francescani e i domenicani, che si interrogarono facetamente sulla maggiore o minore prestanza degli organi costipati dalle mutande e di quelli abituati alle superbe prerogative della libertà. Dentro le mutande dei frati volle sbirciare Masuccio, per una misurazione che fosse ispezione letteraria del motivo fabliolistico e poi novellistico delle "brache del cordigliere" (Des braies au cordelier) ritenute dalla superstizione popolare amuleti apotropaici contro la sterilità femminile: a ragione; in quanto le brache genitalizzate si presentavano come significante sostitutivo del fallo del frate, con effetto di metafora. Difatti nella novella masucciana il medico che ha trovato le brache, nonostante fosse sospettoso, si è lasciato convincere delle loro virtù terapeutiche: esse sono una reliqua di san Griffone e hanno guarito la moglie dal magone di natura uterina. (Da Capitolo primo. Le Brache di San Griffone. 5. Bernardino da Siena e le brache di san Griffone, pp. 57-58)
  • Il libro produce in sé e su di sé la storia tormentata di un progetto mancato ("avea già deliberato"; "innanzi il prepostato termine") e si fa supporto pubblico di una lacerazione trasposta nell'”ortopedia morale” di un'opera non rifinita (priva di "assai delicature") e incompleta di “notivoli parti”. Il Novellino è la carcassa tormentata di un'altra opera impossibile da scrivere: in una resa dichiarata mediante la consegna dell'inchiostro stanco al mercuriale Pontano patrono. La topografia delle tracce del non-finito e delle amputazioni si enuclea per entro la cornice atassica e terremotata della raccolta e nelle cicatrici delle novelle: nelle aporie delle trame e nelle contraddizioni tra didascalie e svolgimenti narrativi. Il Novellino è stato lasciato deliberatamente "cicatricoso": “Molti sotterfuggendo la utilissima fatica della emendatione, di mutare, trasporre et aggiungere, appareno cicatricosi, enervi, duri et senza sangue”, scriverà Mario Equicola; e sintetizzava una pagina del libro X di quella quintiliana Institutio oratoria riscoperta nel 1416 da Poggio Bracciolini: "V'è... vicino a [Costanza] il monastero di S. Gallo, a circa venti miglia... mi recai là per distrarmi, ed insieme per vedere i libri di cui si diceva vi fosse un gran numero. Ivi, in mezzo a una gran quantità di codici che sarebbe lungo enumerare, ho trovato Quintiliano ancor salvo ed incolume, ancorché tutto pieno di muffa e di polvere". (Da Capitolo secondo. Il libro cicatricoso. 4. Le cicatrici del testo, pp. 104-105)

Citazioni su Le brache di San Griffone[modifica]

  • Si può guardare a questo saggio di Nigro, per contagio delle suggestioni medesime che ne emanano, come alla "carcassa tormentata di un'altra opera impossibile da scrivere". [...] Per cautela, diremo almeno che, in ogni testo, per un clinico attento, si rivela un aspetto "cicatricoso", e che, in un tale spirito di osservazione, le fenditure aperte nel tessuto testuale sin presentano subito come luoghi necessariamente privilegiati, a fini diagnostici, per esplorarne le carni occulte e profonde. In breve, già in relazione al saggio stesso di Nigro, slabbrando appena i margini traumatici del suo ductus, e promuovendoli a spie, l'"opera impossibile da scrivere" potrebbe configurarsi come una teoria e storia della letteratura condotta secondo il canone della "cicatrosità", e la "carcassa tormentata" che ci troviamo dinanzi non può che portarla celata in sé, ma certissima al referto, come nucleo allusivo. (Edoardo Sanguineti)

Una spia tra le righe[modifica]

  • Isabella d'Este collezionava. Quadri, strumenti musicali e gioielli. Ma soprattutto orologi. E non sincronizzati, nei tinnuli suoni: congegni e tiptologia che l'avventura del vivere imbrogliavano dei disegni della memoria. Perché la marchesana di Mantova, moglie di Francesco Gonzaga, sapeva che la direzione della vita non è nell'orologio e neppure nel calendario. Nello sconquassato orologio della storia non esiste un'ora esatta. (p. 55)
  • Non è che il postino bussasse spesso alla porta di Elvira Mancuso. Il più delle volte capitava, anzi, che passasse di lungo. Ma lei stava lì, in quel di Caltanissetta: sempre in attesa, nel suo cantuccio paesano. Aspettava con fiducia. Con ostinazione. Con indolenza. Si aiutava con il pianoforte nella rigida scelta di solitudine: «questa spina tremenda, tanto spesso riservata ai cuori fedeli, ai cuori che sanno amare davvero, con completa rinunzia d'ogni egoismo». (p. 135)
  • Prima che, per nomina ministeriale, Elvira Mancuso andasse a ricoprire a quarantadue anni la cattedra d'italiano presso l'istituto magistrale di Piazza Armerina (190-1910) e poi negli istituti tecnici professionali di Caltanissetta, a partire dal 1905 si era arrabattata come supplente e incaricata fuori ruolo. Teneva pronto nel cassetto un modello di domanda per le richieste di supplenza. (p. 138)
  • Piccola di statura e miope dietro le lenti chiare, Elvira Mancuso si aggirava solitaria per le vie di Caltanissetta gravata da un borsone di pelle pieno di libri. Era, il suo gesto, un portare in scena, nel più ampio teatro cittadino, le particole della propria biblioteca; un far ruota della provocazione, di fronte al pregiudizio che alle donne (che non fossero «continentali», scandalose) negava la lettura dei libri gravi e concedeva solo le «gustose chiacchiere da una finestra all'altra con le vicine» o le «gaie serate intime di tombola o di sette e mezzo». Non voleva essere una «buona donnina» borghese. Voleva che la riconoscessero «donna»; semplicemente «donna», con il diritto di «discutere con gli uomini su certi argomenti che non avevano nulla che fare col governo domestico, col bucato e simili soggetti». Cercava orecchie disponibili, disperatamente. (p. 140)

Citazioni sulla Curatela dell'edizione di Torquato Accetto, Della dissimulazione onesta[modifica]

  • Vengo in possesso, per cortesia sempre di Salvatore Nigro, della fotocopia dell'edizione del 1641, e non posso non notare che è stampata in modo un poco bizzarro: perché mai i capitoli terminano in un disegno triangolare, restringendo via via le righe fino a che l'ultima parola o sillaba faccia da punto? [...] A questo punto ho la sensazione che presto avrò davanti un testo che esigerà di esser letto in modo nuovo, mescolato forse in parte all'antico, o forse no, giacché mi par di capire che "l'oggetto" Della dissimulazione onesta di Torquato Accetto è tanto o poco diverso da quello che ho frequentato e che da molti anni abita la mia memoria. (Giorgio Manganelli)

Note[modifica]

  1. Da L’isola-giardino di Lillo Gullo, prefazione a Lillo Gullo, Cerimonie della calura, Nicolodi, Rovereto (TN), 2007, pp. 5-6. ISBN 978-88-8447-300-4
  2. Da Carlone e le sue maschere, prefazione a Carlo Muscetta, L'erranza, Sellerio, Palermo, 2009, p. 11
  3. DaLe brache di San Griffone. Novellistica e predicazione tra '400 e '500, Prefazione di Edoardo Sanguineti, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari, 1983, pp. 128-129.
  4. Da Introduzione a Masuccio Salernitano, Il Novellino, nell'edizione di Luigi Settembrini, a cura di Salvatore S. Nigro, BUR, Milano, 1990, p. 17. ISBN 88-17-16771-1
  5. Da Introduzione a Masuccio Salernitano, Il Novellino, nell'edizione di Luigi Settembrini, a cura di Salvatore S. Nigro, BUR, Milano, 1990, p. 20. ISBN 88-17-16771-1
  6. Citato in Giorgio Manganelli, Ti ucciderò, mia capitale, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Adelphi, Milano, 2011, p. 356. ISBN 978-88-459-2565-8
  7. a b Da Note, citato in Giorgio Manganelli, La notte, Adelphi, Milano, 1996, p. 229. ISBN 88-459-1236-1
  8. Da Introduzione a Masuccio Salernitano, Il Novellino, nell'edizione di Luigi Settembrini, a cura di Salvatore S. Nigro, BUR, Milano, 1990, p. 9. ISBN 88-17-16771-1
  9. Molière, Il misantropo: «con esagerato zelo [non] vogliono fare gli interessi del Cielo più che il Cielo non voglia».
  10. Masuccio Salernitano, Il Novellino, nell'edizione di Luigi Settembrini, a cura di Salvatore S. Nigro, BUR, Milano, 1990. ISBN 88-17-16771-1

Bibliografia[modifica]

  • Salvatore Silvano Nigro, Il Principe fulvo, Sellerio, Palermo, 2012. ISBN 88-389-2610-7
  • Salvatore Silvano Nigro, La funesta docilità, Sellerio, Palermo, 2018. ISBN 88-389-3856-3
  • Salvatore Nigro, La tabacchiera di don Lisander. Saggio sui "Promessi sposi", Einaudi, Torino, 1996. ISBN 88-06-13980-0
  • Salvatore S. Nigro, Le brache di San Griffone. Novellistica e predicazione tra '400 e '500, Prefazione di Edoardo Sanguineti, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari, 1983.
  • Salvatore S. Nigro, L'orologio di Pontormo. Invenzione di un pittore manierista. In appendice "Il libro mio", Rizzoli, Milano, 1998. ISBN 88-17-66087-6
  • Salvatore Silvano Nigro, Una spia tra le righe, Introduzione di Matteo Palumbo, Sellerio, Palermo, 2021. ISBN 88-389-4201-3

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